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Influenze esterne Alto, Medio, Basso Polesine

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Influenze esterne Alto, Medio, Basso Polesine
Influenze esterne
Alto, Medio, Basso Polesine
A cura di: Mozzato Daniele, Buoso Mirko, Barison Daniele, Benini Stefano, Paneduro
Vincenzo
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INTRODUZIONE STORICA E NATURALISTICA
POLESINE
DEL
Il paesaggio agrario e,
più precisamente, gli
insediamenti, la loro
distribuzione e dislocazione nel territorio, i
caratteri
architettonici
degli edifici risentono,
nel loro evolversi, sia
delle condizioni climatiche e idrogeologiche
dell’ambiente, del tipo di
economia e di colture
dominanti, sia delle
vicende politiche succedutesi nel corso dei
secoli. Perciò pensiamo non sia inutile delineare, sia pur sommariamente del punto di
vista storico, lo sviluppo che hanno avuto l’agricoltura e l’insediamento umano nella
regione geografica chiamata “POLESINE”.
Polesine, nell’interpretazione piuttosto diffusamente accettata, significa terra emersa
o circondata dall’acqua e tale carattere “insulare” ci sembra ancor oggi l’elemento
peculiare che distingue questa dalle altre province venete.
Ad avvalorare tale tesi è sufficiente osservare la estrema varietà di sfumature che
presentano le parlate dialettali palesane, sia pure all’interno delle tre zone in cui
recentemente è stato suddiviso il territorio: alto, medio e basso Polesine.
Spesso, infatti, basta un fiume, un canale o un argine, per segnare una separazione o
accentuare una distanza culturale tra due comunità, vicine peraltro nello spazio,
contribuendo a mantenere inalterato uno spiccato spirito campanilistico e determinate
tradizioni non solo folkloristiche.
Tale divisione, oltre a testimoniare una secolare separazione culturale, è strettamente
legata ai diversi processi d’evoluzione economica, politica e sociale cui sono state
sottoposte le varie zone interessate.
Nell’area del delta, dove c’è stato un popolamento recente e variato, il patrimonio
folkloristico, per esempio, si presenta molto eterogeneo ed alquanto composito; l’alto
Polesine, ( veneto o mantovano o ferrarese) invece, dove la proprietà contadina e più
antica e diffusa e minore la consistenza del bracciantato agricolo, appare più ricco di
tradizioni, rispetto al medio e basso Polesine.
Perciò, tenuto conto di queste diversificazioni, col rischio di cadere in un certo
schematismo, si è ritenuto opportuno affrontare separatamente la trattazione storica
dell’insediamento rurale nelle tre zone palesane, non rispettando sempre il
compartimento territoriale e distrettuale nel quale oggi sono comprese.
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L’ALTO POLESINE (POLESINE DI FICAROLO)
Villa a Fiesso
Questa zona comprende oggi i Comuni
di: Bagnolo Po, Bergantino, Calto,
Canaro,
Canda,
Castelguglielmo,
Castelmassa,
Castelnuovo
Bariano,
Ceneselli, Ficarolo, Fiesso Umbertino,
Gaiba, Giacciano con Barruchella,
Melara, Occhiobello, Pincara, Salara, S.
Bellino, Stienta e Trecenta.
Questa area dal 755 venne inglobata nei
beni patrimoniali della Chiesa di Roma.
Dopo le lotte longobarde e franche, il
Papato, intento a consolidare la sua
organizzazione ecclesiastica e civile
nell’Italia settentrionale, cercò di
diminuire la concorrenza della Chiesa di
Ravenna. Nel 967, con la con la bolla di
Giovanni XII, il vescovo di Ferrara
riceve dal Papa conferma della dotazione
in benefico di dodici gruppi di poderi.
Tra le dodici masse, insieme a località ferraresi, incontriamo anche “Pericoli”,
identificato dal Pigna come S. Donato di Pedrurio e “Castellione”, dal Guarini
identificato con Ficarolo. Dei possessi altopolesani concessi ai vescovi di Ferrara
dalla Chiesa di Roma, abbiamo una più circostanziata indicazioni nella Bolla di
Gregorio VIII del 1187.
Accanto a questo dobbiamo ricordare anche le altre pievi, sempre soggette al
vescovo di Ferrara, dalle quali rimane vago il patrimonio fondiario, ma non vengono
menzionate nella Bolla di Celestino II (1143). Tutto questo patrimonio immobiliare
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che copriva già una buona parte dell’attuale Alto Polesine, viene da vescovi ferraresi
concesso a religiosi o laici e amministrato per mezzo di uomini fidati alle proprie
dipendenze con la funzione di visconti o di “saltari”.
In tal modo tutte le maggiori famiglie ferraresi, compresi gli Estensi, si formano i
loro patrimoni, usufruendo dell’opportunità di godere delle esenzioni e delle
immunità concesse ai beni ecclesiastici.
Com’è facile immaginare, queste terre comprese nella Transpadana e facenti capo
alle ville, “Statuta Ferrariae” dell’anno 1237, si presentavano nel Medioevo come
ampie distese alluvionali e l’agricoltura poteva venire effettuata solo nei terreni
emergenti, separati fra loro da velli e acquitrini in cui era praticata la caccia e la
pesca. Si trattava dunque prevalentemente di una zona di pascoli, abitata in maniera
alquanto rarefatta e tenuta ancora in scarsa considerazione come zona produttiva in
età comunale.
Il paesaggio a palude veniva ad assumere le funzioni di «limes protettivo, a copertura
del fiume, con lo scopo di assicurarsi la stabilità». Già a partire dal secolo X fino al
secolo XII e oltre, infatti, cominciarono a diffondersi numerosi castelli e rocche.
Arroccati nelle immediate vicinanze dei corsi d’acqua, essi
«non erano
probabilmente poderosi manieri destinati alla vita autonoma del grande feudatario,
ma piuttosto “caserme fortificate”, costruite per ospitare il funzionario,
rappresentante del signore, assistito da buona scorta militare».
Nonostante tutti gli sforzi di presidiare queste terre a scopo di difesa dai nemici
politici e dalle forze naturali, i progressi non dovettero essere stati eccessivi.
