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quando la rincontra, è colto da una disillusione che gli fa pronunciare il famoso
«Come? È solo questo?» di Stendhal. Il
segreto dello scrittore è mescolato alle sue
esperienze più banali, ed egli non vive di
quell’essenza che la sua opera ci trasmette. Anzi, quell’essenza non è possibile
neppure incontrarla faccia a faccia avvicinandosi a lui.
Si direbbe che nel corso si attesti una posizione simile a queste dette. Se per lo
scrittore l’esercizio della propria arte è
condizione dell’emergenza di un senso di
sé, autentico e profondo, se egli si rispecchia nei propri personaggi e li investe del proprio vissuto emotivo, altrettanto l’opera illumina l’esperienza di vita
del lettore, perché lo stile costituisce un
orizzonte ultra-individuale. Il lettore è libero a sua volta, dunque, di ritrovarsi in
immagini che erano nate come rispecchiamento dell’autore.
La complessità della relazione è arricchita dal fatto che il lettore è indicato da
Merleau-Ponty come lo spettatore necessario, il terzo intruso, tra lo scrittore – qui
Stendhal – e i suoi personaggi. Per il tramite della letteratura, dell’io letterario e
dei personaggi di finzione, il problema
dell’altro si rivela e ciascuno – lettore o
scrittore – trova se stesso, scorgendo la
porosità del proprio essere-al-mondo.
E non si può dire che questo sia “il fine”
della letteratura, perché la letteratura non
è un mezzo: si è visto che nessun linguaggio è strumento di un senso dato
fuori di esso. Ma scrivere non è neppure
un fine in se stesso: se così fosse, se professassimo una sorta di religione della
letteratura, la letteratura sarebbe immobile, non avrebbe niente da dire. Invece
essa, piuttosto, proviene da un movimento che si fa al cuore della vita dello scrittore e che similmente investe il lettore.
Il libro comprende una lunga nota, che
non rientra nel corpus di note preparatorie per il corso, sulle Recherches sur la
Recensioni
nature et les fonctions du langage di Brice Parain [Parigi, Édition Gallimard,
1942] e sul commento di queste ad opera di Sartre. La scelta di pubblicare questi appunti in calce al testo è stabilita, oltre che sull’affinità tematica, sulla convinzione dei curatori (cfr. l’Introduzione
di Benedetta Zaccarello, p. 51) che il titolo del corso merleau-pontiano debba
essere letto come un riferimento al libro
di Parain, che in quegli anni conosceva
notevole fortuna. Sul campo della discussione delle ricerche di Parain si gioca, inoltre, una disputa con Sartre e si
conferma e si chiarisce la necessità di
prendere le mosse dal linguaggio letterario per esplorare il linguaggio tutto.
Sandro Palazzo, Trascendentale e temporalità. Gilles Deleuze e l’eredità kantiana, a cura di Carla de Pascale, Pisa,
ETS, 2013, 480 pp.
di Alment Muho
Nella ormai vasta bibliografia su Deleuze, il libro di Palazzo va ad imporsi in
una posizione di particolare spicco e di
rilievo indiscutibile. Esso si presenta come una delle trattazioni più sistematiche,
ricchissimo di contenuti e di taglio metodologicamente e teroreticamente originale. Partendo da quest’ultimo punto, almeno due sono i tratti che, in generale,
ne fanno risaltare l’autenticità in modo
piuttosto immediato: 1. il linguaggio (inteso sia come lessico filosofico, sia come
semantica e stile di articolazione e di
messa in rapporto dei concetti) non mimeticamente deleuzeano; 2. l’individuazione di una via d’accesso poco battuta,
ossia la particolare impostazione del problema di fondo individuato per affrontare alcuni dei nodi concettuali più significativi della teoresi deleuzeana, dove le
questioni fondamentali poste possano
trovare una prospettiva adeguata che li
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sviluppi in un massimo di estensione (ricostruzione storico-filosofica) e di intensità (ricostruzione della consistenza teoretica). Tale prospettiva, centrale nell’offrire un percorso sistematico nel campo
problematizzato deleuzeano, lungi dall’essere quella del trinomio «SpinozaNietzsche-Bergson», viene a centrarsi
sull’ampia ricostruzione di un ricco
quanto «celato» confronto con Kant (soprattutto il Kant della prima Critica) e
con alcuni sviluppi critici dell’Idealismo,
nel delineare la condizione genetica del
trascendentale.
