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Seminario Dott.ssa Raiola - Università degli Studi di Napoli

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ELR
European Legal Roots
The International Network of Legal History and Comparative Law
COMITATO SCIENTIFICO E DI REFERAGGIO INTERNAZIONALE
ILIAS N. ARNAOUTOGLOU (Atene) – PATRICIO CARVAJAL (Santiago) – ALESSANDRO CORBINO (Catania)
ADAM CZARNOTA (Sydney) – FEDERICO R. FERNANDEZ DE BUJAN (Madrid)
PETER GRÖSCHLER (Mainz) – NADI GÜNAL (Ankara) – GABOR HAMZA (Budapest)
MARIT HALVORSEN (Oslo) – EVELYN HÖBENREICH (Graz) – MICHAEL H. HOEFLICH (Lawrence)
DENNIS KEHOE (New Orleans) – LEONID KOFANOV (Moscow) – MATS KUMLIEN (Uppsala)
MARJU LUTS–SOOAK (Tartu) – THOMAS A.J. MCGINN (Nashville) – DAG MICHALSEN (Oslo)
MARKO PETRAK (Zagreb) – DITLEV TAMM (Copenaghen) – KONSTANTIN TANEV (Sofia)
PHILIP J. THOMAS (Pretoria) – KAIUS TUORI (Helsinki) – WITOLD WOŁODKIEWICZ (Warsaw)
TAMMO WALLINGA (Rotterdam) – DAVID V. WILLIAMS (Auckland)
COMITATO SCIENTIFICO – EDITORIALE
FRANCESCO ARCARIA (Catania) – FILIPPO BRIGUGLIO (Bologna) – LUCETTA DESANTI (Ferrara)
PATRIZIA GIUNTI (Firenze) – XUE JUN (Peking) – FRANCESCA LAMBERTI (Lecce)
PAOLA LAMBRINI (Padova) – LAURETTA MAGANZANI (Milano) – MASSIMO MIGLIETTA (Trento)
FRANCESCO MILAZZO (Catania) – CAPUCINE NEMO–PECKELMAN (Paris) – ISABELLA PIRO (Catanzaro)
THOMAS A.J. MCGINN (Nashville) – FREDERICK VERVAET (Melbourne)
SEGRETERIA SCIENTIFICA
STEFANO BARBATI – SALVATORE ANTONIO CRISTALDI – MICHELE GIAGNORIO
SALVATORE MARINO – PAOLO MARRA – MARINA ONDEI
ELVIRA QUADRATO – ROBERTO SCEVOLA – ENRICO SCIANDRELLO – ALESSIA SPINA
COORDINAMENTO E DIREZIONE
ERNEST METZGER (Glasgow) – MICHAEL PEACHIN (New York)
SALVO RANDAZZO (Bari/Catania) Direttore Responsabile
ELR – European Legal Roots – The International Network of Legal Historians
http://europeanlegalroots.weebly.com – email: [email protected]
Autorizzazione Tribunale di Catania pubblicazione online e cartacea n. 14 del 13–4–2012 – Tutti i diritti riservati
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Seminari 'strasburghesi' di diritto romano
all'Università Parthenope di Napoli
Marcella Raiola
1. – Il termine “confronto”, di per sé polivalente, è uno di quelli attualmente
sotto–posti a più vigorose torsioni semantiche, specie in ambito politico–
ideologico, dove esso giunge a significare, sempre più di frequente, il totale o
parziale accoglimento, da parte dell’interlocutore, delle idealità o condizioni di
chi si trova in posizione di forza, piuttosto che l’auspicata integrazione delle prospettive e dei valori, ottenuta per il tramite di reciproche concessioni.
Non è cosa “neutrale”, dunque, accettare e affrontare un confronto; ancora
meno lo è in ambito accademico, dove pure la parola viene spesso usata per eufemizzare l’inconciliabilità di interpretazioni antitetiche, e meno che mai a Napoli, città di fervori “vulgati” e di avventure intellettuali defilate e sorprendenti.
