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la domenica - La Repubblica.it
la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MARZO 2015 NUMERO 522
DISEGNO DI GIPI PER “REPUBBLICA”
Cult
La copertina. Il classico del cinema
Straparlando. Piero Gelli: “Che stress la Fallaci”
Mondovisioni. Nel ghiaccio di Nuuk
Il grande scrittore americano
aveva vent’anni quando firmò
il suo racconto d’esordio
Eccolo per la prima volta in Italia
J.D. SALINGER
ERSO LE UNDICI, Lucille Henderson, appurato che la sua festa
stava veleggiando all’altezza
giusta, e graziata da un sorriso
di Jack Delroy, si costrinse a
guardare in direzione di Edna Phillips, che
dalle otto era seduta sulla grossa poltrona
rossa a fumare una sigaretta dopo l’altra e a
gorgheggiare saluti, con uno sguardo radioso che i ragazzi
non si degnavano
di cogliere. Visto
che la direzione di
Edna era rimasta
la stessa, Lucille
Henderson tirò
un sospiro profondo quanto glielo consentiva il vestito, e poi,
intrecciando quello che restava delle sue sopracciglia, lanciò un’occhiata in giro per la
stanza ai giovani che aveva invitato a scolarsi lo scotch di suo padre. Poi frusciò decisa
fin dove era seduto William Jameson Junior,
intento a mangiarsi le unghie e a puntare
una biondina seduta sul pavimento con tre
V
Il giovane
Salinger
ragazzi della Rutgers.
«Ehilà» disse Lucille Henderson, artigliando il braccio di William Jameson Junior.
«Vieni con me» disse. «C’è qualcuno che
vorrei farti conoscere».
«Chi?».
«Questa ragazza. È uno schianto».
E Jameson la seguì attraverso la stanza,
cercando allo stesso tempo di dare il colpo di
grazia a una pellicina sul pollice.
«Edna, baby» disse Lucille Henderson.
«Non sai quanto mi piacerebbe che conoscessi Bill Jameson, davvero. Bill… Edna Phillips. O vi conoscete già, voi due?».
«No» disse Edna, prendendo atto del nasone di Jameson, la bocca molliccia, le spalle
strette.
«Sono tremendamente felice di conoscerti» gli disse.
«Sì, già, io pure» rispose Jameson, confrontando mentalmente gli attributi di Edna
con gli attributi della biondina dall’altra parte della stanza.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN ARTICOLO DI NADIA FUSINI
L’attualità. Valentino Parlato, souvenir di Libia L’inedito. I taccuini ritrovati di Basquiat Spettacoli. Iñárritu, ho vinto l’Oscar
perché non mollo mai Sapori. Ma i veri masterchef non sono gli uomini L’incontro. Dada Masilo: “La mia danza è violenza”
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 8 MARZO 2015
30
La copertina. Il giovane Salinger
New York 1935, i ragazzi fanno i grandi: molte chiacchiere, molto scotch, parecchia solitudine
<SEGUE DALLA COPERTINA
J . D . SALINGER
ILL È UN CARISSIMO AMICO DI JACK DELROY» an-
«B
nunciò Lucille.
«Non è che lo conosco poi tanto» disse
Jameson.
«Bene. Adesso devo filarmela. A dopo,
voi due».
«Prenditela calma!» le gridò Edna.
Poi: «Non ti siedi?».
«Boh, non so» disse Jameson. «È tipo tutta la sera che sto seduto».
«Non sapevo che fossi un caro amico di Jack Delroy» disse Edna.
«È una gran persona, non credi?».
«Sì, già, è a posto, immagino. Non è che lo conosco poi tanto. Non
ho mai bazzicato molto il suo gruppo».
«Davvero? Pensavo di aver sentito Lu dire che eri un suo caro amico».
«Sì, già, l’ha detto. Solo che non lo conosco poi tanto. Adesso però
dovrei proprio andare a casa. Ho questo tema che devo fare per lunedì. Non pensavo neanche di tornare a casa per il weekend».
«Ma la festa è ancora giovane!» disse Edna. «È il clou della serata».
«Il che?».
«Il clou della serata. Cioè è ancora presto».
«Sì, già» fece Jameson. «Ma non pensavo nemmeno di venire stasera. Per via di ‘sto tema. Sul serio. Non so proprio perché sono tornato a casa questo weekend».
«Ma, insomma, è ancora così presto!» disse Edna.
«Sì, sì, lo so, ma…».
Un party
aspettando
Holden
«Su cos’è il tuo tema, comunque?».
All’improvviso, dall’altra parte della stanza, la biondina scoppiò
in una risata stridula, subito imitata dai tre ragazzi della Rutgers.
«Su cos’è il tuo tema?» ripeté Edna.
«Boh, che ne so» disse Jameson. «Su questa descrizione di una cattedrale. Una cattedrale in Europa, tipo. Non so».
«Cioè, cos’è che devi fare?».
«Non lo so. Dovrei scrivere un commento, o roba del genere. Me
lo sono segnato da qualche parte».
Di nuovo, la biondina e i suoi amici scoppiarono a ridere.
«Un commento? Allora l’hai vista?».
«Visto cosa?» disse Jameson.
«Questa cattedrale».
«Chi, io? Ma va’».
«Scusa, ma come fai a scrivere un commento se non l’hai mai vista?».
«Ah già. Ma mica io. È questo tizio che l’ha scritto. Io dovrei commentarla partendo da quello che ha scritto lui, tipo».
«Mmmh. Capisco. Roba tosta».
«Che hai detto?».
«Roba tosta, ho detto. Lo so bene. Non hai idea di quante volte mi
è capitato di fare a botte con quella roba».
«Eh già».
«Chi è il tipo che l’ha scritta?» chiese Edna.
Altro scoppio d’esuberanza dalla postazione della biondina.
«Cosa?» disse Jameson.
«Ho detto, chi l’ha scritta?».
«Boh, che ne so. John Ruskin».
«Ragazzi!» disse Edna. «Allora stai fresco».
«Che hai detto?».
«Ho detto che stai fresco. È roba tosta, insomma».
«Eh già. Mi sa di sì».
«Chi stai guardando?» chiese Edna. «Conosco quasi tutta la banda che c’è qui stasera».
«Chi, io?» fece Jameson. «Nessuno. Mi sa che andrò a prendere
qualcosa da bere».
«Ehi! Mi hai tolto le parole di bocca».
Si alzarono simultaneamente. Edna era più alta di Jameson e Jameson era più basso di Edna.
«Penso che ci sia della roba là fuori in terrazza» disse Edna. «Qualche schifezza ci dev’essere. Non sono sicura. Possiamo provare. Tanto vale prendere una boccata d’aria».
«D’accordo» disse Jameson.
Si spostarono verso la terrazza, Edna piegando leggermente le
ginocchia e spazzando via della cenere immaginaria da quello che,
dalle otto, era stato il suo grembo immobile.
Jameson la seguì, guardando indietro e mordicchiandosi l’indice
della mano sinistra.
Per leggere, cucire o fare cruciverba, la terrazza degli Henderson
non aveva un’illuminazione adeguata. Infilandosi con leggerezza
attraverso la porta a zanzariera, Edna avvertì quasi subito un mormorio di voci sommesse provenienti da un angolo vicino molto più
buio alla sua sinistra. Ma andò dritta in fondo alla terrazza, si appoggiò pesantemente alla ringhiera bianca, tirò un profondo respiro, poi si girò a cercare Jameson.
«Sento qualcuno parlare» disse Jameson raggiungendola.
«Shhh… Non è una notte favolosa? Prova a fare un respiro profondo».
«Dov’è il carburante? Lo scotch?»
«Solo un secondo» disse Edna. «Dai, fa’ un respiro profondo. Solo
una volta».
«Sììì. Fatto. Forse è là in fondo». La lasciò e andò dritto verso un tavolo. Edna si girò a guardarlo. Per lo più in controluce, vide la sua sagoma sollevare e posare oggetti sul tavolo.
«Non c’è più niente!» le gridò Jameson.
«Shhh. Non così forte. Vieni qui un minuto».
Lui la raggiunse.
«Che c’è?» chiese.
«Guarda il cielo» disse Edna.
«Sì, già. Sento qualcuno parlare da quella parte. Tu no?».
«Sì, scimunito».
«Come sarebbe scimunito?».
«Certa gente» disse Edna «vuole starsene in pace».
«Ah. Ho capito».
«Non così forte. Ti piacerebbe se qualcuno ti rovinasse tutto?».
«Sì, già. Certo» disse Jameson.
«Io penso che potrei uccidere qualcuno, tu no?».
«Boh, forse. Immagino di sì».
«Allora, cosa fai tutto il tempo quando sei a casa per il weekend?»
chiese Edna.
«Chi, io? Non so».
«Vai in giro a far danni, eh?».
«In che senso?» chiese Jameson.
«Lo sai, a rimorchiare, le solite idiozie dei ragazzi del college».
