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La porta dell`eternità

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La porta dell`eternità
David Bresciani
La porta dell’eternità
La memoria in Alexander Schmemann
“È il tempo quando fiorisce il tiglio”
Lipa
Indice
© 2016 Lipa Srl, Roma
prima edizione: marzo 2016
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
& 06 4747770
fax 06 485876
e-mail: [email protected]
http: //www.lipaonline.org
Autore: David Bresciani
Titolo: La porta dell’eternità. La memoria in Alexander Schmemann
Collana: Pubblicazioni del Centro Aletti
Formato: 150x225 mm
Pagine: 308
In copertina: lunetta sopra la porta imperiale della basilica di Santa Sofia a Istanbul,
con Cristo in trono e Leone VI (IX secolo)
Stampato nel marzo 2016
Impianti e stampa: Graficapuntoprint, Roma
Proprietà letteraria riservata Printed in Italy
codice ISBN 978-88-89667-53-68
Ringraziamenti .................................................... 9
Bibliografia e abbreviazioni .................................. 11
Introduzione......................................................... 18
I. La memoria, ambito e veicolo della rivelazione..... 23
1. L’essenzialità della memoria.......................... La memoria, dimensione fondamentale
della vita............................................ Memoria e amnesia.................................... 24
2. La memoria biblica....................................... Credere è ricordare..................................... Una memoria duplice.................................. Il rito – segno memoriale.............................. 30
30
32
35
3. Cristo, eterna presenza dell’uomo a Dio
e di Dio all’uomo........................................ 38
4. La memoria cristiana: anamnesi
di Gesú Cristo nello Spirito......................... Memoria della morte e della risurrezione
finché Egli venga................................... Dalla memoria cultuale
alla memoria esistenziale......................... “Lo Spirito vi ricorderà”.............................. La vita cristiana come esercizio della memoria..... 24
26
40
40
43
44
45
5. Conclusione................................................. 47
5
II. Alexander Schmemann, teologo della memoria
Una presentazione................................................ 49
1. Alcune note biografiche............................... 49
2. Un profilo bibliografico............................... Uno sguardo generale.................................. Il tema della memoria................................. L’importanza della memoria
per la fede della Chiesa........................... L’incarnazione della memoria divina:
la storia della salvezza............................ La liturgia come forma privilegiata di conoscenza.... 57
57
66
3. Conclusione................................................. 76
III. Memoria, fede e sacrificio................................... 78
1. Fede, memoria, vita...................................... La fede come memoria di Dio da parte dell’uomo... Il “carattere ontologico della memoria”............. Una memoria cristologica............................. Memoria, evento pneumatico......................... 79
79
81
82
85
2. Il sacrificio come accesso
alla memoria di Dio..................................... “Dove non c’è sacrificio non c’è vita”................. Un sacrificio per la soppressione del peccato........ Coinvolti nell’unico sacrificio......................... 88
88
93
96
3. Conclusione................................................. 99
69
72
73
IV. Celebrare la memoria: memoria e liturgia........... 101
1. La liturgia: memoria di che cosa?.................. 102
2. Una memoria custodita nell’ordo................... Ciò che rivela l’ordo...................................... Un viaggio verso il regno: l’annuncio della meta.... L’ingresso................................................ La Liturgia della Parola.............................. “A porte chiuse”.......................................... 6
103
106
107
109
111
113
Offerta e commemorazione........................... “In alto i cuori” – “Rendiamo grazie a Dio”.... “In memoria di me”................................... La comunione dello Spirito Santo e il regno....... “Liturgia, unità della memoria”.................... Le intercessioni, il Padre Nostro, la comunione... 115
123
127
135
140
143
3. Giorno del Signore e liturgia del tempo....... 146
4. La liturgia insegna il simbolo
come linguaggio proprio alla memoria........ Un falso simbolismo illustrativo,
didascalico e allegorico................................ In cerca del vero simbolismo liturgico................ Il simbolo ha un carattere cosmico ed escatologico.... 155
155
157
158
5. Conclusione................................................. 163
V. Parole e concetti adeguati a Dio:
memoria e teologia............................................... 165
1. Dalla memoria al libro.................................. 166
La percezione di una frammentazione................ 166
La “cattività occidentale” della teologia orientale.... 171
2. La teologia liturgica...................................... 175
A partire da Schmemann................................ 175
Lex orandi-lex credendi,
theologia prima-theologia secunda.................. 181
3. Una teologia radicata
nella memoria del “mysterion”.................... La parola ha valore secondo la memoria che ha...... La tradizione............................................... Teologia ed esperienza................................... La difficoltà delle riforme liturgiche..................... 186
195
199
209
212
4. Conclusione................................................. 218
VI. La missione –
anamnesis grata e gioiosa del regno....................... 220
7
1. Il contesto della missione.............................. La fine delle “società cristiane”......................... Prigionieri dei riduzionismi.......................... 2. Con la memoria dell’escatologia................... Dove nasce l’imperativo missionario................... La Chiesa come pienezza escatologica
donata al mondo per essere
sacramento di redenzione e salvezza........... Il paradigma della liturgia............................ 3. Il campo della missione................................ Dalla memoria cultuale alla memoria esistenziale:
il tutto della vita....................................... La liturgia, una bellezza
che crea nostalgia e pentimento.................. Celebrazione e catechesi liturgica.................... L’orizzonte ecclesiale del ministero pastorale...... L’ambito della persona................................ Una memoria che diventa gioia trasformante...... 4. Conclusione................................................. 221
221
224
228
228
230
234
238
238
239
242
250
251
257
263
Considerazioni conclusive......................................... 265
Bibliografia cronologica di Alexander Schmemann... 272
Appendice: A. Schmemann, “Tre immagini”.......... 287
8
Questo libro è il frutto della ricerca per la tesi di dottorato in
teologia dogmatica e sacramentaria che ho conseguito ai primi di
gennaio del 2013 presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma.
Durante gli anni di studio ho piú volte sentito dire dai professori e
dagli ex dottorandi che mai un dottorato può essere il lavoro di una
sola persona. Ci sono infatti i professori, gli studenti tuoi colleghi,
il corso di seminario di preparazione al dottorato, gli amici che ti
sostengono umanamente e moralmente, e magari con qualche consiglio pratico. Cosí, il giorno della difesa della tesi ho avuto proprio
la sensazione di un evento e di una festa comunitari. Desidero quindi
ringraziare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, mi hanno aiutato in quest’impresa.
Oltre ai professori, all’ambiente accademico dove sono stato
accolto e dove mi è stato reso possibile studiare, la mia profonda
gratitudine va anzitutto all’équipe del Centro Aletti e, in particolare, al suo direttore p. Marko Ivan Rupnik che ringrazio per il suo
sostegno umano e di preghiera e per la sua lunga amicizia fraterna.
Ringrazio i confratelli e le sorelle del Centro Aletti che hanno letto
e corretto la tesi e ne hanno resa possibile la pubblicazione.
In modo particolare vorrei ringraziare il direttore della mia tesi, il
professor Thomas Pott, monaco del monastero di Chevetogne, che
mi ha sollecitato vivamente lungo tutto il periodo della sua stesura
a cogliere la profonda bellezza del mondo liturgico orientale. Lo
ringrazio per aver instancabilmente seguito lo svolgimento del mio
lavoro orientandomi pazientemente per evitare lo sconfinamento
oltre i margini di un’impostazione propriamente accademica del
lavoro stesso.
Vorrei dedicare questo lavoro soprattutto al caro card. Tomáš
Špidlík. Come membro della comunità del Centro Aletti, sono stato
accanto al card. Špidlík negli ultimi anni della sua vita. Era già molto
9
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
VI. La
missione
–
anamnesis grata e gioiosa del regno
L’ultimo capitolo affronta la questione della Chiesa nel mondo di
oggi. Una Chiesa che deve ridefinire la propria identità missionaria
alla luce delle sfide che impone oggi il secolarismo. L’oriente e l’occidente cristiani non sono di per sé terre missionarie e si definiscono
piuttosto (o meglio si definivano fino a poco tempo fa) come culle
del cristianesimo stesso. Eppure ci troviamo di fronte a una radicale
scristianizzazione, a tal punto che non è piú sufficiente per la Chiesa
fare appello ad un tessuto sociale presumibilmente e potenzialmente
ancora cristiano nella sua essenza, caratteristico un tempo di quelle
società che nel passato cristianizzarono il mondo.
È evidente che qui il ruolo della memoria assume un’importanza
decisiva e che, vista la serietà della crisi, esso ci interroga non solo sui
modi, ma soprattutto sui contenuti della memoria stessa. È necessario
anzitutto chiederci che cosa abbiamo dimenticato, per poi interrogarci su come questo è avvenuto. E proprio per questo l’importanza
del ruolo della memoria non è dovuto ai “successi” del passato, ma
alla sua indole vitale, contenutistica, per la vita della Chiesa e del
singolo battezzato in un’ottica essenzialmente sacramentale della
missione della Chiesa: la Chiesa come sacramento della presenza del
regno nel mondo.
Il ruolo educativo della liturgia è essenzialmente quello di introdurci nell’anamnesi eucaristica dove avviene l’incontro, dove ci
innalziamo al regno, dove ci viene data la gioia che nessuno può toglierci. Questi sono aspetti imprescindibili dell’attitudine pastorale e
missionaria della Chiesa di ieri e di oggi, non perché la Chiesa abbia
220
221
una visione statica del mondo, ma, al contrario, perché non cede alla
tentazione di non credere piú alla promessa di una presenza continua
e fedele del suo Signore dentro di lei. Questa presenza fedele non è
il termine ultimo della nostra storia, ma per i battezzati, cioè per la
Chiesa, ne costituisce il termine primo, la sua possibilità.
Dopo aver visto nei capitoli precedenti l’importanza del ruolo della memoria sia per la fede della Chiesa e del singolo battezzato, sia per
la liturgia e la teologia, ci soffermiamo adesso sulla sua importanza per
la Chiesa nel mondo di oggi. Ripercorriamo quindi con Schmemann
l’analisi critica dell’attualità, delle sue sfide, e dell’identità missionaria
della Chiesa, per concludere sull’importanza e sul significato della
memoria anche per una pastorale indirizzata alla persona.
1. Il contesto della missione
La fine delle “società cristiane”
Analizzando i vari problemi che la Chiesa ortodossa russa del suo
tempo deve fronteggiare, Schmemann sottolinea che, da qualsiasi
parte essi si esaminino, si tratta sempre della questione del suo destino in un mondo radicalmente diverso da quello che ha plasmato la
sua mentalità e il suo stile di vita, in altre parole del collasso di quel
mondo ortodosso che solo pochi decenni prima appariva come il
nido autoevidente, naturale e permanente della Chiesa. Sia la persecuzione del regime sovietico totalitario, che ha scagliato contro
la Chiesa il suo attacco violento, sia la crescita in occidente di una
diaspora ortodossa significano la fine di quella
correlazione organica e la mutua integrazione della Chiesa con
una società, una cultura, un modo di vita plasmato e nutrito
dalla Chiesa che fino ad un tempo abbastanza recente era il
modo essenziale e, di fatto, il solo della relazione della Chiesa
ortodossa con il “mondo” […] Di conseguenza, il significato
fondamentale della nostra crisi attuale è che il mondo in cui
la Chiesa ortodossa deve vivere oggi, sia all’est che all’ovest,
non è il suo mondo, neanche un mondo “neutrale”, ma un
mondo che la sfida nella sua stessa essenza, un mondo che
cerca consciamente o inconsciamente di ridurla a valori, fi-
222
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
losofie di vita e visioni del mondo profondamente diverse, se
non totalmente opposte, alla sua visione ed esperienza di Dio,
dell’uomo e della vita.1
Al di là delle cause che hanno provocato questo cambiamento
radicale per la Chiesa russa, si potrebbe ripetere lo stesso anche per
le Chiese nel mondo occidentale, che soffrono ormai di questa estraneità rispetto al contesto nel quale vivono. Paesi che fino a pochi
decenni fa erano considerati – anche per bocca dei loro pastori – la
roccaforte del cattolicesimo, vedono sempre piú erodersi la consistenza delle comunità cristiane, sia in termini numerici che in termini di significatività dentro il loro stesso ambiente sociale e culturale.
Di fronte a questa crisi evidente, si può reagire in tanti modi.
Alcuni vanno avanti come se niente fosse accaduto, continuando
ad esprimersi secondo una retorica fatta di trionfalismo e di autogiustificazione che concepisce la realtà rimpiazzandola con una
pseudo-realtà di desiderio, e perciò semplicemente sfuggono ai
problemi che la realtà vera solleva.
Un tale atteggiamento può coesistere anche con quello che adduce – non senza una qualche giustificazione – le difficoltà incontrate
alle forze oscure del secolarismo, del materialismo e dell’ateismo,
senza tuttavia domandarsi perché e come accada tutto ciò che accade, senza quindi mettere in questione il passato, cioè una mitica
“età dell’oro” della Chiesa che non solo nella retorica ufficiale, ma
ad un livello piú profondo nella mentalità dei cristiani costituisce
il termine di riferimento di tutti i “ritorni” e di tutte le nostalgie.
Ciò è legato alla confusione fondamentale sul vero contenuto della
“eredità” cristiana, e con ciò della tradizione stessa.2
Se la Chiesa ortodossa sembra incapace di discernere la situazione radicalmente nuova in cui essa vive, se è inconsapevole
del mondo nuovo che la circonda e che la sfida, è perché
continua a vivere in un “mondo” che, sebbene non esista piú
da tempo, ancora plasma e determina la sua coscienza. Da qui
il tragico nominalismo che permea l’intera vita della Chiesa
223
e le impedisce di compiere la sua missione essenziale, il suo
compito di giudicare, valutare, ispirare, cambiare, trasformare
tutta la vita dell’uomo, di generare quella tensione creativa tra
se stessa e il mondo che la rende il “sale della terra”.3
Sollevare domande vuol dire quindi pure valutare il passato e
chiedersi se i semi di corruzione e di decadenza – e anche una sorta
di tragico tradimento di qualcosa di essenziale al cristianesimo – siano
stati all’opera già da lungo tempo nei paesi cristiani, rendendo inevitabile il collasso spettacolare e quasi istantaneo al quale assistiamo oggi.4
Un’altra tendenza sta invece in una resa progressiva e spesso
inconscia della coscienza cristiana ad una visione del mondo e ad
uno stile di vita secolarizzati. E questa resa non riguarda solo la vita
“secolare”, la vita oltre le mura della Chiesa, ma anche la stessa
vita della Chiesa, il suo approccio alla fede, alla liturgia, all’amministrazione parrocchiale, al ministero pastorale, all’educazione, alla
missione…5 Il tentativo di avvicinare la vita di fede alle necessità,
alle concezioni, al linguaggio e alle esigenze del mondo attuale, che
sembra per molti la soluzione a tutti i mali, ma senza una trasmissione organica che comunichi l’esperienza della vita nuova all’interno
delle nuove categorie, si risolve sempre piú evidentemente non in
un avvicinamento del mondo alla Chiesa, ma in una secolarizzazione
della Chiesa stessa.6 È in questa prospettiva che si comprende l’opposizione di Schmemann, ad esempio, alla priorità data alla giustizia
sociale e alla psicologia nell’opera teologica e pastorale. Le sue parole
nell’Introduzione a L’Eucaristia, sacramento del Regno sono sferzanti:
Ora, non è esagerato dire che viviamo un’epoca terribile
e spiritualmente pericolosa. E questo non soltanto a causa
dell’odio, delle discordie, del sangue che viene versato, ma
soprattutto a causa di una ribellione crescente a Dio e al suo
3
Ibid., 29-30.