Perfettamente conscio dei rischi che avrebbe corso e desideroso di correrli,
come ogni esploratore autentico, il giovane e poliglotta Olivier Huck, classe ’76,
Maître de Conférences d’Histoire romaine presso l’Università di Strasburgo, ex–
membro dell’École française de Rome e titolare dell’Agrégation di Storia presso
il suo prestigioso ateneo, ha accettato l’invito rivoltogli dall’Università Parthenope di Napoli e, segnatamente, da Elio Dovere, titolare di diversi insegnamenti,
primo fra tutti quello di Istituzioni e storia di diritto romano, e autore di numerosi saggi e studi volti a illustrare dinamiche, a individuare prodromi e a segnalare esiti di quel vasto ambito storico–giuridico e culturale che l’etichetta “Tardoantico” è ormai insufficiente a connotare in tutte le sue emergenti o già svelate articolazioni.
L’esperimento del “visiting professor”, sollecitato da Elio Dovere allo scopo
di tessere, con centri di studio rinomati, una rete di rapporti che consenta da un
lato di sprovincializzare e stimolare la platea degli studenti e, dall’altro, di contrastare le mortificanti politiche culturali degli ultimi governi italiani, i soli che
continuano a trattare Cultura e Ricerca come un lusso da dismettere in tempo di
crisi anziché come la più importante delle risorse per uscirne, ha prodotto effetti
biunivocamente benefici, innescando virtuosi processi di puntualizzazione me-
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todologica, di incremento dello strumentario euristico, di revisione delle modalità di comunicazione e rielaborazione dei dati.
Dal 5 maggio al 2 luglio, il professor Huck, alternando il metodo deduttivo
all’induttivo e la lezione frontale alla didattica laboratoriale, ha tenuto, in un italiano sorvegliato con puntigliosità perfino eccessiva, con esemplare linearità
espositiva e con l’ausilio di slides accuratamente predisposte, sussidio utile a inquadrare e raffrontare classi di reperti e fonti tipologicamente differenti, delle
lezioni dense e coinvolgenti, calibrate di volta in volta sul pubblico cui sono state
rivolte, composto da studenti corsisti di I e V anno, da dottorandi e da laureandi.
I corsi tenuti sono stati dedicati in massima parte alla ricostruzione delle circostanze e delle vicende della codificazione “archetipica” del V sec. d.C., quella
teodosiana, cioè, ormai del tutto sottratta al discredito di cui è stata vittima a
partire dal classicistico confronto con l’ipostatizzata compilazione giustinianea.
Se si dovesse racchiudere in una formula sintetica l’essenza del messaggio
trasmesso dal prof. Huck, si potrebbe dire che si è adoperato per promuovere
tra gli studenti e i dottorandi una “diffidenza funzionale” nell’approccio alle fonti considerate, accompagnata da un fermo e lucido antidogmatismo nella valutazione di quella che chiamiamo letteratura secondaria, cioè della saggistica critico–filologica, soprattutto di quella prodotta dai “venerabili” maestri. Tali ferme convinzioni si sono tradotte in precettistica dettagliata e in concreta esemplificazione nel corso delle lezioni sulla genesi del Codice Teodosiano, per ricostruire la quale il prof. Huck ha tenuto sempre fermamente presenti le circostanze di fatto, la consistenza numerica, le procedure e la verosimile mentalità
delle burocrazie dell’epoca, rifuggendo sia dalla strisciante idealizzazione classicistica, che ancora si insinua nelle ricostruzioni storiche, sia dal filologismo puro,
che rischia di portare all’edificazione di teorie estetizzanti, affascinanti per la loro forza evocativa, ma prive di plausibilità e disancorate dalle prassi, dalle disponibilità materiali e dalle disposizioni imperatorie del mondo tardoantico.
