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Antonio Skármeta – Il postino di Neruda (1985)
Antonio Skármeta – Il postino di Neruda (1985) «Mario Jiménez, oltre a Odi elementari, ho scritto libri molto migliori. È indegno che tu mi sottoponga a questo tipo di paragoni e metafore». «Don Pablo?». «Metafore, diamine! ». «E cosa sarebbero? ». Il poeta posò una mano sulla spalla del ragazzo. «Per spiegartelo più o meno confusamente, sono modi di dire una cosa paragonandola con un altra». «Mi faccia un esempio». Neruda guardò l’orologio e sospirò. «Be’, quando dici che il cielo sta piangendo, cos’è che vuoi dire?». «Semplice! Che sta piovendo, no? ». «Ebbene, questa è una metafora». «E perché, se è una cosa così semplice, ha un nome così complicato?». «Perché gli uomini non hanno nulla a che vedere con la semplicità o la complessità delle cose. Secondo la tua teoria, una cosa piccola che vola non dovrebbe avere un nome lungo come farfalla. Pensa che elefante ha lo stesso numero di lettere di farfalla, ed è molto più grande e non vola», concluse Neruda esausto. Con un ultimo scampolo di energia gli indicò la rotta per la caletta. Ma il postino ebbe la baldanza di dire: «Cacchio! Come mi piacerebbe essere poeta!». «Signor mio! In Cile sono tutti poeti. È più originale che continui a fare il postino. Almeno cammini molto e non ingrassi. In Cile noi poeti siamo tutti obesi». Neruda impugnò di nuovo la maniglia della porta, e si accingeva a entrare quando Mario, guardando il volo di un uccello invisibile, disse: «Però se fossi poeta potrei dire quello che voglio». «E che cos’è che vuoi dire?». «Be’, il problema è proprio questo. Siccome non sono poeta, non lo so dire». Il vate aggrottò le sopracciglia. «Mario?». «Don Pablo?». «Sto per salutarti e chiudere la porta». «Sì, don Pablo». «A domani». «A domani». Neruda abbassò gli occhi sul resto delle lettere, e poi socchiuse il portone. Il postino studiava le nuvole con le braccia incrociate sul petto. Gli si accostò e gli batté sulla spalla con un dito. Senza mutare posizione, il ragazzo rimase a guardarlo. «Ho riaperto perché sospettavo che tu fossi ancora qui». «è che stavo pensando». Neruda strinse tra le dita il gomito del postino e lo condusse con fermezza fino al lampione a cui aveva appoggiato la bicicletta. «E per pensare rimani fermo? Se vuoi diventare poeta, comincia a pensare camminando. O sei come John Wayne, che non riusciva a camminare e a masticare chewing-gum nello stesso tempo? Ora te ne vai alla caletta pedalando lungo la spiaggia, e mentre osservi il movimento del mare puoi metterti a inventarti metafore». Isabel Allende – Ritratto in seppia (2000) Non c’erano lampade accese; solo dopo qualche secondo abituammo gli occhi a quella penombra e riuscimmo a intravedere il maestro seduto con un gatto sulle ginocchia vicino alla finestra da cui penetravano gli ultimi riflessi del pomeriggio. Si alzò in piedi e ci venne incontro con grande sicurezza per salutarci, niente nell’incedere denunciava la sua cecità. “Signorina del Valle! Mi scusi, ora è la signora Domínguez, vero?” esclamò tenendomi le mani. “Aurora, maestro, la stessa Aurora di sempre” replicai abbracciandolo. Poi gli presentai il dottor Radovic e gli parlai del suo desiderio di imparare a fotografare per scopi medici. “Non posso più insegnarle niente, amico mio. Il cielo mi ha colpito nel punto più doloroso, la vista. Un fotografo cieco, pensi che ironia della sorte!” “Non vedete niente, maestro?” chiesi allarmata. “Con gli occhi non vedo niente, ma continuo a guardare il mondo. Mi dica, Aurora, è cambiata? Com’è adesso? L’immagine più nitida che ho di lei è quella di una ragazzina di tredici anni inchiodata davanti alla porta del mio studio con la cocciutaggine di un mulo.” “Continuo ad essere la stessa, don Juan, timida, sciocca e testarda.” “No, no, mi dica per esempio com’è pettinata e di che colore è il suo vestito.” “La signora indossa un abito bianco, leggero, con lo scollo di pizzo, non so di quale stoffa perché di queste cose non me ne intendo, e una cintura gialla, come il nastro del cappello. Le garantisco