Ci troviamo di fronte a piccoli centri o villaggi, quasi sempre sorti vicini ai maggiori
corsi d’acqua oppure vicini ai margini delle strade o ad un estremo del podere
rispettivo. La chiesa avendo un beneficio sempre spezzettato non costituiva prima del
1400 un punto di attrazione per gli agglomerati rurali, anche il tenore di vita degli
abitanti di campagna era piuttosto misero, tanto che, durante i frequenti periodi di
carestia, erano costretti a cibarsi di erbe e di pane fatto con farina di cortecce.
Nonostante il maggiore interesse prestato dalla signoria Estense nel corso del secolo
XV per aumentare l’approvvigionamento di derrate alimentari, si intensificarono le
investiture aventi un chiaro scopo di bonificare i territori ricevuti, scarso doveva
essere il reddito che le popolazioni residenti potevano ricavare, come livellari,
coltivatori diretti, sulle terre dei feudatari, laici o ecclesiastici.
Ancora nel 1576, la maggior parte di queste si presentava, infatti, improduttiva,
perché destinata prevalentemente a boschi, a prati e a pascoli. Dall’estimo di
quell’anno, si può rilevare che la percentuale del terreno incolto nella villa di
Trecenta era ad esempio il 73,2 % dell’intera superficie; a Massa Superiore
(Castelmassa) il 43,5%; a Runzi il 41%, a Stienta il 41% e a Raccano il 32%.
Né d’altra parte le grandi famiglie ferraresi che già in parte conosciamo ed altre,
avevano molto interesse ad intraprendere lavori di risanamento su vasta scala. Lo
stesso modo si comportano gli ordini religiosi come quello benedettino che pure, nei
secoli precedenti, si era reso benemerito nel Polesine di vaste iniziative di bonifica.
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Solo qualche anno più tardi (1564 ), affidando l’incarico prima al padovano Isidoro
Portello e poi al conte Nicolò Estense Tassoni, il Ducato Estense si dedicherà a
intraprendere in maniera più sistematica l’opera di bonificazione della Transpadana.
Complessivamente il territorio bonificato interessò 6909 ettari nella circoscrizione di
Zelo (chiamata Bonificazione di Sopra) e 4572 ettari in quella di Stienta (chiamata
Bonificazione di Sotto): in tutto 11481 ettari.
Un secolo più tardi, cioè nel 1779, possiamo avere un ulteriore quadro della
sistemazione agricola che intanto si era venuta evolvendo in Transpadana. Lo
possiamo desumere dai dati del Catasto Carafa, relativo alle 16 ville distribuite nelle
guardie idrauliche del tempo. La situazione migliorerà sensibilmente soltanto agli
inizi dell’Ottocento, dopo la parentesi napoleonica, quando sulle proprietà nobiliari o
ecclesiastiche subentreranno sempre più nuove figure di imprenditori agricoli di
estrazione borghese. Sotto la spinta di queste nuove forze, si estendono nella zona le
aziende condotte a boaria e a compartecipazione.
Nonostante vari disagi, dal punto di vista delle campagne agricole, nel complesso era
aumentata senz’altro la produzione unitaria per ettaro del grano e dei cereali minori.
Il bestiame era migliorato nella qualità: oltre i bovini di razza podalica o pugliese, si
importava bestiame di razza romagnola e, al posto dei buoi, al tiro si sostituivano le
vacche; nei terreni seminativi di vecchie e recenti bonificazioni si estendeva pure la
coltivazione delle viti in filari. La situazione rimaneva stazionaria invece nei terreni
dati in affitto.
Ulteriori progressi si avranno poi agli inizi del ‘900, come si può ricavare dal catasto
agrario del 1929.
Era aumentata notevolmente la produttività dei terreni coltivati e furono migliorate
anche le condizioni economiche degli agricoltori, proprietari, conduttori in economia,
affittuari, coltivatori diretti, ma non altrettanto gli operai, salariati ed avventizi, i quali
erano frattanto aumentati per il richiamo dell’intensificazione delle opere di bonifica
e di miglioramenti fondiari.
Nell’alto Polesine tra il XVIII e il XIX sono rare o del tutto scomparse le grandi
proprietà di derivazione medioevale. Le uniche testimonianze di esse possono
considerarsi le costruzioni originate dai vari castelli o ad essi ispirate: la villa Schiatti,
la villa Pepoli ora Spalletti (a Trecenta), la casa ex Pepoli ora Spalletti (a Sariano), la
villa Camerini, ora Bertelè (a Stienta) e altre costruzioni minori.
Prevale invece la piccola proprietà e «l’originale grande corte di Bonifica… ha
ceduto il posto ad abitazioni di ridotte dimensioni, che formano un unico corpo con il
rustico. Sono le abitazioni dei coltivatori diretti, piccoli affittuari o piccoli
proprietari, e corrispondono alle esigenze di un frazionamento della proprietà
fondiaria assai accentuato».
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IL MEDIO POLESINE (POLESINE DI ROVIGO)
I Comuni attualmente compresi in questa zona sono: Arquà Polesine, Bosaro,
Ceregnano, Costa di Rovigo, Crespino, Frassinelle, Fratta Polesine,
Gavello, Guarda Veneta, Lusia, Pettorazza Grimani, Polesella, Pontecchio Polesine,
Rovigo, San Martino di Venezze, Villamarzana, Villadose, Villanova del Ghebbo,
Villanova Marchesana. Insieme alle rispettive frazioni, per alcune ragioni storiche
comuni, aggiungeremo in tale sezione anche i comuni di Lendinara e Badia.
A partire dal secolo VI, anche in questa zona vediamo consolidarsi la giurisdizione
della Chiesa di Ravenna a scapito dei vescovi adriesi cui vengono sottratti i territori
di Sant’Apollinare, di Crespino e di Gavello. Si ripete pure nel corso del secolo VIII
la controversia tra la Chiesa e la Santa Sede, la quale sulle terre dipendenti
dall’Esarca di Ravenna crea alcuni nuclei patrimoniali direttamente dipendenti da
essa.
Così nel corso del IX, anche se Ravenna continua a mantenere la sua influenza sul
Polesine, aumenta pure il potere e l’autonomia del vescovo di Adria.