«Naa. Non so. Non molto».
«Sai una cosa?» disse Edna di punto in bianco. «Tu mi ricordi un
sacco questo ragazzo con cui uscivo l’estate scorsa. Cioè il tuo aspetto eccetera. E Barry aveva il tuo fisico, tale e quale, sai. Asciutto».
«Ah sì?».
«Già. Era un artista. Oddio!».
«Che c’è?».
«Niente. Solo che non dimenticherò mai quella volta che voleva
farmi un ritratto. Mi diceva sempre — serio come la morte, oltretutto: “Eddie, tu non sei bella secondo i canoni convenzionali, ma c’è
qualcosa nella tua faccia che voglio catturare”. Serio come la morte
lo diceva, oltretutto. Bene. Ho posato per lui solo quella volta».
«Sì, già» fece Jameson. «Ehi, potrei entrare e portarti fuori qualcosa…».
«No» disse Edna. «Fumiamoci una sigaretta piuttosto. È grandioso qua fuori. Voci amorose e tutto, come dici?».
«Non credo di averne ancora. Ne ho un po’ nell’altra stanza, penso».
«No, lascia perdere» gli disse Edna. «Io ne ho qualcuna con me».
Aprì la borsetta da sera e tirò fuori una scatoletta nera decorata di
strass, la aprì e offrì una delle tre sigarette a Jameson.
Prendendola, Jameson ribadì che doveva proprio andare, che
glielo aveva detto di questo tema che doveva fare per lunedì. Alla fine trovò i fiammiferi, e ne accese uno. «Comunque» disse Edna, tirando boccate dalla sigaretta, «mi sa che la festa finirà presto. Hai
notato Doris Leggett, a proposito?».
«Qual è?».
«Terribilmente bassa? Biondastra? Che stava con Pete Ilesner?
Ma sì, devi averla vista. Era seduta sul pavimento, come al solito, e
rideva a crepapelle».
«Ah, è quella lì? La conosci?» chiese Jameson.
«Bah, più o meno» gli disse Edna. «Non è che l’abbia mai bazzicata molto. In realtà la conosco soprattutto per quello che Pete Ilesner
mi raccontava di lei».
«E lui chi è?».
«Petie Ilesner? Non conosci Petie? Oh, è un grande. È uscito con
Doris Leggett per un po’. E secondo me lei lo ha fatto nero. È stata
tremenda con lui. Semplicemente schifosa, dico io».
«In che senso?» chiese Jameson. «Che vuoi dire?».
«Be’, lasciamo perdere. Mi conosci. Odio metterci bocca quando
non sono sicura e così via. Non più. È solo che, in ogni caso, non cre-
la Repubblica
DOMENICA 8 MARZO 2015
31
Il racconto d’esordio dell’autore del “Giovane Holden” per la prima volta pubblicato in Italia
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMANI
IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50
DEL DIGITALE E 139 DI SKY)
ASCANIO CELESTINI LEGGE J.D. SALINGER
Lo scrittore
che ai cocktail
preferì la vita
NADIA FUSINI
L FETICISMO ESISTE. È una forma deviata dell’amore. In
letteratura si manifesta nel fanatismo accanito dei
lettori che oggi corrono sulla Rete per scaricare racconti
“rubati” di J. D. Salinger. A loro non bastano quelli che
l’autore ha voluto donarci mentre era in vita, che ha
curato e limato, ossessivo com’era nel suo minimalismo
sublime. Mentre altri li ha giustamente scartati, forse
dimenticati; oppure trasformati, perché un libro di racconti,
un romanzo, nascono anche grazie alle parole e alle frasi che
lo scrittore elimina, in cerca di una perfezione che avviene
soprattutto in virtù della fondamentale arte della
sottrazione. Così senz’altro nasce Il giovane Holden, il più
importante libro di Salinger — a tutt’oggi il migliore.
L’irripetibile manifesto in cui si sono riconosciute più
generazioni.
Ma la passione incalza e il devoto feticista in una
sopravvalutazione dell’oggetto d’amore non si stanca di
scovare altri frammenti da adorare, a dimostrazione che il
suo è un amore plastico, niente affatto spirituale. E non si
nutre del bene e del bello, ma dell’oggetto erotizzato al di là
del suo valore. Conta la fascinazione immaginaria, non la
cosa in sé. Così sono spuntati in internet racconti
scannerizzati “rubati” dalle casseforti delle biblioteche in cui
viene custodito il patrimonio Salinger.
Amo Salinger, ma non ho voglia di partecipare alla caccia.
Capisco che la sua riservatezza «quasi egiziana» possa
invitarci allo stalking, ma rispetto la volontà dello scrittore
sottrattosi al mondo in serrata clausura. «Amo scrivere» disse
Salinger nel 1974; «scrivere per il mio proprio piacere. C’è
una straordinaria pace nel non pubblicare». Scrivere e non
pubblicare: se questo ha fatto il nostro eroe per anni della sua
vita nelle colline del New Hampshire, un tesoro sicuramente
ci attende negli anni avvenire. Aspettiamo...
Intanto, però, del tutto legalmente possiamo leggere tre
racconti inediti che escono in italiano per i tipi del Saggiatore
nella traduzione di Delfina Vezzoli. Del primo che qui
anticipiamo, I giovani, che dà il titolo alla raccolta, rinforzata
anche nel numero delle pagine da un saggio entusiasta di
Giorgo Vasta, colpisce come fin da subito lo scrittore
americano abbia chiaro in mente il suo pubblico e il suo tema.
I lettori a cui si rivolge sono the young folks e il tema è
l’adolescenza. Nella letteratura americana il racconto
d’iniziazione ha già una tradizione, e che tradizione! Pensate
ad Huckleberry Finn di Twain, a Flora e Miles di James, a Nick
Adams di Hemingway — racconti in cui le angosce legate al
rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta lasciano
segni indelebili nel protagonista e nel lettore. E
un’inquietudine non solo generazionale, ma universale.
In Salinger il motivo è ripreso e modulato in arabeschi di
estenuante ricerca della leggerezza intesi a descrivere prove
di crescita che abortiscono in solitudine. Crescere è
senz’altro un problema per the young folks del primo
racconto mai pubblicato da un Salinger poco più che
ventenne. Ma Edna, la giovinetta incaricata in questo caso di
esprimere tale difficoltà, nelle circostanze ambientali datate
di un cocktail-party in un appartamento della New York degli
anni Trenta, non sboccia in un vero e proprio protagonista.
Edna non è ancora Holden, ma va nella direzione di creare
quel prototipo a firma Salinger a prova di brevetto di una
individualità umana, sentimentale e emotiva, che aspira a
un’esistenza più autentica, più vera. E si ritrova
continuamente immerso nella phoniness, nella falsità,
nell’inautenticità della vita americana.
I
NON È CHE
NON MI RENDA CONTO
DI COME SI SENTE
UN RAGAZZO
DOPO CHE È USCITO CON TE
TUTTA L’ESTATE
E HA SPESO SOLDI
CHE NON HA NESSUN
DIRITTO DI SPENDERE
PER I BIGLIETTI
DEL TEATRO. CIOÈ, POSSO
CAPIRE. LUI SENTE
CHE GLI DEVI QUALCOSA.
MA IO NON SONO COSÌ.
SUPPONGO
DI NON ESSERE FATTA
IN QUEL MODO, TUTTO QUI.
DEV’ESSERE LA COSA VERA,
PER ME. PRIMA, CAPISCI.
CIOÈ L’AMORE
ECCETERA
ECCETERA
IL LIBRO
“I GIOVANI”
DI J.D. SALINGER,
CON TRE RACCONTI
INEDITI, IN LIBRERIA
DAL 12 MARZO
(ILSAGGIATORE,
80 PAGINE,
12 EURO
TRADUZIONE
DELFINA VEZZOLI)
DISEGNI DI GIPI PER “REPUBBLICA”
do che Petie mi mentirebbe. Perché mai, voglio dire».
«Lei non è male» disse Jameson. «Doris Liggett?».
«Leggett» disse Edna. «Suppongo che Doris sia attraente per gli
uomini. Non so. Però penso che mi piacesse di più — il suo aspetto
intendo — quando aveva i capelli naturali. Cioè, i capelli ossigenati
— per me almeno — hanno sempre un che di artificiale quando li vedi sotto la luce o che so io. Potrei anche sbagliarmi. Lo fanno tutte,
immagino. Oddio! Penso che papà mi ucciderebbe se mai tornassi a
casa con i capelli ritoccati anche solo un po’. Tu non conosci papà. È
terribilmente all’antica. Non che io voglia farmeli ritoccare, alla fin
fine. Ma sai com’è. A volte si fanno delle pazzie. Oddio! Papà non è
l’unico! Penso che anche Barry mi ucciderebbe se lo facessi».
«Chi?» chiese Jameson.
«Barry. Questo ragazzo di cui ti ho parlato».
«È qui stasera?».
