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ARISTOTELE - SECONDA PARTE – SCIENZE PRATICHE E
ARISTOTELE - SECONDA PARTE – SCIENZE PRATICHE E POIETICHE Riprendiamo la distinzione aristotelica tra le scienze: al primo posto stanno le scienze teoretiche, finalizzate alla conoscenza per se stessa, superiori alle altre perché libere, e inoltre capaci di raggiungere conoscenze certe e universali: tra le scienze teoretiche abbiamo esaminato la Metafisica, la Fisica e la Psicologia; fa parte delle scienze teoretiche anche la Matematica, alla quale però Aristotele non ha dedicato grande attenzione. Il secondo gruppo di scienze è costituito dalle Scienze Pratiche, che sono finalizzate a descrivere, valutare e guidare il comportamento umano: l’Etica (o Morale) si occupa del comportamento individuale, la Politica si occupa del comportamento degli uomini associati nello Stato. Le Scienze Pratiche, in quanto si occupano del comportamento umano che non è determinato da leggi immutabili e inderogabili, non possono raggiungere la stessa certezza delle scienze teoretiche; esse quindi descrivono e regolano i comportamenti con un certo grado di approssimazione. Infine il terzo gruppo di scienze, quelle Poietiche o Produttive, insegna a produrre “oggetti”; Aristotele si è occupato solo della produzione di due “oggetti” particolari: le opere letterarie, di cui si occupa la “Poetica”, e i discorsi, di cui si occupa la “Retorica”. ETICA Alla scienza etica (o morale) Aristotele ha dedicato diversi trattati, tra i quali il più famoso si intitola “Etica Nicomachea”: questo trattato presenta infatti l’insegnamento etico di Aristotele nel modo più completo e organico, inoltre, tra gli scritti esoterici, è uno dei più pregevoli anche dal punto di vista espositivo. In questo trattato Aristotele si chiede che cos’è il bene, e risponde che il bene è semplicemente tutto ciò che gli uomini desiderano e cercano con i loro comportamenti, “bene” è – in altri termini – ogni fine dell’azione umana. Occorre tuttavia distinguere i beni strumentali (o secondari) dal bene sommo (o fine ultimo): infatti molti dei beni che vengono cercati dagli uomini sono soltanto dei mezzi per raggiungere altri beni (p.e. il denaro è un mezzo per acquistare altri beni; bevande e cibi sono mezzi per procurare sensazioni piacevoli, o per saziare la fame e la sete ecc.). Tra tutti i beni però ce n’è uno che non può mai essere considerato un mezzo per il conseguimento di altri beni, ma è sempre il fine ultimo dell’azione umana: è la felicità; la felicità quindi costituisce il bene sommo dell’etica umana. Pertanto anche l’etica di Aristotele, come quella di Socrate, è un’etica eudaimonistica, che pone come suo criterio, principio e scopo la felicità umana. Ma a questo punto si tratta di capire in che cosa può consistere la felicità, attraverso quali comportamenti l’uomo può ottenere durevolmente la felicità. Aristotele procede nella sua ricerca esaminando e criticando, una per una, le idee più diffuse riguardo alla felicità. 1) In primo luogo molti credono che la felicità (il bene sommo – fine ultimo) consista nei piaceri corporei, ma Aristotele respinge questa concezione perché una vita spesa principalmente per il piacere sarebbe una vita animalesca, indegna dell’uomo; Aristotele non condanna in toto la ricerca del piacere fisico, anzi pensa che i piaceri in una certa misura siano necessari per raggiungere la felicità (egli non ci propone una morale ascetica), ma respinge l’idea che il piacere possa essere il fine ultimo dell’attività umana. 2) In secondo luogo molti credono che la felicità consista nell’onore, nella buona fama, nella gloria (sappiamo che nell’antica Grecia i cittadini attribuivano un valore grandissimo al fatto di essere rispettati, ammirati, ricordati); anche questa concezione però è respinta da Aristotele in quanto l’onore e la fama dipendono soprattutto dal giudizio degli altri, quindi chi ripone in essi il proprio fine ultimo si trova a dipendere dagli altri e perde la propria libertà (oltre tutto il giudizio del popolo è assai mutevole, e spesso non ha rapporto con i reali meriti e demeriti delle persone da esso giudicate). 