Partendo dalle contrastanti letture dei testi programmatici della silloge teodosiana da parte di studiosi quali Sirks e Matthews, sono state illustrate le fasi e
le stratificazioni del Codex, ed esposti i motivi per cui le posizioni dei due studiosi citati risultano entrambe, nella loro radicalità, parziali e insoddisfacenti. L’idea
che l’auspicato “magisterium vitae”, un codice che raccogliesse, cioè, iura e leges, interpretazioni di giusperiti antichi e leggi, sia stato effettivamente realizzato e abbia avuto uno scopo eminentemente utilitaristico (Sirks), e quella che, invece, la raccolta di leges imperiali abbia avuto una finalità didascalica ed “enciclopedica” (Matthews) sono state discusse con ampiezza di argomentazioni logiche e di referenze normative. L’esistenza di leggi obsolete e contraddittorie, o
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di leggi emanate per episodiche occorrenze ma non legate a fenomeni cronicizzati da sanzionare, costituisce obezione sufficiente a confutare la tesi di Sirks,
mentre la mancata inclusione di sei delle diciotto leggi del corpus delle cosiddette “Sirmondiane” e il riferimento, in una settantina di leggi, ad altrettanti dispositivi non presenti nel Codex inducono a revocare in dubbio la tesi di Matthews e a spostare l’attenzione sulle materiali condizioni di compilazione del
Codex, i cui esecutori, come è possibile ricavare dalla prosopografia, non furono
tutti dotati di scientia iuris e cautela sermonis, come avrebbe detto, più tardi,
Cassiodoro, nel profilare la figura dell’ideale quaestor sacri palatii, ma ebbero
una formazione o solo retorica o esclusivamente giuridica, sicché non tutti i tituli sono stati redatti con gli stessi criteri, con le stesse priorità e con gli stessi esiti
editoriali.
I giuristi, più scaltriti, ha concluso Huck, avranno selezionato i testi agibili e
diri–menti per l’attività giurisdizionale, mentre i retori avranno probabilmente
raccolto con maggiore acribia e minore selettività le leggi rinvenute negli archivi
privati, dando vita a fenomeni di geminazione o iterazione pleonastica.
Ma lo studioso di codificazioni tardoantiche deve anche saper valutare la
qualità delle edizioni critiche di cui dispone. Pure in questo caso, si pone il problema di contestualizzare il piano di lavoro e le collazioni dei manoscritti operate dagli studiosi artefici della moderna diorthosis, segnatamente da Mommsen e
Krueger, più autorevole e osannato il primo, più accurato e meticoloso il secondo (almeno in questa fatica), anche perché l’opera, edita dopo la sua morte, fu
l’ultimo sforzo prodotto da Mommsen, il quale, per completarla, rinunciò ad
ampliare l’areale dei manoscritti da vagliare per la ricostruzione del testo. Il Codice si presenta come un’architettura complessa e composita, le cui constitutiones (più di 2000!), devono talvolta essere ricercate o recuperate indirettamente,
attingendo a fonti barbariche come il Breviarium Alaricianum, con tutto quel
che ne consegue in termini di approssimazioni, omissioni e mediazione culturale, oppure alla successiva compilazione giustinianea, soprattutto per quel che
concerne i primi cinque libri, trasmessi da manoscritti lacunosi.
Valido supporto possono fornire pure i canoni conciliari, contenenti leggi relative alla materia religiosa e alla giurisdizione civile del vescovo. Il professor
Huck ha raccomandato di non trascurare i Prolegomena e di verificare,
nell’approccio mirato al Codice, la dislocazione della constitutio citata o analizzata, la sua eventuale o parziale “massimazione”, la manipolazione che abbia
eventualmente subito da parte di compilatori autorizzati a scorporare, riscrivere, integrare i singoli testi normativi. Il riconoscimento che l’opera di Giustiniano
ha trovato il suo antefatto e paradigma metodologico e catalogico nel Codice
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Teodosiano è derivato, al visiting professor strasburghese, anche dall’opera di
Archi, pionieristica nella valorizzazione della silloge normativa del V secolo, anche se non sono stati accolti, di Archi, alcuni presunti scopi della compilazione –
come, per esempio, la necessità di superare l’empasse determinata dall’abuso
dei rescritti imperiali –, ritenuti da Huck, che propende per finalità politiche e
propagandistiche, troppo tecnici.