che è molto graziosa,” disse Radovic. “Non mi metta in imbarazzo, dottore, la prego,” lo interruppi. “E adesso la signora ha le guance arrossate…” aggiunge, e i due uomini scoppiarono a ridere all’unisono. Jorge Bucay – Conta su di me (2005) «Posso raccontarti una storia?» chiese il Ciccione interrompendomi, e io sentii che qualcosa dentro di mesi andava aggiustando. Ero a casa. C’era una volta un signore che ogni mattina usciva di casa per andare al lavoro. Nonostante il suo orario negli ultimi vent'anni non fosse cambiato, ogni giorno arrivava in ritardo. Perdeva sempre i primi momenti della giornata cercando di trovare il portafogli, le scarpe o la biancheria intima. La sua sbadataggine era tale che a volte, quando finalmente riusciva ad avviarsi alla fermata dell'autobus, era costretto a ritornare più e più volte a casa a cercare qualcosa che si accorgeva di aver dimenticato. Se non erano i soldi era la carta d'identità, se non era la cravatta era un calzino. Una sera decise che non poteva continuare così. «Farò una lista» si disse. «Ogni sera, prima di andare a dormire, mi appunterò dove metto ogni cosa, e lascerò il bloc-notes sul comodino accanto al letto. Quando mi alzerò vedrò la mia lista, e saprò dove si trovano tutte le cose che devo portare con me». Soddisfatto della sua idea, sulla via del ritorno l’uomo comprò appositamente un piccolo bloc-notes e una matita. Entrando in casa si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapanni. Sul suo bloc-notes annotò “il cappotto sull'attaccapanni”, e togliendosi la cravatta aggiunse “e anche la cravatta”. Lasciò il portafogli e i documenti sopra il tavolo e prese nota. Più tardi, quando andò a letto, prese appunti mentre rimetteva ogni cosa al suo posto: “La camicia e i pantaloni sulla sedia vicino al letto, le scarpe sotto il letto, e i calzini dentro le scarpe”. Il mattino dopo, non appena si svegliò, prese il suo bloc-notes e lo lesse dalla fine all'inizio: “I calzini dentro le scarpe, che sono sotto il letto”. Le trovò e le indossò. E così andò avanti, tranquillo e metodico, a vestirsi e a prendere le sue cose. Una volta pronto, prese il portafogli da sopra il tavolo e si preparò a uscire. Sull'uscio controllò la lista per verificare di non aver dimenticato nulla. Cominciò a ripetere a se stesso: “I calzini, le scarpe, la camicia, la cravatta, i documenti, il portafogli...”. E all'improvviso impallidì. “E io? Io dove sono?” si chiese. Rientrò per cercarsi, senza successo. Si sedette in poltrona, sull'orlo della disperazione, e si cercò invano nella lista. Ma non ci fu verso, si era dimenticato di se stesso. Osvaldo Soriano – Ribelli, sognatori e fuggitivi (1987) Sarebbe stato un giovedì d'autunno e avrei trovato ad aspettarmi all'aeroporto gli stessi amici che erano venuti a salutarmi nel 1976. Avrei volatocon AerolíneasArgentinas per abituarmi alle vocialtisonanti dei turisti portegni, insieme a me ci sarebbero stati Catherine e il gatto che mi ha accompagnato in quegli anni di Parigi, avrei trascorsouna lunga giornata insonne e quando fosse cominciato l’atterraggio, mi sarei ricordato l’immancabile tango di Carlos Gardel: Volver, con la frentemarchita, lasnieves del tiempo platearon mi sien. Sentir,que es un soplo la vida,... Jules Verne – I figli del capitano Grant (1867) La luna stava sorgendo proprio in quel momento e l’aria era tersa: non una sola nube in alto o in basso. Qua e là solo i mobili barbagli delle fiamme dell’Antuco. Nessun temporale, nessun lampo: allo zenit, anzi, le stelle brillavano a migliaia. I brontolii però continuavano e parevano avvicinarsi, correndo, lungo la catena delle Ande. Glenarvan rientrò, ancora più preoccupato, chiedendosi quale rapporto esistesse tra quei rombi sotterranei e la fuga dei guanachi. C’era tra essi un rapporto di causa ed effetto? Diede un occhiata all’orologio e vide che indicava le due del mattino. […] D’un tratto un gran frastuono lo fece balzare in piedi: era un fracasso assordante […] Per un fenomeno tipico della Cordigliera una porzione larga varie miglia della montagna scivolava tutta intera verso la