3) In terzo luogo molti fanno consistere la felicità nella ricchezza, ma – obietta Aristotele - il denaro può essere solo un bene strumentale, e quindi sarebbe assurdo considerarlo il bene sommo. Anche riguardo alla ricchezza e all’onore vale ciò che si è detto a proposito del piacere fisico: Aristotele non rifiuta completamente questi beni, ritiene che in una certa misura siano necessari, però non possono essere considerati “beni sommi”. 4) Anche la concezione platonica del Bene inteso come Idea non viene accettata da Aristotele, perché l’Idea è irraggiungibile nella vita terrena, e invece egli cerca un bene sommo (la felicità) che possa essere ottenuto dagli uomini concretamente esistenti, costituiti di anima e corpo. Dopo aver scartate queste idee comuni sulla felicità, Aristotele afferma che l’uomo può raggiungere la felicità solo se realizza se stesso come uomo,vale a dire solo se realizza la sua attività specifica, quella che lo caratterizza e lo 1 distingue da tutti gli altri animali ed esseri viventi . Questa attività è l’attività dell’anima intellettiva – razionale. Quindi la felicità e il bene sommo per l’uomo consiste nel vivere secondo ragione (la ricerca del piacere, della ricchezza e dell’onore sono ammissibili, ma debbono essere subordinate al vivere secondo ragione). Al riguardo osserviamo che Aristotele non ha una concezione relativistica del bene e della felicità: secondo lui esistono tante concezioni della felicità, ma una sola corrisponde alla natura dell’uomo e gli permette di conseguire davvero il bene cercato; le altre concezioni, per quanto siano condivise da molti, non permettono di ottenere pienamente il bene e la felicità. A questo punto Aristotele affronta il tema delle virtù (tema molto frequentato dai dialoghi socratici): la virtù (ἀρετθ ) infatti è proprio l’attività abituale (non basta un’azione isolata per essere virtuosi!) che realizza un essere. Dunque se l’uomo si realizza come uomo vivendo secondo ragione, le virtù umane consistono nelle attività dell’anima razionale, che si manifestano in due modi diversi, dando luogo a due tipi di virtù: le virtù dianoetiche e le virtù etiche. Le virtù etiche sono attività dell’anima razionale, ma investono anche l’anima sensitiva, infatti esse sono i modi con cui la ragione governa e regola gli appetiti e gli impulsi dell’anima sensitiva. Secondo Aristotele questi appetiti e impulsi non devono essere repressi in toto, ma debbono essere moderati in modo da evitare gli eccessi; dunque la ragione deve intervenire sugli appetiti e gli impulsi indicando il “giusto mezzo” tra due eccessi (troppo o troppo poco): per esempio la virtù etica del coraggio consiste nel giusto mezzo tra la viltà (troppo poco) e la temerarietà (troppo), la generosità è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità, la magnanimità è il giusto mezzo tra la pusillanimità e la superbia, e così via… Non è però possibile stabilire a priori e universalmente dove si collochi il giusto mezzo, quindi la ragione deve valutare caso per caso, ed è per questo che l’etica non formula leggi certe e universali, ma ammette (come abbiam detto nella premessa iniziale) un certo grado di approssimazione. Siccome le virtù etiche consistono nel “giusto mezzo”, allora la virtù della giustizia assume un particolare risalto: “Si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù e che né la stella della sera, né la stella del mattino siano altrettanto degne di ammirazione; e col proverbio diciamo: nella giustizia è compresa ogni virtù”. Aristotele distingue inoltre due tipi di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa: la giustizia distributiva