4Cf ibid., 11-3. Schmemann si fa queste domande per la Russia ortodossa,
messa in crisi dall’intelligencija da cui è nata poi la rivoluzione, ma lo stesso, mutatis
mutandis, si potrebbe chiedere per la Chiesa in occidente.
5Cf ibid., 13-4.
1Schmemann, Chiesa, 21-3.
2Cf ibid., 29-30, ma anche 21-2.
6
Cf Schmemann, “Problems II”, 165-6, ma anche Schmemann, Mondo, 19-20
e 141-3.
224
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
regno. Ormai la misura di tutte le cose non è piú Dio, ma
l’uomo. Non è piú la fede, ma l’ideologia, l’utopia a determinare la condizione spirituale del mondo. A partire da un
certo momento sembra che il cristianesimo occidentale abbia
accettato questa prospettiva: è comparsa quasi all’improvviso
una “teologia della liberazione”, mentre le questioni di ordine
economico, politico, psicologico hanno sostituito la concezione
cristiana di un mondo al servizio di Dio.7
Inutile dire che proprio questa prospettiva è uno degli aspetti del
suo pensiero piú ampiamente criticati.8 Ma, per Schmemann, “per
salvare il mondo dalle ingiustizie sociali, bisogna anzitutto non tanto
scendere nelle sue miserie, quanto avere alcuni testimoni in questo
mondo della possibile ascesa”.9
trasformazione della religione stessa. Essa può conservare anche tutte
le sue forme tradizionali, ma si tramuta inevitabilmente in un’altra
cosa. Il secolarismo cosí come si è venuto affermando nel mondo
occidentale normalmente non è mai contro la fede, e fa in modo che
la religione si configuri in maniera da confermare i valori, l’ethos e lo
stile di vita sociale. Deve incontrare i bisogni, consolare, incoraggiare
ciò che il consumatore domanda o si aspetta. Nessuna espressione è
piú usata in un contesto secolarizzato nei confronti della religione
che la parola “aiuto”.
“Aiuta” pregare, andare in chiesa, appartenere ad un gruppo
religioso (“… e non mi interessa quale sia”, diceva il presidente
Eisenhower, che può essere considerato veramente l’“icona”
del secolarizzato religioso), “aiuta”, in breve, “avere una religione”. E poiché la religione aiuta, poiché è un fattore cosí
utile nella vita, deve a sua volta essere aiutata.13
Prigionieri dei riduzionismi10
Schmemann dedica ad un’analisi dettagliata dei problemi pastorali
della sua Chiesa l’articolo “Problems of Orthodoxy in America”,11
dove con estrema lucidità coglie come entrambe queste tendenze –
quella “tradizionalista” e quella “modernista” – sono in realtà prigioniere dello stesso male, che è quello di non considerare il cristianesimo
come la memoria viva della qualità nuova di esistenza che Cristo ci ha
donato e con cui ci mette in continua comunione. Ciò si risolve in una
“capitolazione culturale” che genera tanti riduzionismi che, per quanto estremi possano sembrare, possono coesistere negli stessi soggetti.12
L’accettazione esistenziale del secolarismo – anche se a parole
possiamo affermare che non sia cosí – significa infatti una totale
7Schmemann, Eucaristia, 5.
Con ciò si determina una sorta di progressiva resa inconscia al
secolarismo che provoca una vera e propria riduzione della fede che
la rende qualcosa di esterno, a spese della vita personale, o qualcosa
di estremamente intimo e individuale a spese della vita stessa, che
con ciò non si considera piú oggetto dell’azione di influenza della
fede. Questa fede può essere compresa come un credo da sottoscrivere
formalmente – in verità anch’esso sempre piú messo in questione –,
un culto a cui partecipare, un minimo di prescrizioni da osservare per
sentirsi “religiosi”, ma niente di tutto questo è collegato alla vita, accolto e accettato come fondamento, sorgente, struttura di quella vita
nuova che è al cuore del Vangelo. Ci possono essere fedeli e parroci
tradizionalisti, altri progressisti, ma la differenza e l’opposizione tra di
loro è di interessi, piuttosto che di qualità di vita e riguarda lo scopo
a cui è soggetta questa riduzione.
8
Ad esempio da Morrill, soprattutto nei capitoli finali del libro, dove pone le
figure di Schmemann e di Johann Baptist Metz a confronto.
9
Se l’ortodossia non fa presente la totalità della vita, non giudica, sfida, illumina e aiuta a cambiare e a trasformare tutti i suoi
aspetti, allora la “vita” è inevitabilmente governata da un’altra
“filosofia di vita”, da un altro insieme di principi morali e sociali. E questo è proprio ciò che è accaduto alla nostra Chiesa
in America. Generazione dopo generazione, anno dopo anno,
“Sacrificio e liturgia” in Schmemann, Tradizione, 165.
10 Il termine “riduzionismo” è utilizzato anche in Schmemann, Eucaristia, 264.
In Schmemann, “Problems II”, 166, lo intende come quell’approccio che “invece di
vedere il problema in tutta la sua complessità e profondità, lo riduce ad un solo aspetto,
benché importante, e lo considera come l’insieme del problema”.
11Cf supra nota 132, cap. 5.
12
Cf Schmemann, “Problems III”, 182.
225
13
Ibid., 174.
226
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
al nostro popolo è stato insegnato che l’ortodossia consiste
nella partecipazione regolare alle liturgie, il cui significato
non è rivelato; nel custodire un minimo di regole puramente
esteriori; e, soprattutto, nel dare il proprio contributo alle proprie chiese. Nessuna meraviglia che essi abbiano naturalmente
accettato per ogni altro aspetto nella loro esistenza quella
“filosofia di vita” che è comune a tutta la società nella quale
vivono e lavorano. Che questa visione del mondo ottimista,
progressista e fondamentalmente edonistica possa essere in
conflitto con la loro religione non entra neanche nella loro
mente perché nessuno ha loro menzionato neanche la possibilità stessa di un tale conflitto. Al contrario, le loro stesse
guide religiose l’hanno pienamente approvata, a patto che i
“doveri” religiosi menzionati sopra siano adempiuti, a patto
che quell’ortodossia nominale sia mantenuta.14
Ma siccome, continua Schmemann, dato che una semplice coesistenza della religione con una filosofia di vita ad essa estranea è
impossibile, se la religione non controlla la filosofia di vita, sarà la
filosofia di vita a controllare inevitabilmente la religione e a subordinarla ai suoi stessi valori. Si comincia con l’essere fedeli in Chiesa
e secolarizzati nella vita e si finisce per diventare secolarizzati anche
nella Chiesa. E cosí anche i criteri di riferimento per la stessa vita
ecclesiale funzionano secondo logiche totalmente immanenti.
Nessuna meraviglia allora se la Chiesa “reale”, mentre offre
un rispetto verbale alla teologia – ed oggi è anche diventato
abbastanza di moda citare i Padri e la Filocalia ed avere libri
su Bisanzio nella propria biblioteca –, praticamente la ignori
nella sua vita “reale”. E i primi ad ignorarla sono proprio i
membri del clero, il cui ruolo e la cui funzione nella Chiesa
li rendono particolarmente “realistici”. Non è straordinario,
per un sacerdote che abbia scritto la sua tesina di diploma in
seminario su san Massimo il Confessore o sulla controversia tra
grazia “creata” e “increata”, cercare aiuto e guida nel suo lavoro
pastorale in teorie di psicoterapia e in tecniche cliniche derivate
da una visione dell’uomo totalmente diversa da quella presupposta da san Massimo o dalla dottrina ortodossa sulla grazia. La
cosa addirittura piú straordinaria è che di solito egli non vede
nessuna incompatibilità o conflitto tra questi due approcci, tra
il dogma contenuto nei libri teologici e la pratica che si impara
dalla sapienza “di questo mondo” dimostrata scientificamente.
La situazione è complicata, ma in realtà non alterata in modo
significativo, dalla nuova ondata di religiosità, di appassionato
interesse per la “spiritualità” e il “misticismo” che sembra subentrare oggi a quei movimenti manifestamente esauritisi della
“morte di Dio”, del “cristianesimo secolare” e dell’“impegno
sociale”. Molti l’hanno salutata come il segno di un genuino
risveglio religioso, di un decisivo collasso del secolarismo. E,
in termini di ricerca, di “fame e sete” di un’autentica esperienza religiosa, questo può anche essere vero. Eppure, come
non vedere che, ad un livello piú profondo, questa ondata e
questa esperienza rimangono disperatamente condizionate
dall’individualismo, dal narcisismo e dall’egocentrismo che
costituiscono gli epifenomeni “religiosi” del secolarismo
stesso, dell’antropocentrismo che gli è intrinseco. Il sacerdote
che ieri si misurava con il grande idolo della nostra società – il
terapeuta – accetterebbe ora felicemente il ruolo di “staretz”,
ma senza notare che tale cambiamento di titoli e di “simboli”
di fatto non cambia niente nella situazione religiosa stessa.15
Allo stesso modo la parrocchia, piuttosto che essere al servizio
della manifestazione della realtà della Chiesa, diventa un fine in se
stessa, una realtà burocratica, un’organizzazione amministrata da funzionari, statuti, finanze, proprietà, doveri, elezioni, ecc., gestita come
un club etnico, un’associazione di volontariato o un found-raising,
e il compito del sacerdote diventa quello di un amministratoreesecutore, di un impiegato o di un terapeuta. Ed è con tutta sincerità
che la gente vede nella Chiesa un’istituzione che debba soddisfare ai
loro bisogni, riflettere i loro interessi, servire i loro desideri e adattarsi al loro modo di vita. Ed è ancora in buona fede che rigettano
come impossibile ogni cosa che nella Chiesa non si adatta o sembra
contraddire questa loro visione.16
Ma quando persone ben intenzionate e responsabili dichiarano in
tutta sincerità che buona parte della vita cristiana è impossibile perché
non si adatta alla loro vita, e quando una buona parte di vescovi,
sacerdoti e laici concorda con loro, e quando ciò che è dichiarato
15Schmemann, Chiesa, 35-6.
14
Ibid., 176.
227
16
Cf Schmemann, “Problems III”, 175-6.
228
La porta dell’eternità
impossibile non è qualcosa di secondario e di condizionato storicamente, ma appartiene all’essenza stessa del cristianesimo, è giunto il
momento, afferma Schmemann, di farsi una domanda: qual è il misterioso ostacolo che rende impossibile ai cristiani di essere cristiani?17
2. Con la memoria dell’escatologia
Dove nasce l’imperativo missionario
Il fatto è che tutti questi approcci, afferma Schmemann, pur
essendo tanti modi di fronteggiare una crisi percepita, non colgono come ogni crisi, come attesta la parola stessa nel suo significato
etimologico, è sempre un giudizio, una situazione che richiede di
discernere la volontà di Dio e il coraggio di obbedirle.18 Sono sempre
una grazia per la Chiesa, afferma Schmemann, i momenti in cui Dio
le ricorda che “‘questo mondo’, persino quando si definisce cristiano, in realtà è in contrasto con il Vangelo di Cristo, e che questa
‘crisi’ e la tensione da essa creata sono, dopo tutto, il solo modo ‘normale’ della relazione della Chiesa con il mondo, con ogni mondo”.19
La crisi viene allora a ricordare che la fede cristiana è escatologica,
che la natura della Chiesa appartiene alla fine e che essa, fin dal suo
primo giorno – il giorno di Pentecoste – ha vissuto negli ultimi giorni, nella luce del regno, e che la sua vita nella sua realtà piú profonda
è “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). Ma ciò significa anche che
“è precisamente la sua conoscenza e la sua costante partecipazione
alla ‘fine’ che collega la Chiesa al mondo, [che] crea la correlazione tra
il già e il non ancora che è l’essenza stessa del suo messaggio al mondo
ed anche la sola fonte della ‘vittoria che ha vinto il mondo’”.20
17Cf ibid., 173.
18 A questo proposito cf M. I. Rupnik, “La lettura spirituale della realtà”, in
Teologia pastorale. A partire dalla bellezza, edd. T. Špidlík e M. I. Rupnik, Lipa, Roma
2005, 25-35.
19Schmemann, Chiesa, 24.
20
Ibid.
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
229
E altrove afferma:
Sono sicuro che il rinnovamento autentico della Chiesa debba
iniziare da un movimento di rinnovamento dell’eucaristia, ma
nel significato pieno dell’espressione […] La Chiesa non è
un’istituzione, è il nuovo popolo di Dio. Il cristianesimo non
è una religione cultuale, è la Liturgia che abbraccia tutta la
creazione di Dio; non è una dottrina delle realtà ultime, è l’incontro gioioso con il regno di Dio. La Chiesa è il sacramento
del mondo, il sacramento della salvezza e dell’instaurazione
di Cristo come Re.21
Questo permette a Schmemann di asserire che la Chiesa ortodossa ha una implicita visione missionaria. Quando in passato la si è
giudicata a partire dal grande movimento missionario che ha segnato
la Chiesa in occidente in epoca moderna, la Chiesa ortodossa è sembrata estranea a questo dinamismo. Anche se una panoramica storica
delle missioni ortodosse in anni piú recenti ha corretto e sfumato
tale affermazione,22 Schmemann non si riferisce a questo aspetto, ma
vede come proprio la memoria escatologica concessa nella liturgia
contenga l’“imperativo missionario” della tradizione ortodossa, perché è lí che si coglie il rapporto tra missione e vita, tra vita e visione
spirituale d’insieme,23 anche se tale imperativo è difficile da spiegare
e formulare, perché spesso ciò è fatto a partire da domande poste
in termini “occidentali”, che cioè portano il segno dell’esperienza e
dello sviluppo propri alla Chiesa in occidente.
21Schmemann, Eucaristia, 331-2.