pianura. […] Di colpo un urto di indicibile violenza li strappò dal veicolo slittante scagliandoli in avanti e facendoli rotolare sugli ultimi declivi della montagna. Il pianoro s’era arrestato di colpo. […] C’erano tutti meno uno: Robert Grant. […] - Là, là! – gridò – guardate! Tutti guardarono nella direzione indicata. Il punto nero stava crescendo a vista d’occhio: era un uccello che si librava a grande altezza. - Un condor, - disse Paganel. - Un condor sì, - rispose Glenarvan. – sta venendo da questa parte. Chissà? Attendiamo. […] Paganel non si era sbagliato e il condor si faceva di momento in momento più visibile. Il magnifico volatile, già venerato dagli Inca, è il re delle Ande meridionali, dove raggiunge dimensioni eccezionali. La sua forza è prodigiosa, tanto da poter scaraventare perfino un bue in un burrone. Non è raro che volteggi a seimila metri, cioè a una quota a cui l’uomo non può giungere: di là, invisibile agli occhi più acuti, il re dell’aria esplora col suo sguardo la superficie terrestre discernendo anche oggetti piccolissimi con un’intensità visiva che stupisce i naturalisti. […] Si udì un grido d’orrore. Appeso e sballottato tra gli artigli del condor c’era il corpo esanime di Robert Grant! […] Uno sparo rimbombò in fondo alla valle, una vampata di fumo bianco vorticò tra due massi di basalto e il condor, colpito al capo, cominciò a scendere a vite retto dalle ampie ali che facevano da paracadute. Non aveva abbandonato la preda e s’accasciò a dieci passi dal ruscello con una certa qual lentezza. […] Glenarvan si gettò sul ragazzo, lo strappò tra gli artigli del volatile, lo stese sull’erba e avvicinò l’orecchio al petto esanime – Vive! Vive ancora! Luis Sepulveda – Ultime notizie dal sud (2011) Questo libro è nato come la cronaca di un viaggio compiuto da due amici, ma il tempo, i violenti cambiamenti dell'economia e l’avidità dei vincitori lo hanno trasformato in un libro di notizie postume, nel romanzo di una regione scomparsa. Nulla di quanto abbiamo visto è ancora come lo avevamo conosciuto. In qualche modo siamo i fortunati che hanno assistito alla fine di un'epoca nel Sud del Mondo. Di quel Sud che è la mia forza e la mia memoria. Di quel Sud a cui mi aggrappo con tutto il mio amore e tutta la mia rabbia. Ecco perché queste sono Le ultime notizie dal Sud. […] «È duro l'inverno da queste parti?» domandai. Allora lei posò la conocchia, raccolse da terra un ramoscello secco e cominciò a sfregarlo con le dita come se cercasse le parole nella fragilità del legno. «A volte è duro, a volte peggio. Il brutto non è il freddo, né il vento, né la neve. La neve arriva piano e resta. Il brutto sono le gelate, perché sono traditrici» disse mentre le dita non smettevano di sfregare il ramoscello. Guardai il mio socio. Vedeva anche lui quello che vedevo io? Mentre ci raccontava le pene delle pecore con le mammelle ferite dalla gelata, doña Delia continuava ad accarezzare un boccio secco che lentamente si era aperto e come per magia offriva i candidi petali del candido fiore del melo. «Come ha fatto?» domandò il mio socio. «Cosa?» si sorprese lei. «Il fiore» aggiunsi indicando il ramoscello fiorito nelle sue mani. «Non lo so. Dicono che ho un dono. Quello che tocco, vive»rispose timidamente. Con assoluta naturalezza, doña Delia ripeté il miracolo di prendere un ramoscello secco, accarezzareun boccio e risvegliare il fiore addormentato dellafertilità. Con la sua voce calma ci spiegò che la genteandava da lei quando una pecora o una mucca erano sterili. Le bastava toccarle perché i loro ventridiventassero fertili. Lo stesso accadeva con gli alberirovinati dal vento, con le piante, con tutto ciò cheera nato per crescere e dare frutti. E le facevano visita anche uomini pieni di vergogna o donne tristiche, nove mesi dopo, brindavano alla sua salute neibattesimi. Doña Delia non era né vegetariana né macrobiotica. Ignorava e mille teorie dell'energia bloccata enon si considerava un essere eccezionale. Quando le chiedemmo se sapeva da dove e venisse quel dono della fertilità buttò della legna sul fuoco prima di rispondere. «Dal