Con l’ausilio degli ordini monastici che seguivano la regola di San Benedetto, su
diverse località della zona inizia l’opera di bonificazione. Anche se mancano
documenti prima del Mille, è certa la presenza dei benedettini di Pomposa, infatti,
attorno agli anni 972-76 si ha la testimonianza ad esempio di alcune investiture
enfiteutiche. Tradizione che durerà fino al secolo XV, allorché, ritirandosi i monaci
all’Abbazia di origine, lasceranno agli abitanti delle rispettive località l’investitura a
titolo di livello delle valli bonificate e da bonificare, dando così origine ai domini
collettivi: le “Comuni”.
Dopo una fase di prevalenza benedettina, si ha un periodo dove l’ordine monastico
maggiormente presente è quello dei Certosini, infatti, dall’archivio parrocchiale di
Villanova Marchesana risulta: «Appartenevan ad essi le campagne: franceschina,
ferraresa, polesina, croce, tramilunghi, valloncello e qualche altra…».
All’estremo opposto, ma sempre nei pressi di un altro fiume, l’Adige, sorgeva e si
ingrandiva nei suoi pressi un altro monastero benedettino, quello della Vangadizza.
Questi monaci erano devoti alla Madonna. E, anche se dal 1012 seguirono la regola
di San Romualdo, che imponeva la vita contemplativa, ciò non impediva che non
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potessero continuare a ricevere donazioni o che l’abate non seguitasse ad esercitare la
propria giurisdizione anche su chiese soggette alla diocesi di Adria.
L’inizio del dominio della casa Estense, su questa zona si avrà a cominciare
dall’epoca delle investiture, quando cioè l’autorità imperiale subentrerà al papato,
assumendo una posizione di iniziativa nell’esercizio dei diritti sovrani sulle terre della
chiesa e quindi anche sull’adriese. Infatti tale esercizio viene parzialmente delegato ai
discendenti di casa d’Este, specie nel corso del secolo XIV, allorché gli Estensi
riceveranno la nomina di vicario apostolici sulle terre polesane.
Agli inizi del 1300, attraverso investiture vescovili e imperiali gli Estensi
consolidarono il loro potere sull’inero territorio. Verso la fine del secolo inizia per il
Polesine di Rovigo un periodo di “palleggio” tra la Casa Estense e la Repubblica
della Serenissima. Per far fronte alle dissestate finanze ferraresi, Nicolò III d’Este nel
1395 stipula un contratto con Venezia, e perciò si instaura tra le due istituzioni una
condizione di interregno (fino al 1438).
Durante questo periodo, l’area si trasformerà in un enorme stagno. Canali e argini
«scomparivano, confusi con le irruenti acque dell’Adige, che si calcola versasse un
terzo delle sue acque attraverso le due bocche, rimaste aperte per quasi settant’anni,
senza che nessun governo vi ponesse riparo». Solo al tempo di Borso d’Este ha inizio
l’opera di redenzione delle zone sommerse, attraverso lavori di arginatura del
Canalbianco che nel 1473 raggiunsero la Fossa di Polesella.
Oltre la Camera ducale a tale impresa contribuiscono le comunità locali e i privati,
ricevendo per ricompensa dai duchi Estensi privilegi e investiture.
Dopo un periodo di pace (1441-1481) la contea di Rovigo viene ad essere teatro di un
nuovo scontro tra estensi e veneziani, guerra che continua fino al 1484 e si conclude
con la vittoria da parte di Venezia di alcuni territori del Medio Polesine. Il dominio
della Serenissima, dopo alcuni tentativi di riprendere i territori da parte degli Estensi,
diverrà definitivo a cominciare dal 1515.
Nella prima metà del secolo XVI, la situazione delle campagne polesane si
presentava abbastanza florida. Infatti, dei 130˙000 campi, 100˙000 erano arativi e
prativi e 30˙000 vallivi. Ben presto perciò i patrizi veneziani cominciarono ad
insediarsi su queste terre, facendosi quelle magnifiche dimore che tutti conosciamo.
Intanto verso la metà del 1500, il governo di Venezia riprende l’opera di bonifica,
lasciata interrotta dagli Estensi.
La popolazione del Polesine di Rovigo, agli inizi del Seicento rispetto al 1580 è quasi
raddoppiata, passando da 25˙000 alle 45˙000 unità e distribuita nelle trentaquattro
ville, «buona parte molto popolate, possedute perlopiù da nobili veneziani».
Il quadro però comincia ad offuscarsi un decennio più tardi, quando, alla ripresa delle
rotte dei fiumi, allo scoppio della pestilenza che decima la popolazione, si
aggiungono negli anni 1642-1644 i danni recati dalle operazioni di guerra di Castro,
durante la quale il Polesine «diventa luogo di accampamento e di confronto militare
fra gli eserciti delle diverse potenze». Di conseguenza si assiste ad una sensibile
riduzione demografica, ad una nuova crisi economica e nel contempo ad un’ulteriore
ripresa delle operazioni di bonifica su vaste aree del territorio.
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Intanto il graduale miglioramento dell’economia nella seconda metà del ‘600 «si
riflette anche nelle residenze padronali costruite ex novo o abbellite, mentre i centri
abitati, collocati lungo le vie di comunicazione, i corsi d’acqua o al centro di vaste
aree produttive, conoscono una più precisa strutturazione edilizia».
Nelle vaste operazioni di bonifica succedute a più riprese nel corso dei due secoli
XVI e XVII, essendo stati in gran parte dei nobili veneziani i notevolissimi capitali
investiti, è logico che i medesimi ne ritraessero i maggiori vantaggi. Perciò
assisteremo in questa zona al progressivo affermarsi della grande proprietà fondiaria,
che trova un ulteriore modo di estendersi nel secolo XVIII, in seguito alla
liquidazione dei consistenti beni comunali e delle proprietà di molti ordini religiosi,
voluta dalla Serenissima. Nel 1740, nel Polesine di Rovigo, appartenente ai nobili in
generale era, infatti, il 69,1% dell’intera superficie; ai cittadini apparteneva il 25,7%;
mentre agli ecclesiastici rimaneva solo il 2,7%.