22 Cf J. Glazik, Die Russisch-Orthodoxe Heidenmission seit Peter den Grossen:
Ein missionsgeschichtlicher Versuch russichen Quellen und Darstellung, Münster 1954;
Id., Der Islammission der Russisch-Orthodoxen Kirche, Münster 1959. Ved. anche N.
Struve, “Orthodox Missions in Past and Present”, SVSQ 7 (1963) n. 1, 31-42; I.
Ševčenko, “Religious Missions Seen from Byzantium”, Harvard Ukrainian Studies 1213 (1988-1989) = Proceedings of the International Congress Commemorating the Millennium
of Christianity in Rus’-Ukraine, ed. O. Pritsak, I. Ševčenko, M. Labunka, 7-27 e V.
Vavrinek, “The Introduction of the Slavonic Liturgy and the Byzantine Missionary
Policy”, in Beiträge zur byzantinischen Geschichte im 9.-11. Jahrhundert, ed. V. Vavrinek,
Praha 1978, 255-81.
23 Cf “The Missionary Imperative”, in The Theology of the Christian Mission, G.
H. Anderson (ed.), McGraw-Hill, New York 1961, 250-7, ripubbl. come cap. 11 di
Schmemann, Chiesa, 292-302.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La Chiesa come pienezza escatologica donata al mondo per
essere sacramento di redenzione e salvezza
nel rendere trasparente questa sua realtà e ha la funzione esclusiva di
mettere la Chiesa in grado di raggiungere il proprio compimento
nel regno. Ciò significa che non esiste separazione né divisione, fra
Chiesa invisibile (in statu patriae) e Chiesa visibile (in statu viae), tra
contenuto della Chiesa e struttura della Chiesa, poiché la seconda
è attualizzazione ed espressione della prima, segno sacramentale
della sua realtà e ha la sua ragion d’essere solo in questo. Se ciò
deve continuamente far interrogare sulla trasparenza delle forme e
delle strutture della Chiesa visibile riguardo a questo contenuto di
vita interiore che essa porta dentro, evidenzia anche il valore unico,
ecclesiologico, centrale dell’eucaristia. Proprio perché, come abbiamo visto, nell’eucaristia la Chiesa “diventa ciò che è”,27 dato che
qui raggiunge il proprio compimento come corpo di Cristo, come
parusia divina, presenza e comunicazione del Signore e del suo regno
e porta a compimento il passaggio da questo mondo a quello futuro,
l’ecclesiologia ortodossa è un’ecclesiologia eucaristica.
Di conseguenza, non solo c’è una continuità tra la centralità sacramentale tipica dell’Ortodossia e la missione, ma è questa stessa realtà
sacramentale a far scaturire l’imperativo della missione, dal momento
che in tale visione la missione diventa “la fruizione di questa pienezza
eucaristica nel tempo di questo mondo”.28 La missione della Chiesa è
cioè l’accettazione del dono divino e l’adeguarsi alla pienezza escatologica del dono, di cui essa costituisce il segno sacramentale, fino alla
sua pienezza. È, cioè, la manifestazione e la comunicazione di questa
pienezza, la sua proiezione nel tempo e nello spazio di questo mondo.
Se, da un lato, nulla può essere aggiunto alla Chiesa, perché la
pienezza di cui gode è la pienezza di Cristo, la manifestazione e la
comunicazione di tale pienezza costituiscono la vita della Chiesa nel
tempo presente e quindi la sua missione.
230
Una teologia della missione è sempre il frutto dell’“essere”
totale della Chiesa, e non una mera specializzazione riservata
a coloro che ricevono una specifica vocazione missionaria.
Ma per la Chiesa ortodossa c’è un bisogno speciale di riflettere sulle motivazioni fondamentali della missione, perché il
suo supposto carattere non missionario è stato troppo spesso
spiegato e attribuito all’essenza stessa, al “santo dei santi”
dell’Ortodossia: al suo ethos sacramentale, liturgico e mistico.24
È possibile per una Chiesa che ha sempre posto al centro della
sua vita la liturgia e i sacramenti, con una spiritualità che è anzitutto
ascetica e mistica, essere autenticamente missionaria? E, se la risposta
è affermativa, dove si collocano, nella sua visione di fede, le motivazioni piú profonde che alimentano lo slancio della sua missione?
“Il cielo sulla terra”:25 questa espressione, familiare ad ogni ortodosso, ha detto per secoli il sentire fondamentale riguardo alla
Chiesa. Essa esprime anzitutto che la Chiesa è una realtà creata da
Dio e donata da Dio, la presenza della vita nuova di Cristo, la manifestazione del tempo nuovo dello Spirito. Come tale, la Chiesa
comunica il regno di Dio che si fa presente già da ora e viene comunicato agli uomini. La Chiesa è quindi una realtà escatologica,
poiché la sua stessa natura e la sua funzione essenziale consistono nel
manifestare e nel rendere presente in questo mondo l’eschaton, quella
realtà ultima di salvezza e di redenzione che sarà comunicata nella
sua pienezza alla fine dei tempi.
È questa pienezza escatologica, afferma Schmemann, dono di
Dio fatto alla Chiesa, a costituire la radice dell’“assolutismo ecclesiologico dell’Ortodossia”.26 Se la Chiesa è sacramento del regno,
tutta la sua struttura – gerarchica, liturgica, sacramentale – si giustifica
24Schmemann, Chiesa, 292-3.
25 L’espressione è di Germano di Costantinopoli: “La Chiesa è il cielo sulla
terra, dove il Dio dei cieli abita e si muove”: On the Divine Liturgy: The Greek Text with
Translation, Introduction and Commentary, ed. P. Meyendorff, Crestwood, NY 1984, 56, 58.
26Schmemann, Chiesa, 296.
231
Il giorno di Pentecoste, quando la pienezza della Chiesa fu
realizzata una volta per tutte, ebbe inizio il tempo della Chiesa,
l’ultimo e cruciale segmento della storia della salvezza. Sul
piano ontologico, l’unico elemento di novità, e perciò l’unico
27Schmemann, Mondo, 36.
28Schmemann, Chiesa, 297.
232
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
contenuto soteriologico di questo segmento, è proprio la missione:
la proclamazione e la comunicazione dell’escathon, che è già
l’essenza della Chiesa, la sua sola essenza. È la Chiesa come
missione che conferisce al tempo presente la sua autentica
pregnanza e alla storia il suo significato. Ed è la missione che
rende valida la risposta umana nella Chiesa, facendoci veri
cooperatori dell’opera del Cristo.29
Questa risposta, secondo Schmemann, comporta due aspetti.
Il primo aspetto è la crescita nella santità, sia del singolo cristiano che dell’intera comunità, la trasformazione dell’uomo vecchio
nell’uomo nuovo portato con sé da Cristo presso Dio nella sua
ascensione gloriosa (cf Ef 4,8). La grande importanza nelle Chiese
orientali del monachesimo come icona paradigmatica della vita battesimale non è altro, in questa prospettiva, che una
In che cosa consiste questo rapporto con l’uomo e con il mondo
come oggetto della missione? Si tratta anzitutto non dell’uomo preso isolatamente, separato dal mondo in una maniera artificialmente
“religiosa”, né del “mondo” come entità nella quale l’uomo sarebbe
solo una “parte”. Nella visione cristiana, l’uomo è l’oggetto essenziale della missione, ma questa affermazione non ha alcuna sfumatura
individualistica o spiritualistica.
La Chiesa […] è vita nuova, e per questo redime tutta la vita umana, l’essere globale dell’uomo. Questa totalità dell’uomo è proprio il mondo nel quale e del quale egli vive. Mediante l’uomo,
la Chiesa salva e redime il mondo. Si potrebbe dire che “questo
mondo” è salvato e redento ogni volta che un uomo risponde
alla grazia divina, accetta e vive di essa. Ciò non trasforma il
mondo nel regno o la società nella Chiesa. L’abisso ontologico
fra il vecchio e il nuovo rimane immutato e non può essere colmato
in questo “eone”. Il regno deve ancora venire, e la Chiesa non è
di questo mondo. Ma questo regno che deve venire è già presente, e la Chiesa è già pienezza in questo mondo. La Chiesa e il
regno sono presenti non solo come “proclamazione”, ma nella
loro autentica realtà, e attraverso l’agape divina, che ne è il frutto,
Chiesa e regno compiono ogni volta la medesima trasformazione
sacramentale di ciò che è vecchio nel nuovo, rendono possibile
un’azione reale, un “fare” autentico in questo mondo.32
espressione dell’escatologismo cristiano delle origini, cioè l’affermazione che il cristianesimo appartiene ontologicamente alla
vita del “mondo che verrà”, la negazione di qualsiasi dimora
permanente e di ogni identificazione con questo mondo.30
Il secondo aspetto della missione come adeguamento della Chiesa
in statu viae alla sua pienezza escatologica, quindi della sua risposta al
dono che le è conferito di tale pienezza, riguarda il suo rapporto con
l’uomo e con il mondo, perché questa pienezza è donata al mondo per
essere salvezza e redenzione.
La natura escatologica della Chiesa non è negazione del
mondo, ma, al contrario, affermazione e accettazione del
mondo come oggetto dell’amore divino. O, in altre parole,
tutto l’“essere di un altro mondo” della Chiesa non è altro se
non il segno e la realtà dell’amore di Dio per questo mondo,
la condizione stessa della missione della Chiesa per il mondo.
La Chiesa non è dunque una comunità “autoreferenziale”,
ma precisamente una comunità missionaria, il cui scopo è la
salvezza del mondo, e non dal mondo. Nell’esperienza e nella
fede ortodosse, è la Chiesa-sacramento che rende possibile la
Chiesa-missione.31
29Schmemann, Chiesa, 299.
30
Ibid., 298.
31
Ibid., 298-9.
233
Tutto ciò dà alla missione della Chiesa una dimensione cosmica e
storica che è sempre stata essenziale nella tradizione e nell’esperienza
ortodosse, perché nel processo di inculturazione le culture cristiane
orientali locali sono state create non perché il cristianesimo si adattasse al contesto che esso trovava nella sua diffusione, ma perché
l’innesto e l’accoglienza del cristianesimo portarono alla creazione
di una nuova cultura di cui la fede cristiana era il cuore.33
32
Ibid., 301-2.
33 Cf a questo proposito R. Taft, “The Missionary Effort of the Eastern
Churches as an Example of Inculturation”, in Le Chiese orientali e la missione in Asia.
Riflessioni in preparazione dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi, ed. Congregazione
per le Chiese Orientali, Città del Vaticano 1998, 28-45, ripubbl. in italiano in Id., A
partire dalla liturgia, 105-26.
234
Stato, società, cultura, la natura stessa, sono oggetto reale della
missione e non un ambito neutrale in cui l’unico compito della
Chiesa sarebbe quello di conservare la propria libertà interiore,
mantenere la sua “vita religiosa”. Ci vorrebbe un libro intero
per raccontare la storia della Chiesa ortodossa da questo punto
di vista: la sua concreta partecipazione a società e culture per le
quali l’Ortodossia è diventata l’espressione globale di tutta la
loro esistenza; la sua identificazione con popoli e nazioni, pur
senza tradire il suo “essere di un altro mondo”, la comunione
escatologica con la Gerusalemme celeste. Sarebbe necessaria
una lunga analisi teologica per esprimere adeguatamente la
concezione ortodossa della santificazione della materia, o piú
precisamente l’aspetto cosmico della sua visione sacramentale.
Qui possiamo solo affermare che tutto questo è oggetto della
missione cristiana, perché ogni cosa è assunta e offerta a Dio
nel sacramento. Nella logica dell’incarnazione, niente rimane
“neutrale”, niente può essere sottratto al Figlio dell’uomo.34
Il paradigma della liturgia
L’eucaristia in questo senso non è solo il “luogo” in cui alla
Chiesa è donata questa pienezza escatologica che costituisce il motivo della sua esistenza, ma è anche l’atto che piú di tutti nella sua
vita manifesta il rapporto che passa fra la Chiesa come pienezza e la
Chiesa come missione. Nel rito eucaristico sono compresenti due
movimenti complementari, come abbiamo già visto: un movimento
di salita, di ascensione, e un movimento di ritorno.
L’eucaristia comincia come una elevazione al trono di Dio, un
viaggio verso il regno, un’ascesa al cielo con Cristo e in Cristo, dove
noi facciamo la nostra offerta in Lui. Questo primo momento, che
trova compimento nella consacrazione delle specie, segno che Dio
accetta la nostra eucaristia, è già “un atto di missione”.35 L’eucaristia
è l’adempimento da parte della Chiesa della sua funzione sacerdotale:
nel movimento di offerta verso l’altare c’è il corteo di tutto il mondo,
la riconciliazione dell’intera creazione con Dio, l’intercessione cosmica al cospetto di Dio. Tutto questo in Cristo, il Dio-uomo, l’unico
34Schmemann, Chiesa, 302.
35
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
Ibid., 300.
235
sacerdote della nuova creazione, “colui che offre ed è offerto”,36 come dice la Liturgia bizantina. L’accoglienza del mondo nell’offerta di
Cristo non significa ignorare la realtà del peccato e il fatto che, a causa
sua, questo stesso mondo non è piú la realtà buona uscita dalle mani
di Dio il primo giorno della creazione. “Nessuno che sia legato alle
concupiscenze e ai piaceri carnali è degno di avere accesso, di accostarsi o di servire te, Re della gloria […] Tuttavia, per il tuo ineffabile
e smisurato amore per gli uomini […]”,37 afferma la preghiera del
celebrante prima del Grande Ingresso: il mondo che va verso l’altare
è questo stesso mondo corrotto, ma ammettendolo proprio lí nel
luogo sacro si compie la sua affermazione, lo si santifica e lo si pone
in rapporto con Dio come sua creazione pura e senza peccato. Per
questo il sacerdote, sempre nella divina Liturgia, conclude l’anamnesi
con queste parole: “Le cose tue da ciò che è tuo, a te offrendo in tutto
e per tutto”.38 Ma questo ingresso nel regno si compie grazie ad una
divisione salvifica, ad una totale separazione fra Chiesa e tale mondo
corrotto (“Le porte, le porte!”,39 proclama il diacono quando ha inizio
la preghiera eucaristica), ad una elevazione in cielo della Chiesa, per
entrare nello spazio del regno. Come abbiamo visto nella parte dedicata alla liturgia, l’ingresso nel regno passa attraverso la porta stretta
della rinuncia alla vita vecchia che in termini liturgici si esprimeva con
il battesimo, sempre collegato nella tradizione ecclesiale al sacrificio
e al martirio. L’ingresso nel regno significa la venuta degli “ultimi
giorni” (At 2,17), quando Cristo appare per il giudizio e l’eucaristia,
nella sua realtà escatologica, è il giudizio sul mondo. Come esplicita
Zizioulas, facendo tesoro della dimensione escatologica della liturgia
cosí ampiamente sviluppata da Schmemann,
La liturgia esprime un paradosso, operando l’affermazione e
la negazione del mondo, ovvero una trasfigurazione che non
distrugge il mondo, una rigenerazione che non crea dal nulla,
un rinnovamento che non è totale rigenerazione; questo pa36
Liturgia eucaristica bizantina, 85.