mio amore per questa terra. Ogni volta che guardo la pampa brulla penso che Dio ha sbagliato.» Pablo Neruda – Confesso che ho vissuto (1973) Infanzia e poesia Comincerò con il dire, dei giorni e degli anni della mia infanzia, che la mia unica, indimenticabile compagna fu la pioggia. La grande pioggia australe che cade come una cataratta dal polo, dai cieli di Capo Horn fino alla frontiera. In questa frontiera o far west della mia patria, nacqui alla vita, alla terra, alla poesia e alla pioggia. Per quanto abbia camminato, mi sembra che sia andata perduta quell’arte di piovere che si esercitava come un potere sottile e terribile nella mia Araucania natale. Pioveva mesi interi, anni interi. La pioggia cadeva in fili come lunghi aghi di vetro che si rompevano sui tetti o arrivavano in onde trasparenti contro le finestre, e ogni casa era una nave che difficilmente giungeva in porto in quell’oceano di inverno. Questa pioggia fredda del Sud dell’America non ha le raffiche improvvise della pioggia calda che cade come una frustata e passa lasciando il cielo azzurro. Al contrario, la pioggia australe è paziente e continua, senza fine, a cadere dal cielo grigio. […] Saltando da una pietra all’altra, contro freddo e pioggia, andavamo a scuola. Gli ombrelli se li portava via il vento. Gli impermeabili erano costosi, i guanti non mi piacevano, le scarpe si inzuppavano. Ricorderò sempre i calzini bagnati accanto alla stufa e una fila di scarpe che sbuffavano vapore, come piccole locomotive. Poi venivano le inondazioni, che si portavano via le barche dove viveva la gente più povera, vicino al fiume. Anche la terra, tremante, si scuoteva. Altre volte, sulla cordillera spuntava un pennacchio di luce terribile: il vulcano Llaima si svegliava. […] Sotto la spinta dei conquistatori spagnoli, dopo trecento anni di lotta, gli Araucani ripiegarono in quelle regioni fredde. Ma i cileni continuarono quella che venne chiamata «la pacificazione dell’Auracania», la continuazione cioè di una guerra a ferro e fuoco, per spogliare i nostri compatrioti delle loro terre. Contro gli indios, tutte le armi furono usate senza pietà: il colpo di fucile, l’incendio delle capanne, e poi, meno eclatanti, la legge e l’alcol. L’avvocato divenne anche uno specialista in espropriazione dei loro campi, il giudice li condannò quando protestarono, il prete li minacciò con il fuoco eterno. E alla fine, l’acquavite consumò l’annientamento di una razza superba le cui gesta, il cui valore, e la cui bellezza don Alonso de Ercilla lasciò incise in strofe di ferro e di diaspro nella sua Auraucana. Marcela Serrano – Dieci donne (2011) Una notte son venuti a prenderlo. Hanno portato via ilmio Carlos. Io avevo trentun anni e lui ne aveva trentatré. Eranovembre, due mesi dopo il golpe. Stavamo dormendo, c’era il coprifuoco. Quando hanno bussato alla porta ho detto:ma chi sarà a quest’ora se per strada non c'è nessuno? Invece bussavano. Sono entrati gridando il nome del Carlos. L'hanno portato via in un lampo. Lasciatemi almeno vestire, diceva lui, ma quelli l’hanno afferrato per le braccia e l’hanno portato via così com'era, in pigiama. Ho cominciato a gridare.Non gridare, cara, che torno presto, è uno sbaglio. Solo questo mi ha detto. Non gridare, cara. I bambini si sono svegliati. Non hanno visto quando l'hanno portato via, non hanno visto nemmeno i militari, non hanno visto niente, ibambini. Il papà è andato al Sud, gli ho detto io la mattina dopo, torna presto. Dall'11 settembre, dal giorno che hanno bombardato LaMoneda, il Carlos era giù di corda, cavolo se era giù di corda, e quindi mi sono chiesta: avrà la forza di affrontare quelche lo aspetta? Era una sensazione, nient'altro, non un pensiero vero e proprio. Ho cominciato ad aspettare. […] Passavano i giorni. Non andavo nemmeno fuori a comprare il pane che magari poi il Carlos tornava e non mi trovava in casa. Stavo tutto il giorno chiusa dentro con i bambini, era duro, c'era da soffocare. […] Un giorno sono andata conibambini a Lo Valledor, da mio fratello. Gli ho raccontato cosa mi era successo. Lui mi fa che sarebbe andato