«Barry? Per carità, no. Non riesco a immaginarmelo Barry a una
di queste festine. Non conosci Barry».
«Va al college?».
«Barry? Mmmh, ci andava. A Princeton. Penso sia uscito nel trentaquattro. Non sono sicura, però. In realtà non vedo Barry dall’estate scorsa. O, meglio, non gli parlo. Alle feste e roba del genere,
riuscivo sempre a guardare dall’altra parte quando lui guardava
me. Oppure mi precipitavo al gabinetto o che so io».
«Pensavo che ti piacesse, il tipo».
«Mmmh. Sì, fino a un certo punto».
«Io mica ti capisco».
«Lascia perdere. Preferisco non parlarne. Pretendeva troppo da
me, tutto qui».
«Ah» fece Jameson.
«Io non sono una santarellina né niente. Non so. Forse lo sono. È
solo che ho i miei princìpi, e nel mio piccolo cerco di rispettarli. Meglio che posso, comunque».
«Occhio alla ringhiera» disse Jameson. «È un po’ traballante».
Edna disse: «Non è che non mi renda conto di come si sente un ragazzo dopo che è uscito con te tutta l’estate e ha speso soldi che non
ha nessun diritto di spendere per biglietti di teatro e locali notturni
e così via. Cioè, posso capire. Lui sente che gli devi qualcosa. Ma io
non sono così. Suppongo di non essere fatta in quel modo, tutto qui.
Dev’essere la cosa vera, per me. Prima, capisci. Cioè l’amore eccetera eccetera».
«Sì, già. Però, cioè, dovrei proprio darmi una mossa. Ho questo tema per lunedì. Accidenti, avrei dovuto essere a casa da ore. Quindi
penso che entrerò a farmi un drink e comincerò ad andare».
«Sì» disse Edna. «Va’ pure».
«Tu non vieni?».
«Tra un minuto. Va’ pure avanti».
«Be’, ciao, eh» disse Jameson.
Edna, alla ringhiera, cambiò posizione. Si accese l’ultima sigaretta rimasta nella sua scatola. Dentro, qualcuno aveva acceso la radio, forse era aumentato di colpo il volume. Una giovane cantante
stava intonando con voce roca l’ultimo motivetto di uno show che
ormai anche i fattorini cominciavano a fischiettare. Non c’è porta
che sbatta più forte di una porta a zanzariera.
«Edna!» esclamò Lucille Henderson.
«Ehi, ehi» disse Edna. «Ciao Harry».
«Come butta?» .
«Bill è dentro» disse Lucille. «Prendimi da bere, ti spiace, Harry?».
«Vado».
«Cos’è successo?» volle sapere Lucille. «Non avete ingranato tu e
Bill? Sono Frances e Eddie quelli là in fondo?».
«Non lo so. Lui doveva andar via. Aveva un sacco di lavoro per lunedì».
«Sarà, comunque per ora è là dentro, sul pavimento con Dottie
Leggett. Delroy le sta infilando le noccioline nella schiena. Quelli là
sono proprio Frances e Eddie».
«Il tuo piccolo Bill è un bel tipetto».
«Ah sì? Come sarebbe?» disse Lucille.
Edna risucchiò le guance e scosse la cenere dalla sigaretta.
«Un filino focoso, se posso dire».
«Bill Jameson?».
«Be’» disse Edna. «Sono ancora tutta intera. Ma tieni quel tipo lontano da me, chiaro?».
«Mah. Vivi e impara» disse Lucille Henderson. «Dove diavolo si è
cacciato quel tonto di Harry? A dopo, Ed».
Finita la sigaretta, anche Edna si decise a entrare. A passi veloci,
andò dritta su per le scale nella parte della casa della madre di Lucille Henderson vietata a giovani mani che brandivano sigarette accese e bicchieri da cocktail gocciolanti. Rimase di sopra quasi venti
minuti. Quando scese, tornò in soggiorno. William Jameson Junior,
un bicchiere nella mano destra e le dita della sinistra in bocca o nelle vicinanze, era seduto a qualche testa maschile di distanza dalla
biondina. Edna si piazzò sulla grossa poltrona rossa. Nessuno l’aveva occupata. Aprì la borsetta da sera e tirò fuori la scatoletta nera,
decorata di strass, ed estrasse una di dieci o dodici sigarette.
«Ehi!» gridò, picchiettando la sigaretta sul bracciolo della poltrona rossa. «Ehi, Lu! Bobby! Vedete un po’ se riuscite a trovare qualcosa di meglio alla radio! Insomma, come si fa a ballare con questa
roba?».
(Traduzione di Delfina Vezzoli)
©2014, Three Early Stories originally published
by The Devault-Graves Agency, Memphis, Tennessee, U.S.A.
©il Saggiatore S.r.l., Milano 2015
© RIPRODUZIONE RISERVATA
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 8 MARZO 2015
32
L’attualità. Vicini di guerra
L’INVASIONE
LA RESISTENZA
L’IMMIGRAZIONE
IL DOPOGUERRA
IL REGNO DI LIBIA
NEL 1911 GIOVANNI GIOLITTI
DÀ INIZIO ALLA CONQUISTA
DELLA “QUARTA SPONDA”:
L’ANNO DOPO IL TRATTATO
DI LOSANNA RICONOSCE
L’OCCUPAZIONE ITALIANA
TRA GLI ANNI VENTI E TRENTA
LA RESISTENZA ANTI-ITALIANA.
A OMAR AL-MUKHTAR
SARÀ DEDICATO UN FILM
(CENSURATO IN ITALIA)
CON ANTHONY QUINN
NEL 1934 MUSSOLINI
CREA IL GOVERNATORATO
DI LIBIA CON A CAPO
ITALO BALBO: INIZIA COSÌ
L’IMMIGRAZIONE DEI COLONI
ITALIANI
CON LA FINE DELLA SECONDA
GUERRA MONDIALE L’ITALIA
PERDE TUTTE LE COLONIE
E ANCHE LA LIBIA
CHE PASSA DI FATTO
SOTTO L’INFLUENZA INGLESE
NEL 1952 L’ONU RICONOSCE
L’INDIPENDENZA DEL REGNO
DI LIBIA: PER GLI ITALIANI
DI LIBIA INIZIA UN DIFFICILE
PERIODO CHE SI CONCLUDE
CON LA CACCIATA DAL PAESE
L’AUTORE
VALENTINO
PARLATO,
NATO A TRIPOLI
OTTANTAQUATTRO
ANNI FA,
VIVE A ROMA.
HA FATTO MOLTI
MESTIERI.
DA GIORNALISTA
HA LAVORATO
A “RINASCITA”,
A “L’UNITÀ”
ED È STATO
TRA I FONDATORI
DEL QUOTIDIANO
“IL MANIFESTO”
CHE HA PIÙ VOLTE
DIRETTO
Le parate
di Italo Balbo
viste dal terrazzo
di casa, la fuga
in campagna
dai nonni, la scoperta
della politica e infine
una nave per l’Italia
Valentino Parlato
ricorda il paese
dei suoi primi vent’anni
“E di quando Gheddafi...”
la Repubblica
DOMENICA 8 MARZO 2015
33
IL COLPO DI STATO
LA VENDETTA
LA CRISI DIPLOMATICA
LA VISITA IN ITALIA
LA GUERRA CIVILE
LA FINE DI GHEDDAFI
NEL 1969 IL COLONNELLO
GHEDDAFI CON UN COLPO
DI STATO ROVESCIA RE IDRIS,
NAZIONALIZZA LE IMPRESE
E CACCIA GLI AMERICANI
DALLE BASI MILITARI
IL 7 OTTOBRE 1970 CON
IL “GIORNO DELLA VENDETTA”
GHEDDAFI ORDINA
L’ESPULSIONE DEGLI ITALIANI
RESIDENTI IN LIBIA
E CONFISCA I LORO BENI
IL 15 APRILE 1986 GHEDDAFI
LANCIA SENZA CAUSARE
DANNI DUE MISSILI CONTRO
LAMPEDUSA: L’ATTACCO
APRE UNA GRAVE CRISI
DIPLOMATICA CON L’ ITALIA
NEL 2008 BERLUSCONI FIRMA
CON GHEDDAFI UN TRATTATO
DI AMICIZIA E COOPERAZIONE.
L’ANNO DOPO IL LEADER
LIBICO È PER LA PRIMA VOLTA
IN VISITA NEL NOSTRO PAESE
NEL 2011 SCOPPIA ANCHE
IN LIBIA LA GUERRA CIVILE:
LA VIOLENTA REPRESSIONE
DELLE PROTESTE DA PARTE
DI GHEDDAFI DÀ IL VIA
ALLA NATO PER INTERVENIRE
DOPO OTTO MESI DI GUERRA
CIVILE, FUGGITO A SIRTE
GHEDDAFI VIENE BRACCATO
E CATTURATO DAI RIBELLI
CHE LO UCCIDONO
IL 21 OTTOBRE 2011
V A LENT INO PARLAT O
UL FINIRE di quella notte di novembre del
1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa
nostra. Erano armati,
la perquisirono e mi
arrestarono. Io avevo
vent’anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro,
buttai dalla finestra
tutte le pubblicazioni
visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii
che l’auto militare mi portava in direzione del
porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e
non galera.