Considerato dall’autore come la trattazione teoreticamente più feconda del filosofo francese, dove, per un verso si ricongiungono e si condensano sistematicamente temi, problemi e concetti rispettivi delle opere ad essa precedenti e per
un altro si traccia e si stabilisce il campo
delle ricerche ad essa posteriori, Differenza e ripetizione diviene il luogo privilegiato del confronto con la costruzione
del senso del progetto filosofico deleuzeano. Allora, analizzare i temi di questo
testo, sempre a partire dalla prospettiva
genetica del trascendentale in quanto
problema messo a fuoco, per Palazzo significa costruire una complessa relazione
ermeneutica con gli altri testi, deleuzeani e non, dove sia possiblie rintracciare
ed articolare una genealogia concettuale
fratta, per farne emergere le componenti
spesso implicite da esplicare. Da notare
altresì una chiara analogia, almeno architettonica e tematica, tra il libro stesso
di Palazzo e quello di Deleuze, salvo forse la Conclusione.
Più in particolare, il problema principe
individuato da cui partire e sotto la cui
esigenza e necessità riesaminare alcune
delle implicazioni più importanti degli
esiti filosofici di Deleuze è il rapporto
trascendentale-tempo, nel tentativo di ricostruirne la genesi concettuale. Oltre a
«una priorità fondativa […] nell’impostazione di un discorso ontologico» in sé,
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l’interrogazione di tale questione presenta anche il vantaggio di «prospettare una
genesi teoretica dell’orizzonte problematico della filosofia deleuzeana» stessa (p.
14). L’impostazione di questa prospettiva
implica un notevole sforzo teoretico-interpretativo, articolato minuziosamente
nei suoi punti chiave sia sull’asse sincronico (aspetto genetico interno della teoresi) che su quello diacronico (aspetto
storico-filosofico), nell’intraprendere una
vasta operazione di transcodificazione
della problematica deleuzeana da una
parte e nel proporre un suo rinnovamento dall’altra, a partire dalla filosofia critica kantiana. Essa viene altresì assunta
«come strategia euristica capace di tenere in reciproca tensione l’intento di una
ricostruzione storico-filosofica unitaria
del corpus deleuzeano e quello di una
sorveglianza sugli elementi teoretici messi in questione nel confronto con testi
non deleuzeani» (p. 33).
Che il problema di eredità kantiana sul
rapporto trascendentale-tempo – per lo
più implicito nell’opera di Deleuze –, inteso come nodo nevralgico da cui si dipanano i concetti fondamentali deleuzeani, sia in realtà centrale e fecondo e quindi funga da elemento genetico nella sua
filosofia, ci si convince seguendo la rigorosa trattazione di Palazzo che lo rileva
come «un plesso concettuale problematico che pone in tensione l’idea di differenza, quella di temporalità e l’aporetico
statuto del pensiero e della verità, e che,
metacriticamente, mette in questione i
modi e le possibilità di una critica e la
stessa forma del sapere filosofico» (p.