37
Ibid.
38
Ibid., 98.
39
Ibid., 93.
236
radosso è nell’eucaristia il farsi presente e visibile nel tempo e
nello spazio del mistero di Cristo, nel quale il vecchio Adamo
si rinnova senza distruggersi, la natura umana viene assunta
senza essere mutata, l’uomo viene deificato senza cessare di
essere uomo […] In una visione eucaristica del mondo non
esistono il naturale ed il soprannaturale; esistono la natura e la
creazione come un’unica realtà, che proviene da Dio e viene
offerta a Dio; esiste un incontro completo fino all’identità,
del celeste con la realtà terrena (“Noi che misticamente raffiguriamo i cherubini…”), un incontro nel quale Dio stesso
cessa di essere concepito “al di là” della natura e diviene nella
persona del Figlio “colui che siede in cielo con il Padre e che
è invisibilmente presente con noi”.40
Nella visione dell’eucaristia, il mondo riceve un significato
sacramentale e cessa di essere un campo separato dalla Chiesa.
La dicotomia tra sacro e profano che ha cosí profondamente
turbato la vita della Chiesa torna ad essere, alla luce della Bibbia,
una falsa dicotomia lasciata dietro all’eucaristia. La Chiesa vive
nel mondo (cf Gv 17,11) e nell’eucaristia prende il mondo e lo
riferisce a Dio come sacrificio stesso e risurrezione di Cristo.
Ma nel fare questo la Chiesa giudica il mondo, perché le mani
che prendono il mondo e lo offrono a Dio sono le mani dei
battezzati, cioè le mani di coloro che sono morti al mondo.
E l’offerta eucaristica del mondo presuppone che esso subisca
un proprio battesimo nelle mani dei battezzati – la sua morte e
risurrezione e una vita nuova. Una eucaristia non preceduta dal
battesimo è inconcepibile. Questo è il motivo per cui la Chiesa
non solo non cessa di ripetere la Chiamata di Dio per il mondo
al pentimento, ma anche, dal momento che è il sacerdote del
mondo, mantiene le “porte chiuse” fino al ritorno del Signore.41
Ma, una volta raggiunto lo stato di pienezza e consumato il banchetto del Signore nel suo regno, ha inizio il secondo movimento,
quello del ritorno nel mondo.42 Con il comando “Andiamo in pace”, il
celebrante lascia l’altare e conduce l’assemblea fuori dalla chiesa, perché diventi testimone nella vita ordinaria di questo suo essersi affacciata
sulla piazza d’oro del regno descritta nell’Apocalisse (capp. 21–22).
40Zizioulas, Creato, 77-8.
41
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
Id., World, 33.
42Schmemann, Chiesa, 300.
237
Se l’eucaristia è sempre fine, sacramento della parousia, allo stesso
tempo è sempre inizio, punto di partenza, perché è da lí che comincia la
missione. La vita e la luce che abbiamo gustato ci sono state date perché veniamo “trasformati” in testimoni di Cristo in questo mondo.
Se non saliamo al regno non abbiamo nulla da testimoniare. “Dove
non esiste ‘struggimento per Dio’, dove non c’è silenzio, memoria
della luce segreta, del misterioso ‘sapore’ della letizia, – Dio non
esiste, per quanta ‘pratica religiosa’ vi possa essere...”.43
È l’eucaristia che, trasformando la Chiesa in ciò che è, la fa diventare missione. La qualità della missione è determinata quindi dalla
memoria del futuro, perché è il regno che, dandoci una conoscenza
integrale del mondo – quella conoscenza che si è disintegrata con il
peccato divenendo solo sapere relativo al mondo, conoscenza obiettiva ed esteriore –, ci permette di conoscerlo dall’interno, ci offre
i criteri di discernimento rispetto alla sua realtà fenomenologica e,
facendocene conoscere la fine, ci permette anche di poter tratteggiare
la strada per giungervi. Non solo. Nel momento in cui nell’eucaristia assaggiamo la gioia del regno, è questa stessa gioia a ricordarci il
mondo e a farci pregare per lui. L’intercessione, come abbiamo visto
nel capitolo 4, è una grande parte della missione della Chiesa. È la
comunione con lo Spirito Santo a renderci capaci di amare il mondo
con l’amore di Cristo e con lo sguardo di Cristo. L’eucaristia è il sacramento dell’unità e il momento della verità – perché là noi vediamo
il mondo in Cristo – ed è a partire da qui, dopo che apparentemente
ce ne siamo liberati (ma in realtà ci siamo liberati di una mentalità
secolarizzata sul mondo) che lo recuperiamo in tutta la sua realtà.
La memoria del regno è quindi la condizione e il criterio del
discernimento rispetto al mondo perché ci permette di conoscerlo
dal punto di vista del suo stato definitivo, come è in Dio, ed è la
condizione e il criterio per ogni autentica pedagogia, ogni sforzo
educativo all’interno della Chiesa, che in questi termini si configura
come una iniziazione.44
43
44
33-34.
Schmemann, Dnevniki, 22 marzo 1973, 18.
Cf M.I. Rupnik, L’arte della vita. Il quotidiano nella bellezza, Lipa, Roma 2011,
238
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
3. Il campo della missione
Dalla memoria cultuale alla memoria esistenziale: il tutto
della vita
Per Schmemann, il cristianesimo esclude una mentalità secolarizzata. La religione secolarizzata può offrire alla vita standard etici,
aiuto e conforto, ma
non può trasformare la religione in vita, renderla una vita religiosa
il cui contenuto stesso è Dio e il suo regno. Cosí, ad esempio,
un uomo d’affari può credere in Dio e nell’immortalità della sua
anima, può pregare e trovare un grande aiuto nella preghiera,
ma una volta che è entrato nel suo ufficio ed ha cominciato a
lavorare, non suppone neanche che questo lavoro debba essere
“riferito” alle realtà religiose fondamentali della creazione, caduta
e redenzione, ma crede che sia “autosufficiente” o autonomo.45
Ma l’Ortodossia è una realtà omniabbracciante e sa che tutta
la vita non solo appartiene a Dio, ma deve essere trasformata in
comunione con Dio. Se nel cristianesimo occidentale si è potuta
avere anche una lettura positiva della secolarizzazione e vedere nel
mondo “mondanizzato” un esito della stessa fede cristiana che riduce gli spazi del falso sacro e i vincoli illegittimi di sudditanza che
esso pretendeva, a favore dell’autentica fede in Dio, è impossibile
non vedere oggi i danni che la secolarizzazione ha portato con sé,
chiudendo tutto dentro ad uno spazio immanente, capace anche di
creare categorie di un nuovo sacro dentro a questo proprio spazio
immanente. Ma per la fede non c’è nessun settore dell’attività o della
creatività umana, sia pure il piú “secolare” o “profano”, che possa
essere solo immanente, incapace di essere santificato, cioè trasformato in comunione con Dio.
che nell’incarnazione, morte, risurrezione e glorificazione
del Figlio di Dio tutta la vita, e non la sua parte “spirituale”
o “religiosa”, è ritornata a Dio e resa di nuovo vita in Dio.46
E il mezzo di questa santificazione della vita e del mondo è
proprio la liturgia. Dov’è infatti la fonte della forza sovrannaturale
indispensabile per vivere nel mondo come cristiani? Nel sacramento
della Chiesa, nell’avvenimento eucaristico, che offre l’esperienza
della comune partecipazione alle “potenze del mondo futuro” (Eb
6,5) che si comunicano attraverso l’unione sacramentale con il Capo
della Chiesa, Cristo.
Con la liturgia, infatti, noi non solo “siamo messi in contatto”
con Dio, ma lí ci è data la visione del regno come compimento in
Dio di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che ha creato per sé, e ci è data anche la partecipazione a questa realtà. E dopo aver visto e gustato
come “il cielo e la terra sono pieni della sua gloria” possiamo allora
collegare tutta la vita, ogni nostra attività, tutto il tempo che viviamo a questa visione e a questa esperienza, giudicare e trasformare la
nostra vita sulla base di essa. Il mondo diventa sacramento, appunto.
È pertanto il fatto che la liturgia appartiene ad un altro mondo che fa
di essa un vero potere di trasformazione di questo mondo.47
La liturgia, una bellezza che crea nostalgia e pentimento
Schmemann è cosciente che la stessa Ortodossia non sempre ha
testimoniato la capacità di trasformare l’esistenza umana sulla base di
questa memoria escatologica. Sicuramente, da questo punto di vista,
ci sono stati molti peccati e mancanze nelle società “ortodosse”, ma
la soddisfazione di sé non era mai uno di essi. Verso la fine
del periodo bizantino, era come se tutta la Chiesa si fosse
rivestita del nero abito monastico e avesse preso la strada del
pentimento e dell’autocondanna. Quanto piú forte diventava
la vittoria esteriore della Chiesa e piú solenni, ricche e magnificenti le forme esteriori del bizantinismo cristiano, tanto piú
risuonava fortemente questo grido di pentimento, la supplica
Non si tratta di un ottimismo ingenuo, perché l’Ortodossia
sa e afferma che il compimento di tutta la santificazione è nel
regno, che è oltre questo mondo. Sa e afferma che qui non
c’è altra via per questo compimento se non la “via stretta”
della rinuncia e del sacrificio. Ma afferma con eguale certezza
46
45
Schmemann, “Problems II”, 172.
239
Schmemann, “Problems II”, 173.
47Cf Ibid.
240
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
per il perdono: “Ho peccato, ho trasgredito la legge” […] Da
una parte, la bellezza e lo splendore senza pari di Santa Sofia;
il ritmo sacro, simile alla misura dell’eternità, del mistero liturgico che rivelava il cielo sulla terra e trasformava il mondo
sempre piú nella sua originaria bellezza cosmica; dall’altro
l’amara tristezza e realtà del peccato, la coscienza della costante
caduta – tutto questo era l’intuizione piú profonda di questo
mondo e il frutto della Chiesa dentro di esso.48
Questo significa che tutta la vita, se non era trasfigurata, era almeno vista e giudicata alla luce del regno, cosí come esso si manifesta
e si comunica nella liturgia e che questa visione accendeva “una
fame e una sete non solo per le ‘cose giuste’, ma per la perfezione
totale annunciata dal vangelo e, inoltre, la certezza che, se non per
la debolezza e il peccato, quella perfezione è il solo destino degno
dell’uomo, l’‘immagine della ineffabile gloria di Dio’”.49
La tragedia di oggi è che la liturgia ha smesso di essere collegata alla
vita nella sua totalità, di servire nel vero senso come santificazione della
vita. E questo non perché ci siano peccatori piú grandi che nei tempi
passati, ma a causa di questo smembramento, di questa atomizzazione
della vita della Chiesa che è uno dei portati della secolarizzazione entrato non per qualche speciale indottrinamento, ma nella sua maniera
piú efficace insieme allo stile di vita. Un tempo un cristiano avrebbe
forse considerato impossibile per lui vivere secondo la fede, ma non
gli sarebbe mai venuto in mente di minimizzare le domande che la
fede porta con sé. Oggi invece un cristiano può celebrare in chiesa il
suo matrimonio, far benedire la casa, assolvere i suoi obblighi religiosi
e in perfetta buona fede non considerare la connessione di tutto ciò
con queste sfere: matrimonio, famiglia, casa, professione, svago e, alla
fin fine, questi suoi stessi obblighi religiosi non deriveranno dal credo
che confessa in chiesa, dall’incarnazione, morte, risurrezione di Cristo,
ma da qualche idea o convinzione che non ha niente a che vedere con
questo credo, quando non gli è direttamente opposto.
Poiché abbiamo cessato di ricondurre la vita di fede a quella memoria esperienziale del rapporto con Dio dove tutto è integro, unito,
la nostra evangelizzazione è debole. Non solo non aiuta a sfondare il
tetto dell’immanenza, ma sottolinea solo alcune dimensioni della vita.
Il risultato è che abbiamo ridotto il cristianesimo ad un contenuto
teologico-spirituale, ad un elenco di buoni propositi, ad una filantropia, ad una dottrina morale, che si esprime come una realtà razionale,
che riguarda solo la ragione e la volontà. Non a caso i canali comuni
di trasmissione della fede sono stati per secoli la predica, la conferenza,
l’esortazione e anche il catechismo è stato fatto nella forma di “lezioni”, con la conseguenza che tutto il resto della vita è rimasto scoperto
e vulnerabile. Mentre una vita integra è una vita meno attaccabile.
Questo smembramento di tutto fa sí, afferma Schmemann, che manchi il vero frutto della liturgia, che fin dal suo inizio è stato invece
quella mescolanza unica di gioia (“Abbiamo visto la vera luce”)
e di profonda insoddisfazione o pentimento (“Ho visto la tua
stanza nuziale adorna, ma non ho la veste per entrarvi”), quella
sfida a tutta la mia vita, quella chiamata alla perfezione, quella
nostalgia di un cambiamento, una trasformazione, una trasfigurazione […] La liturgia è ancora il centro della nostra vita
ecclesiale, un centro non messo in questione, non contestato,
a cui non ci si oppone. Ma in realtà è un centro senza periferia,
un cuore senza nessun controllo sulla circolazione del sangue,
un fuoco senza niente da purificare e consumare. Perché quella
vita che doveva essere da essa abbracciata è soddisfatta di sé ed
ha scelto altre luci per essere guidata e plasmata.50
Ora, a questo punto, sembra di essere arrivati in un vicolo cieco:
da una parte c’è il secolarismo con la sua alienazione del modo di vita
dalla visione della Chiesa, che priva la liturgia della sua rilevanza e del
suo potere, per cui non ci sono riforme liturgiche in sé che possano
curare la malattia; dall’altra solo la liturgia può rompere questo secolarismo onnipervasivo, dal momento che la funzione della liturgia
è sempre stata comunicare all’uomo quella visione che è l’unica che
può instillare in lui il desiderio di cambiare, la nostalgia della gloria
della sua vocazione, il vero pentimento che soli possono giudicare,
redimere e trasformare.
Da dove cominciare, allora?
48Schmemann, Chemin, 219.
49
Schmemann, “Problems II”, 174.
241
50
Ibid., 174.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
Le deficienze di ciò che a proposito della riforma liturgica
Schme­mann chiama “riduzione rubricistica”51 è che il suo intento di
ripristinare usi liturgici “giusti” mescola cose essenziali ad altre non
essenziali, vuole ristabilire pratiche secondarie e trascura questioni di
primordiale importanza.
