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la domenica - La Repubblica.it
la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2015 NUMERO 522 DISEGNO DI GIPI PER “REPUBBLICA” Cult La copertina. Il classico del cinema Straparlando. Piero Gelli: “Che stress la Fallaci” Mondovisioni. Nel ghiaccio di Nuuk Il grande scrittore americano aveva vent’anni quando firmò il suo racconto d’esordio Eccolo per la prima volta in Italia J.D. SALINGER ERSO LE UNDICI, Lucille Henderson, appurato che la sua festa stava veleggiando all’altezza giusta, e graziata da un sorriso di Jack Delroy, si costrinse a guardare in direzione di Edna Phillips, che dalle otto era seduta sulla grossa poltrona rossa a fumare una sigaretta dopo l’altra e a gorgheggiare saluti, con uno sguardo radioso che i ragazzi non si degnavano di cogliere. Visto che la direzione di Edna era rimasta la stessa, Lucille Henderson tirò un sospiro profondo quanto glielo consentiva il vestito, e poi, intrecciando quello che restava delle sue sopracciglia, lanciò un’occhiata in giro per la stanza ai giovani che aveva invitato a scolarsi lo scotch di suo padre. Poi frusciò decisa fin dove era seduto William Jameson Junior, intento a mangiarsi le unghie e a puntare una biondina seduta sul pavimento con tre V Il giovane Salinger ragazzi della Rutgers. «Ehilà» disse Lucille Henderson, artigliando il braccio di William Jameson Junior. «Vieni con me» disse. «C’è qualcuno che vorrei farti conoscere». «Chi?». «Questa ragazza. È uno schianto». E Jameson la seguì attraverso la stanza, cercando allo stesso tempo di dare il colpo di grazia a una pellicina sul pollice. «Edna, baby» disse Lucille Henderson. «Non sai quanto mi piacerebbe che conoscessi Bill Jameson, davvero. Bill… Edna Phillips. O vi conoscete già, voi due?». «No» disse Edna, prendendo atto del nasone di Jameson, la bocca molliccia, le spalle strette. «Sono tremendamente felice di conoscerti» gli disse. «Sì, già, io pure» rispose Jameson, confrontando mentalmente gli attributi di Edna con gli attributi della biondina dall’altra parte della stanza. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI NADIA FUSINI L’attualità. Valentino Parlato, souvenir di Libia L’inedito. I taccuini ritrovati di Basquiat Spettacoli. Iñárritu, ho vinto l’Oscar perché non mollo mai Sapori. Ma i veri masterchef non sono gli uomini L’incontro. Dada Masilo: “La mia danza è violenza” LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 30 La copertina. Il giovane Salinger New York 1935, i ragazzi fanno i grandi: molte chiacchiere, molto scotch, parecchia solitudine <SEGUE DALLA COPERTINA J . D . SALINGER ILL È UN CARISSIMO AMICO DI JACK DELROY» an- «B nunciò Lucille. «Non è che lo conosco poi tanto» disse Jameson. «Bene. Adesso devo filarmela. A dopo, voi due». «Prenditela calma!» le gridò Edna. Poi: «Non ti siedi?». «Boh, non so» disse Jameson. «È tipo tutta la sera che sto seduto». «Non sapevo che fossi un caro amico di Jack Delroy» disse Edna. «È una gran persona, non credi?». «Sì, già, è a posto, immagino. Non è che lo conosco poi tanto. Non ho mai bazzicato molto il suo gruppo». «Davvero? Pensavo di aver sentito Lu dire che eri un suo caro amico». «Sì, già, l’ha detto. Solo che non lo conosco poi tanto. Adesso però dovrei proprio andare a casa. Ho questo tema che devo fare per lunedì. Non pensavo neanche di tornare a casa per il weekend». «Ma la festa è ancora giovane!» disse Edna. «È il clou della serata». «Il che?». «Il clou della serata. Cioè è ancora presto». «Sì, già» fece Jameson. «Ma non pensavo nemmeno di venire stasera. Per via di ‘sto tema. Sul serio. Non so proprio perché sono tornato a casa questo weekend». «Ma, insomma, è ancora così presto!» disse Edna. «Sì, sì, lo so, ma…». Un party aspettando Holden «Su cos’è il tuo tema, comunque?». All’improvviso, dall’altra parte della stanza, la biondina scoppiò in una risata stridula, subito imitata dai tre ragazzi della Rutgers. «Su cos’è il tuo tema?» ripeté Edna. «Boh, che ne so» disse Jameson. «Su questa descrizione di una cattedrale. Una cattedrale in Europa, tipo. Non so». «Cioè, cos’è che devi fare?». «Non lo so. Dovrei scrivere un commento, o roba del genere. Me lo sono segnato da qualche parte». Di nuovo, la biondina e i suoi amici scoppiarono a ridere. «Un commento? Allora l’hai vista?». «Visto cosa?» disse Jameson. «Questa cattedrale». «Chi, io? Ma va’». «Scusa, ma come fai a scrivere un commento se non l’hai mai vista?». «Ah già. Ma mica io. È questo tizio che l’ha scritto. Io dovrei commentarla partendo da quello che ha scritto lui, tipo». «Mmmh. Capisco. Roba tosta». «Che hai detto?». «Roba tosta, ho detto. Lo so bene. Non hai idea di quante volte mi è capitato di fare a botte con quella roba». «Eh già». «Chi è il tipo che l’ha scritta?» chiese Edna. Altro scoppio d’esuberanza dalla postazione della biondina. «Cosa?» disse Jameson. «Ho detto, chi l’ha scritta?». «Boh, che ne so. John Ruskin». «Ragazzi!» disse Edna. «Allora stai fresco». «Che hai detto?». «Ho detto che stai fresco. È roba tosta, insomma». «Eh già. Mi sa di sì». «Chi stai guardando?» chiese Edna. «Conosco quasi tutta la banda che c’è qui stasera». «Chi, io?» fece Jameson. «Nessuno. Mi sa che andrò a prendere qualcosa da bere». «Ehi! Mi hai tolto le parole di bocca». Si alzarono simultaneamente. Edna era più alta di Jameson e Jameson era più basso di Edna. «Penso che ci sia della roba là fuori in terrazza» disse Edna. «Qualche schifezza ci dev’essere. Non sono sicura. Possiamo provare. Tanto vale prendere una boccata d’aria». «D’accordo» disse Jameson. Si spostarono verso la terrazza, Edna piegando leggermente le ginocchia e spazzando via della cenere immaginaria da quello che, dalle otto, era stato il suo grembo immobile. Jameson la seguì, guardando indietro e mordicchiandosi l’indice della mano sinistra. Per leggere, cucire o fare cruciverba, la terrazza degli Henderson non aveva un’illuminazione adeguata. Infilandosi con leggerezza attraverso la porta a zanzariera, Edna avvertì quasi subito un mormorio di voci sommesse provenienti da un angolo vicino molto più buio alla sua sinistra. Ma andò dritta in fondo alla terrazza, si appoggiò pesantemente alla ringhiera bianca, tirò un profondo respiro, poi si girò a cercare Jameson. «Sento qualcuno parlare» disse Jameson raggiungendola. «Shhh… Non è una notte favolosa? Prova a fare un respiro profondo». «Dov’è il carburante? Lo scotch?» «Solo un secondo» disse Edna. «Dai, fa’ un respiro profondo. Solo una volta». «Sììì. Fatto. Forse è là in fondo». La lasciò e andò dritto verso un tavolo. Edna si girò a guardarlo. Per lo più in controluce, vide la sua sagoma sollevare e posare oggetti sul tavolo. «Non c’è più niente!» le gridò Jameson. «Shhh. Non così forte. Vieni qui un minuto». Lui la raggiunse. «Che c’è?» chiese. «Guarda il cielo» disse Edna. «Sì, già. Sento qualcuno parlare da quella parte. Tu no?». «Sì, scimunito». «Come sarebbe scimunito?». «Certa gente» disse Edna «vuole starsene in pace». «Ah. Ho capito». «Non così forte. Ti piacerebbe se qualcuno ti rovinasse tutto?». «Sì, già. Certo» disse Jameson. «Io penso che potrei uccidere qualcuno, tu no?». «Boh, forse. Immagino di sì». «Allora, cosa fai tutto il tempo quando sei a casa per il weekend?» chiese Edna. «Chi, io? Non so». «Vai in giro a far danni, eh?». «In che senso?» chiese Jameson. «Lo sai, a rimorchiare, le solite idiozie dei ragazzi del college». «Naa. Non so. Non molto». «Sai una cosa?» disse Edna di punto in bianco. «Tu mi ricordi un sacco questo ragazzo con cui uscivo l’estate scorsa. Cioè il tuo aspetto eccetera. E Barry aveva il tuo fisico, tale e quale, sai. Asciutto». «Ah sì?». «Già. Era un artista. Oddio!». «Che c’è?». «Niente. Solo che non dimenticherò mai quella volta che voleva farmi un ritratto. Mi diceva sempre — serio come la morte, oltretutto: “Eddie, tu non sei bella secondo i canoni convenzionali, ma c’è qualcosa nella tua faccia che voglio catturare”. Serio come la morte lo diceva, oltretutto. Bene. Ho posato per lui solo quella volta». «Sì, già» fece Jameson. «Ehi, potrei entrare e portarti fuori qualcosa…». «No» disse Edna. «Fumiamoci una sigaretta piuttosto. È grandioso qua fuori. Voci amorose e tutto, come dici?». «Non credo di averne ancora. Ne ho un po’ nell’altra stanza, penso». «No, lascia perdere» gli disse Edna. «Io ne ho qualcuna con me». Aprì la borsetta da sera e tirò fuori una scatoletta nera decorata di strass, la aprì e offrì una delle tre sigarette a Jameson. Prendendola, Jameson ribadì che doveva proprio andare, che glielo aveva detto di questo tema che doveva fare per lunedì. Alla fine trovò i fiammiferi, e ne accese uno. «Comunque» disse Edna, tirando boccate dalla sigaretta, «mi sa che la festa finirà presto. Hai notato Doris Leggett, a proposito?». «Qual è?». «Terribilmente bassa? Biondastra? Che stava con Pete Ilesner? Ma sì, devi averla vista. Era seduta sul pavimento, come al solito, e rideva a crepapelle». «Ah, è quella lì? La conosci?» chiese Jameson. «Bah, più o meno» gli disse Edna. «Non è che l’abbia mai bazzicata molto. In realtà la conosco soprattutto per quello che Pete Ilesner mi raccontava di lei». «E lui chi è?». «Petie Ilesner? Non conosci Petie? Oh, è un grande. È uscito con Doris Leggett per un po’. E secondo me lei lo ha fatto nero. È stata tremenda con lui. Semplicemente schifosa, dico io». «In che senso?» chiese Jameson. «Che vuoi dire?». «Be’, lasciamo perdere. Mi conosci. Odio metterci bocca quando non sono sicura e così via. Non più. È solo che, in ogni caso, non cre- la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 31 Il racconto d’esordio dell’autore del “Giovane Holden” per la prima volta pubblicato in Italia © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMANI IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) ASCANIO CELESTINI LEGGE