22). Si tratta, dunque, di ricostruire archeologicamente ed esplicare genealogicamente, nella sua propria necessità e secondo linee assiologiche intrinseche ai
problemi stessi, il confronto critico tra
Deleuze e Kant sul tema del trascendentale e della temporalità con particolare attenzione su ciò che ne consegue riguardo
al concetto di differenza. Sappiamo che
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per il filosofo francese il concetto di differenza emerge in primo piano e assume
tutta la sua centralità ontologica solo
quando il pensiero viene generato al di là
del quadro del riconoscimento e della
rappresentazione, a partire da un incontro
violento con il non pensato il quale offra
l’artiglio della necessità al pensare stesso. Senza una simile premessa non è possibile delineare la dimensione genetica
del trascendentale, ovvero passare dal
trascendentale formale a ciò che Deleuze
chiama empirismo trascendentale, dove
si profila un rapporto differenziale tra
condizionamento e condizionato sviluppato secondo una trama necessaria, e non
semplicemente possibile.
Seguendo il modello del sublime nella
terza Critica kantiana, il problema della
necessità del pensiero, posto come quello della necessità con la quale viene generato l’accordo tra le facoltà, differenti
per natura tra di esse, segna il passaggio
dal trascendentale formale alla dimensione genetica del trascendentale, dove
tale pensiero della genesi diviene al contempo genesi del pensiero e quindi dove
il pensiero della necessità viene a coincidere con la necessità stessa del pensiero,
di modo che «il generato si sostituisce al
“dato”» (p. 61). L’essere costretta dell’immaginazione nella propria passività
rispetto alla potenza attiva dell’idea della ragione – condizione reale perché il
suo esercizio trascendente venga generato – testimonia la genesi dell’accordo come eterogenesi: «l’immaginazione […] è
eterocostituita nel fondamento della propria attività» (p. 61), cioè a dire che è
l’altro l’origine della genesi, ma ciò nonostante esso compete al generato (immanenza). Il modello del sublime in Kant
allora «consente di pensare non solo la
necessità dell’accordo delle facoltà, ma
anche l’unità […] di condizione incondizionata (l’idea) e condizionato (fenomeno sensibile)» (p. 63), indicando così la
prospettiva genetica. È in questa prospet-
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tiva, quindi, dove la genesi si mostra come «capacità di un’esibizione materiale e
in qualche modo non rappresentativa delle idee» (p. 66), che il trascendentale,
lungi dal rappresentare una mera condizione di possibilità, va ora esaminato
«come problema della verità in quanto
verità dell’esperienza» (p. 411).
Tale impostazione tenta di superare
un’aporia strutturale, quella cioè dell’eterogeneità nel rapporto fra trascendentale ed empirico e l’eteronomia kantiana tra intelletto e sensibilità, per fondare la «vera critica», consistente nel
«rinvenire un principio capace di operare una sintesi non eterogenea rispetto al
molteplice sintetizzato ma costitutiva del
molteplice come tale nella sua diversità:
il “principio di sintesi” deve cioè essere
insieme “elemento genetico”, interno alle determinazioni, e non più un’identità
formale che sussuma sotto di sé le differenze particolari» (p. 83). Segue una disamina della soluzione maimoniana del
problema, dove, oltre ai nessi impliciti tra
il postkantiano e Deleuze, si rileva anche
il punto critico di tale approccio: l’essere pensante infinito nel quale non si dà
più differenza di natura tra intelletto e
sensibilità non può essere ammissibile
per Deleuze, secondo il quale, al contrario, la genesi deve avere un carattere inconscio (l’impensato nel pensiero). Inoltre, «in Maimon, per quanto venga indicata una possibile via di superamento
delle aporie kantiane, il processo di genesi oggettiva rimane separato dal processo conoscitivo, cioè il piano aletico
trascendentale finito non è capace di giustificare il piano ontologico che dovrebbe fondarlo» (p. 100). Persistendo nell’analisi della prospettiva genetica in
contesto idealistico (Fichte, Hegel) e ricostruendo acutamente il rapporto di Deleuze con tale compagine attraverso i testi di Gueroult, Vuillemin e Hyppolite,
assunti come fonti di mediazione, viene
(im)posto in maniera necessaria il pro-
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blema centrale del testo di Palazzo, cioè
il tempo in quanto elemento strutturale
rispetto alla possibilità di pensare l’immanenza, e tuttavia rimasto aporetico e
non pienamente integrato in tali sistemi:
«per quanto pensate come immanenti
l’una all’altra, condizione e condizionato
resterebbero trascendenti perché date su
due piani temporali diversi, il cui rapporto è di immagine, cioè di esteriorità. […]
in ogni caso il progetto della rivoluzione
copernicana, quello cioè di una critica
immanente, verrebbe a essere infranto»
(p. 112).