Cristo, di quella “stirpe eletta”, “nazione santa” (1Pt 2,9) la cui misteriosa vita in questo mondo è cominciata il giorno di Pentecoste.
La questione dell’educazione religiosa è allora dare ai battezzati quella
formazione adeguata che li renda capaci della vita in Cristo cosí come
è stata acquisita nella celebrazione liturgica, dischiudere ciò che è
accaduto loro quando sono nati di nuovo dall’acqua e dallo Spirito.53
Perciò anticamente la Chiesa ha fatto catechesi elaborando un insegnamento proprio a partire dalla liturgia, realtà dalla quale ha avuto
origine la nuova vita dei neofiti. In questo senso è riduttivo vedere
la catechesi liturgica solo come un’usanza interessante della Chiesa
antica. Si tratta piuttosto del metodo tradizionale dell’educazione
religiosa, parte organica della natura stessa della Chiesa e della sua
concezione di “illuminazione” spirituale.54 E siccome il rito è ciò che
rappresenta,55 non un vuoto cerimoniale, nessuna meraviglia che si
debba cominciare proprio da lí per iniziare il fedele al mistero della
vita che tramite la sua celebrazione gli è comunicata.
La Chiesa, dopo l’epoca patristica, ha fatto a meno di questo
insegnamento e non lo ha considerato necessario fin quando essa
e il mondo hanno parlato lo stesso linguaggio, si sono riferiti alla
stessa visione del significato ultimo delle cose, cioè fin quando il
mondo, nonostante tutta la sua “mondanità”, non era secolarizzato.
Mettendo tra parentesi il giudizio se si sia trattato di uno sbaglio
rispetto al passato, oggi si tratta di una necessità assoluta. È la condizione di ogni riforma liturgica, o piuttosto della riforma della liturgia nella sua funzione e nel suo significato propri all’interno della
Chiesa.56 E il vero insegnamento liturgico, quello che sta al cuore
di tutta la questione, è proprio la spiegazione della liturgia nella sua
connessione con la vita, la rivelazione del suo potere “esistenziale”.
Tale insegnamento avrà cosí un carattere diametralmente opposto alla interpretazione pseudo-simbolica, popolare e superficiale,
che appiccica significati arbitrari alle cose e che va perfettamente
242
Ciò che è assente qui è l’approccio pastorale, cioè veramente liturgico, alla liturgia in quanto legata primariamente alla vita dell’uomo, alla sua ecclesialità [vocerkovlenie], e non la ‘correttezza in
sé’. Ed è solo quando cominciamo a pensare in questi termini
pastorali che diventa possibile pianificare un ripristino reale, e
non nominale, della vita liturgica.52
Qui si possono ricavare solo alcuni spunti isolati da ciò che
Schmemann intende con approccio pastorale alla liturgia, a partire non
solo dai suoi studi, ma anche dai suoi sermoni e dalle sue conferenze.
Celebrazione e catechesi liturgica
Fin dall’inizio, gran parte dell’attività della Chiesa è stata l’insegnamento. Ma questo insegnamento ha cambiato le sue caratteristiche nel
corso del tempo. Se, come abbiamo visto, nel secondo millennio esso
si è progressivamente strutturato come una comunicazione contenutistica di una dottrina trasmessa in uno stile prevalentemente razionale
e argomentativo, nella Chiesa antica si aveva coscienza che è una
realtà integra e complessa. Non si tratta, infatti, semplicemente della
comunicazione di una “conoscenza religiosa” o di educare la persona
ad essere “buona”, ma dell’edificazione di un membro del corpo di
51
Ibid., 168-9; ricordata anche nel capitolo 5, § 3.
52 Ibid., 178. Quanto al termine vocerkovlenie, si tratta di un termine russo di difficile
traduzione, che implica sia l’idea di una integrazione nella Chiesa che quello di un cambiamento. Fu ampiamente usato all’interno del Movimento cristiano degli studenti russi
(ACER) che nell’Europa occidentale tra le due guerre mondiali ebbe un ruolo di primo
piano come ambito in cui gli esponenti principali dell’emigrazione cristiana russa (Bulgakov,
Berdjaev, Mat’ Marija – al secolo Elizaveta Jur’evna Skobcova –, Kartašëv, Zen’kovskij,
Novgorodcev, Zander, Zernov…) esercitarono un profondo ruolo educativo nei confronti
della giovane generazione dell’emigrazione. Su questo ved. Nikolaj Zernov, La rinascita
religiosa russa del XX secolo, tr. it. (or. ingl. London 1963) Milano 1978, 229-248. A questo
concetto di vocerkovlenie è dedicato l’intervento di A. Vinogradov, “Votserkovlenie Zhizni:
The Churching of Life and Culture”, in Celebrating the Memory, 341-51.
53
Cf Schmemann, Life, 11-2.
54Cf ibid., 11.
55
Cf Schmemann, Water, 56.
56
Cf Schmemann, “Problems II”, 176.
243
244
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
d’accordo con una mentalità secolarista, perché non la sfida e non
la mette in questione.
Dire, ad esempio, che il “piccolo ingresso” nella divina
Liturgia “simboleggia” Cristo che va a predicare è soddisfare
una inclinazione naturale per la pompa religiosa, che l’uomo
“secolare” ama molto (cf il suo amore per le cerimonie, le
processioni, i matrimoni fastosi, ecc.), ma certamente non
pone domande su di lui e sulla sua vita. Ma spiegarlo come
qualcosa che accade a lui e a tutta la Chiesa come un movimento reale (e non “simbolico”) della Chiesa che entra alla
presenza di Dio, convocata al suo trono, separata dal mondo,
sollevata in una dimensione totalmente altra della realtà, immersa nella stessa santità di Dio (il “Santo Dio, Santo Forte,
Santo Immortale” del Trisagion) è provocare l’uomo non
solo con la sua partecipazione alla liturgia, ma anche con le
implicazioni veramente “tremende” che questo ha per tutta
la sua vita. […] All’improvviso la liturgia cessa di essere un
rito “venerando”, “antico”, “pittoresco” e “bello” e diventa
una cosa terribilmente seria. All’improvviso tutta la mia vita
è messa in questione e ogni cosa è vista dal punto di vista di
questa terrificante possibilità: “esporre il Figlio di Dio all’infamia”. E questa possibilità è qui, perché la liturgia mi rivela
chi sono, che cosa mi è dato, mi mette davanti la gloria del
regno e, perciò, rivela l’esilio e l’alienazione da Dio di tutta la
mia vita…57
È questa visione che rende l’acqua del battesimo, l’unzione, il
pane e il vino dell’eucaristia, le date del calendario, tutto molto
“reale”, molto “materiale”, connettendolo alla nostra esistenza,
alla materia che tocchiamo, al tempo del nostro mondo, per dare a
tutte queste realtà un nuovo significato, per dischiudere in esse una
nuova energia.
La tragedia del secolarismo è precisamente che “disconnette”
questi due ordini di esistenza e rende il “cibo”, l’“amore”, il
“tempo”, la “materia”, il “denaro” entità in se stesse, incapaci
di trasformazione, chiuse alla grazia. E perciò il secolarismo
è molto soddisfatto del cosiddetto “simbolismo sacro” cosí
spesso offerto come insegnamento cristiano, perché lascia
57
Ibid., 176-7.
245
intatta e non posta in questione l’autosufficienza della “vita
reale”. Ma colui che ha compreso, anche solo parzialmente,
che tutto il cibo, e perciò tutta la vita, in quanto mantenuta dal
cibo, è direttamente collegata al grande mistero dell’eucaristia
(“mangiate… bevete…”) sta già cominciando a guardare al
mondo in una maniera nuova, a vedere in esso ciò che non
ha visto prima. E questo è precisamente per il secolarismo
l’inizio della sua fine.58
L’insegnamento cristiano consiste pertanto nel rendere esplicito il
modo di vita implicito nella liturgia. Ma un’ulteriore tragedia consiste nel
fatto che praticamente questo insegnamento va quasi creato dal nulla,
dal momento che, a partire dalla sparizione del catecumenato nella
Chiesa antica, praticamente non c’è quasi piú stato e né la teologia,
né la pietà per secoli hanno prestato molta attenzione all’aspetto
esistenziale della liturgia.
Ci sono tre “aree” per Schmemann che sono oggetto particolare di questo insegnamento liturgico, che a sua volta richiamano
la necessità del ripristino di una corretta celebrazione liturgica e del
ciclo liturgico nella sua interezza: il battesimo, la pietà eucaristica e
l’esperienza liturgica del tempo.59
La prima e piú importante rivelazione della visione cristiana
sulla vita in tutti i suoi aspetti – cosmici, sociali, personali, ecclesiologici, spirituali, materiali ed escatologici – è sempre stata data e
comunicata nella liturgia del battesimo che anticamente costituiva,
insieme all’eucaristia, uno dei punti focali di tutta la vita liturgica
della Chiesa. Ma oggi come comunicare questo significato omniabbracciante e decisivo del battesimo, se esso è assente dalla liturgia della Chiesa come tale ed è diventato una cerimonia privata?
Come far vedere che tutta la vita cristiana è radicata in questo atto
di rinascita e rinnovamento che rende cittadini del cielo e dà una
visione completamente nuova della vita del mondo? Come si può
far esperienza della Chiesa in quanto creata e ricreata attraverso il
58 Ibid., 177. Cf anche Id., “For Better Teaching: Teacher Training Manual
for Orthodox Church Schools”, Bulletin of Orthodox Christian Education 3 (1959) n. 2,
65-102.
59
Cf Schmemann, “Problems II”, 179-80.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
battesimo? Bisogna cominciare facendo del battesimo un atto liturgico che riguarda tutta la Chiesa,60 in modo da rendere la pietà
battesimale – come lo era anticamente – la fonte stessa di tutta la
pietà liturgica, il riferimento costante di tutta la vita al mistero del
suo rinnovamento e della sua rigenerazione attraverso la morte e la
risurrezione battesimale. E questo significa – dal momento che coloro che si radunano per la liturgia sono per la grande maggioranza
battezzati – la spiegazione nei termini del battesimo della penitenza,
che è la dimensione fondamentale della vita cristiana, la sua apertura
al giudizio di Dio, la sua capacità di lasciarsi trasformare dalla grazia.61
La seconda area oggetto di insegnamento liturgico è la pietà
eucaristica, con al centro una comprensione vera della comunione,
che non può essere ridotta ad un obbligo annuale o ad un atto individuale di pietà. L’attuale pietà eucaristica può esistere perfettamente
dentro ad una visione del mondo secolarista, perché non è affatto
correlata alla vita come ad un tutto, è una sorta di “soprannaturale”
che non ha niente da dire alla “natura”.
La terza area centrale per l’insegnamento è l’esperienza liturgica
del tempo. Abbiamo visto nel cap. 4 che il tempo è centrale nella
struttura della liturgia, nel suo ritmo di preparazione e compimento,
di digiuno e di festa, di stagioni liturgiche, ecc. Ma anche tutto ciò
che il tempo liturgico comporta deve essere compreso e spiegato
nella sua relazione con il tempo fenomenico della nostra vita, con
ogni momento e con tutta la storia, e non solo con le ore “sacre” che
spendiamo in chiesa.63 La liturgia è la “santificazione del tempo”, e
non di qualche suo momento. E santifica il tempo riferendolo, per
mezzo della liturgia del tempo, a quell’evento – cioè la venuta di
Cristo – che ha trasformato il tempo e lo ha reso “tempo nuovo”,
un pellegrinaggio pieno di significato verso il regno di Dio. Questo
evento, cioè il tempo nuovo della risurrezione, irrompe nelle nostre
giornate, nelle nostre settimane, nei nostri anni fino a che il nostro
vecchio tempo non ne sia saturo. La liturgia del tempo ha cosí un
doppio ritmo di base: quello dell’attesa, dello sforzo, del pentimento,
della preparazione, e quello del compimento e della gioia, cioè della
festa. E questo rappresenta e ci comunica ancora una volta le due
dimensioni fondamentali dell’esperienza cristiana: la gioia della vita
nuova, la luce della conoscenza di Cristo, la consolazione del suo
amore, e la “radiosa tristezza”64 del pentimento, l’esperienza della
vita come esilio e ascesi, sforzo.
Anche qui, è necessario ripristinare il ciclo liturgico in modo che
non sia menomata la sua significatività. Schmemann osserva come le
parrocchie ortodosse in America siano piene di innumerevoli attività
di tipo sociale e filantropico, ma, dal punto di vista liturgico, non si
celebrino ad esempio i vespri della vigilia del sabato sera, perché si
considera impossibile che la gente vi partecipi e perché si pensa la
parrocchia nei termini di una struttura che si organizza per rendere
dei servizi, selezionati sulla base della “domanda”. La sola giustificazione della parrocchia è per Schmemann ciò che ruota attorno alla
celebrazione del culto, per cui la liturgia è il criterio di base per il
suo reale “successo”. Se i vespri del sabato,
246
Solo se riscopriamo che il pane e il vino dell’eucaristia sono
anzitutto la nostra stessa vita, la nostra “natura”, tutto il nostro
mondo e tutta la sua materia offerti a Dio in Cristo, restituiti
a Dio perché ridiventino ciò che Dio voleva che fossero fin
dall’inizio – cioè comunione con Dio –, solo se colleghiamo tutta
la nostra vita all’offerta eucaristica, possiamo comprendere l’atto della comunione come Dio che entra nella nostra vita per
riempirla della sua grazia trasformante. Per fare un esempio,
quando un “Consiglio per gli affari parrocchiali” comprenderà
che la sua riunione è una continuazione diretta della divina
Liturgia, il suo compimento nella vita, e non una “riunione
d’affari” che riguarda i problemi “materiali” della parrocchia,
radicalmente distinti da quelli “spirituali” che erano propri
alla liturgia, la nostra pietà comincerà a minare il secolarismo.
Ma di quale sforzo, di quale reale conversione di tutta la nostra
coscienza liturgica c’è bisogno per realizzare questo!62
60Cf ibid., 179.
61 Cf Schmemann, Water, 60-70. Cf anche Id., Life, 90-8. Su questa ricollocazione pastorale del sacramento della penitenza in chiave battesimale, cf G. Busca, La
riconciliazione “sorella del battesimo”, Lipa, Roma 2011.
62
Schmemann, “Problems II”, 180.
247
63 Cf A. Schmemann, “Fast and Liturgy”, SVSQ 3 (1959) n. 1, 2-9; cf anche
Id., Life 74-89.
64Schmemann, Quaresima, 29-33.