dove lavorava il Carlos a parlare con il suo capomastro. Però là nessuno sapeva niente. Anche altri tre operai della sua squadra nonerano più tornati […] A quel punto è cominciato il mio calvario. Il primo problema era far finta che non fosse successoniente. Il secondo trovare dei soldi. Avevo due bambini e un affitto da pagare. […] A quell’epoca ho sgobbato come non mai, grazie a Dio ero giovane e molto forte, trottavo su e giù senza sosta, lavoravo dalla padrona fino alle sei e poi andavo al chiosco. La finestra della cucina della mia nuova casa era affacciata sulla strada, la strada per la quale il Carlos era andato via eper la quale sarebbe tornato. Da quel misero capanno ho visto scorrere la mia vita. […] Poi le proteste. Il plebiscito. La gioia che arrivava. La democrazia. La vittoria del popolo. E io sempre zitta. […] Ma il Carlos non c’era sulla lista. E come fa a esserci, Luisa, se non hai denunciato la sua scomparsa? Mi fa mio fratello un giorno che sono andata a trovarlo in campagna. Ormaiera troppo tardi. I miei figli erano venuti su bene. Nessuno lisegnava col dito. Se tanto il Carlos non era con me, che cosam'importava che il suo nome fosse o no nell'elenco? A voltemi sembrava di essere ancora in guerra quando tutti gli altriormai avevano firmato la pace. C'era la democrazia ma io eroancora sola. Certi giorni mi sembra di sentire il Carlos. Tu che cosa hai fatto, Luisa? mi chiede. Ho aspettato, rispondo. Ti ho aspettato tutti i giorni. Non pensavo che una cosa simile potesse succedere, caro. Sapete qual è la cosa peggiore che può capitare a un essere umano? Scomparire. Morire è molto meglio che scomparire. Egidio Molinas Leiva – La notte del Yacaré (1998) Il '59 è stato un anno particolarmente difficile in tutto il paese. L'opposizione alla dittatura, che due anni prima aveva fatto un salto di qualità con la formazione dei gruppi armati che combattevano apertamente nelle campagne, si accingeva allora a iniziare una nuova tappa: l'accordo fra tutte le forze combattenti, tentare la battaglia definitiva contro l'esercito, a cominciare dalla conquista del controllo effettivo sugli insediamenti militari periferici. Era il caso nostro: da due anni infatti c'era un battaglione di fanteria e di artiglieria leggera in paese. E in quella caserma io scontavo, nel '59, il primo dei miei due anni di servizio militare obbligatorio. Lì dentro si viveva un periodo di grande agitazione. Siccome si credeva che uno dei gruppi armati stesse operando relativamente vicino, il clima era, o meglio, la paura era quella dell'attacco imminente. Così non passava mese senza che “il giorno” arrivasse puntualmente. “E’ il giorno C?" domandava ansiosa in paese la gente comune, mentre quelli in qualche modo compromessi con l’opposizione militante annusavano l'aria, da intenditori, arricciando il naso, se non addirittura tirandoselo con le dita: "Sì, è il giorno C" confermavano con finta serietà. La leggenda voleva che quel giorno l'aria si riempisse di un fetore insopportabile, prodotto dal fatto che nella imminenza dei combattimenti tutti i governativi si sarebbero cacati addosso contemporaneamente. Da lì il giorno C, dove la C stava, naturalmente, per “Caconi”. Ernesto Che Guevara – Latinoamericana. Un diario per un viaggio in motocicletta. (1992) Il giorno di San Guevara Sabato 14 giugno 1952, io, tizio qualsiasi, ho compiuto ventiquattro anni, vigilia del trascendentale quarto di secolo, nozzed'argento con la vita che non mi ha trattato così male, dopo tutto. […] La notte, dopo essere stati a casa del dottor Bresciani che ci ha offerto un ottima e abbondante cena, ci hanno festeggiato nella sala mensa con il liquore nazionale,il pisco, del quale Alberto possiede una precisa esperienza riguardo agli effetti sul sistema nervoso centrale. Una volta accesi glianimi, il direttore della Colonia ha brindato a noi in maniera molto simpatica e io, “impiscato", ho elaborato più o meno quanto segue: “Bene, è d'obbligo per me ringraziare con qualcosa di più cheun gesto convenzionale, per il brindisi offertomi dal dottor Bresciani. Nelle precarie condizioni