Se nel Seicento vengono costruite nelle campagne venete 332 grandi ville, ben 403 se
ne aggiungono nel Settecento. Alcuni esemplari li troviamo anche nel Medio
Polesine.
Nella seconda metà del Settecento e soprattutto con l’inizio del XIX secolo, in
coincidenza con l’affermarsi del nuovo spirito fisiocratico diffuso dall’Illuminismo e
con la parziale sostituzione del ceto borghese alla vecchia classe padronale
aristocratica, si registrerà un’evoluzione di mentalità in senso capitalistico in rapporto
all’organizzazione aziendale.
La grande villa signorile non è più considerata «solo un luogo di ozio e di svaghi, ma
diviene il centro di una vera e propria azienda agraria signorile, nella quale gli
investimenti di capitali vanno anche e sempre più largamente in vere e proprie opere
di trasformazione e colonizzazione agraria, alla modifica di terre incolte a piantagioni
arboree ed arbustive utilitarie, ad opere di derivazione di acque e all’impianto di
nuovi poderi». Tale evoluzione è visibile particolarmente negli imponenti e grandiosi
“rustici”, che talvolta prendono il sopravvento rispetto alle stesse residenze padronali.
La grande proprietà affittata o qualche volta condotta “in casa” viene diretta dal
gastaldo, sull’operato del quale sovrintende il fattore; attorno ad essa vengono
distribuiti piccoli lotti che servono ai contadini, sia come salariati o come avventizi
occupati nell’azienda, per costruirvi sopra la casa o il “cason” e per coltivarvi un
poco d’orto, integrando così, nei casi fortunati, gli scarsi introiti che ricavavano dal
loro lavoro.
Le figure del mezzadro o del coltivatore diretto si diradano dalle campagne della
zona, perdurando solo nelle vaste estensioni ecclesiastiche o laiche, dove il fattore,
esercita funzione esclusivamente amministrativa, preoccupato soltanto a far adempire
al contadino il contratto stipulato.
Così verso la fine del secolo s’ingrossa sempre più la classe dei “giornalieri”, da essa
«i fattori che amministrano in boaria le terre del signore, possono attingere in ogni
periodo dell’anno la manodopera necessaria per i lavori saltuari». A differenza dei
salariati e gli obbligati, che perlomeno avevano l’alloggio assicurato, essi potevano
trovar posto solo nei casoni di paglia, per pochi soldi d’affitto, trascinando una vita
molto precaria che contribuirà ad alimentare il fenomeno del brigantaggio.
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Di solito le case sorgevano sul margine tortuoso d’interni viottoli, ma più spesso
erano “seppellite” dalle alte arginature dei fiumi. Erano formate da quattro pareti
costruite di terra conformata a mattoni e seccata ai raggi del sole, ma anche,
raramente, di pietra.
L’interno del casolare non di rado è composto da una sola stanza, con pavimento di
terra e poco illuminata, nella quale si trovavano rozze suppellettili di cucina e due o
tre giacigli. Contigui alla casa o dentro la medesima, ci stanno i ripostigli degli
animali domestici, dai quali sempre “emana un ributtante puzzo” che rende
malaugurato il soggiorno.
Se questo si può considerare il prototipo delle case dei braccianti ancora abitate
recentemente fino agli anni ’50, in corrispondenza della maggior diffusione della
grande e media proprietà incontriamo però in questa zona anche altre tipologie rurali.
Anzitutto le ville e i palazzi, costruiti in epoca estense e veneziana. I primi
dall’architettura più massiccia e più chiusa, i secondi, si sviluppano in verticale su tre
piani oppure seguono una linea orizzontale. Ad accentare tale linea, sia nelle une che
nelle altre costruzioni, contribuiscono in particolare modo il complesso dei rustici che
li circondano.
La dislocazione dei vari fabbricati presenta perlopiù due varianti: o sono disposti
lungo il medesimo asse (Ca’Marchesa ad Arquà), oppure si ordinano più o meno
regolarmente a U o a L attorno all’ampia aia quadrata (Ca’Venezze a Saline),
ricalcando lo schema “a corte” della tipica cascina lombarda.
Subordinatamente alle grandi aziende, a testimonianza dell’avvenuto processo di
frazionamento in età moderna, si trovano in questa zona le cosiddette “boarie” con i
vari fabbricati separati gli uni dagli altri, disposti in maniera allineata, a scacchiera o
sparsa così pure le piccole proprietà che si distinguono architettonicamente dalle
precedenti per la posizione del rustico (così è definita la stalla o il fienile) ad un
fianco dell’abitazione o incorporato nella stessa.
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IL BASSO POLESINE
Una corte rurale a Ariano Polesine
In
questa
sezione
orientale
della
provincia di Rovigo si
comprendono
attualmente i Comuni
di:
Adria,
Ariano
Polesine, Corbola, Contarina, Donada, Loreo,
Papozze, Porto Tolle,
Rosolina e Taglio di
Po.
Si tratta di una zona di
recente bonifica nella
quale l’insediamento è
avvenuto piuttosto tardi.
Se escludiamo Adria, Loreo, Ariano, Papozze e Corbola con le rispettive frazioni,
tutti gli altri paesi cominciarono a popolarsi solo in seguito alle opere di bonifica
intraprese con sistematicità nei secoli XVI e XIX. Dei centri più antichi Adria diventa
sede vescovile dipendente dalla chiesa di Ravenna.
Dopo il crollo Bizantino e le guerre tra Longobardi e Franchi, il Vescovo Adriese
riesce a sottrarsi alla subordinazione di Ravenna e ad ottenere il titolo di vassallo su
questa immensa zona, in quanto suprema autorità locale che gestisce le terre facenti
ora parte del patrimonio di S. Pietro, è lui che concede, a nome del Pontefice, regolari
investiture a marchesi, conti, vassalli e valvassori d’ogni specie; che affida i luoghi
coltivabili ai lavoratori; che accorda livelli, decime ed enfiteusi a religiosi e chiese.