248
questa celebrazione unica della risurrezione di Cristo, questa
“fonte” essenziale della nostra comprensione cristiana del
tempo e della vita, sono celebrati settimana dopo settimana in
una chiesa vuota, almeno le varie “espressioni” e “guide” della
parrocchia […] diventano consapevoli del fatto che quando
affermano: “Lavoriamo per la Chiesa”, si tratta di una affermazione vuota, perché se la “Chiesa” per la quale lavorano non
è anzitutto una Chiesa che prega e celebra non è una Chiesa,
qualsiasi sia il loro lavoro, sforzo ed entusiasmo.65
Ciò non significa che per Schmemann la liturgia sia la “principale
forma di evangelizzazione”.66 Se lo è, lo è solo indirettamente, nel
senso che la liturgia innalza la comunità dei credenti al regno, rendendoli poi testimoni di quanto hanno visto, cioè della trasfigurazione
di loro stessi e del mondo, perché alla luce di questo sguardo e della
comunione con questa vita che hanno contemplato e assaggiato possano lavorare nella purificazione e trasfigurazione affinché loro stessi
e il mondo diventino ciò che sono ontologicamente e che il peccato
deforma. Ma la liturgia in sé, in quanto icona degli eschata, deve
comprendere solo i battezzati e perciò si raduna “a porte chiuse” (cf
Gv 20,19). In questo senso, affermerà Zizioulas, essa “non può mai
costituire mezzo e strumento di missione, perché negli eschata, che
essa raffigura, non ci sarà missione, la quale, del resto, presuppone
diaspora o dispersione, e non sinassi ‘in un medesimo luogo’”.67
Schmemann è categorico a questo proposito: non che i progetti
sociali e filantropici non riguardino i cristiani, ma la vera risposta alla
loro vocazione di cristiani “in questo mondo” dipende dal loro non
appartenere “a questo mondo”, per cui la funzione essenziale della
parrocchia è esattamente radicare i cristiani nella loro chiamata e nel
loro essere “sovrannaturale”. È dopo aver fatto esperienza di questa
dimensione e nella sua continua riscoperta come assemblea dei fedeli
che celebrano la liturgia eucaristica che i cristiani possono andare,
vivere e agire in questo mondo secondo una qualità nuova. Perché il
65
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
mondo ha bisogno oggi piú di ogni altra cosa di una nuova esperienza
del mondo stesso, della vita stessa nella sua dimensione personale, sociale, cosmica ed escatologica.68 Ed è nella misura in cui la parrocchia
rimane fedele a questa funzione spirituale che può ispirare i cristiani
riguardo alle loro responsabilità secolari, qualunque sia il loro volume.
Per questo è fondamentale recuperare da parte della Chiesa il vero
spirito della liturgia “come una visione omniabbracciante della vita,
che include cielo e terra, tempo ed eternità, spirito e materia, e come
potere di questa visione di trasformare le nostre vite”.69 L’esperienza di
fede fatta nella liturgia è la fonte irriducibile di ogni missione. Questo
compito è di tutti, ma in special modo del sacerdote, che deve essere
prima di tutto il celebrante della liturgia, il suo custode e interprete, e
smettere di considerare la liturgia e la vita liturgica della parrocchia in
termini di frequenza e di bisogni, di astratte possibilità o impossibilità.
Ciò non significa fare del prete semplicemente l’uomo delle celebrazioni, ma recuperare una descrizione e una interpretazione del
ministero pastorale in termini di Chiesa, cioè recuperare l’aspetto
ecclesiologico del ministero pastorale.
È qui che il problema liturgico acquisisce il suo vero significato, perché è primariamente nella liturgia e attraverso di essa
che la Chiesa agisce sulla vita dei suoi membri e, attraverso di
loro, sul mondo nel quale vivono. È nella liturgia e attraverso
di essa che il regno di Dio “viene con potenza” (Mc 9,1) – il
potere di giudicare e trasformare. È la liturgia che, rivelando
agli uomini il regno, rende la vita e la storia, la natura e la
materia un pellegrinaggio, un’ascensione verso il regno. In
breve, è la liturgia che è il potere dato alla Chiesa di superare
e di distruggere tutti gli “idoli” – e il secolarismo è uno di essi.
Ma la liturgia è tutto questo solo se noi stessi la accettiamo e
la usiamo come potenza.70
Schmemann, “Problems III”, 189.
66 Cosí dice F. C. Senn, The Witness of the Worshipping Community: Liturgy and
the Practice of Evangelism, Paulist Press, Mahwah NJ, 1993, 47, affermando di far propria
la visione di Schmemann.
67Zizioulas, Eucaristia, 27.
249
68
Cf Schmemann, Chiesa, 41.
69
Schmemann, “Problems II”, 189.
70
Ibid., 185.
250
L’orizzonte ecclesiale del ministero pastorale
Dove trovare le categorie in cui il pastore non è separato dal
sacerdote e dall’insegnante, se non in quelle della Chiesa? Il sacerdote è prima di tutto un “ministro della Chiesa” e il suo ministero
va definito come edificazione della Chiesa, dove le sue tre funzioni
– sacerdotale, di insegnamento e di governo – non sono tre indipendenti sfere di attività, ma sono radicate nella stessa realtà – quella
della Chiesa come corpo di Cristo, come vita nuova in Cristo –, ed
hanno tutte un unico scopo – la crescita della Chiesa fino alla statura
di Cristo.71 Celebrare all’altare la vita nuova concessa alla Chiesa, insegnare non come una proclamazione di principi cristiani, ma come
un costante appello a realizzare la Chiesa, tutto questo è pastorale
nel senso piú profondo della parola e un sacerdote che trascurasse
le implicanze pastorali del suo ufficio sacerdotale diventerebbe un
sacerdote nel senso pagano del termine. Tale mancanza di una fondazione ecclesiologica del tradizionale ministero pastorale ha limitato
questo campo alla “cura d’anime”, cioè alla relazione tra il pastore e
il singolo cristiano.72 Ma l’idea di pastore include sia quella dell’individuo, sia quella di gregge (cioè la totalità, l’unità dei molti), perché
il pastore lascia le 99 pecore per quella che si è smarrita, per integrarla
nell’unità fuori dalla quale non può vivere. Sia la Chiesa come corpo che i suoi singoli membri sono oggetto della cura del pastore, e
questi aspetti si appartengono l’un l’altro in un modo tale che non
si possono comprendere l’uno senza l’altro: con ciò, egli ricorda che
la vita dei singoli, la vita della comunità, non è autocentrata, ma si
compie nella vita della Chiesa. La natura “pluralistica” del ministero
sacerdotale nella Chiesa – la sua figura di sintesi ed espressione della
comunità,73 la sua appartenenza al presbiterio, il suo legame con il
71 Schmemann, “Remarks”, 50-54. Anche questo è un pensiero di Bulgakov,
mutuato probabilmente via Afanas’ev: cf S. Bulgakov, “Ierarchija i tainstva”, Put’ 49
(1935) 23-47.
72 Questo aspetto è stato approfondito recentemente da Thomas Hopko in
Hopko, “Legacy”, 331-9, dove egli sottolinea come la preoccupazione costante di
Schmemann fosse “una piú esplicita descrizione e interpretazione del ministero pastorale
in termini di Chiesa” (ibid., 332), il che concretamente significava anche uno studio
teologico con un’esplicita dimensione pastorale e soteriologica (ibid., 334).
73
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
Cf “Towards a Theology of Councils”, SVSQ 6 (1962) n. 4, 170-84, ripub-
251
vescovo – ricorda che il carattere della “sobornost’” appartiene alla
natura stessa della Chiesa e perciò è specificamente legato al “carisma” del ministero sacerdotale:74 il sacerdote come ministro della
comunione sta lí a ricordare che solo la comunione manifestata nella
comunità è il luogo della manifestazione dei carismi, perché i carismi
trovano il loro significato in un’esistenza personale, cioè in relazioni
di comunione, in relazioni che raggiungono l’escatologia, perché
attengono alla pienezza.
Ciò significa, ad esempio, che un sacerdote non può limitare
la sfera della sua cura pastorale quasi esclusivamente al sacramento
della penitenza, come se il peccato fosse l’unico oggetto dell’attività
pastorale. Se tutta l’esistenza deve essere ispirata dalla Chiesa e tutte
le sue dimensioni devono essere costantemente integrate nella realtà
spirituale della nuova vita in Cristo, tutta la sfera della creatività ha
a che fare con il ministero pastorale.
L’ambito della persona
Ma questo potere trasformante della liturgia diventa operante
nella misura in cui attuiamo “un ri-orientamento personale del lavoro
pastorale ed educativo”.75 Tipico infatti del cristianesimo, che attiene
al suo carattere fondamentale, è il livello della persona.
La decisa opposizione di Schmemann all’orientamento sociale
della pastorale del suo tempo (nell’America degli anni ‘60 e ‘70 delle
marce per i diritti civili, dei movimenti contro la guerra e la povertà)
deriva dalla sua convinzione che nessuna cultura, età, modo di vita,
blicato come cap. 8 di Schmemann, I, 225-52, dove Schmemann spiega che la Chiesa
è gerarchica perché è conciliare, e la funzione della struttura gerarchica nella Chiesa
è appunto quella di manifestare in sé la moltitudine dei fedeli del luogo, di esprimere
l’“Uno” che si è fatto carico della moltitudine liberandola con ciò dal potere divisore
di Satana e rendendola cosí unita e “di Dio”. Su questo sono interessanti gli sviluppi
che ha portato avanti Zizioulas. Cf ad esempio I. Zizioulas, “La comunità eucaristica
e la cattolicità della Chiesa”, pubblicato originariamente in Istina 1/14 (1969), 67-88 e
ripubblicato in id., L’essere ecclesiale, 151-85.
74
Cf Schmemann, “Remarks”, 53.
75
Schmemann, “Problems II”, 181.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
in quanto “di questo mondo”, può essere sacralizzata.76 Egli afferma
che, per quanto strano possa suonare agli occhi dei predicatori di un
cristianesimo sociale, il cristianesimo è sostanzialmente pessimista nei
riguardi di “questo mondo”. E la categoria stessa di “questo mondo”
nel Vangelo non ha un carattere temporaneo, identificata con alcuni
aspetti del mondo destinati a passare (il paganesimo, il comunismo,
l’ateismo, lo sfruttamento economico, la segregazione razziale…),
ma si applica anche al “mondo cristiano”, come sta lí ad attestare il
trionfo del monachesimo, cioè della rinuncia al mondo, dentro al
mondo medievale cristianizzato. Questo non significa che i valori
della giustizia, della pace, dell’uguaglianza non abbiano a che fare
con il Vangelo, ma attengono alla sfera delle responsabilità personali
che i cristiani, da soli o in gruppo, debbono esercitare, senza miraggi
o aspirazioni a società cristiane.
Per Schmemann il cristianesimo, se è pessimista riguardo al
mondo, è ottimista riguardo alle possibilità della persona. Ciò che
è impossibile per “questo mondo” è possibile per uno che crede in
Cristo: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà
le opere che io compio e ne farà di piú grandi” (Gv 14,12).
non con culture, società, epoche storiche, ma è basato su un concetto che non è riducibile alla storia e alla sociologia, ed è quello
di persona.78 Ciò non significa che la fede cristiana sia limitata alla
salvezza individuale o personale, perché, come abbiamo visto, il suo
scopo è cosmico e cattolico, dal momento che abbraccia nella sua
visione tutta la creazione e la totalità della vita. Ma questa salvezza è
affidata a ciascuna persona, è resa una vocazione e una responsabilità
personale che supera i determinismi di questo mondo. La persona
non è mai solo un microcosmo che riflette il mondo, ma una libertà
che va oltre tutte le eredità biologiche, psichiche, culturali che pure
lo costituiscono, la forza di diventare libera da questi determinismi
per farne oggetto della creatività divina legata alla vita incorruttibile
e vera del Dio vivo. Questo è proprio il dono del battesimo: quando
uno nasce, i suoi genitori gli impongono tutto: eredità biologica e
psicologica, la cultura… L’unico dono che non possono imporre
al figlio e che renderà fecondi gli altri doni è la libertà da questi
condizionamenti, che è la vita di Dio.79 Allo stesso modo, il dono
dell’eucaristia, dove io incontro l’altro nella sua identità escatologica,
mi deve liberare da un modo di guardare all’altro nella vita quotidiana come se fosse solo il prodotto della sua storia e della sua psiche.
“Noi non conosciamo piú nessuno secondo la carne” (2Cor 5,16)
è allora il modo di conoscere l’altro a cui abilita l’eucaristia, dove
questo “altro” non è mai qualcuno classificato, catalogato, da cui
non ci si aspetta piú nulla, ma ci apriamo al suo “dentro” segreto,
vivo e insondabile come la presenza di Dio e la nostra stessa presenza
davanti a noi stessi.
A proposito della riduzione della persona alla sua storia, c’è un
brano di riflessione personale su di sé di Schmemann che vale la pena citare, in cui si sente “stretto” riguardo ai nazionalismi. Constata
anche come spesso nel concetto di nazione si stratifichino tre nozioni
che di per sé sono distinte, anche se spesso si fa confusione tra di
loro: quella di patria, quella di popolo e quella di stato. E, a proposito
di ciò che questo significa per lui stesso, afferma che la patria è un
252
[…] la salvezza del mondo è annunciata e affidata ad ogni
persona, è una vocazione e responsabilità personale e in definitiva dipende da ciascuno […] Il mondo intero è dato – in
modo unico – a ciascuna persona e perciò in ogni persona è
“salvato” oppure “perisce”. In ogni santo, quindi, il mondo è
salvato, ed è pienamente salvato nella sola persona totalmente
completa: Gesú Cristo.77
Ciò sottolinea con forza l’orientamento personale del cristianesimo e la responsabilità educativa su questo versante, ma anche qui i
fraintendimenti non sono meno forti che in altre dimensioni.
Uno dei piú gravi pericoli della secolarizzazione moderna è la
riduzione dell’uomo, della sua vita e anche della sua religione alla
storia, alla psicologia e alla sociologia. Il cristianesimo ha a che fare
76
n. 7, 5.
77
Cf ad esempio, ibid., 178-9 e “An Unconscious Surrender”, OC 2 (1966)
Schmemann, “Problems II”, 178.
253
78Cf ibid.