Di grande interesse è stata anche la discussione relativa alla ricezione del
Codex in Occidente. I dottorandi sono stati chiamati a esaminare i Gesta Senatus, e a ragionare sulle implicazioni e sui significati di questo testo anticanonico,
da cui è possibile ricavare direttive per la diffusione capillare del Codex, ma non
per la sua promulgazione ufficiale. Anche riguardo di tale interrogativo, sono
state esposte le teorie avanzate dagli studiosi che più si sono esercitati sulla materia, da quella di Sirks, che ha postulato una sorta di “pendenza”
dell’applicazione delle norme del Codex dal 438 al 448, anno in cui la Nov. 26 di
Valentiniano III, riproducendo i contenuti della Nov. 1,1 di Teodosio, ne ufficializzò l’adozione anche sul territorio occidentale, a quella della Atzeri, la quale ha
ritenuto più plausibile che il Codex abbia avuto un’approvazione imperiale prima
della seduta del Senato, nel dicembre 438, fissata in una Pragmatica Sanctio che
probabilmente non ci è pervenuta. Quello della perdita irreparabile dei testi, infatti, non dev’essere un tabù, né invocarla deve essere considerata una sorta di
comoda exit strategy: valorizzare al massimo quanto la tradizione ci ha preservato è certamente doveroso, ma sarebbe oltremodo protervo e forzato credere
nell’autosufficienza ed esaustività delle fonti consultate, dimenticando che una
cospicua parte di esse è purtroppo irrecuperabile.
Anche con queste frustrazioni fa i conti il lavoro di ricerca, e l’ammissione
onesta dell’esistenza di un’insormontabile lacuna è di certo più apprezzabile di
un teorema fondato su indimostrabili o pregiudiziali premesse.
2. – Le lezioni di maggio ai dottorandi, laureati per lo più in Giurisprudenza,
ma con esperienze di studio e ricerca non scevre da perlustrazioni nel retroterra
storico–culturale della vita del diritto e, perciò, grandemente interessati alle lezioni del professor Huck, che ha ricalibrato opportunamente le attività seminariali che intendeva proporre in considerazione dell’eterogenea provenienza dei
giovani studiosi, si sono concluse con il piccolo mistero delle costituzioni “Sirmondiane”, dal nome del loro scopritore, predicatore alla corte di Luigi XIII,
umanista e gesuita con la passione per la “caccia” ai testi classici.
Il corpus di queste leggi, rinvenuto, nella sua interezza, in un manoscritto di
Lione, formalizzate con il frasario tipico delle norme contenute nel Codex Theo-
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dosianus, ha destato, nel tempo, un interesse crescente e aspre polemiche, legate anche ad attriti e interdizioni generati dal clima politico–culturale. Quando,
del resto, vengono affrontati temi che riguardano il rapporto tra ecclesia e imperium, come nel caso di queste norme “vaganti”; quando entrano in gioco poteri che si contendono l’ecumenico controllo della vita politica e delle coscienze
e che, ora velatamente, ora dichiaratamente e violentemente, rivendicano la
primazia, è difficile che gli interpreti restino imparziali o si conservino equidistanti.
Il furor tridentino che portò Sirmond a collocare tra quelli destinati all’Indice
parecchi scritti di Gotofredo fu all’origine della tesi, sostenuta da quest’ultimo,
della inautenticità delle Sirmondiane, a suo dire troppo sbilanciate a favore della
Chiesa, per l’epoca in cui le si sarebbe volute composte (VII–VIII secolo). Un falso, dunque, i cui richiami al Teodosiano si spiegavano con la raffinatezza del falsario, “barbarico” nelle sue scelte espressive ma tanto scaltrito da inserire, nelle
sue leggi, stralci di dispositivi normativi tratti dal Teodosiano. C’è da dire che
Gotofredo non conobbe, avendo svolto il suo magistero in età cronologicamente anteriore alla scoperta dei manoscritti che le hanno tramandate, le constitutiones programmatiche del Codice, che abilitavano le commissioni a operare in
modo invasivo e a intervenire anche pesantemente sui testi da inserire nella
nuova cogente raccolta.