Successivamente, venuta meno l’autorità papale e imperiale, in corrispondenza
dell’affermarsi dei liberi comuni, il Vescovo per tentare di opporre un argine allo
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sfaldamento del proprio feudo, chiede e trova appoggio nei vassalli di casa d’Este,
che avevano qui accumulato già un gran numero di investiture favorendo in tal modo
l’ascesa e l’affermarsi di questa dinastia anche sulla propria diocesi.
Man mano che nel corso del secolo XII si rafforzano le istituzioni comunali di
Rovigo, Ariano e Badia; Adria, pur seguendo la stessa evoluzione, si avvia
lentamente verso il declino, favorito dalle maneggevoli condizioni ambientali.
Nel secolo XIV le sue case furono continuamente sepolte e rifatte sulle alluvioni.
Dal 1309 Adria diventò così visconteria degli Estensi, che intanto avevano fissato la
loro sede a Ferrara.
Per gli effetti delle frequenti alluvioni del Po e dell’Adige anche le borgate circostanti
al comune Adriese andarono sempre più impaludandosi.
Gli sforzi per bonificare queste estese paludi, vallive e boschive, per mezzo di
arginature e di incanalamenti dovettero dare risultati.
Qualche decennio più tardi, infatti, alle rotte e alle alluvioni periodiche e naturali si
aggiunsero anche quelle artificiali a scopo strategico.
Con gli inizi del nuovo governo della Serenissima si assistette anche al risveglio della
zona Polesana soprattutto allorché si comincia ad affrontare in maniera più
organizzata la bonifica, imparando ad unirsi in Consorzi di Mutua Difesa.
Ma è con il famoso taglio di Porto Viro( 1579) che si porranno le condizioni per dare
tranquillità e sicurezza ai coloni e proprietari della zona, i quali, nonostante le
bonifiche avevano continuato a vendere i loro campi e averi.
Attorno ai secoli XVI e XVII dei 300mila ettari di terraferma 150mila ettari
diventavano coltivabili. Col sostegno del governo, i primi a lanciarsi in tale fortunosa
impresa sono i nomi più prestigiosi del patriziato Veneziano.
Questi patrizi, nel clima incerto e turbolento sia dal lato economico che politico, che
caratterizza i secoli XVII e XVIII, per sfuggire ai rischi del commercio o delle
imprese industriali, investirono sempre più frequentemente nel bene immobile della
terra, seguiti in questo anche da grossi borghesi. Si delinea in questo periodo il
fenomeno della concentrazione fondiaria nelle mani di pochi.
Questi vasti fondi affittati per lo più a conduttori interessati solamente allo
sfruttamento estensivo della terra non assicurarono più la sopravvivenza dei coloni e
dei piccoli proprietari terrieri che non possono permettersi di pagare i loro canoni in
denaro e perciò sono costretti a cedere il poco terreno di cui dispongono.
Costoro vengono a costituire fin d’ora il grosso della popolazione rurale
bassopolesana e andranno sempre più aumentando nei secoli successivi.
Dobbiamo attendere anche in questa zona alla così detta epoca della rivoluzione
agricola per avere alcuni progressi.
Nonostante questi progressi, il quadro d’insieme dell’agricoltura bassopolesana
sembra non essersi troppo modificato rispetto al passato: perciò il rispetto della
proprietà fondiaria non è nel popolo (come in quei paesi, ove quasi ogni famiglia
possiede) i furti campestri, specialmente sull’uva in autunno ed enormi sulla legna
d’inverno.
Quest’ultimo fenomeno, trova qui una sua particolare giustificazione, soprattutto se si
tiene presente che, a cominciare dall’insediamento in questa zona dei nuovi
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proprietari veneti e ancor più in seguito alla radicale bonifica meccanica, la maggior
parte della popolazione si vedeva privata dell’unica maniera di sostenimento che
spesse volte le era rimasta, cioè quella di raccogliere liberamente i prodotti spontanei
della palude.
Un miglioramento delle condizioni di vita sembra avverarsi nell’ultimo decennio del
secolo scorso e gli inizi del ‘900, in coincidenza con i primi effetti delle bonifiche,
che fanno registrare il record nazionale della produzione del frumento.
Ora, almeno una parte della popolazione agricola può contare finalmente su case più
sane e pulite.
Ma sono solo quelle dei salariati, degli obbligati, che hanno stanze da letto non a
terreno, finestre con imposte, letti sufficienti, vestiti bastevoli a coprire il freddo e,
per i giorni di festa, talora una certa eleganza.
Per i giornalieri, gli avventizi, le cose andarono diversamente.
Di nuovo quindi, dopo l’ultima guerra e le tremende conseguenze dell’alluvione del
1951, questa gente ormai senza speranza per non soccombere si aggrappa ancora
all’emigrazione, ma stavolta sarà un vero e proprio esodo senza ritorno.
Le vicissitudini ambientali e politiche sopportate da questa area del Polesine hanno
indubbiamente condizionato il suo sviluppo economico e sociale, lasciando profonde
tracce anche nel passaggio agrario.
Qui più che nel Medio e Alto Polesine perdura ancor oggi la grande proprietà.
Fino agli anni ’60, infatti, le aziende con estensioni comprese tra 100 e i 1000 ettari
erano 128; 9 quelle superiori ai 1000 ettari.
Il fenomeno della concentrazione fondiaria iniziato al tempo della conquista della
Serenissima (XVI secolo), è continuato e ancor più rilevato nella seconda metà
dell’Ottocento e nel primo Novecento allorché non appena bonificate queste regioni e
messe in condizione di coltivabilità, sono scesi da altre parti del Polesine e anche da
altre province facoltosi agricoltori con l’intento di esercitare una attività agraria su
vasta scala.
Ad interrompere l’uniformità del paesaggio bassopolesano, privo solitamente di
alberi e di viti, sono appunto le corti agrarie di queste vaste tenute.
Tra il complesso dei fabbricati che le formano, domina la villa padronale; nell’ala o
nelle ali minori sono ospitai in genere i magazzini e le cantine.
Gli edifici complementari si dispongono in maniera sparsa oppure attorno alla
vastissima aia centrale che si distende davanti al palazzo.
Discoste dalla corte, lungo la strada che immette in essa, sono le case dei salariati,
riunite in uno o più blocchi di edifici a due piani con accesso separato per ogni
famiglia.