All’imbarco, sul piroscafo Celio, trovai Errico
Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e Giuseppe
Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico.
Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c’erano solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici.
Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanza
perché stavamo facendo un buon lavoro politico. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: “Sei persone rimpatriate per attivismo comunista sovversivo”. Il Sunday Ghibli, più spiccio, annunciò: “One way ticket”, biglietto di sola andata.
Avevamo costruito — promotore soprattutto
Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme.
Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto imponente. Del lavoro
sindacale si occupavano in particolare i fratelli
Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista
dell’arte della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria nazionale d’arte moderna). La diffusione del sindacato, l’infiltrazione
del Partito comunista e, cosa forse più importante, l’Associazione per il progresso della Libia
che rivendicava una Libia indipendente e democratica, trovarono l’opposizione non solo dell’Autorità militare britannica che occupava il
Paese ma anche della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare all’Italia. Vale
la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva il
Comitato di liberazione della Libia e con il quale
la nostra associazione aveva stretti rapporti.
Ci riunivamo nell’elegante studio notarile di
Errico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette
postali. Ma partecipavo anche attivamente, con
Mario Mazzarino, alla redazione di due giornali
successivamente chiusi d’autorità: Il Pinguino e
il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica
“Visto da destra e visto da sinistra” — dove ovviamente gli argomenti “visti da destra” erano
piuttosto stupidi.
Sono passati più di sessant’anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima
verso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l’unica ragione per cui provo affetto per questo
Paese oggi così drammaticamente devastato —
e a mente fredda è difficile negare che l’intervento militare del 2011 abbia prodotto l’attuale
disastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanissimi genitori italiani.
S
ALBUM
IN ALTO VALENTINO PARLATO IN BRACCIO AL NONNO TRA I SOLDATI ITALIANI
NELLA CAMPAGNA LIBICA. QUI SOPRA: A SINISTRA CON I NONNI, IL FRATELLINO
E LA MAMMA; A DESTRA A TRIPOLI MENTRE FA IL SALUTO ROMANO
Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cui
Mussolini doveva arrivare a Tripoli per impugnare la “Spada dell’Islam”. Allora era governatore il maresciallo dell’aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo di Tobruk). Per l’accoglienza del Duce organizzò serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli,
dromedari. Per noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era vicina a casa
nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose
che noi guardavamo dal terrazzo come fossimo
al cinema. La domenica, altro avvenimento: la
messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina trainata da quattro cavalli.
Entrava nella cattedrale sotto la navata centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che pre-
sentavano le armi. Dovevano restare immobili
per tutta la durata della messa. Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati.
L’Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tutti
della quinta elementare venimmo promossi. Ma
insieme con la “promozione di guerra” arrivarono anche le bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia —
mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e
Anna nella campagna di Sorman, un paesino a
sessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochi
chilometri da Sabratha, l’antica città romana,
tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul
mare. Fu qui che mi trasformai in contadino agli
ordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare gli
animali, a montare a cavallo, a raccogliere le arachidi. Scopro così che le noccioline americane
nascono sotto terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto
la pancia per farlo alzare, l’indomani mi sferrò
un calcio che mi sbatté per terra.
Tutto il lavoro agricolo era fatto da braccianti
libici, noi li chiamavamo tutti “arabi”. L’uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Io
li frequentavo, e con loro imparai anche qualche
parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile, le fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata.
Accampati nelle zone vicine venivano da mio
nonno per comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loro
il vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarli
parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e
più spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e
i dodici anni ero tutt’orecchi. Grazie all’esercito
mi feci anche una cultura, seppur alquanto stravagante. Quando il campo d’aviazione fu smobilitato il comandante regalò infatti a mio nonno
la loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d’amore, ma anche
dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree.
Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una sera
fecero un’esibizione di fuoco antiaereo, poi uno
di loro che parlava italiano disse a mio nonno che
gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto.
Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata la
cena, e mentre eravamo tutti a tavola — c’erano
il comandante del reparto, l’ufficiale medico che
mi sedusse perché aveva due coniglietti in una
gabbietta sull’auto, il sergente Springhorum
che parlava italiano — la radio, che avevano portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il
gelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e l’indomani all’alba partirono
per la Tunisia.
Se i tedeschi se n’erano andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato
di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi
avevano riaperto la pubblica amministrazione e
mio padre, che era funzionario, tornò al lavoro.
Io invece non tornai a scuola, studiai privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all’unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entro
nel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi di
politica e sempre qui assisto al tragico pogrom
del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno
stato di Israele, il 4 novembre lasciano partire
un ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa
132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle
violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in caserma. Ho ancora il senso
di colpa per non aver accompagnato in quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri
compagni di scuola ebrei a casa.
Paradossalmente è proprio dal lavoro politico
di quei miei primi vent’anni — venni espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove —
che quasi cinquant’anni dopo il Raìs mi invitò a
Tripoli. Gli avevo fatto avere i documenti della
nostra Associazione per il progresso della Libia
insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli italiani nati in Libia era proibito tornare,
Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse anche un’intervista per il manifesto. Lo incontrai
altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura
notevole. Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga all’Inferno. Non
poteva immaginare che la Libia si sarebbe trasformata in un inferno.
Lamia Libia
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LA DOMENICA
L’inedito.
Tutti potevano leggere negli anni Ottanta
quello che scriveva sui muri del Lower
East Side o sui vagoni della metropolitana
Altri incubi li confidava ai suoi blocnotes
G UIDO ANDRUET T O
U
N COLLAGE DESTRUTTURATO DI IDEE, visioni e segni. Una sinfonia
disturbata di parole e pensieri che si susseguono disordinatamente da una pagina all’altra, come un flusso di segnali a
intermittenza. È il caos che esplode con il suo ritmo e il suo
suono nei taccuini di Jean-Michel Basquiat. Per la prima volta saranno mostrati al pubblico al Brooklyn Museum di New
York (dal 3 aprile al 23 agosto), dove al quarto piano dello
spazio Morris A. and Meyer Schapiro Wing si sta ultimando
in questi giorni l’allestimento dell’esposizione Basquiat.
The Unknown Notebooks. Si tratta di una corposa selezione
di centosessanta pagine estrapolate da otto dei quaderni e
blocnotes su cui l’irrequieto artista e graffitista newyorchese di sangue haitiano e portoricano, scomparso nel 1988 per un’overdose di eroina, a soli ventisette anni, aveva riportato frammenti di delirio e di poesia, enigmatici giochi di
parole, schizzi e pittogrammi. Su alcune di queste pagine compaiono a volte soltanto numeri di telefono o indirizzi, come quello della Sperone Westwater Gallery a SoHo; oppure nomi di amici, come “Clemente”, l’artista Francesco Clemente con il quale Basquiat
collaborò insieme ad Andy Warhol nel 1984 per un progetto collettivo di pittura a sei mani dal titolo Collaborations.
Per quasi otto anni, dal 1980, Basquiat riempì pagine su pagine di appunti e piccoli disegni di volti deformati, teschi, maschere e figure umane stilizzate, alternando l’uso di
pennarelli, matite e pastelli. Il giovane angelo nero della Downtown scene di New York,
l’alieno dell’hip-hop e delle bombolette
spray la cui pittura aveva la forza di una tropolitana di New York, per poi approdamusica primitiva e feroce, sapeva far vola- re alle gallerie d’arte come quella di Annire i pensieri come farfalle per poi fermarli na Nosei, che ospita la sua prima personadi colpo sui fogli di carta dei suoi blocchet- le newyorchese nel 1981. «Come giustati. “Una preghiera, la nicotina cammina sui mente ha osservato Mary-Ann Monforton
gusci d’uovo, medicati, la terra era un vuo- (l’editore della storica rivista d’arte Bomb
to amorfo — annotava Basquiat nel 1987 Magazine, ndr), Basquiat ha utilizzato ogsu una pagina in cui figurano molti riferi- getti di tutti i tipi che appartengono alla
menti al Vecchio Testamento —. Buio, buio quotidianità — aggiunge Buchhart — ma
volto del profondo spirito attraverso l’ac- che con il suo intervento si trasformano e
qua e luce fu. Era cosa buona. Alitare nei acquistano nuovi significati per diventare
polmoni dell’uomo, 2000 anni di amianto”. arte. Quando il critico Jeffrey Deitch lo in«Dai taccuini emerge la facilità con cui contrò nel 1980, la prima cosa che notò fu
Basquiat usa le parole e la scrittura come un frigorifero malandato che Basquiat aveelementi visivi al pari delle rappresenta- va completamente ricoperto di disegni, pazioni figurative — ci spiega Dieter Bu- role e simboli. Ai suoi occhi risultò uno dei
chhart, curatore della mostra con Tricia più sorprendenti oggetti d’arte che avesse
Laughlin Bloom — con il suo approccio è mai visto». Non meno stupefacenti appaiostato un predecessore della società della no oggi gli appunti stralunati che custodiconoscenza e della generazione del copia e va nei suoi diari e di cui a volte cancellava
incolla, quasi anticipando la cultura del alcuni passaggi o singole parole tirandoci
web e dell’ipertesto. Ha realizzato innu- sopra un mucchio di righe rosse. “Guardò il
merevoli combinazioni di oggetti identici e suo terzo occhio per il salone, sotto le paldi sequenze con costellazioni di significati, me in un villaggio vacanze sulla spiaggia —
ispirato da fumetti e cartoon, dai disegni scriveva nel 1980 sulla pagina di destra di
dei bambini, dalla pubblicità, dalla pop art, un quaderno a righe che oggi fa parte della
dall’arte azteca, africana, greca, e dalla vi- collezione privata di Larry Warsh — attrata sulla strada». Un frullatore sparato alla verso l’acqua il suo occhio diventò mendicante in Spagna di fronte a una trappola
velocità massima, fuori controllo.