J.D. SALINGER Lo scrittore che ai cocktail preferì la vita NADIA FUSINI L FETICISMO ESISTE. È una forma deviata dell’amore. In letteratura si manifesta nel fanatismo accanito dei lettori che oggi corrono sulla Rete per scaricare racconti “rubati” di J. D. Salinger. A loro non bastano quelli che l’autore ha voluto donarci mentre era in vita, che ha curato e limato, ossessivo com’era nel suo minimalismo sublime. Mentre altri li ha giustamente scartati, forse dimenticati; oppure trasformati, perché un libro di racconti, un romanzo, nascono anche grazie alle parole e alle frasi che lo scrittore elimina, in cerca di una perfezione che avviene soprattutto in virtù della fondamentale arte della sottrazione. Così senz’altro nasce Il giovane Holden, il più importante libro di Salinger — a tutt’oggi il migliore. L’irripetibile manifesto in cui si sono riconosciute più generazioni. Ma la passione incalza e il devoto feticista in una sopravvalutazione dell’oggetto d’amore non si stanca di scovare altri frammenti da adorare, a dimostrazione che il suo è un amore plastico, niente affatto spirituale. E non si nutre del bene e del bello, ma dell’oggetto erotizzato al di là del suo valore. Conta la fascinazione immaginaria, non la cosa in sé. Così sono spuntati in internet racconti scannerizzati “rubati” dalle casseforti delle biblioteche in cui viene custodito il patrimonio Salinger. Amo Salinger, ma non ho voglia di partecipare alla caccia. Capisco che la sua riservatezza «quasi egiziana» possa invitarci allo stalking, ma rispetto la volontà dello scrittore sottrattosi al mondo in serrata clausura. «Amo scrivere» disse Salinger nel 1974; «scrivere per il mio proprio piacere. C’è una straordinaria pace nel non pubblicare». Scrivere e non pubblicare: se questo ha fatto il nostro eroe per anni della sua vita nelle colline del New Hampshire, un tesoro sicuramente ci attende negli anni avvenire. Aspettiamo... Intanto, però, del tutto legalmente possiamo leggere tre racconti inediti che escono in italiano per i tipi del Saggiatore nella traduzione di Delfina Vezzoli. Del primo che qui anticipiamo, I giovani, che dà il titolo alla raccolta, rinforzata anche nel numero delle pagine da un saggio entusiasta di Giorgo Vasta, colpisce come fin da subito lo scrittore americano abbia chiaro in mente il suo pubblico e il suo tema. I lettori a cui si rivolge sono the young folks e il tema è l’adolescenza. Nella letteratura americana il racconto d’iniziazione ha già una tradizione, e che tradizione! Pensate ad Huckleberry Finn di Twain, a Flora e Miles di James, a Nick Adams di Hemingway — racconti in cui le angosce legate al rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta lasciano segni indelebili nel protagonista e nel lettore. E un’inquietudine non solo generazionale, ma universale. In Salinger il motivo è ripreso e modulato in arabeschi di estenuante ricerca della leggerezza intesi a descrivere prove di crescita che abortiscono in solitudine. Crescere è senz’altro un problema per the young folks del primo racconto mai pubblicato da un Salinger poco più che ventenne. Ma Edna, la giovinetta incaricata in questo caso di esprimere tale difficoltà, nelle circostanze ambientali datate di un cocktail-party in un appartamento della New York degli anni Trenta, non sboccia in un vero e proprio protagonista. Edna non è ancora Holden, ma va nella direzione di creare quel prototipo a firma Salinger a prova di brevetto di una individualità umana, sentimentale e emotiva, che aspira a un’esistenza più autentica, più vera. E si ritrova continuamente immerso nella phoniness, nella falsità, nell’inautenticità della vita americana. I NON È CHE NON MI RENDA CONTO DI COME SI SENTE UN RAGAZZO DOPO CHE È USCITO CON TE TUTTA L’ESTATE E HA SPESO SOLDI CHE NON HA NESSUN DIRITTO DI SPENDERE PER I BIGLIETTI DEL TEATRO. CIOÈ, POSSO CAPIRE. LUI SENTE CHE GLI DEVI QUALCOSA. MA IO NON SONO COSÌ. SUPPONGO DI NON ESSERE FATTA IN QUEL MODO, TUTTO QUI. DEV’ESSERE LA COSA VERA, PER ME. PRIMA, CAPISCI. CIOÈ L’AMORE ECCETERA ECCETERA IL LIBRO “I GIOVANI” DI J.D. SALINGER, CON TRE RACCONTI INEDITI, IN LIBRERIA DAL 12 MARZO (ILSAGGIATORE, 80 PAGINE, 12 EURO TRADUZIONE DELFINA VEZZOLI) DISEGNI DI GIPI PER “REPUBBLICA” do che Petie mi mentirebbe. Perché mai, voglio dire». «Lei non è male» disse Jameson. «Doris Liggett?». «Leggett» disse Edna. «Suppongo che Doris sia attraente per gli uomini. Non so. Però penso che mi piacesse di più — il suo aspetto intendo — quando aveva i capelli naturali. Cioè, i capelli ossigenati — per me almeno — hanno sempre un che di artificiale quando li vedi sotto la luce o che so io. Potrei anche sbagliarmi. Lo fanno tutte, immagino. Oddio! Penso che papà mi ucciderebbe se mai tornassi a casa con i capelli ritoccati anche solo un po’. Tu non conosci papà. È terribilmente all’antica. Non che io voglia farmeli ritoccare, alla fin fine. Ma sai com’è. A volte si fanno delle pazzie. Oddio! Papà non è l’unico! Penso che anche Barry mi ucciderebbe se lo facessi». «Chi?» chiese Jameson. «Barry. Questo ragazzo di cui ti ho parlato». «È qui stasera?». «Barry? Per carità, no. Non riesco a immaginarmelo Barry a una di queste festine. Non conosci Barry». «Va al college?». «Barry? Mmmh, ci andava. A Princeton. Penso sia uscito nel trentaquattro. Non sono sicura, però. In realtà non vedo Barry dall’estate scorsa. O, meglio, non gli parlo. Alle feste e roba del genere, riuscivo sempre a guardare dall’altra parte quando lui guardava me. Oppure mi precipitavo al gabinetto o che so io». «Pensavo che ti piacesse, il tipo». «Mmmh. Sì, fino a un certo punto». «Io mica ti capisco». «Lascia perdere. Preferisco non parlarne. Pretendeva troppo da me, tutto qui». «Ah» fece Jameson. «Io non sono una santarellina né niente. Non so. Forse lo sono. È solo che ho i miei princìpi, e nel mio piccolo cerco di rispettarli. Meglio che posso, comunque». «Occhio alla ringhiera» disse Jameson. «È un po’ traballante». Edna disse: «Non è che non mi renda conto di come si sente un ragazzo dopo che è uscito con te tutta l’estate e ha speso soldi che non ha nessun diritto di spendere per biglietti di teatro e locali notturni e così via. Cioè, posso capire. Lui sente che gli devi qualcosa. Ma io non sono così. Suppongo di non essere fatta in quel modo, tutto qui. Dev’essere la cosa vera, per me. Prima, capisci. Cioè l’amore eccetera eccetera». «Sì, già. Però, cioè, dovrei proprio darmi una mossa. Ho questo tema per lunedì. Accidenti, avrei dovuto essere a casa da ore. Quindi penso che entrerò a farmi un drink e comincerò ad andare». «Sì» disse Edna. «Va’ pure». «Tu non vieni?». «Tra un minuto. Va’ pure avanti». «Be’, ciao, eh» disse Jameson. Edna, alla ringhiera, cambiò posizione. Si accese l’ultima sigaretta rimasta nella sua scatola. Dentro, qualcuno aveva acceso la radio, forse era aumentato di colpo il volume. Una giovane cantante stava intonando con voce roca l’ultimo motivetto di uno show che ormai anche i fattorini cominciavano a fischiettare. Non c’è porta che sbatta più forte di una porta a zanzariera. «Edna!» esclamò Lucille Henderson. «Ehi, ehi» disse Edna. «Ciao Harry». «Come butta?» . «Bill è dentro» disse Lucille. «Prendimi da bere, ti spiace, Harry?». «Vado». «Cos’è successo?» volle sapere Lucille. «Non avete ingranato tu e Bill? Sono Frances e Eddie quelli là in fondo?». «Non lo so. Lui doveva andar via. Aveva un sacco di lavoro per lunedì». «Sarà, comunque per ora è là dentro, sul pavimento con Dottie Leggett. Delroy le sta infilando le noccioline nella schiena. Quelli là sono proprio Frances e Eddie». «Il tuo piccolo Bill è un bel tipetto». «Ah sì? Come sarebbe?» disse Lucille. Edna risucchiò le guance e scosse la cenere dalla sigaretta. «Un filino focoso, se posso dire». «Bill Jameson?». «Be’» disse Edna. «Sono ancora tutta intera. Ma tieni quel tipo lontano da me, chiaro?». «Mah. Vivi e impara» disse Lucille Henderson. «Dove diavolo si è cacciato quel tonto di Harry? A dopo, Ed». Finita la sigaretta, anche Edna si decise a entrare. A passi veloci, andò dritta su per le scale nella parte della casa della madre di Lucille Henderson vietata a giovani mani che brandivano sigarette accese e bicchieri da cocktail gocciolanti. Rimase di sopra quasi venti minuti. Quando scese, tornò in soggiorno. William Jameson Junior, un bicchiere nella mano destra e le dita della sinistra in bocca o nelle vicinanze, era seduto a qualche testa maschile di distanza dalla biondina. Edna si piazzò sulla grossa poltrona rossa. Nessuno l’aveva occupata. Aprì la borsetta da sera e tirò fuori la scatoletta nera, decorata di strass, ed estrasse una di dieci o dodici sigarette. «Ehi!» gridò, picchiettando la sigaretta sul bracciolo della poltrona rossa. «Ehi, Lu! Bobby! Vedete un po’ se riuscite a trovare qualcosa di meglio alla radio! Insomma, come si fa a ballare con questa roba?». (Traduzione di Delfina Vezzoli) ©2014, Three Early Stories originally published by The Devault-Graves Agency, Memphis, Tennessee, U.S.A. ©il Saggiatore S.r.l., Milano 2015 © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 8 MARZO 2015 32 L’attualità. Vicini di guerra L’INVASIONE LA RESISTENZA L’IMMIGRAZIONE IL DOPOGUERRA IL REGNO DI LIBIA NEL 1911 GIOVANNI GIOLITTI DÀ INIZIO ALLA CONQUISTA DELLA “QUARTA SPONDA”: L’ANNO DOPO IL TRATTATO DI LOSANNA RICONOSCE L’OCCUPAZIONE ITALIANA TRA GLI ANNI VENTI E TRENTA LA RESISTENZA ANTI-ITALIANA. A OMAR AL-MUKHTAR SARÀ DEDICATO UN FILM (CENSURATO IN ITALIA) CON ANTHONY QUINN NEL 1934 MUSSOLINI CREA IL GOVERNATORATO DI LIBIA CON A CAPO ITALO BALBO: INIZIA COSÌ L’IMMIGRAZIONE DEI COLONI ITALIANI CON LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE L’ITALIA PERDE TUTTE LE COLONIE E ANCHE LA LIBIA CHE PASSA DI FATTO SOTTO L’INFLUENZA INGLESE NEL 1952 L’ONU RICONOSCE L’INDIPENDENZA DEL REGNO DI LIBIA: PER GLI ITALIANI