Per quanto riguarda le abitazioni, anche se non mancano alcune eccezioni (specie nel
medio e basso Polesine), molto raramente riscontriamo la presenza del porticato
incorporato nella facciata.
La forma allungata e rettangolare delle case con un solo piano superiore e con tetto a
due falde è equilibrata in senso verticale dai camini che sporgono dal muro
perimetrale, muovendo appena la compattezza lineare della facciata e si innalzano
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con la canna fumaria al di sopra della copertura, terminando con una varietà notevole
di forme elaborate: a dado, a campana, ad imbuto ed a campana.
Le uniche aperture sono quelle corrispondenti alle finestre ed al portale di ingresso,
risolto frequentemente ad arco a tutto sesto, raggentilito da un fregio in rilievo nella
chiave di volta.
Nel nostro viaggio per le campagne del Polesine abbiamo potuto verificare che, se
sono molti gli edifici aziendali o le case bracciantili disabitati e abbandonati, nelle
case tuttora agibili che rendono irriconoscibili le originarie strutture.
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LE VILLE DI CA’ MARCHESE [ARQUA’ POLESINE]
A qualche chilometro dal
centro di Arquà in
località Granze, circondata da robuste mura si
trova Ca’ Marchese. Il
complesso, che attualmente versa in condizioni precarie e che in
alcuni in alcuni elementi
presenta uno stato di
estremo degrado, si articolava un tempo in
diversi edifici dei quali rimane leggibile, oltre al corpo principale con l’annesso
oratorio, solo il bel rusticane “La Zedrara” dalle eleganti volte ad arco ribassato.
Il nome del casato rimane tuttora legato ad uno dei più prestigiosi edifici cittadini:
palazzo “Manfredini al Duomo”. Sulla facciata principale del complesso si trova lo
stemma della famiglia rappresentato da un leone rampante.
L’assetto della proprietà in quel periodo, o quanto meno sul finire del XVII secolo,
che indica nel marchese Paolo Manfredi e nei suoi fratelli proprietari di tre fondi
particolarmente estesi. Nell’ampio perimetro del Loco Dominical si colloca la
residenza padronale unita a strutture funzionali all’esercizio dell’attività agricola.
Sarà comunque solo la mappa dell’estimo successivo, del 1775, che restituisce gli
edifici in proiezione assonometria.
Della proprietà, attribuita al marchese Giuseppe Manfredi, si distinguono la casa
padronale a due piani, l’oratorio con campanilino. Lungo il medesimo asse parallelo
alle strade, si osserva un altro nucleo costitutivo da due abitazioni, separate da un
fienile, mentre più discoste si affacciano sulla strada comune due costruzioni di
modeste proporzioni ad un solo piano.
Ca’ Marchese sembra voler seguire l’orientamento del fondo e della strada comune
lungo la quale si dispone. Il prospetto del corpo centrale non manifesta ancora la
simmetria che oggi la caratterizza, ed anche la successiva mappa del “Catasto
Napoleonico”. La mappa datata 1817, ben definisce comunque il rapporto tra il corpo
di fabbrica principale ed una costruzione che si mostra arretrata rispetto al fronte
dell’edificio e che probabilmente elude il rusticane attuale.
Rispetto al secolo scorso sembra che si siano aggiunte al nucleo altre adiacenze per il
ricovero degli attrezzi e la conservazione dei prodotti agricoli, mentre le abitazioni
delle maestranze si sono ridotte ad un’unica casa colonica. Il corpo di fabbrica
principale risulta censito come fabbricale per azienda rurale.
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Un ampio giardino separato dalla campagna da un poderoso muro di cinta, tuttora
esistente, e che lasciava aperto solo il lato est verso i profumati frutteti e vigneti che
si estendevano oltre la strada. Separata invece dalla strada chiamata ghiacciaia per la
presenza del fabbricato per la conserva del ghiaccio, si trova una zona strettamente
connessa al lavoro agricolo caratterizzata dall’ampia casa colonica.
Poco lontano, oltre i frutteti e i campi a maggese si allungava una peschiera di cui
ancor oggi rimane traccia. Dalla metà dell’800, non si sono verificati mutamenti
sostanziali nell’impianto, come si rileva anche dalla comparazione della mappa del
“Catasto Austriaco” con lo stato attuale.
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LA TENUTA DI CASTEL VENEZZE [SAN MARTINOI DI
VENEZZE (RO)]
ASSETTO ATTUALE DELL’INSEDIAMENTO
Il complesso è costituito da edifici disposti a “c”:
ƒA sud c’è la casa padronale;
ƒa ovest ci sono la cappella, la casa del fattore e un granaio;
ƒa est ci sono un’abitazione minore, una barchessa ed una residenza per i
lavoratori agricoli.
La corte è recintata a est, a sud ed a ovest, da un muro nel quale si aprono sei distinti
accessi. Uno si apre sul lato est e immette in una carrareccia, tre a sud immettono nei
campi attraverso un’altra strada che conduce alla corte di lavoro denominata
“Feniletto”. Questi ultimi tre accessi, originalmente chiusi da cancellate in ferro, sono
stati recentemente murati.
L’area racchiusa dal muro è quasi interamente occupata da un’enorme aia in mattoni.
L’area a nord della corte, è delimitata invece dallo scolo Pestrina.
Nel 1990, in seguito a una tromba d’aria, sono stati rifatti i tetti della casa, della
cappella e dei rustici.
La corte di lavoro “Feniletto”, già a suo tempo sistemata, ospita oggi, oltre
all’abitazione dei proprietari, un agriturismo.
Planimetria d’insieme
Come detto precedentemente, gli edifici della “Corte Ca’ Venezze”, sono disposti a
“C” (mappa a pagina seguente). Ognuno di questi corpi aveva una funzione diversa
che verrà in seguito descritta:
x CORPO A: Casa Padronale;
x CORPO B: Residenza dipendenti;
x CORPO C: Scuderie;
x CORPO D: Stalle;
x CORPO E: Granaio e magazzini;
x CORPO F: Cappella.
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Corpo A: Residenza Padronale
La casa padronale è sviluppata su tre piani più il sottotetto, con copertura in coppi,
quattro comignoli intermente lavorati.