Era già così fin da giovanissimo, quando per turisti la sua voce pappagalli un gemiscappava di casa o dalla City-as-School di to di carta vetrata sulla telefonata. DormiManhattan dove conosce Al Diaz, con cui re su sei treni tornare a casa in aereo guarinizia a vergare con lo spray la criptica tag dare le ali tremare”.
“SAMO©” sui muri o sui vagoni della me© RIPRODUZIONE RISERVATA
i taccuini
diBasquiat
“E poi guardare le ali tremare”
In mostra a New York le poesie
ancora sconosciute dell’artista
che portò la strada dentro i musei
la Repubblica
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Non erano
le solite
stronzate
HE NRY L OUI S GA TE S JR.
I SENTO come
fossi un
cittadino. È ora
che torni a fare
il vagabondo”.
Jean-Michel Basquiat si è fatto strada a
colpi di bomboletta nella coscienza
pubblica. Si firmava SAMO©, ma i
messaggi che scarabocchiava sui palazzi
fatiscenti del Lower East Side erano
tutt’altro che “the same old shit”, le solite
stronzate. Facevano inchiodare persino i
newyorchesi, incuriositi. Chi è questo
sciamano dell’era dei graffiti, questo
autore dallo pseudonimo protetto da
copyright?
Samo© non provoca il cancro negli
animali da laboratorio.
Samo© per la cosiddetta avant-garde.
Samo© come agglomerato di genio
latente.
Samo© interrompe il blues dell’orario di
ufficio del ho preso la laurea e del non
stasera tesoro.
Non si capiva cosa esattamente volesse
dire o dove sarebbe riapparsa la sua
firma, ma i bene informati sapevano che
Jean-Michel Basquiat sarebbe stato una
voce — e una mano — tra le più
innovative della sua generazione e di
tutte le altre. Al suo esordio, a fine anni
Settanta, godeva di un anonimato
impensabile per un ragazzo di oggi,
nell’era di Facebook e Twitter. Eppure
aveva l’ambizione di entrare nel gotha
dei massimi artisti di tutti i tempi — pur
consapevole di dover lottare per arrivare.
Si stava ancora facendo le ossa, lavorava
alle ore più impensate e su ogni
superficie possibile. Ma aveva chiaro il
suo obiettivo.
Dalla natìa Brooklyn Basquiat era
passato a quella vera e propria frontiera
di cemento armato che era in quegli anni
l’East Village. Distava solo qualche
fermata di metropolitana, ma era un
altro mondo. Attraversando l’East River
Basquiat attraversò il confine metafisico
tra rimbambimento e libertà,
alienazione e innovazione,
disapprovazione dei genitori e creatività.
Fu fondamentalmente un atto di
emancipazione nel solco della tradizione
afroamericana.
Oggi non è esagerato dire che è stato uno
degli artisti americani più importanti
degli anni Ottanta e uno dei visual artist
neri più grandi di tutti i tempi — alcuni
critici, lo definiscono “il più grande”, alla
Muhammad Ali. Johnny Depp, l’attore,
nel 2003, dopo aver visto la mostra di
Basquiat a Parigi scrisse che “l’arte è
questione di centrare o mancare il
bersaglio. E quando questo figlio di
puttana colpisce va giù duro”. È così. E
così le sue opere sono straordinarie,
abbaglianti, disorientanti, ricche di
dettagli, frutto della mente di un genio —
inquieto, originale, innovativo, brillante,
che dà l’illusione del miracolo infantile
pur essendo invecchiato prima del
tempo.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Scrittore e critico letterario,
direttore del W.E.B. Du Bois Institute
for African and African American
Research alla Harvard University
“M
QUESTO
NON È UN ELOGIO
DEL VELENO /
AVVELENARMI
IN ATTESA CHE VENGANO
LE IDEE / ME / NON È UN
ELOGIO DEL VELENO /
NON È / NESSUNO È PULITO
DALLA CARNE ROSSA
AL VELENO BIANCO /
IL PIÙ GRANDE AFFARE /
BRUTTO, GRASSO
COME UN PORCO /
IL CLIENTE A NEW YORK
CHICAGO DETROIT
SIGNORE E SIGNORI
VI INVITO
ALLA VISIONE
DEL NUOVO EPISODIO
DE “L’EROINOMANE
FAMOSO” LO SPETTACOLO
ALL’INSEGNA
DELL’ “OH, NO!
NON PUÒ ESSERE LUI.
CHI L’AVREBBE
MAI DETTO”
A. ERA UN TOSSICO
B. È ANCORA UN TOSSICO
C. STA TENTANDO
DI SMETTERE
LE IMMAGINI
IN ALTO, “SENZA TITOLO”, 1986, COLLAGE
DI ACRILICO E OLIO SU CARTA E TELA.
A SINISTRA, “SENZA TITOLO (CORONA)”, 1982:
UN ALTRO COLLAGE DI ACRILICO, INCHIOSTRO
E CARTA; DUE PAGINE DAI TACCUINI
DI BASQUIAT, 1980-’81. QUI SOPRA,
L’ARTISTA SUL SET DEL DOCUFILM
“DOWNTOWN 81” DI EDO BERTOGLIO.
TUTTE LE IMMAGINI, COME PURE L’ARTICOLO
DI HENRY LOUIS GATES JR., SONO TRATTI
DAL CATALOGO DELLA MOSTRA “BASQUIAT.
THE UNKNOWN NOTEBOOKS” DAL 3 APRILE
AL BROOKLYN MUSEUM DI NEW YORK
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LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 8 MARZO 2015
Spettacoli. Da Oscar
JUAN MARTÍNEZ AHRENS
CALGARY (CANADA)
NCORATA nel porto di
A
Veracruz, la Toluca,
un mercantile, arruolò nel 1980 un ragazzo di diciassette
anni dai capelli nerissimi che cercava
di mettere un oceano tra il suo passato
e il suo presente. Pochi mesi prima
Alejandro González
Iñárritu era scappato di casa con una donna più
grande di lui. La fuga fu un disastro: lui si smarrì, fu
espulso da scuola e, sotto il sole tropicale, finì per imbarcarsi sulla Toluca dove ti davano cibo e trasporto se pulivi il ponte e davi il grasso in sala macchine.
A bordo della nave risalì il Mississippi, scoprì Barcellona e toccò la Toscana e la Sicilia. Poi arrivò a Bilbao, vendemmiò a Toledo, dormì all’aperto nel Parco del Retiro di Madrid e, alla fine, andò in Marocco.
Senza saperlo, dentro di lui si era disegnata la geografia della sua opera. L’impronta sulla quale si sarebbe mosso, nel corso degli anni, il seme dei suoi
film. Quella donna, non l’ha più rivista.
Sono passati quasi trentacinque anni, la Toluca
da tempo è stata demolita e quel ragazzo, coi suoi
cinque film, ha ottenuto ventuno nomination agli
Oscar vincendone quattro con l’ultimo Birdman,
dopo aver conquistato il premio per la regia a Cannes con Babel nel 2006, unico messicano nella storia della Palma d’oro. Dice: «La competizione nell’arte è assurda. Non voglio attribuirgli una logica e
dire: “Sono il migliore e vinco perché lo merito”. Se
pensassi così finirei col perdere la testa».