79 Cf J. Corbon, Liturgia alla sorgente, tr. it. (or. fr. Cerf, Paris 1980) Magnano,
Bose 2003, 172.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
legame quasi fisico con un luogo, con l’infanzia, con ciò che ci ha
permesso all’inizio di gustare la gioia di esistere. Questo per lui è stata
personalmente la Francia, anzi Parigi, ma non è mai appartenuto al
popolo francese né la Francia è stata il suo stato. L’appartenenza ad
un popolo è già il frutto dell’educazione, di un orientamento dato
fin dall’inizio. E questa per lui è stata la Russia. Ma poi sono venuti
gli Stati Uniti, il suo stato.
tarsi dell’apparenza delle cose, ma senza arrivare a toccare il cuore
dell’uomo. Ciò determina l’identità fragile e superficiale dei cristiani, le loro deficienze culturali che li rendono subalterni a visioni e
comportamenti non omogenei al Vangelo, ma anche la mancanza di
quella sapienza della prassi che, nutrendosi di fede, speranza e carità,
sa tradurre questo cibo in prudenza esercitata, fortezza magnanima,
gioiosa temperanza, giustizia individuale e sociale, umiltà sincera,
indipendenza di giudizio, ricerca di unità, spirito di iniziativa e di
senso della propria responsabilità, capacità di resistenza e mitezza
evangelica. Senza queste doti, oggi è quasi impensabile una testimonianza cristiana nel mondo. Ma si tratta, appunto, di far agire in noi
la nostra verità escatologica, di scendere nel cuore, dove la persona
si trascende per unirsi a Dio e vedersi come Dio la vede, e solo in
questo modo può pacificare la sua natura e riunificarla. La direzione
della formazione è allora dal centro alla periferia di sé, non viceversa.
Questa apertura escatologica determina anche il ruolo della paternità spirituale, compito estremamente esigente su cui Schmemann
è abbastanza categorico:
254
Che cosa fa di me una “persona conciliare”? [...] Eccetto la
patria (non ho scelto il legame con essa, mi è stato “dato”, è un
fatto), in fondo tutto il resto. Al livello piú importante c’è la
Chiesa; ai livelli secondari e che non si escludono gli uni gli altri
c’è il popolo russo, l’America, l’emigrazione, poi delle “entità”
piú piccole (la famiglia, certamente). Teologicamente, si può
designare questo come la possibilità per ciascuna persona (hypostasis) di ipostatizzare differenti nature (ousiai). Ciò vuol dire che
la persona in se stessa è “conciliare”; essa può e deve conciliare
in se stessa e unire ciò che è differenziato dalle differenti nature,
e in teoria non ci sono limiti a questa “conciliarità”, o piuttosto
la sua pienezza è in Cristo, il Dio-Uomo, che unisce in sé tutte
le cose. Cosí la persona è ugualmente in grado di sormontare il
carattere limitato di ogni “natura” e, di conseguenza, è un giudizio portato su questa natura. Ogni nazionalismo è un rifiuto
di questo giudizio, la sottomissione della persona alla natura,
mentre il senso e la forza della persona sono proprio nella capacità di vincere, purificare e trasfigurare la natura.80
In questa prospettiva il male è esattamente l’arresa della persona
umana alla sua natura impersonale, il trionfo della natura sulla persona, che dà adito ad un fatale deterioramento o caduta sia della persona
che della natura, dal momento che la vocazione della persona consiste proprio nel possedere, e con ciò compiere, la natura. E questa
vocazione si realizza assecondando la propria identità escatologica,
dal momento che non è importante quello che ognuno di noi è,
è stato, ma che cosa Cristo ha fatto per noi e cosa noi possiamo
diventare in Lui.
Senza questa centralità, lo sforzo di evangelizzazione è condannato al tentativo di plasmare comportamenti esteriori, ad acconten80Schmemann, Dnevniki, 29 gennaio 1975, 148.
255
Sono abbastanza persuaso che non ho la vocazione di fare la
direzione spirituale personale. […] Forse mi inganno terribilmente, ma non ho mai visto alcuna utilità attorno a me nella
Chiesa di questa paternità spirituale. Al contrario, vi ho sempre
visto piuttosto un rischio: un incoraggiamento all’egocentrismo, ad un fine orgoglio spirituale (da una parte e dall’altra),
una certa riduzione della fede a se stessi e ai propri problemi.
L’essenza del cristianesimo mi è sempre apparsa, fin dall’infanzia, nel fatto che non risolve i problemi, ma li eleva ed eleva
l’uomo ad un piano dove non ci sono piú. Perché al piano
dove si trovano sono là, dal momento che sono insolubili. È
per questo che il cristianesimo è sempre confessione, cioè manifestazione di un altro piano, piú elevato, della realtà stessa e
non affatto esplicazione della realtà… Mi si potrebbe dire: e il
ruolo di staretz, che è assai di moda oggi praticare? È […] certo
che il ruolo di staretz è una vocazione particolare nella Chiesa,
che non coincide con il sacerdote, con il carico pastorale come
tale. Ma appunto è una vocazione, se si prende sul serio tutto
ciò che sappiamo della funzione dello staretz, non di questa direzione spirituale intima, né della spiegazione o della soluzione
dei problemi, ma, ancora una volta, della manifestazione della
256
La porta dell’eternità
realtà stessa. È la ragione per cui è temibile lo pseudo-staretz
(sic) che ha tanto proliferato ai nostri giorni e la cui essenza è
la volontà di potenza sul piano spirituale. È su questa contraffazione che riposa il sistema che fa del primo prete un “padre
spirituale” e un piccolo staretz […] Sono persuaso che una
predicazione autentica sia sempre (quale che ne sia l’oggetto)
una risposta a questi stati d’animo e una terapia. Perché essa
consiste sempre nel predicare Cristo, e tutto questo è rimosso
solo da Cristo, dalla conoscenza di Cristo, l’incontro con Lui,
l’obbedienza a Lui, l’amore per Lui. Se la predicazione non è
questo, non serve a niente. E la sua forza viene dal fatto che il
vero predicatore rivolge la sua predicazione anche a se stesso,
alla sua indolenza, alla sua mancanza di fede, alla sua mancanza
di calore [...] Che cosa possono aggiungere i “colloqui”?81
Anche nell’approccio personale, la “formula” è quella escatologica: la Chiesa è presenza nel tempo, nella storia, del santo e del sacro,
non secondo il principio dicotomico di sacro-profano, ma secondo
il principio escatologico di rapportare e riportare tutto ciò che esiste
nel tempo e nella storia al regno di Dio. Ma proprio come la Chiesa
non ha nessuna storia come categoria sacra del proprio essere, la sua
vita è “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3) e vive autenticamente
non dalla storia, ma dal regno di Dio, per cui la sua “storia” è sempre e
solo storia del suo incontro con il mondo, sempre e solo la relazione
tra questi due mondi, allo stesso modo è per la sfera della persona. La
guida spirituale sa che colui che ha davanti non è tutto lí, e quindi
non assolutizza né quello che questi è, né quello che dice. Sa infatti
che la sua identità piú vera sta in una possibilità di trasfigurazione
nascosta agli occhi di entrambi.
L’aiuto spirituale consisterà allora in un compito “profetico”,82
nell’aiutare la persona a fare i nessi con la sua identità futura, a vivere
la memoria a cui abbiamo accesso nel culto come memoria esistenziale, una memoria che crea “nostalgia” e diventa capace di essere
un grande elemento unificante della persona. La nostalgia non come
sentimento patologico che vuole riportare ad un passato chiuso su di
sé, ma la nostalgia di quella bellezza trasformante che ci fa trascendere
81
Ibid., 27 settembre 1973, 34-5.
82
Cf Schmemann, “Problems II”, 186.
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
257
i nostri limiti, circoscritti alla nostra natura fenomenica, e ci rende
creativi rispetto a questa nostra “datità” con quello che siamo rinati
a nuova vita in Cristo. Anche il senso di inadeguatezza e di umiltà
che viene non è a partire dalle nostre “possibilità” e “impossibilità”,
ma è un sentimento a partire da Dio.83 Abbiamo visto che il nucleo
dell’anamnesi eucaristica è ciò che Massimo il Confessore esplicita,
affermando che la fine costituisce la ragione per cui sussistono sia
il passato che il presente,84 di modo che il futuro del regno diventa
non effetto – come nella nostra visione dopo il peccato –, ma causa
di tutti gli eventi passati e presenti. Ora questa memoria del regno,
vissuta a livello esistenziale, non può non creare direzione, meta, ma
anche integrazione della persona.
Una memoria che diventa gioia trasformante
In molti hanno criticato questo approccio di Schmemann alla
missione, fondato sull’esperienza di fede fatta nella liturgia, che si
oppone con tanto vigore alla priorità data alla giustizia sociale e alla psicologia nell’opera teologica e pastorale.85 È certo però che in
un’epoca come la nostra, dove l’approccio pastorale all’uomo e alla
cultura contemporanea, divenuto ormai un settore nella frantumazione dell’universo organico e originario della visione cristiana, si
è avvalso di scienze e metodologie “ausiliarie” nate da presupposti
spesso in contraddizione aperta con l’universo della fede e che hanno
avuto su questa stessa fede un impatto corrosivo, la prospettiva di
Schmemann pone le giuste domande e i giusti punti di partenza. Ci
ricorda che nella liturgia i cristiani hanno una conoscenza, seppure
83 “Noi diventiamo umili non perché contempliamo noi stessi (questo conduce
sempre all’orgoglio, in forme diverse, perché la falsa umiltà non è altro che un aspetto dell’orgoglio, forse il piú incorreggibile di tutti), ma solo se contempliamo Dio”:
Schmemann, Dnevnik, 24 febbraio 1973, 13.
84Cf Quaestiones ad Thalassium 60, PG 90, 621. Citiamo da PG in quanto l’edizione critica curata da F. Vinel e J.-C. Larchet per SC è arrivata solo alla quaestio 55.
85 Morril arriva addirittura a dire che l’impostazione di Schmemann scricchiola
da un punto di vista pastorale perché identifica l’impatto escatologico della liturgia con
la graduale restaurazione della memoria e della conoscenza di Dio che ne può avere il
singolo individuo, il che lo renderebbe in qualche modo prigioniero di quell’approccio
psicologico che tante volte condanna: cf Morril, 136.
La porta dell’eternità
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
parziale, pur sempre anticipatoria dei nuovi cieli e della nuova terra.
E questa qualità anticipatoria è ciò che rende vera la loro conoscenza
della vita e del mondo. Non serve quindi mettere tutto il proprio
acume nell’analisi dell’esistente, perché il massimo ottenibile non sta
nella comprensione del fenomeno chiuso in sé. Allo stesso tempo,
Schmemann non è un paladino intransigente della tradizione, da
contrapporre ad una modernità che è solo male e degenerazione. Se
in lui c’è un “no”, c’è anche un “sí” al miracolo della presenza di Dio
e del suo regno in ogni luogo.86 Chi sfoglia le pagine dei suoi libri fa
l’esperienza di cogliere come in lui non c’è mai un disprezzo per ciò
che compone l’orizzonte culturale contemporaneo, ma al contrario sa
cogliere in tutto un’interpellanza, una domanda di significato al quale
la fede deve rispondere non in modo convenzionale, ma aprendo le
prospettive, sollevando i veli, facendo il ponte con il destino ultimo
del regno, in uno spirito di grande libertà.87 Qui percepiamo anche
come questo approccio possa costituire il contesto piú adeguato per
“collegare ‘vista’ e ‘vita’, visibilità e vivibilità, fenomeno e forma di
vita”88 che è una delle sfide piú delicate lanciate dal postmoderno.
È proprio la memoria del regno che è la piú reale delle esperienze
di questo mondo, a diventare molla del divenire del mondo, lievito
che fa fermentare il mondo per l’escatologia di cui i credenti sanno
cogliere ogni squarcio nelle situazioni piú mutevoli, e di cui sono
testimoni con una gioiosa gratitudine.
258
86
Cf Hopko, “Two ‘Nos’”, 45-8.
87 A questo proposito è interessante la testimonianza che il figlio Serge, giornalista, ha scritto sul Moscow Times in occasione del decimo anniversario della morte del
padre: “A casa padre Alexander non ci diceva mai ‘vai in chiesa’, ‘devi digiunare’, o
‘fai cosí’, mai. Semplicemente, faceva quanto doveva fare e noi ci trovavamo trascinati
verso quelle cose che erano importanti per lui. Non posso dire di aver passato tanto
tempo in chiesa come lui, ma la nostra gioia alla liturgia veniva completamente da lui.
Nella nostra casa il principio guida della vita ecclesiale era l’esempio di mio padre. Mio
padre digiuna tranquillamente, senza insistere che tutti facciano cosí, e istintivamente
cominciamo anche noi a digiunare, dopo tutto non lo possiamo lasciar digiunare da
solo! Era importante per lui, e cosí diventava importante per noi… Con lui ogni cosa
era senza difficoltà, era sempre estremamente gioiosa. Se ci alzavamo male la mattina
e vedevamo che era felice ed energico – con lui ogni giorno cominciava cosí – allora
il suo atteggiamento ci contagiava tutti […] Ha combattuto sempre contro la riduzione del cristianesimo semplicemente alle forme e alle regole. Il cristianesimo infatti
libera l’uomo dalle ristrettezze delle forme e delle regole e padre Alexander vedeva
nel cristianesimo la libertà della persona e l’amore, e nelle sue letture, scritti, prediche,
cercava sempre di rivelare il piú profondo significato di tutte le cose che accadono nella
Chiesa. Non semplificava mai, vedendo in ogni persona una vera e propria arena di
combattimento tra bene e male […] la sua teologia era segnata soprattutto dall’elemento
della libertà. Il suo cristianesimo è quello di Cristo, precisamente perché Egli ci ha dato
la libertà. Tutte le regole ecclesiastiche, dopo tutto, possono acquisire una certa vita
indipendente loro propria, totalmente staccata da Dio. Padre Alexander lo sapeva molto
bene, e questo è il motivo per cui non ha mai cominciato dalle regole. Per lui tutte le
cose cominciano con la fede in Dio, che porta ad un altro genere di vita” (cit. in M.
Plekon, Living Icons. Persons of Faith in the Eastern Church, University of Notre Dame
Press, Notre Dame 2002, 201-2).
259
Incontro una persona per la quale non ho alcun interesse, ma
mi rendo conto che quest’uomo mi è stato inviato da Dio,
e l’incontro diventa significativo. Ho un lavoro stupido, ma
questo lavoro è l’unico mediante il quale il mio corpo, il mio
spirito, la mia vita devono essere trasformati in attesa. Ogni
cosa acquista significato, ogni cosa viene santificata, perché
ogni cosa è un passo di quel lungo cammino che porta alla
vetta del monte Tabor […] per renderci capaci di essere come
Pietro e su quel monte dire come lui: “Signore, è bello per
noi stare qui”, e dirlo con tutto il nostro cuore.89
Un tema persistente nel corpus delle opere di Schmemann è appunto la gioia, e l’identificazione della gioia come la caratteristica
fondamentale lasciata dall’esperienza liturgica cristiana. Perciò si
meraviglia dell’assenza del tema della gioia del regno dai volumi di
teologia dogmatica, nonostante sia la parola con cui il Vangelo si apre
e si chiude (cf Lc 2,10 e Lc 24,52)90. È questa gioia evangelica a istillare
nei credenti una “prospettiva diversa” sul mondo e sui suoi bisogni.