Le finestre (binate) sono dotate di cornici e davanzali in pietra.
Al centro della facciata c’è lo stemma fatto in pietra, gli infissi erano in legno. Dietro
la casa padronale si trova un giardino abbandonato che ospitava la ghiacciaia. Sempre
a nord c’era il forno per fare il pane.
La ghiacciaia
Purtroppo non abbiamo molto notizie particolari perché è stata distrutta. Nelle
ghiacciaie sistemavano il cibo per mantenerlo fresco.
A delimitare il giardino c’è uno scolo: il Canale Pestrina, dove anticamente le donne
andavano a lavare i panni. Vicino al forno del pane c’era una stanzina dove esse
stendevano il bucato.
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Corpo B: Residenza Dipendenti
L’edificio è composto da un breve porticato ad archi ribassati disposti sul lato
orientale della corte. La casa dei dipendenti era molto più piccola e bassa di quella
padronale, i pavimenti erano in legno, il tetto è costituito da coppi.
La struttura interna è formata da due piani, la struttura orizzontale è composta da
solai in legno, gli infissi della porta e delle finestre sono in legno.
Corpo C: Scuderie
Le scuderie venivano costruite in legno e mattoni ed erano costituite da un solo piano.
La struttura verticale era in muratura, mentre le strutture orizzontali erano solo in
legno e coperte con coppi. Le scuderie non avevano né caminetti né decorazioni.
Nelle stalle trovavano riparo i cavalli che un tempo venivano usati come mezzi di
trasporto per carrozze e carretti.
Qui si raccoglieva il cibo per gli animali, il fieno e la paglia, per riposare. IN una
parte dell’edificio si trova il laboratorio del maniscalco; questo artigiano si occupava
di seguire la manutenzione dei mezzi di trasporto e ferrare i cavalli.
Corpo D: Stalle
Le stalle, come le scuderie, erano composte in legno e mattoni. Qui trovavano riparo
gli altri animali della corte, soprattutto le mucche.
Alcune parti erano adibite a deposito del fieno, nei locali annessi venivano messi al
riparo attrezzi e carretti.
Corpo E: Granaio e Magazzini
La Barchessa
Il fabbricato, situato ad
est
della
casa
padronale, è denominato “la Barchessa
dell’Ebreo”. Presenta
nel fronte principale
sud, cinque archi a tutto
sesto
articolati
da
parastre binate alle
estremità.
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Il granaio aveva soffitti molto alti, con tetto a due falde; nel granaio c’erano alcune
zone dove venivano riposti gli attrezzi. Veniva usato anche come cantina per la frutta
ed altri prodotti della terra. La parte più alta era occupata dal deposito del grano.
Corpo F: Cappella
La Cappella era dedicata a San Matteo Evangelista ed è stata costruita nel 1758 e
successivamente ristrutturata nel 1884. È sormontata da un fronte triangolare con
cornici in pietra; all’interno le pareti sono rivestite in marmo, mentre il soffitto a volta
a schifo è affrescato. Sono ancora presenti due altari marmorei.
E’ stata di recente spostata la tela raffigurante “la Madonna col Bambino” tra Santi
che si trovava sopra l’altare maggiore.
Il padrone assisteva alla Messa da uno spazio sopraelevato, mentre i lavoratori ne
prendevano parte nella cappella.
STORIA DELLA TENUTA CASTEL VENEZZE
La tenuta di Castel Venezze prende il nome da un antico castello che si trovava
intorno al 1100- 1404 (anno di distruzione) nella zona dove oggi sorge villa
Venezze.
Questo castello era un punto di difesa e di confine fra la repubblica di Venezia e il
Ducato di Ferrara, per questo era spesso punto di aspre battaglie fra veneziani ed
estensi.
Questi diedero vita ad un grande campagna di bonificazione nel territorio si San
Martino di Venezze già dal 1300.
Il nome al castello con il termine Venezze si dice derivi da “Castrum Venetiarum”
che i veneziani avevano costruito in questo luogo, essendo il più mediterraneo del
dogato, a difesa di Padova e del Polesine. Il castello si trovava in un punto strategico,
lungo la strada che collegava Rovigo a Padova e a sud del piccolo villaggio di San
Martino sorto attorno al 1200.
Il castello Venezze fu distrutto parzialmente nel 1404 durante una battaglia fra i
veneziani che occupavano il castello e gli estensi di Nicolò D’Este, che distrussero
parzialmente il forte veneziano.
Dopo anni di aspre contese tra veneziani e estensi, nel 1500 nel territorio di San
Martino immigrarono alcune famiglie nobili veneziane, fra cui i Frassetti che si
impadronirono di 200 ettari di terreno a sud di San Martino dove si trovavano i resti
del forte veneziano, e proprio lì decisero di costruire una tenuta con lo scopo di
coltivare il territorio preso in possesso.
La villa venne costruita attorno al 1560 - 1570 e venne denominata villa Venezze dal
nome della località e della fortificazione che li sorgeva molti anni prima, cosi anche il
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conte Francesco Fassetti, padrone della villa, abbandonò il suo vero cognome per
prendere il nome di Francesco Venezze, diventando il principale feudatario di San
Martino che assunse il denominativo di Venezze.
Venne anche costruita in questo periodo la cittadella della tenuta Castel Venezze che
permetteva l’alloggio dei contadini con tanto di chiesetta, dedicata al patrono di San
Martino ed all’evangelista San Matteo.
Successivamente vennero aggiunti anche i depositi agricoli, le scuderie e le cantine,
tutto ciò circondato da una cinta muraria. I Venezze ebbero la possibilità di vivere
all’interno della cittadella nella casa padronale, ma anche nella loro tenuta storica a
200 m dov’era situato il forte veneziano.
La cittadella o villa Venezze iniziò a raccogliere circa 80 lavoratori che ivi
risiedevano e svolgevano i compiti di lavoro nei campi e il servizio domestico presso
nobili Conti Venezze che dominarono S. Martino fino all’unità d’Italia (1861).
La villa nel corso di tre secoli venne ristrutturata e rimodernata più volte cambiando
spesso volto e aggiungendo altri locali.