Sulle rive del fiume Bow, nella grande piana canadese di Calgary, il sole sembra appena uscito dal
congelatore. La temperatura sarebbe intorno ai 30
sotto zero, se non fosse per il caldo chinook, l’unico
vento in grado di frenare le terribili masse d’aria artiche. Il suo soffio agita i pioppi nudi, sotto la cui ombra si svolge un simulacro di morte. Sulla neve c’è
un sangue troppo rosso per essere sangue, un fantasma indiano imbrattato di cenere a cui piace, nel
pomeriggio, ascoltare la musica un po’ noiosa di
Herbie Hancock e, soprattutto, un tipo con gli occhi
acquosi e i capelli biondi che sembra Leonardo DiCaprio, e recita (o almeno ci prova) come lui, ma
non è Leonardo DiCaprio. Sono solo sosia, come il
sangue o il fantasma, ma che oggi, sotto la brezza
del chinook, servono per preparare le scene che si
gireranno quando arriverà il vero DiCaprio. Alejandro González Iñárritu dirige sulle rive del Bow
ghiacciato. Ha cinquantuno anni ed è ancora imbarcato nel suo viaggio interiore. Bronzeo, con una
barba alla Velázquez, la sua voce potente tira i fili
della trama. Oggi bisognava girare un massacro in
un villaggio indiano, un dialogo tra due cacciatori
nel 1823 e un incubo con fantasmi e teste scuoiate.
Tre scene che fanno parte di The Revenant, il suo
prossimo film. Un pre-western con spazi aperti e silenzi tesi. Il suo primo film storico, girato in condizioni estreme. Dice: «Mi eccita poter fallire».
Al suo fianco cammina il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, già vincitore di un Oscar per
Gravity e ora di un altro per Birdman. Tra loro si
chiamano con i rispettivi soprannomi: Negro (Iñárritu) e Chivo (Lubezki). Due vecchi amici di Città
del Messico. Si rivolgono alla troupe in un perfetto
inglese, ma quando devono discutere degli aspetti
fondamentali si appartano e, in piedi in mezzo alla
neve, parlano in spagnolo mentre gli altri membri
della troupe, immobili, attendono la decisione che
Iñárritu
Faccio film
all’ultimosangue
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©DANIEL BERGERON/CORBISOUTLINE/CONTRASTO
“Vinco perché non mollo mai, ma guai pensare che l’arte sia una gara”
Intervista sul set canadese dove il regista messicano, fresco di statuetta,
sta girando la prossima opera. E dove svela retroscena e filosofia del suo cinema
poi eseguiranno sotto gli ordini del solo Iñárritu.
«Sono molto duro, molto militante, molto esigente;
mi temono più di quanto non mi amino. La troupe
sa che non ci sarà tregua. Però riesco a entrare in
contatto con loro, perché non pretendo nulla che io
stesso non dia e perché l’esperienza crea una catarsi, porta a una profonda conoscenza delle capacità di ognuno di noi. Chiunque può fare un film, ma
riuscire a farne uno buono è dichiarare una guerra
all’ultimo sangue, soprattutto a se stessi. Per questo mi fa paura ogni volta che ne comincio uno. Perché non lo mollo».
La notte è chiara a Calgary. Nel centro della città,
Iñárritu si è installato al venticinquesimo piano di
un edificio in vetro e acciaio. È un appartamento con
tonalità sul marrone, asettico e funzionale. L’arredamento, senza pretese, denota una comoda provvisorietà, perfetta per un nomade sceso in calzini
dal Suv che lo ha riportato “a casa” dal set. Si serve
un Campari con molto ghiaccio, tira fuori una sigaretta elettronica che collega al Mac e si mette comodo sul divano per rispondere alle domande. Le
sue frasi sono articolate. La voce, profonda, tradisce
una modulazione radiofonica ma suona sincera. A
volte, prima di parlare, medita. Lunghi secondi finché cesella l’idea. Poi la snocciola sicuro.
Come spiega il suo successo?
«È difficile da spiegare, non posso essere obiettivo. In un mondo in cui regna l’ironia, dove ci si deve
separare, proteggere e ridere di tutto ciò che è onesto o abbia una carica emotiva, io scommetto sulla
catarsi. Mi piace investire emotivamente nelle cose. E la catarsi, quando si tocca la vena emotiva, è capace di aprire le porte anche di quelli che si proteggono».
Anche se Birdman trabocca di umorismo, i suoi
personaggi si muovono nell’amarezza. Lei è pessimista, disincantato?
«Si può definire l’intelligenza come la possibilità
di avere due idee opposte simultaneamente e avere la capacità di agire. Vivo con una contraddizione
costante che si traduce nel mio lavoro. Mi posso
svuotare rapidamente e riempire di un vuoto esistenziale. In questo senso, sono un uomo che vede
più le perdite che i guadagni, sono ossessionato dalla perdita, perché mi fa male perdere quello che ho
avuto».
Iñárritu batte l’indice sulla sua sigaretta dall’aspetto galattico. Aspira, dà un altro colpetto, aspira. Niente. Non funziona. La ricollega al Mac. «Ci riproveremo dopo». Non sembra darsi per vinto facilmente. Quelli che lo conoscono dicono che non lo
fa mai. Forse è una forza che ha ereditato dal padre,
un banchiere che fallì e si rimise in piedi vendendo
frutta, o dalla propria esperienza iniziatica, nella
quale esorcizzò un amore attraversando l’oceano.
È stato conduttore radiofonico, ha diretto la più importante stazione musicale della capitale e si è dedicato alla musica («sono più musicologo che cinefilo»). Ma né avere una sua band, né comporre la colonna sonora di sei film gli bastava. Non era un virtuoso. «Ho le dita goffe», confessa. Il cinema gli apparve come l’unica soluzione. Annunci pubblicitari, cortometraggi, televisione. Le ore trascorse alla
Cineteca Nacional a impregnarsi di neorealismo
italiano, il Dna del suo cinema, fecero il resto. Studiò regia teatrale con il leggendario Ludwik Margules, un tirannico maestro che gli ha inculcato la
necessità di tenere sotto il suo stivale ogni millimetro della scena e di farlo con uno spirito rinascimentale. «Nulla può sfuggire, sono responsabile di
tutto, devo sapere tutto». Cominciava a emergere
il demiurgo. L’alleanza con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga completò questo processo. Nel 2000
ci fu la prima dello straziante Amores perros, poi
venne 21 grammi (2003) Babel (2006), Biutiful
(2010) e ora Birdman. Il tempo lo ha reso più posato. Il suo sguardo vulcanico si acquieta. Può sedersi,
come spiega, «sulla riva del fiume a guardare il travolgente flusso dei pensieri e dei sentimenti. Dicevano che i quarant’anni erano duri, anche se non
me ne sono nemmeno accorto quando li ho compiuti. Ma con i cinquanta sono entrato in una profonda malinconia. Continuo a navigare in quella nube
dove cominciano a spegnersi le luci della festa. Ma
non mi preoccupa il passato, quanto ciò che perderò
nuovamente».
Birdman è figlio di questo crepuscolo. Nell’avvicinarsi al mezzo secolo di vita, Iñárritu ha cercato
un porto nella meditazione Zen. Ha partecipato a
un ritiro. Si è messo in ascolto delle sue voci interiori, soprattutto quella che fa di lui il centro dell’universo nelle riprese, dalla quale si irradia quel fascino magnetico che i suoi amici gli riconoscono.
«Quella voce inquisitrice», spiega il regista, «che io
chiamo il Torquemada interiore, uno che ogni caso
che gli presenti te lo manda al rogo, un terrorista
con il quale è impossibile qualsiasi trattativa». Questa voce è la chiave di Birdman. Sulla sua impronta
Iñárritu ha costruito un film quasi sperimentale,
impostato su giganteschi piani-sequenza, in continuo movimento sull’orlo del baratro.
La sua è una commedia agrodolce (lei dice “a non
funny commedy”) in cui c’è un forte ripasso della sua vita: un attore che negli anni passati era diventato un divo interpretando un supereroe si
gioca tutto in uno spettacolo teatrale a
Broadway, ma con l’avvicinarsi della prima,
quest’uomo, che ha ormai superato i cinquanta,
tormentato dalla sua voce interiore, affronta il
suo passato, la sua famiglia, se stesso. La perplessità dell’arte.
«Birdman è un film che ha ali che mi hanno liberato. Ho cambiato il modo di affrontare gli argomenti, ma questi rimangono gli stessi: chi diavolo
siamo, che senso ha e che cos’è questa vita. È un film
per tutti noi che sentiamo questi problemi. Parla del
bisogno di essere riconosciuti, del confondere l’ammirazione con l’amore; del capire troppo tardi che
era amore quello che abbiamo avuto e non ce ne
siamo resi conto, e che era questa l’unica cosa di
cui avevamo bisogno. Noi esseri umani siamo
creature patetiche e adorabili. In ognuno di noi
c’è un po’ di Birdman».
Che cosa cercava quando ha scelto Keaton/Batman per interpretare Riggan Thompson/Birdman?