consiste nel “dare a ciascuno ciò che merita (unicuique suum)”, per esempio dare ai lavoratori il giusto salario, dare ai cittadini onori e poteri proporzionati alle loro virtù civiche ecc.; la giustizia commutativa consiste nella proporzione tra due beni che vengono scambiati, per esempio una merce in vendita deve avere un prezzo proporzionato al suo valore, oppure la pena comminata per un reato deve essere commisurata alla gravità del reato. Le virtù dianoetiche sono quelle della conoscenza intellettiva, sono quindi le attività proprie dell’anima razionale: infatti ciò che caratterizza l’anima razionale o intellettiva è la capacità di conoscere i concetti astratti e universali. Le virtù dianoetiche sono fondamentalmente due: la saggezza, quando la conoscenza riguarda i comportamenti e le cose mutevoli della vita umana, e la sapienza, quando l’anima razionale conosce i principi primi e le verità supreme. Aristotele pertanto afferma che l’uomo raggiunge la massima felicità nell’attività contemplativa (cioè nella sapienza o conoscenza teoretica delle verità supreme) e in essa ha quasi un punto di contatto con il divino; infatti Dio, il primo motore immobile, è “Pensiero di pensiero”, e “…l’attività di Dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa; e, per conseguenza, l’attività umana che è la più affine sarà quella che produce la più grande felicità. Una prova, poi, è anche il fatto che tutti gli altri animali non partecipano della felicità, perché sono completamente privi di tale facoltà. Per gli dei, infatti, tutta la vita è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui hanno qualche somiglianza con quel tipo di attività: invece nessuno degli altri animali è felice, perché non partecipa in alcun modo della contemplazione. Per conseguenza, quanto si estende la contemplazione, tanto si estende la felicità”. POLITICA Il trattato aristotelico dedicato alla politica porta il titolo “Politica” (ovvio!). Aristotele definisce l’uomo, oltre che “animale razionale”, “animale politico” (ζῷον πολιτικόν), e con ciò intende che l’uomo è naturalmente socievole e ha bisogno di una società organizzata per realizzarsi e vivere virtuosamente; infatti solo chi è autarchico (=autosufficiente) e non ha bisogno di nulla, può vivere senza far parte di una comunità, ma tale è solo “o una belva o un Dio”. Aristotele, conformemente alla mentalità greca, concepisce l’individuo in funzione dello Stato e non lo Stato in funzione dell’individuo, e inoltre attribuisce una finalità etica allo Stato: lo Stato non ha solo la funzione di favorire la convivenza pacifica e ordinata tra i cittadini, ma ha soprattutto la funzione di incrementare (per mezzo dell’educazione) la virtù dei cittadini; infatti esiste una stretta relazione tra la “bontà” dello Stato e la virtù dei suoi cittadini. Aristotele però non considera “cittadini” tutti quelli che vivono in una città, ma solo quelli che possono far parte delle Assemblee che legiferano, governano e amministrano la giustizia: occorre quindi disporre, oltre che dei 2 diritti politici, anche del tempo libero per dedicarsi all’amministrazione della cosa pubblica; pertanto solo i benestanti, di fatto, sono considerati cittadini. Il pensiero di Aristotele risulta condizionato dalla situazione socio-politica esistente di fatto in Grecia nel suo momento storico: egli infatti giustifica anche la schiavitù e considera lo schiavo un essere umano inferiore per natura, lo definisce anzi “uno strumento che precede e condiziona gli altri strumenti”; Aristotele però precisa che dovrebbero essere ridotti in schiavitù solo i prigionieri di guerra barbari (non ellenici), dato che i Barbari sono per natura inferiori ai Greci: ribadisce insomma il vecchio pregiudizio razziale degli Elleni. Quanto alle forme di governo , Aristotele ripropone sostanzialmente la schematizzazione fatta da Platone nei dialoghi della vecchiaia: Monarchia , Aristocrazia e Politìa (se si governa per il bene comune) - Tirannide, Oligarchia e Democrazia (se si governa per il proprio interesse). La politìa consiste in un governo di tutti i cittadini benestanti ed economicamente indipendenti, i soli che debbono godere dei diritti politici (come abbiam detto sopra). L’errore della democrazia (degenerazione della Politìa) consisterebbe nel ritenere che, poiché tutti sono eguali nella libertà, tutti debbano essere uguali anche in tutto il resto (ricchezze, poteri ecc.) La Poetica. Tra le scienze produttive o poietiche rientrano la poetica e la retorica: la prima insegna a produrre composizioni poetiche, la seconda insegna a produrre discorsi persuasivi. Tralasciamo la retorica e prendiamo in considerazione solo la poetica. Il trattato di Aristotele intitolato “Poetica” comprendeva due libri, il primo dedicato alla poesia tragica e in parte alla poesia epica, il secondo dedicato alla poesia comica; il secondo libro però non si è conservato, quindi la tragedia costituisce l’argomento principale della poetica aristotelica che ci è nota. Nonostante la sua brevità, questo trattato ha goduto nel corso dei secoli di una straordinaria fortuna: a partire dal Rinascimento (XV secolo), e sino al Romanticismo (XIX secolo), è stato considerato un testo normativo, che dettava le regole da seguire per comporre una buona tragedia (le principali regole erano l’unità di tempo, di luogo e di azione); in realtà Aristotele non voleva stabilire delle norme, ma mettere in evidenza i caratteri che rendevano particolarmente belle ed efficaci le tragedie di Sofocle e di Euripide. La concezione aristotelica della poesia, e in generale di ogni forma d’arte, è imperniata sui concetti di imitazione (μίμηςισ) e di purificazione o catarsi (κἁιαρςισ) . Tutte le arti sono imitazioni della realtà, rappresentazioni di fatti e personaggi reali; la tendenza all’imitazione è insita nella natura umana: “L’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione,; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate” (Aristotele, Poetica ) Tuttavia, a differenza di Platone, Aristotele non crede che l’imitazione poetica produca soltanto una copia indebolita della realtà, lontana dalla verità delle idee e quindi priva di valore conoscitivo; per Aristotele, al contrario, la poesia ha una funzione conoscitiva che la colloca a metà strada fra la storia, che narra i fatti particolari realmente accaduti, e la filosofia, che si occupa dell’universale; infatti la poesia descrive vicende particolari non effettivamente accadute, ma che potrebbero accadere (non vere, ma verosimili). Così, nella poesia tragica ed epica sono messi in scena personaggi provvisti di un determinato carattere, che compiono azioni conseguenti al carattere: sia il carattere sia le azioni manifestano strutture paradigmatiche, e in un certo senso ripetibili; Achille, per esempio, è il tipo ideale del guerriero forte, orgoglioso e iracondo, e le azioni in cui è coinvolto indicano ciò che potrebbe accadere in tutti i casi analoghi. Perciò, ammesso che il poeta abbia correttamente imitato la natura, la poesia aiuta a comprendere meglio la condizione umana. La poesia è importante anche sul piano etico. Aristotele infatti afferma che la Purificazione delle passioni (in greco Catarsi, κἁιαρςισ ) è l’effetto prodotto dalla poesia tragica sugli spettatori. Essa infatti induce il coinvolgimento emotivo del pubblico: gli spettatori, posti di fronte ai casi sventurati dei protagonisti, sono mossi da pietà, perché le vicende colpiscono persone innocenti, e da paura, perché casi analoghi potrebbero succedere anche a loro. Ma poiché non si trovano davanti alla vita reale, bensì ad una sua imitazione, possono dare libero sfogo alle proprie emozioni, e in tal modo ne vengono liberati. Usciti dal teatro si sentono più sereni, sollevati, incoraggiati ad affrontare i casi della vita. 3