Si apre così significativamente la via a un
confronto puntuale e sistematico con i limiti strutturali del pensiero in quanto rappresentazione, prima di elaborare in positivo lo statuto dell’empirismo trascendentale sviluppato sotto il segno dei concetti di temporalità e differenza. La prima
parte della critica dell «immagine del
pensiero» si organizza per lo più come
una sottile e rigorosa archeologia che
mette in risalto le complesse connessioni
concettuali e le rispettive posizioni filosofiche deleuzeane in relazione alla storia della filosofia, arrivando al problema
notevole del rapporto tra fondazione e
temporalità. Con un’analisi stringente vi
si denuncia la circolarità di fondare e rappresentare, nel senso che «il fondamento
fonda la rappresentazione e viene esso
stesso rappresentato» (p. 182), secondo
la modalità della ri-presentazione e del
riconoscimento dell’idea nell’anima; ma
ciò comporta anche l’istituirsi dell’ordine temporale secondo la subordinazione
del passato e del futuro (dimensioni temporali della non presenza) all’eterno presente, rendendo il primo un antico presente e il secondo un non ancora presente. In tal modo, «la temporalità resta
chiusa nella morsa di una duplice, e insieme unitaria, forma di presenzialità:
l’eternità del fondamento che dispone del
tempo curvandolo in movimento ciclico,
e il presente dell’anima come luogo ri-
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spetto a cui il movimento si articola in un
prima e poi» (p. 183). Si mette così in rilievo una analogia della concezione della temporalità con quella del trascendentale, poiché «come la condizione era la
forma del condizionato, così […] la temporalità del fondamento è la forma della
presenza del fondato» (p. 195). La rappresentazione, dunque, in ultima istanza
si fonda sull’Io penso in quanto principio
dell’unità delle facolta del soggetto (senso comune) e della ragion sufficiente, subordinando in tal modo a sé anche il tempo, il quale, «in quanto mediato, è un
tempo derivato: nell’elemento rappresentativo il tempo è determinato nei propri modi, sulla base dell’identità dell’io
trascendentale. La ri-presentazione come
tale è una mediazione della presenza; la
rappresentazione è l’operazione di un
soggetto, così che, anche accettando con
Kant che il soggetto non possa essere conosciuto come anima, la rappresentazione del tempo manterrebbe pur sempre in
Deleuze quel “carattere secondario e derivato”, rispetto a un “numerante”, già
presente nella filosofia platonica e aristotelica. Lo stesso “numerante”, pensato come identità e garanzia di permanenza, è il fondamento di un’esperienza mediata, cioè di quell’esperienza di cui si
chiede la fondazione come oggettività»
(p. 215). Di conseguenza, assistiamo a
una duplice riduzione: da una parte,
l’empirico viene ridotto all’io così come
il tempo viene ridotto alla presenza. Ciò
messo in rilievo, si tratta ora di fendere
le «due soglie negative» delimitanti la
rappresentazione stessa: quella metarappresentativa (Idea), che darà luogo a
un’eidetica, e quella infrarappresentativa
(il presentarsi del sensibile nel tempo),
che darà luogo a un’estetica, per poter
giungere alla trattazione dell’empirismo
trascendentale come vera realizzazione
della rivoluzione copernicana, in quanto
esso «è chiamato a rispondere al problema della genesi e dell’unità di necessità
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aletica e necessità ontologica» (p. 225).