SUL LAVORO SONO
MOLTO DURO, TUTTI
MI TEMONO. CHIUNQUE
PUÒ FARE CINEMA,
MA FARLO BENE VUOL DIRE
OGNI VOLTA DICHIARARE
UNA GUERRA: SOPRATTUTTO
A ME STESSO. POTER FALLIRE
MI ECCITA. IN UN MONDO CHE
RIDE DELLE EMOZIONI
IO SCOMMETTO SEMPRE
SULLA CATARSI
SONO OSSESSIONATO
DALLA PERDITA.
DOPO I CINQUANT’ANNI
SONO ENTRATO IN UNA
PROFONDA MALINCONIA.
NAVIGO IN UNA NUBE
DOVE INIZIANO A SPEGNERSI
LE LUCI DELLA FESTA
NOI UMANI SIAMO CREATURE
PATETICHE E ADORABILI:
IN OGNUNO DI NOI
C’È UN PO’ DI BIRDMAN
THE WINNER IS
ALEJANDRO
GONZÁLEZ
IÑÁRRITU, 51 ANNI,
È NATO A CITTÀ
DEL MESSICO.
I SUOI FILM: AMORES
PERROS (2000),
21 GRAMMI (2003),
BABEL (2006),
BIUTIFUL (2010)
E BIRDMAN (2014).
SOPRA, IL SET
CANADESE
DEL PROSSIMO FILM
CON LEONARDO
DICAPRIO,
THE REVENANT.
E, SOTTO, IL REGISTA
ALLA PREMIAZIONE
DEGLI OSCAR:
BIRDMAN HA VINTO
LA STATUETTA
PER IL MIGLIOR FILM,
PER LA REGIA,
LA SCENEGGIATURA
E LA FOTOGRAFIA
«La metarealtà che Michael Keaton aggiungeva
al film era molto importante, ma anche un fattore
di rischio elevato. E non era l’unico: Edward Norton
ha la stessa reputazione del personaggio che interpreta, l’attore di New York che è stato sulla scena
teatrale, pesante, dominante e superintellettuale.
Sul set ha regnato questo: il piacere di potersi rappresentare nudi e senza vergogna. Si è affrontato
questo in modo onesto, non intellettuale, non ironico. Questo film è sincero. Lì dentro ci sono io e quelle sono le mie miserie, le mie realtà. Sono stato tutti questi personaggi. O sono stato io o ho lavorato
con loro o sono stato una loro vittima. Quello è stato
il mio mondo. Questa è stata la scommessa. E sono
scelte reali, non è l’attore che interpreta degli attori falliti; no, è l’attore che ci è passato».
E come sono state le riprese con questi piani-sequenza così lunghi?
«È stato un lavoro estremamente meticoloso e rischioso, perché se non riusciva non c’era modo di
nascondere le mie cazzate. Si sarebbero viste. Ma
stranamente, per l’entusiasmo e l’incertezza stesse nel farlo, c’è stato un piacere che non conoscevo.
Per la prima volta ridevo a crepapelle sul set. E mi
sentivo anche in colpa. Mi dicevo: “Come posso divertirmi sul set, se questo è un lavoro?”. Ho un concetto protestante, uno non ride sul lavoro. Ma questa volta è stata una liberazione».
Improvvisa sul set o ha già un’idea chiara?
«Ho due virtù. Una è il concetto. Vedo con precisione tutto ciò che non deve essere e quello che deve essere. La seconda è il ritmo. Per me il ritmo è Dio.
Senza ritmo non c’è danza, né architettura, né musica... Le stelle hanno un ritmo, l’universo è ritmicamente ordinato, l’arte è il palpito di quel ritmo e,
se non ce l’hai, è impossibile creare qualcosa. Quel
ritmo io ce l’ho. Sembra una frase astratta e idiota,
ma quando monto una scena so naturalmente
quando ci deve essere uno spazio tra una parola e
l’altra; so quanto tempo deve restare separato un
attore dall’altro, e della macchina da presa, so quali obiettivi deve usare, so se deve stare più in alto o
più in basso, so la velocità... Nella mia cinematografia c’era un abuso nella costruzione, nella frammentazione, mi vergogno di certe cose ora, mi mettono a disagio, ma dopo Birdman sono un nuovo regista. Ha cambiato la mia prospettiva formale».
La sua prospettiva è cambiata, le sue radici restano in Messico...
«Posso volare dove mi pare ma non posso tagliare le mie radici anche se oggi la corruzione è tale da
aver raggiunto i più elementari livelli della vita. Prima si sequestravano i ricchi, adesso anche il tizio
che vende verdure o bibite per strada, il gommista.
I governi non sono più parte della corruzione, lo Stato è la corruzione».
E prova paura in Messico?
«È una paura simile a quella che ci fanno i lupi. Ne
abbiamo paura perché non li vediamo. Puoi andare
in un ufficio a sporgere denuncia e il lupo può essere lì, ma non lo vedi. Viviamo in una steppa».
Finisce il suo secondo Campari e sembra essersi
scordato della sua sigaretta elettronica. L’intervista, dopo più di due ore, è giunta al termine. Il regista si allontana un attimo per rispondere a una telefonata. Poi, con cortesia, scalda la cena nel forno
e stappa una bottiglia di vino rosso dell’Oregon per
berla insieme. Domani tornerà sulle rive del Bow.
Stringendosi nella sua giacca termica, cercherà la
complicità di Chivo per mettere a punto nuovi simulacri. Entrambi, sotto i pioppi spogli, lasceranno
le loro impronte sulla neve.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
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PER ME IL RITMO È DIO.
SENZA RITMO NON C’È
DANZA NÉ MUSICA
NÉ ARCHITETTURA.
LE STELLE HANNO UN RITMO,
L’UNIVERSO È RITMATO.
E L’ARTE È IL PALPITO
DI QUEL RITMO. SE NON CE
L’HAI È IMPOSSIBILE CREARE
QUALCOSA. E, ANCHE
SE SEMBRA IDIOTA DIRLO,
QUEL RITMO IO CE L’HO
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 8 MARZO 2015
38
Next. Sotto controllo
Saremo “sorvegliati” da quando suonerà la sveglia al mattino a quando spegneremo la luce
gli utenti
4,8 di cellulari
mld
nel 2018
gli utenti
3,8 internet
mld
nel 2018
le connessioni
3,4 internet delle cose
mld
nel 2024
No privacy
Ecco perché le grandi aziende
(e non solo) sapranno tutto di noi
AL ESSAND R O L O N G O
AI FREDDO, vuoi
H
accendere il
riscaldamento ma hai paura della bolletta? No problem: clicca
qui, sul termostato, e ottieni
uno sconto del
venti per cento sulla tariffa. In cambio di cosa? Una quisquilia: accetti
che il gestore monitori per un mese, a scopo
di marketing, il modo con cui utilizzi tutti gli
apparecchi elettrici in casa. In poche parole
no privacy, a meno che tu non sia sufficientemente benestante: per gli altri arriva il
Grande Fratello. È questo uno degli scenari
che potrebbero avverarsi nei prossimi dieci
anni con l’evoluzione degli strumenti di monitoraggio diffuso. Conseguenza diretta di
quella che oggi chiamiamo l’”internet delle
cose”, ossia l’aggiunta di una connessione a
qualsiasi oggetto della vita quotidiana.
La previsione (anno 2025) è contenuta in
un rapporto di PewResearch, uno dei più noti osservatori mondiali sull’evoluzione dei
costumi. I ricercatori hanno intervistato
2.011 esperti — docenti, capi di aziende, guru — e tra le previsioni c’è proprio quella che
Pew definisce l’alba del privacy divide. Ovvero la contrapposizione tra i privacy rich e i
privacy poor: ricchezza economica e diritto
all’anonimato tenderanno a coincidere.
«Non ci sarebbe nemmeno tanto da sorprendersi: già adesso la privacy comincia a
essere un lusso. Banalmente nei supermercati otteniamo uno sconto se passiamo i prodotti con la carta fedeltà, che traccia i nostri
acquisti», dice Raymond Wacks, professore
emerito di legge all’università di Hong Kong
GLOSSARIO
e tra i massimi esperti mondiali di privacy
online (ha scritto da ultimo nel 2013 Privacy
and Media Freedom, Oxford University
Press). Il passo successivo, nei supermercati, è con l’internet delle cose: sensori che, tra
scaffali, nel carrello o sui manichini, analizzano il movimento delle persone nel negozio. Lo fanno già le catene americane WalMart e Macy’s. I manichini della startup tecnologica Iconeme sono entrati a fine 2014
nei primi negozi (nel Regno Unito): capiscono se qualcuno ha guardato a lungo un prodotto senza comprarlo. Riescono a dire età e
sesso del cliente (grazie a un software che
analizza l’immagine del volto). Tutte informazioni utili a scopo commerciale. Certo, sono anonime; almeno finché il cliente non de-
cida di associare un proprio profilo utente,
tramite app su smartphone, magari in cambio di un buono omaggio.
Il rapporto di Pew inquadra una certezza
e un’incognita. La prima è che internet si
estenderà a un maggior numero di oggetti.