La villa in 3 secoli ha visto il decadimento della repubblica Veneziana, il dominio di
Napoleone, il dominio austriaco e l’unità d’Italia.
Nella famiglia Venezze i discendenti ereditavano l’uno dietro l’altro fino ad arrivare
al 1818, quando in pieno dominio austriaco il conte Francesco Antonio Venezze ed i
nobili Marcassa e Mangigli (altri due nobili di San Martino) decisero di far avere a
San Martino un comune che prese la sede a palazzo Mangigli ed ebbe come primo
sindaco il conte Francesco Antonio Venezze, carica che ricoprì fino al 1870 quando
Carlo Marcassa divenne il primo sindaco non riconosciuto dall’impero Austriaco, ma
riconosciuto dal Regno d’Italia.
I conti Venezze sostenuti per molti anni dai veneziani e dagli austriaci perdono il
titolo di famiglia feudataria e principale di San Martino, dando però il loro cognome
al paese e alla località che circondava la loro villa rurale agricola.
I Venezze però continuarono fino alla fine del secondo conflitto mondiale a coltivare
ed allevare all’interno della loro tenuta agricola, tenendo il primato di azienda
agricola produttrice a San Martino.
I Venezze contribuirono anche a diminuire la disoccupazione in paese, assumendo
circa 100 lavoratori che sommati ad altri 90, che lavoravano già in villa,
contribuivano a coltivare i loro campi in cambio di un salario o di una casa.
La villa nei primi anni del novecento diventa il simbolo della storia di San Martino,
ma i contadini continuano ad abitarci ed a lavorarci sotto la direzione del conte
Stefano Venezze che decide insieme alla famiglia di trasferirsi prima nella loro casa
a Venezia e poi nella villa estiva in toscana.
Dopo i duri anni del Fascismo e dell’occupazione Nazista, villa Venezze perde i suoi
lavoratori che si trasferiscono per lavorare con altri proprietari terrieri del paese che
iniziano a comprare alcuni territori in possesso ai Venezze.
I conti Venezze nel giro di dieci anni (1946-1956) perdono molti terreni ed anche il
loro titolo nobiliare, facendo di conseguenza decadere la villa Vanezze e la loro
tenuta che resterà disabitata dal 1961 al 1979, quando il discendente della famiglia
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veneziana, Mario Di Bono Venezze decide di tenere la tenuta per scopo di
instaurarvi un agriturismo.
La villa-cittadella Venezze a 300 metri dalla tenuta agriturismo, viene ceduta prima
al comune di San Martino e poi al ministero dei beni culturali che l’affida alla società
delle Belle Arti.
La villa Venezze è tuttora chiusa ed in decadenza, ma è il simbolo storico della
cultura san martinese e veneziana.
Sono molti infatti gli oggetti storici della famiglia Venezze, che si trovavano
all’interno della villa con datazioni anche risalenti al diciassettesimo secolo.
Tutti questi oggetti sono finiti in musei veneziani su donazione della famiglia
Venezze.
Ancora oggi i Venezze risiedono nella tenuta agriturismo Venezze, che dista 300
metri dalla villa cittadella Venezze e che è una meta importante per riscoprire le
tradizioni antiche di San Martino.
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LE CORTI E LE VILLE DI CRESPINO (RO)
VILLA DEI PRINCIPI PIOSAVOIA (ORA LONGHI)
LA VILLA E IL PARCO
DI CA’ MARZOLLA
LE CASE RURALI E
POPOLARI DEL PASSETTO
DI CRESPINO (FORMATO
SOPRATTUTTO DA
EMIGRATI)
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CA’ LABIA [CAVARZERE (VE)]
Il complesso architettonico di Ca’ Labia fu costruito nella seconda metà del
Settecento su commissione della Famiglia Labia. È formato da una cappella
gentilizia, da una casa nobiliare, composta da innumerevoli e bellissime stanze, e da
una “barchessa” (ricovero per gli attrezzi, per gli animali, fienile e luogo dove veniva
messo ad essiccare il grano), che per la sua imponenza e la sua magnificenza può
persino superare per bellezza la casa padronale. Infatti, quest’ultima è molto curiosa
per la presenza di alcuni affreschi anche dentro le stalle dove riposavano gli animali,
raffiguranti gli illustrissimi antenati della famiglia Labia, appunto.
Tuttora l’intero complesso architettonico è di proprietà della famiglia Bullo che è
disponibile a guidare delle visite all’interno del complesso e nelle campagne
circostanti. Purtroppo oggi si conta un solo discendente di questa famiglia che ha
tanto segnato la storia di Cavarzere e non solo.
Degna di particolare attenzione è la cappella contenente tre statue di Angelo
Marinali; fu Simone Guerriero, dopo molteplici studi e confronti con altre statue dello
scultore, a pensare che fossero state fatte dal Marinali appunto.
Le tre statue hanno una particolarità: dietro sono piatte, questo fece supporre, sempre
a Guerriero, che fossero state staccate da una pala d’altare e forse da quella della
cappella gentilizia della villa dei Labia a Mira. Si pensa, infatti, che il conte Labia
fosse così affezionato alle tre statue, in stile barocco, (raffiguranti l’assunzione della
Madonna in Cielo con due angeli che assistono, sbigottiti, al miracolo) che le fece,
appunto, staccare da fondale per portarle qui a Cavarzere.
La Madonna in mezzo ai due angeli assume un movimento a spirale che sta a
simboleggiare un vento divino che la spinge verso l’alto e ad uno dei due angeli cade
il braccio dallo stupore.
Della Famiglia Labia si sa solo che si trasferì a Cavarzere verso la seconda metà del
‘700. Dopo aver dissipato tutti i loro averi andarono in rovina e oggi noi contiamo
solo un unico erede dei Labia.
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ATTO PER L’AVVIO
DELL’ATTIVITA’ DI
COSTRUZIONE DELLA
CAPPELLETTA
ATTO DELLA
CONSACRAZIONE
DELLA CAPPELLETTA
DA PARTE DEL VESCOVO
GIOVANNI SOFFIETTI
ATTO DI PASSAGGIO
DI PROPRIETA’ DI
ALCUNI BENI MOBILI
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