L’empirismo trascendentale deve far
emergere il potere sintetico della passività e arrivare a pensare in modo non eteronomo il rapporto di essere e pensiero e
di trascendentale ed empirico. In altri termini, «la filosofia, come empirismo trascendentale, è una critica, necessaria,
delle condizioni di costituzione dell’esperienza reale e del pensiero di quella esperienza; il rapporto tra queste due
formulazioni deve ritrascrivere l’esigenza di un nesso necessario di essere e pensiero» (p. 432). A nostro avviso, questo
quarto capitolo, intitolato significativamente «Trascendentale e tempo», rappresenta la parte teoreticamente più densa e il contributo ermeneutico più importante e originale del testo di Palazzo, nell’esplicare quanto di più fondamentale si
trova, celato, nel cuore della riflessione
filosofica deleuzeana. Particolarmente
spicca in esso la ricostruzione genealogica delle tre sintesi passive (esperienze
non rappresentative) di Differenza e ripetizione (sintesi dell’abitudine; sintesi
della memoria; sintesi del tempo vuoto),
poste in analogia, ma con «un’inversione polemica», con le tre sintesi kantiane
nella sezione «Deduzione trascendentale» della Critica della ragion pura (sintesi dell’apprensione nell’intuizione; sintesi della riproduzione nell’immaginazione; sintesi della ricognizione nel concetto), dando luogo a una vera e propria
«analitica della sintesi passiva».
Da una parte, le sintesi passive sono infrarappresentative, ma dall’altra, non si
possono comprendere se non in relazione
all’idea (metarappresentativa). In tal senso, «mantenere la possibilità del pensiero senza ridurla alla coppia costituita del
soggetto e dell’oggetto, pensarne la genesi come necessaria a partire dall’esperienza, e pensare l’esperienza stessa come non più estrinseca al pensiero significa allora appunto pensare l’idea come
elemento genetico del concetto e delle
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determinazioni spazio-temporali» (p.
284). Il pensiero della genesi, dunque,
nel rintracciare le sintesi temporali, annuncia anche una complessa conciliazione dell’estetica e dell’eidetica sotto l’unità differenziale di esistente e ideale, laddove l’idea va intesa in quanto condizione genetica dell’essere del sensibile e del
suo necessario apparire nel pensiero.
L’aspetto genetico del trascendentale
esprime tale unità in quanto costitutiva rispetto alle istanze costituite nella rappresentazione – soggetto e oggetto – poiché
«in un empirismo trascendentale, l’esperienza deve essere assunta come tale nel
pensiero e il pensiero essere pensiero dell’esperienza, il trascendentale ritrovare
l’unità […] di condizione (su un piano
ontologico) e […] di possibilità di pensare la condizione (su un piano aletico).
Il chiasma di questo movimento non apparterrà più a un soggetto costituente o a
un’idea sempre presente, piuttosto soggetto, oggetto e rappresentazione saranno
essi stessi costituiti ed effettuali in questo chiasma» (p. 285).
La prima sintesi (abitudine) dimostra infatti che la soggettività è costituita dai
contenuti temporali volta a volta contratti; la seconda sintesi (memoria) approda
all’essere del passato in quanto passato,
cioè in quanto virtuale e quindi come forma dell’eteros rispetto al presente vivente. In tal modo, «la nozione di virtuale assolve […] alla duplice, fondamentale,
funzione strategica di sottrarre la temporalità alla presenza e, insieme, di semantizzare il non-essere come alterità e differenza» (p. 316). Ma è solo nella terza
sintesi, cioè nella corrispondenza fra
tempo vuoto e Io incrinato, che la differenza stessa emerge nella sua dimensione genetico-ontologica propria, fondando così le prime due. La rappresentazione stessa del tempo da parte dell’Io puro
diviene possibile solo a partire dalla modificazione empirica (precategoriale) dell’io nel tempo a opera di un’attività che
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non coincide con la coscienza e la rappresentazione. «L’Io è un altro significa
allora: la spontaneità che modifica l’io
empirico (passivo) è altro dall’io, sia dallo stesso io empirico che essa modifica,
sia dalla forma dell’Io penso in cui è rappresentata. L’alterità si sottrae alla forma
dell’Io penso […]» (p. 343).