DI LIBIA INIZIA UN DIFFICILE PERIODO CHE SI CONCLUDE CON LA CACCIATA DAL PAESE L’AUTORE VALENTINO PARLATO, NATO A TRIPOLI OTTANTAQUATTRO ANNI FA, VIVE A ROMA. HA FATTO MOLTI MESTIERI. DA GIORNALISTA HA LAVORATO A “RINASCITA”, A “L’UNITÀ” ED È STATO TRA I FONDATORI DEL QUOTIDIANO “IL MANIFESTO” CHE HA PIÙ VOLTE DIRETTO Le parate di Italo Balbo viste dal terrazzo di casa, la fuga in campagna dai nonni, la scoperta della politica e infine una nave per l’Italia Valentino Parlato ricorda il paese dei suoi primi vent’anni “E di quando Gheddafi...” la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 33 IL COLPO DI STATO LA VENDETTA LA CRISI DIPLOMATICA LA VISITA IN ITALIA LA GUERRA CIVILE LA FINE DI GHEDDAFI NEL 1969 IL COLONNELLO GHEDDAFI CON UN COLPO DI STATO ROVESCIA RE IDRIS, NAZIONALIZZA LE IMPRESE E CACCIA GLI AMERICANI DALLE BASI MILITARI IL 7 OTTOBRE 1970 CON IL “GIORNO DELLA VENDETTA” GHEDDAFI ORDINA L’ESPULSIONE DEGLI ITALIANI RESIDENTI IN LIBIA E CONFISCA I LORO BENI IL 15 APRILE 1986 GHEDDAFI LANCIA SENZA CAUSARE DANNI DUE MISSILI CONTRO LAMPEDUSA: L’ATTACCO APRE UNA GRAVE CRISI DIPLOMATICA CON L’ ITALIA NEL 2008 BERLUSCONI FIRMA CON GHEDDAFI UN TRATTATO DI AMICIZIA E COOPERAZIONE. L’ANNO DOPO IL LEADER LIBICO È PER LA PRIMA VOLTA IN VISITA NEL NOSTRO PAESE NEL 2011 SCOPPIA ANCHE IN LIBIA LA GUERRA CIVILE: LA VIOLENTA REPRESSIONE DELLE PROTESTE DA PARTE DI GHEDDAFI DÀ IL VIA ALLA NATO PER INTERVENIRE DOPO OTTO MESI DI GUERRA CIVILE, FUGGITO A SIRTE GHEDDAFI VIENE BRACCATO E CATTURATO DAI RIBELLI CHE LO UCCIDONO IL 21 OTTOBRE 2011 V A LENT INO PARLAT O UL FINIRE di quella notte di novembre del 1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io avevo vent’anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l’auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera. All’imbarco, sul piroscafo Celio, trovai Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e Giuseppe Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico. Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c’erano solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici. Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanza perché stavamo facendo un buon lavoro politico. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: “Sei persone rimpatriate per attivismo comunista sovversivo”. Il Sunday Ghibli, più spiccio, annunciò: “One way ticket”, biglietto di sola andata. Avevamo costruito — promotore soprattutto Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme. Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto imponente. Del lavoro sindacale si occupavano in particolare i fratelli Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista dell’arte della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria nazionale d’arte moderna). La diffusione del sindacato, l’infiltrazione del Partito comunista e, cosa forse più importante, l’Associazione per il progresso della Libia che rivendicava una Libia indipendente e democratica, trovarono l’opposizione non solo dell’Autorità militare britannica che occupava il Paese ma anche della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare all’Italia. Vale la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva il Comitato di liberazione della Libia e con il quale la nostra associazione aveva stretti rapporti. Ci riunivamo nell’elegante studio notarile di Errico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette postali. Ma partecipavo anche attivamente, con Mario Mazzarino, alla redazione di due giornali successivamente chiusi d’autorità: Il Pinguino e il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica “Visto da destra e visto da sinistra” — dove ovviamente gli argomenti “visti da destra” erano piuttosto stupidi. Sono passati più di sessant’anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima verso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l’unica ragione per cui provo affetto per questo Paese oggi così drammaticamente devastato — e a mente fredda è difficile negare che l’intervento militare del 2011 abbia prodotto l’attuale disastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanissimi genitori italiani. S ALBUM IN ALTO VALENTINO PARLATO IN BRACCIO AL NONNO TRA I SOLDATI ITALIANI NELLA CAMPAGNA LIBICA. QUI SOPRA: A SINISTRA CON I NONNI, IL FRATELLINO E LA MAMMA; A DESTRA A TRIPOLI MENTRE FA IL SALUTO ROMANO Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cui Mussolini doveva arrivare a Tripoli per impugnare la “Spada dell’Islam”. Allora era governatore il maresciallo dell’aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo di Tobruk). Per l’accoglienza del Duce organizzò serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli, dromedari. Per noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era vicina a casa nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose che noi guardavamo dal terrazzo come fossimo al cinema. La domenica, altro avvenimento: la messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina trainata da quattro cavalli. Entrava nella cattedrale sotto la navata centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che pre- sentavano le armi. Dovevano restare immobili per tutta la durata della messa. Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati. L’Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tutti della quinta elementare venimmo promossi. Ma insieme con la “promozione di guerra” arrivarono anche le bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia — mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e Anna nella campagna di Sorman, un paesino a sessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochi chilometri da Sabratha, l’antica città romana, tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul mare. Fu qui che mi trasformai in contadino agli ordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare gli animali, a montare a cavallo, a raccogliere le arachidi. Scopro così che le noccioline americane nascono sotto terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto la pancia per farlo alzare, l’indomani mi sferrò un calcio che mi sbatté per terra. Tutto il lavoro agricolo era fatto da braccianti libici, noi li chiamavamo tutti “arabi”. L’uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Io li frequentavo, e con loro imparai anche qualche parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile, le fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata. Accampati nelle zone vicine venivano da mio nonno per comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loro il vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarli parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e più spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e i dodici anni ero tutt’orecchi. Grazie all’esercito mi feci anche una cultura, seppur alquanto stravagante. Quando il campo d’aviazione fu smobilitato il comandante regalò infatti a mio nonno la loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d’amore, ma anche dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree. Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una sera fecero un’esibizione di fuoco antiaereo, poi uno di loro che parlava italiano disse a mio nonno che gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto. Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata la cena, e mentre eravamo tutti a tavola — c’erano il comandante del reparto, l’ufficiale medico che mi sedusse perché aveva due coniglietti in una gabbietta sull’auto, il sergente Springhorum che parlava italiano — la radio, che avevano portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il gelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e l’indomani all’alba partirono per la Tunisia. Se i tedeschi se n’erano andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi avevano riaperto la pubblica amministrazione e mio padre, che era funzionario, tornò al lavoro. Io invece non tornai a scuola, studiai privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all’unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entro nel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi di politica e sempre qui assisto al tragico pogrom del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno stato di Israele, il 4 novembre lasciano partire un ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa 132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in caserma. Ho ancora il senso di colpa per non aver accompagnato in quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri compagni di scuola ebrei a casa. Paradossalmente è proprio dal lavoro politico di quei miei primi vent’anni — venni espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove — che quasi cinquant’anni dopo il Raìs mi invitò a Tripoli. Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli italiani nati in Libia era proibito tornare, Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse anche un’intervista per il manifesto. Lo incontrai altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura notevole. Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga all’Inferno. Non poteva immaginare che la Libia si sarebbe trasformata in un inferno. Lamia Libia © RIPRODUZIONE RISERVATA LA DOMENICA L’inedito. Tutti potevano leggere negli anni Ottanta quello che scriveva sui muri del Lower East Side o sui vagoni della metropolitana Altri incubi li confidava ai suoi blocnotes G UIDO ANDRUET T O U N COLLAGE DESTRUTTURATO DI IDEE, visioni e segni. Una sinfonia disturbata di parole e pensieri che si susseguono disordinatamente da una pagina all’altra, come un flusso di segnali a intermittenza. È il caos che esplode con il suo ritmo e il suo suono nei taccuini di Jean-Michel Basquiat. Per la prima volta saranno mostrati al pubblico al Brooklyn Museum di New York (dal 3 aprile al 23 agosto), dove al quarto piano dello spazio Morris A. and Meyer Schapiro Wing si sta ultimando in questi giorni l’allestimento dell’esposizione Basquiat. The Unknown Notebooks. Si tratta di una corposa selezione di centosessanta pagine estrapolate da otto dei quaderni e blocnotes su cui l’irrequieto artista e graffitista newyorchese di sangue haitiano e portoricano, scomparso nel 1988 per un’overdose di eroina, a soli ventisette anni, aveva riportato frammenti di delirio e di poesia, enigmatici giochi di parole, schizzi e pittogrammi. Su alcune di queste pagine compaiono a volte soltanto numeri di telefono o indirizzi, come quello della Sperone Westwater Gallery a SoHo; oppure nomi di amici, come “Clemente”, l’artista Francesco Clemente con il quale Basquiat collaborò insieme ad Andy Warhol nel 1984 per un progetto collettivo di pittura a sei mani dal titolo Collaborations. Per quasi otto anni, dal 1980, Basquiat riempì pagine su pagine di appunti e piccoli disegni di volti deformati, teschi, maschere e figure umane stilizzate, alternando l’uso di pennarelli, matite e pastelli. Il giovane angelo nero della Downtown scene di New York, l’alieno dell’hip-hop e delle bombolette spray la cui pittura aveva la forza di una tropolitana di New York, per poi approdamusica primitiva e feroce, sapeva far vola- re alle gallerie d’arte come quella di Annire i pensieri come farfalle per poi fermarli na Nosei, che ospita la sua prima personadi colpo sui fogli di carta dei suoi blocchet- le newyorchese nel 1981. «Come giustati. “Una preghiera, la nicotina cammina sui mente ha osservato Mary-Ann Monforton gusci d’uovo, medicati, la terra era un vuo- (l’editore della storica rivista d’arte Bomb to amorfo — annotava Basquiat nel 1987 Magazine, ndr), Basquiat ha utilizzato ogsu una pagina in cui figurano molti riferi- getti di tutti i tipi che appartengono alla menti al Vecchio Testamento —. Buio, buio quotidianità — aggiunge Buchhart — ma volto del profondo spirito attraverso l’ac- che con il suo intervento si trasformano e qua e luce fu. Era cosa buona. Alitare nei acquistano nuovi significati per diventare polmoni dell’uomo, 2000 anni di amianto”. arte. Quando il critico Jeffrey Deitch lo in«Dai taccuini emerge la facilità con cui contrò nel 1980, la prima cosa che notò fu Basquiat usa le parole e la scrittura come un frigorifero malandato che Basquiat aveelementi visivi al pari delle rappresenta- va completamente ricoperto di disegni, pazioni figurative — ci spiega Dieter Bu- role e simboli. Ai suoi occhi risultò uno dei chhart, curatore della mostra con Tricia più sorprendenti oggetti d’arte che avesse Laughlin Bloom — con il suo approccio è mai visto». Non meno stupefacenti appaiostato un predecessore della società della no oggi gli appunti stralunati che custodiconoscenza e della generazione del copia e va nei suoi diari e di cui a volte cancellava incolla, quasi anticipando la cultura del alcuni passaggi o singole parole tirandoci web e dell’ipertesto. Ha realizzato innu- sopra un mucchio di righe rosse. “Guardò il merevoli combinazioni di oggetti identici e suo terzo occhio per il salone, sotto le paldi sequenze con costellazioni di significati, me in un villaggio vacanze sulla spiaggia — ispirato da fumetti e cartoon, dai disegni scriveva nel 1980 sulla pagina di destra di dei bambini, dalla pubblicità, dalla pop art, un quaderno a righe che oggi fa parte della dall’arte azteca, africana, greca, e dalla vi- collezione privata di Larry Warsh — attrata sulla strada». Un frullatore sparato alla verso l’acqua il suo occhio diventò mendicante in Spagna di fronte a una trappola velocità massima, fuori controllo. Era già così fin da giovanissimo, quando per turisti la sua voce pappagalli un gemiscappava di casa o dalla City-as-School di to di carta vetrata sulla telefonata. DormiManhattan dove conosce Al Diaz, con cui re su sei treni tornare a casa in aereo guarinizia a vergare con lo spray la criptica tag dare le ali tremare”. “SAMO©” sui muri o sui vagoni della me© RIPRODUZIONE RISERVATA i taccuini diBasquiat “E poi guardare le ali tremare” In mostra a New York le poesie ancora sconosciute dell’artista che portò la strada dentro i musei la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 34 la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 35 Non erano le solite stronzate HE NRY L OUI S GA TE S JR. I SENTO come fossi un cittadino. È ora che torni a fare il vagabondo”. Jean-Michel Basquiat si è fatto strada a colpi di bomboletta nella coscienza pubblica. Si firmava SAMO©, ma i messaggi che scarabocchiava sui palazzi fatiscenti del Lower East Side erano tutt’altro che “the same old shit”, le solite stronzate. Facevano inchiodare persino i newyorchesi, incuriositi. Chi è questo sciamano dell’era dei graffiti, questo autore dallo pseudonimo protetto da copyright? Samo© non provoca il cancro negli animali da laboratorio. Samo© per la cosiddetta avant-garde. Samo© come agglomerato di genio latente. Samo© interrompe il blues dell’orario di ufficio del ho preso la laurea e del non stasera tesoro. Non si capiva cosa esattamente volesse dire o dove sarebbe riapparsa la sua firma, ma i bene informati sapevano che Jean-Michel Basquiat sarebbe stato una voce — e una mano — tra le più innovative della sua generazione e di tutte le altre. Al suo esordio, a fine anni Settanta, godeva di un anonimato impensabile per un ragazzo di oggi, nell’era di Facebook e Twitter. Eppure aveva l’ambizione di entrare nel gotha dei massimi artisti di tutti i tempi — pur consapevole di dover lottare per arrivare. Si stava ancora facendo le ossa, lavorava alle ore più impensate e su ogni superficie possibile. Ma aveva chiaro il suo obiettivo. Dalla natìa Brooklyn Basquiat era passato a quella vera e propria frontiera di cemento armato che era in quegli anni l’East Village. Distava solo qualche fermata di metropolitana, ma era un altro mondo. Attraversando l’East River Basquiat attraversò il confine metafisico tra rimbambimento e libertà, alienazione e innovazione, disapprovazione dei genitori e creatività. Fu fondamentalmente un atto di emancipazione nel solco della tradizione afroamericana. Oggi non è esagerato dire che è stato uno degli artisti americani più importanti degli anni Ottanta e uno dei visual artist neri più grandi di tutti i tempi — alcuni critici, lo definiscono “il più grande”, alla Muhammad Ali. Johnny Depp, l’attore, nel 2003, dopo aver visto la mostra di Basquiat a Parigi scrisse che “l’arte è questione di centrare o mancare il bersaglio. E quando questo figlio di puttana colpisce va giù duro”. È così. E così le sue opere sono straordinarie, abbaglianti, disorientanti, ricche di dettagli, frutto della mente di un genio — inquieto, originale, innovativo, brillante, che dà l’illusione del miracolo infantile pur essendo invecchiato prima del tempo. (Traduzione di Emilia Benghi) Scrittore e critico letterario, direttore del W.E.B. Du Bois Institute for African and African American Research alla Harvard University “M QUESTO NON È UN ELOGIO DEL VELENO / AVVELENARMI IN ATTESA CHE VENGANO LE IDEE / ME / NON È UN ELOGIO DEL VELENO / NON È / NESSUNO È PULITO DALLA CARNE ROSSA AL VELENO BIANCO / IL PIÙ GRANDE AFFARE / BRUTTO, GRASSO COME UN PORCO / IL CLIENTE A NEW YORK CHICAGO DETROIT SIGNORE E SIGNORI VI INVITO ALLA VISIONE DEL NUOVO EPISODIO DE “L’EROINOMANE FAMOSO” LO SPETTACOLO ALL’INSEGNA DELL’ “OH, NO! NON PUÒ ESSERE LUI. CHI L’AVREBBE MAI DETTO” A. ERA UN TOSSICO B. È ANCORA UN TOSSICO C. STA TENTANDO DI SMETTERE LE IMMAGINI IN ALTO, “SENZA TITOLO”, 1986, COLLAGE DI ACRILICO E OLIO SU CARTA E TELA. A SINISTRA, “SENZA TITOLO (CORONA)”, 1982: UN ALTRO COLLAGE DI ACRILICO, INCHIOSTRO E CARTA; DUE PAGINE DAI TACCUINI DI BASQUIAT, 1980-’81. QUI SOPRA, L’ARTISTA SUL SET DEL DOCUFILM “DOWNTOWN 81” DI EDO BERTOGLIO. TUTTE LE IMMAGINI, COME PURE L’ARTICOLO DI HENRY LOUIS GATES JR., SONO TRATTI DAL CATALOGO DELLA MOSTRA “BASQUIAT. THE UNKNOWN NOTEBOOKS” DAL 3 APRILE AL BROOKLYN MUSEUM DI NEW YORK © RIPRODUZIONE RISERVATA LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 Spettacoli. Da Oscar JUAN MARTÍNEZ AHRENS CALGARY (CANADA) NCORATA nel porto di A Veracruz, la Toluca, un mercantile, arruolò nel 1980 un ragazzo di diciassette anni dai capelli nerissimi che cercava di mettere un oceano tra il suo passato e il suo presente. Pochi mesi prima Alejandro González Iñárritu era scappato di casa con una donna più grande di lui. La fuga fu un disastro: lui si smarrì, fu espulso da scuola e, sotto il sole tropicale, finì per imbarcarsi sulla Toluca dove ti davano cibo e trasporto se pulivi il ponte e davi il grasso in sala macchine. A bordo della nave risalì il Mississippi, scoprì Barcellona e toccò la Toscana e la Sicilia. Poi arrivò a Bilbao, vendemmiò a Toledo, dormì all’aperto nel Parco del Retiro di Madrid e, alla fine, andò in Marocco. Senza saperlo, dentro di lui si era disegnata la geografia della sua opera. L’impronta sulla quale si sarebbe mosso, nel corso degli anni, il seme dei suoi film. Quella donna, non l’ha più rivista. Sono passati quasi trentacinque anni, la Toluca da tempo è stata demolita e quel ragazzo, coi suoi cinque film, ha ottenuto ventuno nomination agli Oscar vincendone quattro con l’ultimo Birdman, dopo aver conquistato il premio per la regia a Cannes con Babel nel 2006, unico messicano nella storia della Palma d’oro. Dice: «La competizione nell’arte è assurda. Non voglio attribuirgli una logica e dire: “Sono il migliore e vinco perché lo merito”. Se pensassi così finirei col perdere la testa». Sulle rive del fiume Bow, nella grande piana canadese di Calgary, il sole sembra appena uscito dal congelatore. La temperatura sarebbe intorno ai 30 sotto zero, se non fosse per il caldo chinook, l’unico vento in grado di frenare le terribili masse d’aria artiche. Il suo