Da una parte, il cristianesimo è stato la fine di ogni gioia naturale, dal momento che, rivelando l’abisso dell’alienazione dell’uomo
da Dio e la tristezza di questa alienazione, ha reso impossibile ogni
allegria “naturale”. In questo senso, commenta Schmemann, la triste
“serietà” dell’uomo moderno è certo di origine cristiana, anche se
quello stesso uomo lo ha poi dimenticato. Relegando la perfezione
della gioia nel futuro, il cristianesimo ha fatto della vita umana uno
“sforzo”, un “lavoro”.
88 A. Grillo, Grazia visibile, grazia vivibile. Teologia dei sacramenti “in genere ritus”,
Ed. Messaggero, Padova 2008, 379.
89Schmemann, Life, 88.
90
Cf Schmemann, Tradizione, 121-2.
260
La porta dell’eternità
D’altra parte,
[…] il cristianesimo è stato la rivelazione e il dono della gioia,
e pertanto il dono della festa autentica. Ogni sabato notte, alla
vigilia della risurrezione, noi cantiamo: “perché, mediante
la croce è venuta al mondo intero la gioia”. Questa gioia è
gioia allo stato puro, perché non dipende da nessuna cosa di
questo mondo, non è la ricompensa per nessuna cosa nostra.
È totalmente e assolutamente un dono, charis, grazia. Dono
gratuito, questa gioia ha un potere di trasformazione, l’unico
potere di reale trasformazione in questo mondo. È il “sigillo” dello
Spirito Santo posto sulla vita della Chiesa, sulla sua fede, sulla
sua speranza e sul suo amore.91
Ed è proprio questa gioia, come percezione della presenza di Dio,
memoria del regno, che “produce” nel cristiano un’impronta, una
vita che in se stessa diventa un annuncio, un’accoglienza dell’uomo
che si incontra, dell’interlocutore che ci si presenta davanti.
[…] un sacramento è un atto di trasformazione […] trasforma
me, un semplice uomo, in un cristiano. Un cristiano è uno che
ha ricevuto il dono dello Spirito Santo, e quindi è reso capace
di dare un nuovo significato a tutte le situazioni, a tutte le relazioni, a ogni minuto di tempo. Il sacramento mi trasforma in
un apostolo di Cristo. Il mio mondo può essere molto piccolo
– solo le poche persone che incontro ogni giorno. Ma in tutte le
condizioni, Dio vuole trionfare, vuole essere presente. Quando
lasciamo la chiesa, cantiamo: “Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste”. Vediamo e riceviamo per
essere capaci di fare ciò che fecero gli apostoli. Cristo disse loro:
“Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,48). Ora, di che cosa
sono testimone? Sono testimone di tutto ciò che ho visto, di ciò
che ho ricevuto, di ciò che è accaduto a me nel mio battesimo.
Sono testimone che Dio mi ha amato e perciò ha amato ogni
persona; che Dio ha creato questo mondo e, quando questo
mondo lo ha dimenticato, Dio non lo ha dimenticato. È disceso
dal cielo, ha sofferto sulla croce, è morto. È risuscitato dai morti
e ci ha amato cosí tanto da donarci il suo Spirito Santo. Ci ha
dato tutto ciò come una possibilità, come una promessa, come
un dono libero. Di tutto ciò sono diventato testimone mediante
91Schmemann, Mondo, 72.
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
261
i sacramenti. E cosí, quando vado in mezzo alla gente, sia con
chi è felice, sia con chi soffre, con i giovani come con i vecchi,
non sto portando i miei programmi o le mie idee, ma Cristo
stesso. In questo consiste la santificazione della vita.92
Questa gioia del regno è quanto aiuta a vivere tutta l’esperienza umana nella chiave della divinoumanità, ad accogliere tutte le
ferite, i drammi, le sensibilità del mondo contemporaneo e allo
stesso tempo a percepire il flusso della vita divina che vivifica, sana,
guarisce, raggiunge tutto questo e non solo lo trasfigura, ma diviene
una rivelazione del corpo di Cristo nascosto nella storia e che si
manifesta al mondo progressivamente. Ed è ciò che dà anche una
grande creatività ed un senso di sano relativismo, che impedisce di
assolutizzare ogni cosa di questo mondo.
“Passa l’immagine di questo mondo”: non significa che questa
immagine sia cattiva o inutile […] significa che questa immagine è diventata in Cristo “passeggera”, dinamica, “relativa”,
aperta. Che, desacralizzando il modo di vita (il paganesimo), il
cristianesimo ha permesso di trasformare tutto in “modo di vita”
nel senso piú alto del termine, di fare di tutto una immagine.
Ed è solo nella misura in cui passa, cioè in cui essa si rapporta a
ciò che è dietro di lei, al di sopra di lei, davanti a lei che diviene effettivamente “immagine”. Ma perché questa esperienza
(“passa l’immagine di questo mondo”) divenga possibile e reale
bisogna che in questo mondo sia ugualmente data l’esperienza di
ciò a cui tutto è rapportato e si rapporta, che filtra attraverso
tutto e dà a tutto senso, bellezza, profondità e prezzo; esperienza
del regno di Dio il cui sacramento è l’eucaristia […] La Chiesa
è lasciata nel mondo per compiere l’eucaristia e salvare l’uomo
ripristinando il suo carattere eucaristico. Ma l’eucaristia è impossibile senza la Chiesa, cioè senza la comunità che conosce
la sua finalità unica, a niente riconducibile in questo mondo
– essere amore, verità, fede e missione, tutto quanto si compie
ed è manifestato nell’eucaristia o, in breve, essere il corpo di
Cristo. L’eucaristia “spiega” la Chiesa come comunità (amore
per Cristo e amore di Cristo), come verità (chi è Cristo, questione unica di tutta la teologia) e come missione (conversione
di tutti e di ciascuno a Cristo). La Chiesa non ha altra finalità,
92Schmemann, Life, 107.
262
6. La missione – anamnesis grata e gioiosa del regno
La porta dell’eternità
Sono passati otto mesi, e non ho scritto neppure una parola.
E non perché non ci fosse niente da dire: forse non ho mai
avuto tanti pensieri, interrogativi ed impressioni. Forse, piuttosto, perché l’altezza a cui mi ha elevato la mia malattia mi
faceva paura: avevo paura di cadere. E poi i primi mesi, fino
a Pasqua, ho scritto, lavorato, mi era venuta una gran voglia
che i miei libri in inglese uscissero in russo, sebbene, purtroppo, ormai non siano scritti con un accento russo e temo che
la traduzione non riuscirà a rendere quello che mi sembrava
importante dire. Presenza intensa di L’jana. Penso che senza
di lei, non ci sarebbero stati neppure questi otto mesi, vissuti
fondamentalmente nella pace e nella profondità. Tre visite di
Andrej.95
Tre visite di Serëža.96
Le visite dei Tkačuk97... Quanta felicità!98
altro scopo, non ha una sua “vita religiosa” separata dal mondo.
Altrimenti diverrebbe un idolo. È una casa da cui ciascuno parte
per il suo lavoro e in cui ciascuno torna con gioia per trovare in
casa la vita stessa, la felicità e la gioia, dove ciascuno porta i frutti
del suo lavoro e dove tutto si trasforma in festa, libertà e pienezza. Ma è appunto la presenza, l’esperienza di questa casa già
fuori del tempo, immutabile, penetrata di eternità e che rivela
l’eternità, è solo questa presenza a poter donare senso e valore a
tutto nella vita, a poter riferire ogni cosa che è in essa a questa
esperienza e a riempirla. “Passa la figura di questo mondo”. Ma,
solo con questo passare, il mondo con tutto ciò che contiene
diviene quello che è: dono di Dio, felicità della comunione a
questo contenuto, di cui è come la forma, l’immagine.93
Questa gioia che ci è donata come esperienza del regno, e che
da noi richiede l’accoglienza, la fedeltà e l’esercizio nel custodirla,
trasforma tutto in una porta verso questo stesso regno, compresa la
morte. Nel capitolo sulla morte, nel suo libro Per la vita del mondo, il
solo passaggio scritto in prima persona si conclude cosí:
Se io faccio mia questa vita nuova, mia questa fame e questa sete
del regno, mia questa attesa di Cristo, mia la certezza che Cristo
è Vita, allora la mia morte stessa sarà un atto di comunione con
la Vita. Perché né la vita né la morte ci possono separare dall’amore di Cristo. Io non so quando e come verrà il compimento.
Non so quando tutte le cose saranno consumate in Cristo. Non
so niente del “quando”, né del “come”. Ma so che in Cristo
questo grande passaggio – la Pasqua del mondo – è cominciata,
so che la luce del “mondo futuro” viene a noi nella gioia e nella
pace dello Spirito Santo, perché Cristo è risorto e regna la Vita.94
Il “sigillo” che la vita di Schmemann ha messo a questa verità
creduta, annunciata, proclamata possiamo trovarlo nelle ultime
parole scritte nel diario, in attesa della sua stessa morte, a cui già si
preparava per la malattia, che gli permette di verificare da un punto
di vista esistenziale in modo molto realistico ciò che era al cuore del
suo insegnamento e del suo stesso sacerdozio:
263
4. Conclusione
Nella crisi attuale, in cui società e mentalità secolari pervadono
inesorabilmente la vita della Chiesa, per cui all’interno della Chiesa
stessa sembra quasi che predomini la convinzione che la vita nuova
in Cristo sia oggi impossibile, Schmemann vede come unica e possibile risposta il ritorno ai contenuti, alla qualità, alla vita, e considera come non essenziali tutte le nostre attenzioni rivolte ai metodi
che in fondo nascondono una preoccupazione per i numeri, per la
quantità. La risposta, l’atteggiamento della Chiesa nel mondo di oggi
deve scaturire da una visione radicata nell’esperienza positiva, nella
reale possibilità della nuova vita in Cristo, della presenza effettiva del
95
Il fratello gemello di Alexander Schmemann (1921-2008), vissuto a Parigi.
96 Il figlio, giornalista, vincitore del premio Pulitzer (1990) e per lunghi anni
corrispondente del New York Times da Mosca, dal Sud Africa, dalla Germania e poi
da Gerusalemme. Attualmente lavora presso l’ufficio dell’International Herald Tribune,
l’edizione internazionale del New York Times, a Parigi. Informazioni ricavate da contatti personali.
93Schmemann, Dnevniki, 17 dicembre 1973, 58-9.
97
94Schmemann, Mondo, 137.
98Schmemann, Dnevniki, 1 giugno 1983, 652.
La famiglia della figlia Mar’ja.
264
La porta dell’eternità
regno di Dio in questo mondo. Custodire quest’esperienza, farne
continua memoria, è l’unica vera preoccupazione della Chiesa e
del singolo credente. Solo a partire da qui possiamo rapportarci al
mondo cosí come si presenta oggi con le sue problematiche e le sue
tensioni. E solo a partire da qui possiamo, paradossalmente, considerare il mondo come insufficiente e limitato e allo stesso tempo
vederlo come un dono, un sacramento che rivela l’amore di Dio
per noi. Ed è proprio questo paradosso, questa possibilità di essere
da un lato decisamente critico verso il mondo e dall’altro viverlo
come un sacramento rivelatore dell’amore di Dio, che caratterizza
principalmente la personalità di Schmemann nelle sue opere, nelle
sue riflessioni e nella sua vita. Infatti, come abbiamo visto, se il mondo in cui viviamo è limitato, la persona ha la possibilità di superare
questo limite innalzandosi là dove non ci sono limiti, perché non c’è
morte. La missione della Chiesa è indirizzarsi prevalentemente alla
persona umana che, unica, è capace di rendersi conto della morte,
custodendo e vivendo allo stesso tempo la memoria della risurrezione e della vita nuova in Cristo. La missione della Chiesa è di vivere
della vita nuova in Cristo e renderla cosí manifesta. Ma può farlo solo
come assemblea eucaristica. Infatti la centralità dell’eucaristia per la
missione della Chiesa è data per ciò che essa compie e non per il suo
carattere istituzionale. La liturgia della Chiesa costituisce la Chiesa
come corpo di Cristo e permette cosí ad ogni singolo battezzato di
vivere la propria identità sacerdotale nell’atto anaforico della Chiesa
che è l’eucaristia, in cui tutto è elevato alla memoria che Dio ha di
noi in Cristo. La missione del sacerdote è di edificare il corpo di
Cristo che è la Chiesa. E questo corpo è un corpo essenzialmente
sacerdotale e sacrificale, dove Cristo è sacerdote ed offerta allo stesso
tempo. La missione della Chiesa è quella di permettere di vivere
il rapporto con Dio che è essenzialmente un rapporto di dono e
offerta. E siccome il dono e l’offerta costituiscono il contenuto del
memoriale, l’identità anamnetica della Chiesa, la Chiesa come memoria vivente è al fondamento dell’impegno creativo nello sforzo
missionario e pastorale della Chiesa stessa.
Considerazioni
conclusive
Alla fine di questa ricerca, possiamo sintetizzarne i punti focali.
1) Partendo da considerazioni antropologiche e culturali generali, abbiamo visto anzitutto che la memoria come realtà umana è
strettamente legata alla vita, all’esperienza della persona umana. Essa
ha un’importanza fondamentale nel processo della coscienza e della
conoscenza ed è quella dimensione dell’intelligenza che fonda la
conoscenza di sé e del mondo in ciò che la persona umana ha sperimentato. Ciò che conosciamo tramite la memoria ha un forte potere
evocativo, perché è strettamente associato a quanto identifichiamo
con la vita e diventa per questo garanzia di futuro o timore per esso.
Ma, contemporaneamente, abbiamo visto anche che la memoria è
legata all’inevitabile scorrere del tempo, che essa significa pertanto
la consapevolezza che tutto si perde, che l’esistenza è un processo
di morte e che nessuno è in grado di risuscitare il proprio passato.
Questa duplice valenza della memoria è ancora piú evidente
nella relazioni interpersonali. Se, da un lato, la memoria è legata
alla vita e se la vita è comunicata tramite le relazioni interpersonali,
anche la memoria, come la vita, è sigillata dal mistero dell’amore,
del relazionarsi e del comunicarsi. Ma, dall’altro lato, siccome le
relazioni sono esposte al peccato e al male, anche la memoria umana
non sfugge a questa condanna. Cosí, abbiamo visto che il peccato
è divisione, decomposizione, fonte della frantumazione. Con esso,
vita, comunione, memoria, libertà, gioia, vengono percepite come
realtà isolate. Ogni realtà della creazione è condannata ad essere
comunione soltanto con sé e non con Dio, e dunque è destinata
alla morte. L’uomo ama le cose della creazione, ma come fine in sé,
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