In realtà, la desultoria accoglienza, nel Teodosiano, di queste leggi di contenuto vario, che va dalle misure contro gli eretici ai privilegi fiscali del clero, dal
diritto d’asilo nelle chiese all’episcopalis audientia, porterebbe ad avallare la tesi
che esponenti del clero abbiano raccolto le leggi “sirmondiane” perché non se
ne perdesse memoria, dal momento che il Codice non avrebbe più consentito il
ricorso giurisdizionale a norme che non fossero state in esso incluse. Un’altra
smentita alla teoria di Gotofredo arriva dalla disamina della sirmondiana sesta,
che prevedeva che i chierici fossero dedotti in giudizio davanti a tribunali civili,
in caso di reati particolarmente gravi, laddove CTh. 16,2,47 dispone che gli stessi
siano giudicati da tribunali speciali. Dismessa l’ipotesi del falso documentale,
dunque, l’analisi dei testi non inclusi nel Codice rivela uno sfondo di incompatibilità forte tra la politica religiosa del III–IV secolo, che pare largheggiare in concessioni e privilegi, e le scelte “laiciste” di Teodosio II, tendenzialmente meno
incline a favorire uno sbilanciamento dei poteri a favore della Chiesa.
Il secondo ciclo di lezioni, tenute ai dottorandi e ai laureandi delle cattedre
di Istituzioni e storia del diritto romano, Cultura storico–giuridica europea ed
Esegesi e critica delle fonti, svoltesi tra il 16 giugno e il 2 luglio, ha ulteriomente
precisato e analizzato i diversi aspetti della relazione tra i due grandi poteri pro-
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tagonisti della storia del Tardoantico e del Medioevo, esaminando le fonti bibliche, storiografiche, archeologiche, numismatiche ed epigrafiche utili a tracciare
un diorama delle interazioni tra cristianesimo e potere imperiale, a partire dalle
origini del cristianesimo e dal suo impatto sull’antropologia e la concezione del
sacro romana, che distinse la religio (forma di culto “civica”, giuridicamente tutelata e radicata) dalla superstitio (forma di culto eslege, non tutelata e “tollerata” solo se non lesiva degli interessi della comunità e priva di rischi riguardo alla
tenuta dell’ordine pubblico), e che legava a doppio filo la religione alla legittimazione del princeps e poi del dominus, specie nel periodo dell’anarchia militare. Questa esigenza di un crisma metafisico da conferire alla presa del potere da
parte di imperatori che usurpavano il loro trono sarebbe stata alla base
dell’abbandono della religione tradizionale e della trasformazione del cristianesimo in religio licita.
Una lettura, dunque, quella del professor Huck, “apicale” della dialettica tra
persecuzione e integrazione, che però non esclude e non trascura l’ampio spettro di fenomeni economici, sociali e spirituali occorsi nel lungo cammino della
nuova religione verso la sua affermazione e vittoria.
Approfondimenti metodologici e studio casistico di testi e problemi giuridici
tardoantichi sono stati oggetto delle ultime lezioni ai laureandi che, pur essendo
in molti casi privi di competenze linguistiche e traduttive sufficienti a decodificare i testi proposti, sono rimasti favorevolmente impressionati dallo sforzo logico–deduttivo e dalla vigilanza formale e ideologica richiesti dall’approccio ai testi, vitali nella loro permanenza, al periodo trattato, al “respiro” di un diritto che
non “involve” e non si sclerotizza in attesa del recupero umanistico, ma si trasforma, si modifica, si attaglia a nuovi scenari, a nuovi rapporti di forza, a nuove
consuetudini invalse.
Anche la Seconda Università degli Studi di Napoli ha voluto ospitare il professor Huck nella sede di Santa Maria Capua Vetere, “allettandolo” con
un’apprezzata degustazione di rinomati prodotti locali. La convivialità, vissuta
come momento cruciale dello scambio culturale, ha contribuito a creare un clima disteso e a “normalizzare” certi tratti dello stile “partenopeo” che all’inizio
sono apparsi, all'ospite strasburghese, alquanto bizzarri e irrituali, ma che, al
termine del soggiorno, crediamo abbia tesaurizzato al pari delle altre emozioni e
scoperte che la permanenza in Italia gli ha regalato. E chissà che, tornato alla
sua Università alsaziana, non gli venga voglia di stupire il suo compassato uditorio franco–tedesco ordinando un bel caffè in aula durante una pausa!
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