In una compagine dove il tempo è il tessuto stesso della genesi del pensiero e
dell’alterità tra l’io passivo e l’attività
sintetica senza soggetto, la differenza (attività come alterità) si profila come una
trascendenza orizzontale che, sottraendosi alla rappresentazione, eccede la presenza. Infatti, «l’alterità, di cui l’Io è rappresentazione, è la pura forma dell’essere altro. L’attività che modifica il me, e
che il me rappresenta come Io penso, è
l’attività di un non-identico, e non si dà
forma e coscienza di un’attività nell’Io
penso che in quanto quest’ultimo corrisponde a un non-identico» (p. 352). In
breve, l’attività è attività in quanto alterità (differenza) che, da un lato, viene riflessa nell’Io penso e, dall’altro, va riferita all’io passivo in quanto esistente
(contenuto temporale contratto della prima sintesi), e l’unica mediazione tra le
due istanze è il tempo come forma del
determinabile. Se si afferma con Deleuze
che l’esistenza del soggetto, determinata
dal pensiero, è l’esistenza di un essere
passivo, allora il pensiero può esercitarsi
solo come modificazione nel tempo, cioè
come attività che modifica l’io passivo.
«Il tempo rapporta l’una all’altra spontaneità e recettività» (p. 352). La genesi del
pensiero in quanto differenza si prospetta quindi in forma di un’attività come alterità rispetto all’io passivo e, al contempo, in rapporto intrinseco con la passività su cui si esercita. Ma, in quanto alterità, tale attività non può dunque che essere trascendenza orizzontale eccedente la
presenza (differenza come temporalizzazione). Allora, «il tempo è irriducibile alla forma della presenza, eccede, trascen-
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de di diritto, ogni contenuto determinato
che in esso possa apparire e anche la totalità dei contenuti: il tempo come condizione della sintesi è tempo vuoto» (p.
357). In conclusione, ne risulta che «l’essere della differenza, come impensato e
come tempo vuoto, non è qualcosa che si
aggiunga all’atto di pensiero e al contenuto del tempo, ma la condizione della
loro genesi. […] La differenza è differenza di essere e pensiero sotto la condizione che l’essere non è mai presente,
cioè che il tempo eccede la totalità di ciò
che è dato. […] Il tempo che rapporta
l’uno all’altro essere e pensiero è il tempo in quanto irriducibile all’ente, cioè il
tempo vuoto» (pp. 360-361).
Dopo questo punto saliente dell’analisi,
l’autore avvia una riflessione sullo statuto del pensiero filosofico in quanto ontologia immanente, che domina buona
parte dell’ultimo capitolo e soprattutto la
conclusione. Interesse particolare presenta il sottocapitolo dedicato all’eidetica, dove l’idea, coerentemente con quanto emerso fin qui, lungi dall’essere articolata come rappresentazione della coscienza, nell’assumere su di sé lo statuto del problema filosofico da cui tutto
muove, si manifesta piuttosto come presentazione dell’inconscio (quindi dell’impensato) ed è determinata dal carattere temporale aionico (tempo dell’evento) in quanto differenza rispetto a
ciò che attualmente la esprime (nell’ordine del tempo cronologico). La riflessione conclusiva non è un semplice «tirare le somme», ma un profondo interrogarsi metadiscorsivo e finemente critico sull’eredità deleuzeana dell’immanenza, dove ci viene riconsegnata, sotto
forma di questione che rilancia il pensiero, l’aporia propria a questo discorso
filosofico rivestita di un’inquietudine etica ed esposta in tutta la sua consistenza
ontologica: «in un immanentismo radicale tutte le teorie dovrebbero essere
ugualmente vere, anche le teorie che ne-
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gano o occultano la differenza. […] se
pensare in modo non rappresentativo significa creare il nuovo, e se il nuovo è
sempre e comunque produzione dell’essere (nel duplice senso del genitivo) nel
pensiero, come evitare che la creazione,
senza altro criterio che se stessa e ugualmente espressiva dell’essere, non conduca all’indifferenza, in un pieno giorno, detto per celia, in cui tutte le vacche,
infinitamente colorate, sembrerebbero
bianche?» (pp. 440-441).