in cui viaggiamo, come risorsa per manifestare affetto ci resta soltanto la parola, ed è impiegando la parola che voglio esprimere il mio ringraziamento, quello delmio compagno di viaggio, a tutto il personale della colonia che,quasi senza conoscerci, ci ha dato questa magnifica dimostrazionedi affetto che per noi significa la gioia di festeggiare il mio compleanno, come se fosse l'intima festa di qualcuno di voi. Ma c'è dipiù; entro pochi giorni lasceremo il territorio peruviano e per questo le mie parole prendono il valore secondario di un commiato,nel quale metto tutto il mio impegno nell'esprimere il nostro riconoscimento all'intero popolo di questo paese, che ininterrottamente ci ha colmato di attenzioni, fin dalla nostra entrata attraverso Tacna. Voglio sottolineare qualcosa ancora, un poco al margine del tema di questo brindisi: nonostante l'esiguo spessore delle nostre personalità ci impedisca di essere i portavoce di talecausa, crediamo, e dopo questo viaggio più fermamente di prima,che la divisione dell'America in nazionalità incerte e illusorie siacompletamente fittizia. Costituiamo una sola razza meticcia chedal Messico fino allo stretto di Magellano presenta notevoli similitudini etniche. Per questo, cercando di spogliarmi da qualsiasivacuo provincialismo, brindo al Perú e all'America Unita”. Carlos Franz – Il deserto (2005) “Dov'eri tu, mamma, quando sono successe tutte quelle cose orribili nella tua città?”. Riprendendo il controllo delveicolo, Laura ricordò ancora una volta la lettera di Claudia,piena di domande come questa, che aveva ricevuto tre mesiprima, a Berlino. La lettera che viaggiava nella sua borsettaassieme al passaporto, ai biglietti aerei ormai usati, e al grossoincartamento della sua risposta che lei aveva impiegato tremesi a scrivere - tre mesi! - soltanto per appurare, annotando un poscritto durante il volo di ritorno, che l’unica verarisposta alla figlia sarebbe stato proprio quel ritorno. La sola risposta valida era avvicinarsi con gli occhi bene aperti a quei profili deformati, che urlavano - senza voce - sull'orizzonte. E attraversarlo andandogli incontro. Come aveva appena fatto. […] E accanto a Pampa Hundida, circa due chilometri a norddel perimetro urbano, ma già sul terreno brullo, sulla pampaaperta, cioè in un altro mondo, le rovine. Il villaggio fantasmadelle cave di salnitro, poi adibito a campo di prigionia einfine abbandonato per sempre, a fare da replica alla cittàviva come un miraggio o un monito. O come una premonizione: il perimetro cinto da reticolati, le casematte a raggiera,senza più il tetto, diroccate dalla solitudine, il teatro abbandonato, la carcassa preistorica della macchina a vapore che azionava l'impianto, un ammasso di ferraglia corrosa dallaruggine, l'altissima ciminiera bucherellata che era stata usatacome torre di sorveglianza (quell’osso cavo dove la notte il vento gioca a suonare il flauto, inquietandoci, richiamandogliabitanti insonni di Pampa Hundida con i suoi lamenti daanimale agonizzante: tuuuut...). […] La memoria della gioventù non perdona: le citava la discussione che avevano avuto la sera prima del viaggio di Claudia in Cile, la patria lontana dove non aveva mai vissuto. Laura l'aveva avvertita di non aspettarsi niente da un paeseche non conosceva, e si era spinta anche più in là: accalorandosi, le aveva detto che non doveva aspettarsi niente dall’epoca stessa che le era toccato vivere. La sua patria d'originenon poteva fare eccezione, anzi, essendo una terra di estremi,probabilmente sarebbe risultata all'estremità del periodo contemporaneo. Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero – Manuale di zoologia fantastica (1957) Il cane cerbero Se l'inferno è una casa, la casa di Ade, è naturale che un cane vi stia di guardia; anche è naturale, questo cane, immaginarselo atroce. […] Virgilio menziona le sue tre gole; Ovidio, il suo triplice latrato; Butler paragona le tre corone della tiara del Papa, che è portinaio del cielo, con le tre teste del cane che è portinaio dell'inferno (Hudibras, IV, 2). Dante gli presta caratteri umani che aggravano la sua indole infernale: barba unta e atra, mani unghiate che squarciano, nella pioggia, le anime dei dannati. Morde, latra e mostra le zanne. Cavare il Cerbero dall'inferno, e recarlo alla luce del giorno, fu l'ultima delle fatiche d’Ercole. Uno scrittore inglese […] interpreta così l'avventura: Questo Cane con tre Teste rappresenta il passato, il presente e l'avvenire, che contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose. Che Ercole lo vincesse, dimostra che le Azioni eroiche sono vittoriose del Tempo e sussistono nella Memoria della Posterità.[…] Nella mitologia scandinava, un cane insanguinato, Garmr, sta a guardia della casa dei morti, e verrà a battaglia con gli dèi quando i lupi infernali divoreranno la luna e il sole. Alcuni gli attribuiscono quattro occhi; quattro occhi hanno anche i cani di Yama, dio bramico della morte. Il bramanesimo e il buddhismo propongono inferni di cani che a somiglianza del Cerbero dantesco, sono carnefici delle anime. Julio Cortázar– Bestiario (1951) Casa occupata Ci piaceva la casa perché oltre a essere spaziosa e antica conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia. Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. […] Lo ricorderò sempre[…].Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. […] Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte. […] Andai in cucina, […] dissi a Irene: –Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo. Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi. [...] – Allora, – disse raccogliendo i ferri, – dovremo vivere da questo lato. [..] I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. […]Ma ne fummo anche avvantaggiati. […]Ci divertivamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nellacamera di Irene, che era più comoda. […]Stavamobene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare. […] È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Dalla porta della camera da letto […] udii il rumore in cucina; […] Irene […] venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere.[…] Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra […] Chiusid'un colpo la porta e restammo nell’atrio. Ora non siudiva nulla. – Hanno occupato questa parte, – disse Irene. […] Restavamo con quel che avevamo indosso. […]Cinsi con un braccio la vita diIrene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo instrada. Prima che ci allontanassimo, ebbi pietà, chiusibene la porta d'entrata e gettai la chiave nel tombino.Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell'ora e con la casa occupata. Eduardo Galeano – I figli dei giorni (2011) Dicembre 1 Addio alle armi Il presidente del Costa Rica, don Pepe Figueres, aveva detto: «Qui l’unica cosa che va male è tutto». E nell’anno 1948 soppresse le forze armate. Molti annunciarono la fine del mondo, o per lo meno la fine del Costa Rica. Ma il mondo continuò a girare e il Costa Rica si salvò dalle guerre e dai colpi di Stato. Gennaio 3 La memoria errante Il terzo giorno dell'anno 47 a.C. arse la biblioteca più famosa dell’antichità. Le legioni romane invasero l’Egitto e, durante una delle battaglie di Giulio Cesare contro il fratello di Cleopatra, il fuoco divorò la maggior parte delle migliaia e migliaia di rotoli di papiro della Biblioteca di Alessandria. Un paio di millenni dopo, le legioni nordamericane invasero l'Iraq e, durante la crociata di George W. Bush contro il nemico che lui stesso aveva inventato, venne ridotta in cenere la maggior parte delle migliaia e migliaia di libri della Biblioteca di Baghdad. In tutta la storia dell'umanità c'è stato solo un rifugio di libri a prova di guerre e di incendi: la biblioteca errante fu un'idea che venne al Gran Visir di Persia, Abdul Kassem Ismael, alla fine del X secolo. Uomo accorto, questo viaggiatore instancabile aveva sempre con sé la sua biblioteca. Quattrocento cammelli portavano centodiciassettemila libri in una carovana lunga due chilometri. I cammelli servivano anche come catalogo delle opere: ogni gruppo di cammelli portava i titoli che cominciavano con una delle trentadue lettere dell’alfabeto persiano.