soffio agita i pioppi nudi, sotto la cui ombra si svolge un simulacro di morte. Sulla neve c’è un sangue troppo rosso per essere sangue, un fantasma indiano imbrattato di cenere a cui piace, nel pomeriggio, ascoltare la musica un po’ noiosa di Herbie Hancock e, soprattutto, un tipo con gli occhi acquosi e i capelli biondi che sembra Leonardo DiCaprio, e recita (o almeno ci prova) come lui, ma non è Leonardo DiCaprio. Sono solo sosia, come il sangue o il fantasma, ma che oggi, sotto la brezza del chinook, servono per preparare le scene che si gireranno quando arriverà il vero DiCaprio. Alejandro González Iñárritu dirige sulle rive del Bow ghiacciato. Ha cinquantuno anni ed è ancora imbarcato nel suo viaggio interiore. Bronzeo, con una barba alla Velázquez, la sua voce potente tira i fili della trama. Oggi bisognava girare un massacro in un villaggio indiano, un dialogo tra due cacciatori nel 1823 e un incubo con fantasmi e teste scuoiate. Tre scene che fanno parte di The Revenant, il suo prossimo film. Un pre-western con spazi aperti e silenzi tesi. Il suo primo film storico, girato in condizioni estreme. Dice: «Mi eccita poter fallire». Al suo fianco cammina il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, già vincitore di un Oscar per Gravity e ora di un altro per Birdman. Tra loro si chiamano con i rispettivi soprannomi: Negro (Iñárritu) e Chivo (Lubezki). Due vecchi amici di Città del Messico. Si rivolgono alla troupe in un perfetto inglese, ma quando devono discutere degli aspetti fondamentali si appartano e, in piedi in mezzo alla neve, parlano in spagnolo mentre gli altri membri della troupe, immobili, attendono la decisione che Iñárritu Faccio film all’ultimosangue 36 la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 37 ©DANIEL BERGERON/CORBISOUTLINE/CONTRASTO “Vinco perché non mollo mai, ma guai pensare che l’arte sia una gara” Intervista sul set canadese dove il regista messicano, fresco di statuetta, sta girando la prossima opera. E dove svela retroscena e filosofia del suo cinema poi eseguiranno sotto gli ordini del solo Iñárritu. «Sono molto duro, molto militante, molto esigente; mi temono più di quanto non mi amino. La troupe sa che non ci sarà tregua. Però riesco a entrare in contatto con loro, perché non pretendo nulla che io stesso non dia e perché l’esperienza crea una catarsi, porta a una profonda conoscenza delle capacità di ognuno di noi. Chiunque può fare un film, ma riuscire a farne uno buono è dichiarare una guerra all’ultimo sangue, soprattutto a se stessi. Per questo mi fa paura ogni volta che ne comincio uno. Perché non lo mollo». La notte è chiara a Calgary. Nel centro della città, Iñárritu si è installato al venticinquesimo piano di un edificio in vetro e acciaio. È un appartamento con tonalità sul marrone, asettico e funzionale. L’arredamento, senza pretese, denota una comoda provvisorietà, perfetta per un nomade sceso in calzini dal Suv che lo ha riportato “a casa” dal set. Si serve un Campari con molto ghiaccio, tira fuori una sigaretta elettronica che collega al Mac e si mette comodo sul divano per rispondere alle domande. Le sue frasi sono articolate. La voce, profonda, tradisce una modulazione radiofonica ma suona sincera. A volte, prima di parlare, medita. Lunghi secondi finché cesella l’idea. Poi la snocciola sicuro. Come spiega il suo successo? «È difficile da spiegare, non posso essere obiettivo. In un mondo in cui regna l’ironia, dove ci si deve separare, proteggere e ridere di tutto ciò che è onesto o abbia una carica emotiva, io scommetto sulla catarsi. Mi piace investire emotivamente nelle cose. E la catarsi, quando si tocca la vena emotiva, è capace di aprire le porte anche di quelli che si proteggono». Anche se Birdman trabocca di umorismo, i suoi personaggi si muovono nell’amarezza. Lei è pessimista, disincantato? «Si può definire l’intelligenza come la possibilità di avere due idee opposte simultaneamente e avere la capacità di agire. Vivo con una contraddizione costante che si traduce nel mio lavoro. Mi posso svuotare rapidamente e riempire di un vuoto esistenziale. In questo senso, sono un uomo che vede più le perdite che i guadagni, sono ossessionato dalla perdita, perché mi fa male perdere quello che ho avuto». Iñárritu batte l’indice sulla sua sigaretta dall’aspetto galattico. Aspira, dà un altro colpetto, aspira. Niente. Non funziona. La ricollega al Mac. «Ci riproveremo dopo». Non sembra darsi per vinto facilmente. Quelli che lo conoscono dicono che non lo fa mai. Forse è una forza che ha ereditato dal padre, un banchiere che fallì e si rimise in piedi vendendo frutta, o dalla propria esperienza iniziatica, nella quale esorcizzò un amore attraversando l’oceano. È stato conduttore radiofonico, ha diretto la più importante stazione musicale della capitale e si è dedicato alla musica («sono più musicologo che cinefilo»). Ma né avere una sua band, né comporre la colonna sonora di sei film gli bastava. Non era un virtuoso. «Ho le dita goffe», confessa. Il cinema gli apparve come l’unica soluzione. Annunci pubblicitari, cortometraggi, televisione. Le ore trascorse alla Cineteca Nacional a impregnarsi di neorealismo italiano, il Dna del suo cinema, fecero il resto. Studiò regia teatrale con il leggendario Ludwik Margules, un tirannico maestro che gli ha inculcato la necessità di tenere sotto il suo stivale ogni millimetro della scena e di farlo con uno spirito rinascimentale. «Nulla può sfuggire, sono responsabile di tutto, devo sapere tutto». Cominciava a emergere il demiurgo. L’alleanza con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga completò questo processo. Nel 2000 ci fu la prima dello straziante Amores perros, poi venne 21 grammi (2003) Babel (2006), Biutiful (2010) e ora Birdman. Il tempo lo ha reso più posato. Il suo sguardo vulcanico si acquieta. Può sedersi, come spiega, «sulla riva del fiume a guardare il travolgente flusso dei pensieri e dei sentimenti. Dicevano che i quarant’anni erano duri, anche se non me ne sono nemmeno accorto quando li ho compiuti. Ma con i cinquanta sono entrato in una profonda malinconia. Continuo a navigare in quella nube dove cominciano a spegnersi le luci della festa. Ma non mi preoccupa il passato, quanto ciò che perderò nuovamente». Birdman è figlio di questo crepuscolo. Nell’avvicinarsi al mezzo secolo di vita, Iñárritu ha cercato un porto nella meditazione Zen. Ha partecipato a un ritiro. Si è messo in ascolto delle sue voci interiori, soprattutto quella che fa di lui il centro dell’universo nelle riprese, dalla quale si irradia quel fascino magnetico che i suoi amici gli riconoscono. «Quella voce inquisitrice», spiega il regista, «che io chiamo il Torquemada interiore, uno che ogni caso che gli presenti te lo manda al rogo, un terrorista con il quale è impossibile qualsiasi trattativa». Questa voce è la chiave di Birdman. Sulla sua impronta Iñárritu ha costruito un film quasi sperimentale, impostato su giganteschi piani-sequenza, in continuo movimento sull’orlo del baratro. La sua è una commedia agrodolce (lei dice “a non funny commedy”) in cui c’è un forte ripasso della sua vita: un attore che negli anni passati era diventato un divo interpretando un supereroe si gioca tutto in uno spettacolo teatrale a Broadway, ma con l’avvicinarsi della prima, quest’uomo, che ha ormai superato i cinquanta, tormentato dalla sua voce interiore, affronta il suo passato, la sua famiglia, se stesso. La perplessità dell’arte. «Birdman è un film che ha ali che mi hanno liberato. Ho cambiato il modo di affrontare gli argomenti, ma questi rimangono gli stessi: chi diavolo siamo, che senso ha e che cos’è questa vita. È un film per tutti noi che sentiamo questi problemi. Parla del bisogno di essere riconosciuti, del confondere l’ammirazione con l’amore; del capire troppo tardi che era amore quello che abbiamo avuto e non ce ne siamo resi conto, e che era questa l’unica cosa di cui avevamo bisogno. Noi esseri umani siamo creature patetiche e adorabili. In ognuno di noi c’è un po’ di Birdman». Che cosa cercava quando ha scelto Keaton/Batman per interpretare Riggan Thompson/Birdman? SUL LAVORO SONO MOLTO DURO, TUTTI MI TEMONO. CHIUNQUE PUÒ FARE CINEMA, MA FARLO BENE VUOL DIRE OGNI VOLTA DICHIARARE UNA GUERRA: SOPRATTUTTO A ME STESSO. POTER FALLIRE MI ECCITA. IN UN MONDO CHE RIDE DELLE EMOZIONI IO SCOMMETTO SEMPRE SULLA CATARSI SONO OSSESSIONATO DALLA PERDITA. DOPO I CINQUANT’ANNI SONO ENTRATO IN UNA PROFONDA MALINCONIA. NAVIGO IN UNA NUBE DOVE INIZIANO A SPEGNERSI LE LUCI DELLA FESTA NOI UMANI SIAMO CREATURE PATETICHE E ADORABILI: IN OGNUNO DI NOI C’È UN PO’ DI BIRDMAN THE WINNER IS ALEJANDRO GONZÁLEZ IÑÁRRITU, 51 ANNI, È NATO A CITTÀ DEL MESSICO. I SUOI FILM: AMORES PERROS (2000), 21 GRAMMI (2003), BABEL (2006), BIUTIFUL (2010) E BIRDMAN (2014). SOPRA, IL SET CANADESE DEL PROSSIMO FILM CON LEONARDO DICAPRIO, THE REVENANT. E, SOTTO, IL REGISTA ALLA PREMIAZIONE DEGLI OSCAR: BIRDMAN HA VINTO LA STATUETTA PER IL MIGLIOR FILM, PER LA REGIA, LA SCENEGGIATURA E LA FOTOGRAFIA «La metarealtà che Michael Keaton aggiungeva al film era molto importante, ma anche un fattore di rischio elevato. E non era l’unico: Edward Norton ha la stessa reputazione del personaggio che interpreta, l’attore di New York che è stato sulla scena teatrale, pesante, dominante e superintellettuale. Sul set ha regnato questo: il piacere di potersi rappresentare nudi e senza vergogna. Si è affrontato questo in modo onesto, non intellettuale, non ironico. Questo film è sincero. Lì dentro ci sono io e quelle sono le mie miserie, le mie realtà. Sono stato tutti questi personaggi. O sono stato io o ho lavorato con loro o sono stato una loro vittima. Quello è stato il mio mondo. Questa è stata la scommessa. E sono scelte reali, non è l’attore che interpreta degli attori falliti; no, è l’attore che ci è passato». E come sono state le riprese con questi piani-sequenza così lunghi? «È stato un lavoro estremamente meticoloso e rischioso, perché se non riusciva non c’era modo di nascondere le mie cazzate. Si sarebbero viste. Ma stranamente, per l’entusiasmo e l’incertezza stesse nel farlo, c’è stato un piacere che non conoscevo. Per la prima volta ridevo a crepapelle sul set. E mi sentivo anche in colpa. Mi dicevo: “Come posso divertirmi sul set, se questo è un lavoro?”