Ermanno Bencivenga, Filosofia in gioco, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013,
VIII+148 pp.
di Prisca Amoroso
Filosofia in gioco di Ermanno Bencivenga è un viaggio tra le strade tortuose e labirintiche del gioco. Quasi un invito alla
filosofia: un’esortazione ad intraprendere percorsi inusitati, a mettere in crisi il
noto, ad accettare la sfida di esplorare terreni non battuti, incamminandosi per una
via rischiosa, ma bella e necessaria: quella della libertà, del rovesciamento dell’acquisito, della meraviglia ch’è madre
della filosofia stessa.
Bencivenga è Professore ordinario di Filosofia alla University of California presso Irvine. Il suo interesse per la questione del gioco è di lunga data: già nel 1990,
pubblica, con Mondadori, Giochiamo
con la filosofia. Il tema è dei più cari all’autore, e gli è caro questo nuovo lavoro, «il libro di tutti i miei libri» (p. VII),
avverte. Le tesi qui presentate sono, infatti, l’esito di più di venticinque anni di
ricerca.
Il gioco si delinea in queste pagine, più
ancora che come attività specifica, come
aspetto di ogni attività: una disposizione
di senso, un parametro della libertà di
ogni azione. Ancora, il gioco è sovvertimento, è ricerca e sperimentazione. In es-
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so risiede la nostra umanità, perché la vita umana è un insieme di giochi e il gioco è l’unica autentica azione: agiamo solo quando compiamo una mossa che
cambia le carte in tavola, quando scendiamo in campo, disponendoci a scrutare nella complessità delle cose, a guardare dentro l’ambiguità. Ciò che rende il
gioco tale, e ogni azione un gioco, è il
fatto che i giochi siano molti e che si
guardi al nostro come ad uno dei tanti
possibili.
Una bambina, seduta su un tappeto, circondata da oggetti di varia forma, li afferra, li lancia, li incastra l’uno con l’altro, li
sbatte sul pavimento e li guarda curiosa:
usando in modo inconsueto quegli oggetti, sta giocando. Ella scopre, in una spillatrice per carta, la bocca spalancata di un
grosso pesce. La sua attività ribelle e il suo
modo rivoluzionario di guardare alle cose
sono il primo passo per aprirsi alla possibilità dell’esistenza di alternative.
Se la bambina non dimenticherà quello
che queste prime semplici attività le hanno insegnato, allora ella avrà imparato a
giocare, e giocherà per tutta la vita. Incontrerà ostacoli, comprenderà che le pareti contro cui la palla va a sbattere sono
il limite e lo sfondo necessario al suo gioco, giocherà a giochi più complessi: agli
scacchi, alla letteratura, all’arte, alla filosofia. Imparerà a parlare e a giocare con
le parole, a storpiarle, a investirle di significati nuovi.
Si obietterà che vi sia una differenza fondamentale tra quei primi giochi ingenui
e un torneo di scacchi. Che ve ne sia, ancora, tra le attività ludiche e le attività serie. Tra una partita di pallone e l’Etica di
Spinoza. Tra il pronunciare in modo
scorretto le parole e il comporre un sonetto.
Bencivenga accompagna il lettore nella
scoperta del perché l’obiezione sia fallace.
«Se la filosofia è definita come un gioco,
sia pure il gioco di cercare la realtà, la ve-
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