. Ho un concetto protestante, uno non ride sul lavoro. Ma questa volta è stata una liberazione». Improvvisa sul set o ha già un’idea chiara? «Ho due virtù. Una è il concetto. Vedo con precisione tutto ciò che non deve essere e quello che deve essere. La seconda è il ritmo. Per me il ritmo è Dio. Senza ritmo non c’è danza, né architettura, né musica... Le stelle hanno un ritmo, l’universo è ritmicamente ordinato, l’arte è il palpito di quel ritmo e, se non ce l’hai, è impossibile creare qualcosa. Quel ritmo io ce l’ho. Sembra una frase astratta e idiota, ma quando monto una scena so naturalmente quando ci deve essere uno spazio tra una parola e l’altra; so quanto tempo deve restare separato un attore dall’altro, e della macchina da presa, so quali obiettivi deve usare, so se deve stare più in alto o più in basso, so la velocità... Nella mia cinematografia c’era un abuso nella costruzione, nella frammentazione, mi vergogno di certe cose ora, mi mettono a disagio, ma dopo Birdman sono un nuovo regista. Ha cambiato la mia prospettiva formale». La sua prospettiva è cambiata, le sue radici restano in Messico... «Posso volare dove mi pare ma non posso tagliare le mie radici anche se oggi la corruzione è tale da aver raggiunto i più elementari livelli della vita. Prima si sequestravano i ricchi, adesso anche il tizio che vende verdure o bibite per strada, il gommista. I governi non sono più parte della corruzione, lo Stato è la corruzione». E prova paura in Messico? «È una paura simile a quella che ci fanno i lupi. Ne abbiamo paura perché non li vediamo. Puoi andare in un ufficio a sporgere denuncia e il lupo può essere lì, ma non lo vedi. Viviamo in una steppa». Finisce il suo secondo Campari e sembra essersi scordato della sua sigaretta elettronica. L’intervista, dopo più di due ore, è giunta al termine. Il regista si allontana un attimo per rispondere a una telefonata. Poi, con cortesia, scalda la cena nel forno e stappa una bottiglia di vino rosso dell’Oregon per berla insieme. Domani tornerà sulle rive del Bow. Stringendosi nella sua giacca termica, cercherà la complicità di Chivo per mettere a punto nuovi simulacri. Entrambi, sotto i pioppi spogli, lasceranno le loro impronte sulla neve. (Traduzione di Luis E. Moriones) ©El País Semanal © RIPRODUZIONE RISERVATA PER ME IL RITMO È DIO. SENZA RITMO NON C’È DANZA NÉ MUSICA NÉ ARCHITETTURA. LE STELLE HANNO UN RITMO, L’UNIVERSO È RITMATO. E L’ARTE È IL PALPITO DI QUEL RITMO. SE NON CE L’HAI È IMPOSSIBILE CREARE QUALCOSA. E, ANCHE SE SEMBRA IDIOTA DIRLO, QUEL RITMO IO CE L’HO la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 8 MARZO 2015 38 Next. Sotto controllo Saremo “sorvegliati” da quando suonerà la sveglia al mattino a quando spegneremo la luce gli utenti 4,8 di cellulari mld nel 2018 gli utenti 3,8 internet mld nel 2018 le connessioni 3,4 internet delle cose mld nel 2024 No privacy Ecco perché le grandi aziende (e non solo) sapranno tutto di noi AL ESSAND R O L O N G O AI FREDDO, vuoi H accendere il riscaldamento ma hai paura della bolletta? No problem: clicca qui, sul termostato, e ottieni uno sconto del venti per cento sulla tariffa. In cambio di cosa? Una quisquilia: accetti che il gestore monitori per un mese, a scopo di marketing, il modo con cui utilizzi tutti gli apparecchi elettrici in casa. In poche parole no privacy, a meno che tu non sia sufficientemente benestante: per gli altri arriva il Grande Fratello. È questo uno degli scenari che potrebbero avverarsi nei prossimi dieci anni con l’evoluzione degli strumenti di monitoraggio diffuso. Conseguenza diretta di quella che oggi chiamiamo l’”internet delle cose”, ossia l’aggiunta di una connessione a qualsiasi oggetto della vita quotidiana. La previsione (anno 2025) è contenuta in un rapporto di PewResearch, uno dei più noti osservatori mondiali sull’evoluzione dei costumi. I ricercatori hanno intervistato 2.011 esperti — docenti, capi di aziende, guru — e tra le previsioni c’è proprio quella che Pew definisce l’alba del privacy divide. Ovvero la contrapposizione tra i privacy rich e i privacy poor: ricchezza economica e diritto all’anonimato tenderanno a coincidere. «Non ci sarebbe nemmeno tanto da sorprendersi: già adesso la privacy comincia a essere un lusso. Banalmente nei supermercati otteniamo uno sconto se passiamo i prodotti con la carta fedeltà, che traccia i nostri acquisti», dice Raymond Wacks, professore emerito di legge all’università di Hong Kong GLOSSARIO e tra i massimi esperti mondiali di privacy online (ha scritto da ultimo nel 2013 Privacy and Media Freedom, Oxford University Press). Il passo successivo, nei supermercati, è con l’internet delle cose: sensori che, tra scaffali, nel carrello o sui manichini, analizzano il movimento delle persone nel negozio. Lo fanno già le catene americane WalMart e Macy’s. I manichini della startup tecnologica Iconeme sono entrati a fine 2014 nei primi negozi (nel Regno Unito): capiscono se qualcuno ha guardato a lungo un prodotto senza comprarlo. Riescono a dire età e sesso del cliente (grazie a un software che analizza l’immagine del volto). Tutte informazioni utili a scopo commerciale. Certo, sono anonime; almeno finché il cliente non de- cida di associare un proprio profilo utente, tramite app su smartphone, magari in cambio di un buono omaggio. Il rapporto di Pew inquadra una certezza e un’incognita. La prima è che internet si estenderà a un maggior numero di oggetti. La seconda è che non sapremo se nel 2025 ci sarà un quadro di regole saldo, a tutela della privacy, contro i rischi di abusi: gli esperti sono divisi su questo punto. Il 55 per cento di loro ritiene che nemmeno tra dieci anni avremo un quadro di regole consolidate. Del resto che il futuro sia dell’internet delle cose è emerso con chiarezza durante l’ultimo Ces (Consumer electronic show) di Las Vegas, la maggiore fiera di elettronica al mondo. Tantissimi gli annunci dedicati a strumenti per WEARABLE COMPUTING MACHINE TO MACHINE SONO I DISPOSITIVI DIGITALI CHE SI INDOSSANO, COME I BRACCIALETTI PER IL FITNESS. PRESTO CE NE SARANNO DI TUTTI I TIPI E LE FORME CONNESSIONI CHE VANNO DA DISPOSITIVO A DISPOSITIVO SENZA PASSARE DA UN ESSERE UMANO la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 39 La differenza col Grande Fratello di Orwell? Che saremo proprio noi a volerlo INFOGRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA 118 mln le tecnologie indossabili nel 2018 monitorare i nostri consumi domestici o i parametri corporei. E che tutto questo sia una minaccia mai vista prima per la privacy è risultato dalle parole, sempre al Ces, di Edith Ramirez, a capo dell’autorità di settore americana Ftc (Federal trade commission). «L’internet delle cose può creare un quadro completo, profondamente personale e inquietante delle nostre vite», ha detto. «Qui compresi dettagli sulla nostra salute, preferenze religiose, famiglia, storia creditizia». Per esempio, nota Ramirez, se connettiamo le tv a uno smartphone (via onde radio), diventa possibile monitorare i gusti televisivi di una persona specifica. Gli smartphone sono infatti associati a precisi profili utenti (Google, per esempio). «È già tecnicamente DOMANI L’INTERNET DELLE COSE POTRÀ CREARE UN QUADRO PROFONDAMENTE PERSONALE, COMPLETO E INQUIETANTE, DELLE NOSTRE VITE COMPRESI DETTAGLI SULLA NOSTRA SALUTE, LE PREFERENZE RELIGIOSE, LA NOSTRA FAMIGLIA E LA STORIA CREDITIZIA EDITH RAMIREZ, A CAPO DELL’AUTORITÀ DI SETTORE AMERICANA FTC (FEDERAL TRADE COMMISSION) possibile questo tracciamento; se non avviene è perché manca ancora un contesto economico in cui queste informazioni possano essere sfruttate e analizzate commercialmente. Ma il contesto ci sarà entro dieci anni», dice Wacks. Di nuovo, si può immaginare un baratto fra tracciamento e uno sconto sul canone tv. Inoltre, il tracciamento diventerà anche più sofisticato e dettagliato. Un ruolo ce l’avranno le tecnologie di riconoscimento facciale, integrate nelle videocamere: stanno diventando sempre più abili a identificare le persone. Le tecnologie indossabili, diffondendosi, completano il quadro dei nostri dati che possono essere tracciati: gli smartwatch (orologi intelligenti, a breve è atteso quello INTERNET DELLE COSE SMART CITIES SMART WATCH LA TECNOLOGIA CHE CONSENTE AGLI OGGETTI COMUNI (DAL TELEVISORE AL FRIGORIFERO) DI COLLEGARSI A INTERNET CI PUNTANO TUTTI I PAESI EVOLUTI, COMPRESA L’ITALIA. AVRANNO UN CONTROLLO INTELLIGENTE DEL TRAFFICO E DEI CONSUMI ENERGETICI GLI OROLOGI CHE SI COLLEGANO AGLI SMARTPHONE SONO L’ULTIMA FRONTIERA DELLE TECNOLOGIE INDOSSABILI, SU CUI CONTANO TUTTI I BIG di Apple), i gadget per il fitness e per monitorare la qualità del sonno stanno uscendo in questi mesi dalla nicchia di mercato in cui erano relegati. Diventeranno di massa man mano che miglioreranno nei costi e nella qualità. Un’evoluzione è prevista anche per i cellulari: assolvendo a nuove funzioni, potranno tracciare ulteriori abitudini degli utenti. Adesso cominciano a vedersi i primi servizi per pagare nei negozi e sui mezzi pubblici con i cellulari. «I rischi sono numerosi», dice Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. «Sarà possibile la profilazione potenzialmente illimitata di abitudini e comportamenti; come pure ricavare, all’insaputa degli interessati, informazioni dettagliate anche da insiemi di dati o da loro correlazioni, che apparentemente non sono personali e utilizzarle per finalità del tutto diverse da quelle della originaria raccolta». Quindi, che fare? «Il nuovo regolamento Ue per la protezione dei dati ha l’ambizione di incorporare la tutela dei diritti direttamente nelle tecnologie, fin dalla loro progettazione», conclude Soro. Vedremo chi vincerà la battaglia. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 8 MARZO 2015 40 Sapori. Cuoche rosa 10 UNA VOLTA ERANO LE REGINE DELLA CUCINA, POI GLI UOMINI HANNO AVUTO IL SOPRAVVENTO. MA ORA, ANCHE A COLPI DI MENÙ BIOLOGICI, INIZIANO A PRENDERSI QUALCHE RIVINCITA E DICONO: “LORO PENSANO A STUPIRE, NOI PRIMA DI TUTTO A NUTRIRE” nomi piatti e ristoranti Elena Arzak Figlia di Juan-Mari, padre nobile dell’alta cucina basca, si è formata con Pierre Gagnaire e Ferran Adrià Nel tristellato ristorante di famiglia, l’80 per cento dei dipendenti è donna Agnello al malto di birra Salsa di soia e aceto di riso per rinforzare la birra scura ARZAK AV. ALCALDE ELÓSEGUI 273 SAN SEBASTIÁN-DONOSTIA TEL. (+34) 943-278465 Hélène Darroze Ispirata dalle ricette di entrambe le nonne, che considera monumenti alla gastronomia, pratica una cucina di gusto e personalità, dividendosi tra Parigi, Londra e Mosca Capesante in vinaigrette Insalata croccante d’indivia, finocchio e mela verde à côté Il personaggio HÉLÈNE DARROZE IN PARIS 4 RUE D’ASSAS PARIGI TEL. (+33) 1-42220011 Annie Feolde Appassionata di cucina buona&sana, Michelle Obama si è fatta ritrarre sull’ultima copertina di “Light food”, il magazine di “Time”, con un piatto di spaghetti mediterranei. Il 77 per cento degli americani mangia pasta almeno una volta alla settimana Grandi chef. Da Firenze a New York le dieci donne con più stelle dietro i fornelli Nizzarda di nascita e fiorentina d’adozione, ha trasformato una mescita di buon vino nella più prestigiosa enoteca-ristorante del pianeta, tra sorrisi e ricette charmant Pici con le briciole Pasta senz’uova, spadellata con aglio, erbe e pane avanzato Lo studio ENOTECA PINCHIORRI VIA GHIBELLINA 55 FIRENZE TEL. 055-242777 Gabrielle Hamilton La nuova ricerca Doxa per Assobirra svela che sei italiane under trentacinque su dieci bevono abitualmente birra, numero triplicato nell’ultimo quarto di secolo, il più alto d’Europa. A loro è dedicata la nuova campagna “Birra, io t’adoro” Autrice di “Sangue, ossa e burro. L’educazione inconsapevole di una cuoca riluttante”, sforna piatti consapevoli e golosi, premiati da Michelin e James Beard Foundation Piselli burro di wasabi Mix di taccole e pisellini primizia Rifinitura con miele PRUNE 54 E 1ST STREET NEW YORK TEL. (+1) 212-6776221 Anne-Sophie Pic L’iniziativa Unica cuoca francese con tre stelle Michelin (il ristorante di famiglia le vanta dal 1930). Nipote e figlia d’arte, cavaliere dell’Ordine della Legione d’Onore, ha sparso filiali tra Parigi e New York Per l’8 marzo, Conad diventa vetrina per la vendita di 380mila braccialetti sartoriali “Made in carcere”, realizzati nelle carceri femminili da Officina Creativa. In produzione anche porta-bicchieri e tovagliette. Il ricavato andrà a DiRe (Donne in rete contro la violenza) Scampi e rabarbaro Per completare, succo di sedano fresco e pepe di Tasmania MAISON PIC 285 AVENUE VICTOR-HUGO VALENCE (FRANCIA) TEL. (+ 33) 4-75441532 LICIA GRANELLO LCIBOTRASFORMALANOSTRAVITA.Per questo, dobbiamo essere responsabili e offrire una cucina coscienziosa, che preservi il sistema alimentare”. E ancora: “I piatti devono raccontare delle storie, la gastronomia deve essere emozione”. Il decalogo della nuova eco-cucina declinato al femminile appartiene alla cuoca Roberta Sudbrack, prima donna a condurre le cucine del palazzo presidenziale in Brasile. Il suo ristorante a pochi passi dal giardino botanico di Rio de Janeiro è un bell’esempio di alta gastronomia a supporto dei piccoli produttori virtuosi. Le sue parole sono state coperte dagli applausi durante i lavori del Parabere Forum, l’assemblea mondiale di donne&cibo, che si è svolta nei giorni scorsi a Bilbao. Piccole cuoche crescono, e tanto piccole non sono più. Ancora pochi anni fa, un evento come quello di Bilbao sarebbe stato impensabile. E invece, grazie al coraggio visionario della giornalista-scrittrice spagnola Maria Canabal, che ha inventato e organizzato il forum, trecento tra scienziate, contadine, ristoratrici, produttrici da ventisei paesi si sono confrontate per mettere a punto la prima piattaforma internazionale no-profit di alimentazione al femminile. “Sebben che siamo donne”, come cantavano le mondine un secolo fa, e come ribadisce Nadia Santini, storica tre stelle Michelin a pochi “I la Repubblica DOMENICA 8 MARZO 2015 41 Spodestate da quando friggere è glamour Valeria Piccini Mix talentuoso di radici contadine e tecnica aggraziata, per la signora della cucina maremmana d’autore, oggi impegnata anche nel ristorante di uno degli hotel-culto di Firenze Tortelli di Cinta senese Con brodo di gallina, castagne e verdure al balsamico DA CAINO VIA DELLA CHIESA 4 MONTEMERANO (GR) TEL. 0564-602817 Helena Rizzo Appassionata di cibo da sempre, ha lavorato come modella per pagarsi le scuole di cucina Si alterna ai fornelli col marito, conosciuto durante uno stage al Celler de Can Roca Nuova insalata Waldorf Con gelatina di mele, gorgonzola e noci caramellate MANÍ MANIOCA RUA JOAQUIM ANTUNES 210 SAN PAOLO (BRASILE) TEL. (+55) 1130854148 Nadia Santini Silenziosa e incrollabile, è la monaca zen dell’alta cucina tradizionale italiana. Nata e cresciuta nella campagna mantovana, vanta tre stelle Michelin e due mani sapientissime Tortelli di zucca A renderli unici, amaretti e mostarda d’anguria bianca DAL PESCATORE LOCALITÀ RUNATE CANNETO SULL’OGLIO (MN) TEL. 0376-723001 Clare Smyth Prima cuoca inglese ad aver conquistato tre stelle Michelin e 10/10 nella Good Food Guide, è chef e coproprietaria del Restaurant Gordon Ramsay a Chelsea, dove lavora da diciassette anni chilometri da Mantova, rivendicando l’originalità della cucina femminile, anche ai livelli più alti, «perché gli uomini pensano a stupire, noi prima di tutto a nutrire». Non tutte le donne e non tutte le cuoche, naturalmente. Ma se esiste uno specifico che abbraccia gran parte delle professioniste dei fornelli, riguarda la sensibilità speciale connessa al ruolo genetico: partorire, allevare, tramandare. Non a caso, moltissime tra loro, dalle mense scolastiche all’Olimpo delle guide gastronomiche, scelgono di approvvigionarsi a fonti biologiche. La francese Dominique Crenn, per esempio. Prima executive chef donna di tutta l’Indonesia all’hotel Intercontinental di Jakarta, quasi vent’anni fa. E poi in California, responsabile dei catering privati di politici e star, da Al Gore a Sharon Stone. Capace, tra un premio e l’altro, di trovare tempo e risorse per inventare “A Moveable Feast”, un calendario di feste mobili di cucina a quattro mani con illustri colleghi, cucinando solo prodotti di fattorie biologiche locali. Una scelta di campo confermata nel suo ristorante di San Francisco, “Atelier Crenne”, dove ha conquistato la doppia stella Michelin, unica donna in tutti gli Stati Uniti. Oppure l’inglese Clare Smyth, arrivata ventenne alla corte di Gordon Ramsey, tra i risolini sarcastici della brigata. «Non durerà una settimana», dicevano. È ancora lì, head chef e socia del terribile Gordon nel locale di Chelsea, unica cuoca inglese con tre stelle Michelin. I numeri, per una volta, premiano l’Italia, con le sue 47 chef stellate su 110 del totale mondiale. Una responsabilità che si sdoppia quando dividono la cucina con uno o più maschi, insegnando loro a cucinare senza lasciare i fornelli come dopo uno tsunami. E non solo al ristorante. © RIPRODUZIONE RISERVATA Halibut marinato Sopra, granchio, cous cous di cavolfiore e brodo speziato GORDON RAMSAY 68 ROYAL HOSPITAL ROAD LONDRA TEL. (+44) 020-73524441 Luisa Valazza Laureata in lettere con la passione della pittura, ha tradotto in ricette i colori dei suoi quadri, creando una raffinata enclave di sapori eleganti nell’alto Piemonte Fassone al Barbaresco Con cannolo di verza e raviolini di midollo in consommé AL SORRISO VIA ROMA 18 SORISO (NO) TEL. 0322-983228 GUIA SONCINI M IA NONNA FACEVA da mangiare. Tutto il giorno, tutti i giorni. Sfamava la famiglia, anzi la ingozzava: quel «ma non hai mangiato niente», alla quarta portata, che chiunque abbia avuto una nonna conosce. La famiglia, gli amici, chiunque passasse di lì. Era una donna dei primi del Novecento, e le donne del suo tempo nutrivano. Per vocazione, per obbligo sociale, per abitudine. Certo non perché pensassero di farne una carriera, o perché la ritenessero un’attività di un qualche prestigio sociale. Poi, friggere è diventato glamour. Dev’essere stato il perfezionamento delle cappe aspiranti, o l’avvento dei cuochi a tutte le ore su ogni rete televisiva, o il cambio di verbo. Fatto sta che è diventata un’occupazione che dà lustro, e quindi ambitissima dagli uomini. Sembra la stessa cosa di un secolo fa, ma non lo è: mia nonna faceva da mangiare, gli uomini cucinano. L’ha detto impeccabilmente Paolo Poli: pensavo fosse il secolo del sesso, e invece è il secolo dei cuochi. Sono i sex symbol che ci toccano nel presente, che siano intellettuali come Massimo Bottura, o si facciano fotografare con un dentice a coprire le vergogne come Carlo Cracco, comunque hanno sostituito gli attori e i cantanti e gli sportivi come soggetti da guardare. Non fanno da mangiare: fanno immaginario. E sono uomini. Perché finché c’era da spignattare andavano bene le mamme e le nonne, ma se si tratta di fare delle cucine un’industria dello spettacolo, beh, quando il gioco si fa remunerativo i maschi iniziano a giocare. La donna può starsene lì: nuda, tra Cracco e il dentice. La televisione dei cuochi, un genere ormai dominante, è iniziata in Inghilterra con una donna, Nigella Lawson (sì, in Italia avevamo avuto Vissani negli anni di D’Alema, ma era più colore da pagine politiche che un vero segnale dell’imminente strapotere degli chef). Nigella è una che cucina come se posasse per un calendario scollacciato: mugolando, leccandosi le dita, in vestaglia. Nessuno degli uomini che sono venuti dopo, sia lì sia qui, ha avuto bisogno di ammiccamenti sessuali perché il pubblico lo trovasse interessante: che tu sia Gordon Ramsay o Carlo Cracco, il caratteraccio e un set di tegami ti renderanno sexy. E dominante rispetto alla donna, che infatti a Masterchef arriva terza. Una napoletana sconfitta, nella prova di piatti napoletani, da un veneto e un lombardo. Mia nonna avrebbe tirato un mestolo al televisore. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 8 MARZO 2015 42 L’incontro. Toste LA DANZA È VENUTA DA ME E MI HA SALVATO LA VITA HO COMINCIATO IN STRADA CON UN GRUPPO DI AMICI. CI CHIAMAVAMO I “PEACEMAKERS”. OGNI POMERIGGIO CI AGITAVAMO CON MICHAEL JACKSON “Ero ancora una bambina eppure ero già schizzata, avevo sempre i nervi a fior di pelle, non riuscivo mai a stare ferma. È praticamente da allora che ballo”. Oggi la coreografa e danzatrice sudafricana ha trent’anni, gira il mondo con la sua “Carmen” stuprata e il suo “Lago dei cigni” fatto di maschi neri ed effemminati. Ed è ricordando la sua infanzia in una Soweto violenta che riesce a raccontare dove nasce la forza esplosiva dei suoi in cui vive quando non è in tournée («nel mio appartamento domina il caos, lo assai più stimolante di un ordine eccessivo»), Dada corre nel pianeta a passi da gigante mettendo in scena personalissime versioni di titoli senza temspettacoli. “Io porto in scena i trovo po come Romeo e Giulietta, Il lago dei cigni, Carmen. Di volta in volta esplora provocazioni linguistiche, divertendosi a intrecciare le tecniche di danza eucon i moduli inaspettati, la frenesia catartica e la ritmicità furiosa dei balproblemi degli esseri umani. Chi ropee li africani: «Sono una materia piantata con forza profonda nella terra, mentre il balletto classico va alla ricerca di una grazia volatile nell’intento di cancellail peso e la sensualità. Ho impiegato un mucchio di tempo per identificare la viene a vedermi non potrà più di- remaniera di assemblare queste due dimensioni opposte. Intendevo tracciare un territorio che ne accogliesse i conflitti. Mi sembra che l’energia dei miei spetsia il frutto del duello». Anche l’esercizio plurilinguistico e l’adozione d’inre di non aver saputo come van- tacoli numerevoli vocabolari (anche verbali) appartiene alle sue radici: «Ci sono undici lingue ufficiali in Sudafrica. Nella compagnia parliamo inglese, afrikaans, zulu, tswana e tosa. La mia lingua materna è lo tswana, che fino alle scuole eleno le cose” mentari era l’unico codice con cui sapevo comunicare. Quando sono andata al- Dada Masilo L EO N ET T A B EN T I VO G LI O ROMA N SCENA È UN GUIZZO, un disegnino denso di spessore, una presenza emo- I zionante e ludica che sa parlare di preistoria e di modernità: Eva generata dalla costola di Adamo, il Puck shakespeariano immerso nell’inchiostro, un ibrido tra un’adulta e una bambina. Coreografa-danzatrice galoppante sull’onda del successo, la sudafricana Dada Masilo trasmette un mix di rabbia, fantasia, ritualità e impulsi avveniristici. È una promessa di futuro e la memoria di un passato doloroso. Come la sua terra. «Ballo per lottare contro le sopraffazioni», spiega seduta al tavolo di un bar romano. «Fin da ragazzina ho sentito il desiderio di combattere le violenze domestiche, una tra le più orrende piaghe che affliggono il mio Paese. Avevo anche un gran bisogno di esorcizzare nell’arte la mia storia familiare, una storia pesante». Nel corso della conversazione la racconterà, in modo sincero e pudico. Approdata nei mesi scorsi in Italia come ospite del festival Romaeuropa, dove ha portato la sua Carmen iconoclasta, Dada Masilo, a soli trent’anni, ha guadagnato la fama di voce artistica tra le più originali e acclamate dell’Africa contemporanea. Quando danza è un fuoco d’intelligenza teatrale, come ha capito il geniale artista visivo sudafricano (bianco) William Kentridge, che l’ha incoronata star di Refuse the Hour, raffinatissima opera da camera presentata alcuni anni fa anche a Roma: un amalgama di filmati, musica, coreografia e recitazione che non smette d’essere applaudito in giro per il mondo (tra le tappe di quest’anno c’è New York). All’interno di questa giostra visionaria, Kentridge dà alla Masilo un ruolo fondamentale, espresso in un turbine di vitalità rapinoso e capace di sfidare il principio della scansione temporale, argomento-chiave del pezzo. Dada si autodefinisce «il perno danzante del co- IL BALLETTO CLASSICO RICERCA UNA GRAZIA CHE CANCELLA PESO E SENSUALITÀ. QUELLO AFRICANO È INVECE PROFONDAMENTE ANCORATO ALLA TERRA. IO VOLEVO UN LUOGO CHE POTESSE ACCOGLIERE E RAPPRESENTARE QUESTO DUELLO smo magmatico di Refuse the Hour, dove si accavallano immagini e testi». E aggiunge: «La collaborazione con William è stata così arricchente per entrambi che adesso sto partecipando alla realizzazione del suo nuovo progetto, dedicato alla rivoluzione cinese. Un incontro che mi ha aperto gli occhi sul piano creativo, togliendomi da zone comode di me stessa e introducendomi in un universo generoso di sollecitazioni». Nata nella township di Soweto e oggi coreografa della compagnia “Dance Factory” di Johannesburg, città la high-school ho dovuto imparare faticosamente l’inglese». Nella sua testa tonda e liscia come una boccia («rasarmi a zero è stata una decisione sapiente, la mattina mi alzo, faccio la doccia e sono pronta. Senza capelli le giornate di una ragazza si semplificano») campeggia un obiettivo: offrire al pubblico un suo stile vigoroso e socialmente impegnato abbattendo le barriere tra discipline artistiche e i tabù ancora impronunciabili della sua cultura, vedi l’omosessualità, gli amori interrazziali e la diffusa sofferenza femminile. «Sono cresciuta in un ambiente dove le aggressioni nei confronti delle donne erano all’ordine del giorno. Per questo, nei miei balletti, mi piace dare spazio a eroine potenti e in grado di difendersi. Mio padre era violentissimo con mia madre, e io da piccola sono stata coinvolta in situazioni di abusi dolorosi. Avevo pochi anni quando ho chiesto di essere mandata ad abitare con mia nonna. Ero schizzata, danneggiata e coi nervi a fior di pelle: non riuscivo mai a stare ferma. Sono rimasta così fragile fino al momento in cui la danza è giunta a salvarmi la vita». Iniziò a ballare per gioco con un gruppo di strada chiamato i “Peacemakers”: «Ci riunivamo ogni pomeriggio per agitarci forsennatamente sulle canzoni di Michael Jackson. Nel 1996 Suzelle LeSueur, direttrice della “Dance Factory”, cioè di quella che sarebbe divenuta la mia compagnia, ci scoprì e ci propose un metodico training di danza. Presi a studiare balletto accademico, danza contemporanea, “contact improvisation”… Era confortante venire introdotta in un sistema formativo strutturato, prima di allora avevo ignorato del tutto le regole. Superai un’audizione all’Arts School di Johannesburg dove mi diedero la possibilità di frequentare il liceo». Quindi vola coraggiosamente a Bruxelles: «Volevo entrare nella scuola di danza e teatro della celebre coreografa fiamminga Anne Teresa de Keersmaeker: un migliaio di aspiranti erano arrivati da ogni continente. Ne selezionarono una trentina. Io ero fra loro». Il resto è un viaggio in ascesa, lungo il quale Dada edifica via via una scrittura scenica orientata verso una prospettiva fusion («miscelo sempre varie tecniche di movimento, in Carmen ho inserito anche il flamenco»), mentre si lancia nell’indagine e reinterpretazione delle più mitiche trame classiche: RASARMI A ZERO È STATA UNA DECISIONE DAVVERO SAPIENTE. LA MATTINA MI ALZO, FACCIO UNA DOCCIA E SONO GIÀ PRONTA SENZA CAPELLI LE GIORNATE DI UNA RAGAZZA SI SEMPLIFICANO «Non amo la danza astratta, preferisco la concretezza narrativa. Certe vicende eterne sono intriganti e colme di spunti da sviluppare, e io voglio esporle secondo la mia concezione. Per esempio Carmen, nel mio spettacolo, alla fine non muore, ma subisce uno stupro, un’altra forma di morte, poiché violentandola le rubano l’anima. Ora sto pensando di rimontare anche Giselle e La sagra della primavera in ottiche “altre”, soggettive e fertili di messaggi sociali». Al centro del suo Lago dei cigni ha messo un principe gay: «Mi sono ispirata al resoconto gestuale di un mio amico che risultò esilarante quando mimò per me l’outing fatto con sua madre. Episodio buffissimo e tragico». L’uomo che balla, spiega la Masilo, non deve soltanto sorreggere la sua partner e fungere da porteur della ballerina: «Odio le gerarchie degradanti della danza tradizionale». Non ha avuto la minima difficoltà nel convincere i maschi del suo ensemble, in occasione di quel Lago specialissimo, a indossare scarpette con le punte e tutù. Parevano nubi candide spiccanti su pelli scure: «Il plot mi ha condotto a misurarmi col tema dell’omofobia: mostro il principe Sigfrido più attratto da un aitante cigno-nero maschio che dalla protagonista cigno-bianco. Le persone devono poter essere liberamente ciò che sono, senza venire mai giudicate “diverse”». Col suo sorriso ardente e la sua passione inesauribile, Dada crede che l’arte possa far galleggiare nelle tempeste della vita le creature più vulnerabili, «perché quello che si legge o si ascolta o si vede in teatro induce la gente a riflettere e a discutere. A volte la fa arrabbiare, dato che la produzione artistica, per sua natura, minaccia pregiudizi e fanatismi, e mette in crisi chi si rifiuta di cambiare idea. Ma dopo aver assistito a un’opera votata ai più autentici problemi umani non si potrà più dire di non aver saputo come vanno le cose». © RIPRODUZIONE RISERVATA