La seconda è che non sapremo se nel 2025 ci
sarà un quadro di regole saldo, a tutela della
privacy, contro i rischi di abusi: gli esperti sono divisi su questo punto. Il 55 per cento di
loro ritiene che nemmeno tra dieci anni
avremo un quadro di regole consolidate. Del
resto che il futuro sia dell’internet delle cose
è emerso con chiarezza durante l’ultimo Ces
(Consumer electronic show) di Las Vegas, la
maggiore fiera di elettronica al mondo. Tantissimi gli annunci dedicati a strumenti per
WEARABLE COMPUTING
MACHINE TO MACHINE
SONO I DISPOSITIVI
DIGITALI
CHE SI INDOSSANO,
COME I BRACCIALETTI
PER IL FITNESS. PRESTO
CE NE SARANNO
DI TUTTI I TIPI E LE FORME
CONNESSIONI
CHE VANNO
DA DISPOSITIVO
A DISPOSITIVO
SENZA PASSARE
DA UN ESSERE
UMANO
la Repubblica
DOMENICA 8 MARZO 2015
39
La differenza col Grande Fratello di Orwell? Che saremo proprio noi a volerlo
INFOGRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA
118
mln
le tecnologie
indossabili
nel 2018
monitorare i nostri consumi domestici o i parametri corporei. E che tutto questo sia una
minaccia mai vista prima per la privacy è risultato dalle parole, sempre al Ces, di Edith
Ramirez, a capo dell’autorità di settore americana Ftc (Federal trade commission).
«L’internet delle cose può creare un quadro
completo, profondamente personale e inquietante delle nostre vite», ha detto. «Qui
compresi dettagli sulla nostra salute, preferenze religiose, famiglia, storia creditizia».
Per esempio, nota Ramirez, se connettiamo
le tv a uno smartphone (via onde radio), diventa possibile monitorare i gusti televisivi
di una persona specifica. Gli smartphone sono infatti associati a precisi profili utenti
(Google, per esempio). «È già tecnicamente
DOMANI L’INTERNET
DELLE COSE POTRÀ
CREARE UN QUADRO
PROFONDAMENTE
PERSONALE, COMPLETO
E INQUIETANTE,
DELLE NOSTRE VITE
COMPRESI DETTAGLI
SULLA NOSTRA SALUTE,
LE PREFERENZE RELIGIOSE,
LA NOSTRA FAMIGLIA
E LA STORIA CREDITIZIA
EDITH RAMIREZ, A CAPO
DELL’AUTORITÀ DI SETTORE
AMERICANA FTC
(FEDERAL TRADE COMMISSION)
possibile questo tracciamento; se non avviene è perché manca ancora un contesto
economico in cui queste informazioni possano essere sfruttate e analizzate commercialmente. Ma il contesto ci sarà entro dieci
anni», dice Wacks.
Di nuovo, si può immaginare un baratto
fra tracciamento e uno sconto sul canone tv.
Inoltre, il tracciamento diventerà anche più
sofisticato e dettagliato. Un ruolo ce l’avranno le tecnologie di riconoscimento facciale,
integrate nelle videocamere: stanno diventando sempre più abili a identificare le persone. Le tecnologie indossabili, diffondendosi, completano il quadro dei nostri dati che
possono essere tracciati: gli smartwatch
(orologi intelligenti, a breve è atteso quello
INTERNET DELLE COSE
SMART CITIES
SMART WATCH
LA TECNOLOGIA
CHE CONSENTE
AGLI OGGETTI COMUNI
(DAL TELEVISORE
AL FRIGORIFERO)
DI COLLEGARSI
A INTERNET
CI PUNTANO TUTTI I PAESI
EVOLUTI, COMPRESA
L’ITALIA. AVRANNO
UN CONTROLLO
INTELLIGENTE
DEL TRAFFICO
E DEI CONSUMI ENERGETICI
GLI OROLOGI
CHE SI COLLEGANO
AGLI SMARTPHONE SONO
L’ULTIMA FRONTIERA
DELLE TECNOLOGIE
INDOSSABILI, SU CUI
CONTANO TUTTI I BIG
di Apple), i gadget per il fitness e per monitorare la qualità del sonno stanno uscendo in
questi mesi dalla nicchia di mercato in cui
erano relegati. Diventeranno di massa man
mano che miglioreranno nei costi e nella
qualità. Un’evoluzione è prevista anche per
i cellulari: assolvendo a nuove funzioni, potranno tracciare ulteriori abitudini degli
utenti. Adesso cominciano a vedersi i primi
servizi per pagare nei negozi e sui mezzi pubblici con i cellulari. «I rischi sono numerosi»,
dice Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. «Sarà possibile la
profilazione potenzialmente illimitata di
abitudini e comportamenti; come pure ricavare, all’insaputa degli interessati, informazioni dettagliate anche da insiemi di dati o da loro correlazioni, che apparentemente non sono personali e utilizzarle per finalità del tutto diverse da quelle della originaria raccolta». Quindi, che fare? «Il nuovo regolamento Ue per la protezione dei dati ha
l’ambizione di incorporare la tutela dei diritti direttamente nelle tecnologie, fin dalla
loro progettazione», conclude Soro. Vedremo chi vincerà la battaglia.
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la Repubblica
LA DOMENICA
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Sapori. Cuoche rosa
10
UNA VOLTA ERANO
LE REGINE
DELLA CUCINA,
POI GLI UOMINI
HANNO AVUTO
IL SOPRAVVENTO.
MA ORA, ANCHE
A COLPI DI MENÙ
BIOLOGICI,
INIZIANO
A PRENDERSI
QUALCHE
RIVINCITA
E DICONO:
“LORO PENSANO
A STUPIRE,
NOI PRIMA DI TUTTO
A NUTRIRE”
nomi
piatti
e ristoranti
Elena Arzak
Figlia di Juan-Mari, padre
nobile dell’alta cucina
basca, si è formata
con Pierre Gagnaire
e Ferran Adrià
Nel tristellato ristorante
di famiglia, l’80 per cento
dei dipendenti è donna
Agnello al malto di birra
Salsa di soia e aceto
di riso per rinforzare
la birra scura
ARZAK
AV. ALCALDE ELÓSEGUI 273
SAN SEBASTIÁN-DONOSTIA
TEL. (+34) 943-278465
Hélène Darroze
Ispirata dalle ricette
di entrambe le nonne,
che considera monumenti
alla gastronomia,
pratica una cucina
di gusto e personalità,
dividendosi tra Parigi,
Londra e Mosca
Capesante in vinaigrette
Insalata croccante
d’indivia, finocchio
e mela verde à côté
Il personaggio
HÉLÈNE DARROZE IN PARIS
4 RUE D’ASSAS
PARIGI
TEL. (+33) 1-42220011
Annie Feolde
Appassionata di cucina
buona&sana, Michelle Obama
si è fatta ritrarre sull’ultima
copertina di “Light food”,
il magazine di “Time”,
con un piatto di spaghetti
mediterranei. Il 77 per cento
degli americani mangia pasta
almeno una volta alla settimana
Grandi chef.
Da Firenze
a New York
le dieci donne
con più stelle
dietro
i fornelli
Nizzarda di nascita
e fiorentina d’adozione,
ha trasformato
una mescita di buon vino
nella più prestigiosa
enoteca-ristorante
del pianeta, tra sorrisi
e ricette charmant
Pici con le briciole
Pasta senz’uova,
spadellata con aglio,
erbe e pane avanzato
Lo studio
ENOTECA PINCHIORRI
VIA GHIBELLINA 55
FIRENZE
TEL. 055-242777
Gabrielle Hamilton
La nuova ricerca Doxa
per Assobirra svela che
sei italiane under trentacinque
su dieci bevono abitualmente
birra, numero triplicato
nell’ultimo quarto di secolo,
il più alto d’Europa.
A loro è dedicata la nuova
campagna “Birra, io t’adoro”
Autrice di “Sangue, ossa
e burro. L’educazione
inconsapevole
di una cuoca riluttante”,
sforna piatti consapevoli
e golosi, premiati
da Michelin e James Beard
Foundation
Piselli burro di wasabi
Mix di taccole
e pisellini primizia
Rifinitura con miele
PRUNE
54 E 1ST STREET
NEW YORK
TEL. (+1) 212-6776221
Anne-Sophie Pic
L’iniziativa
Unica cuoca francese
con tre stelle Michelin
(il ristorante di famiglia
le vanta dal 1930). Nipote
e figlia d’arte, cavaliere
dell’Ordine della Legione
d’Onore, ha sparso filiali
tra Parigi e New York
Per l’8 marzo, Conad diventa
vetrina per la vendita di 380mila
braccialetti sartoriali “Made
in carcere”, realizzati nelle carceri
femminili da Officina Creativa.
In produzione anche
porta-bicchieri e tovagliette.
Il ricavato andrà a DiRe (Donne in
rete contro la violenza)
Scampi e rabarbaro
Per completare, succo
di sedano fresco
e pepe di Tasmania
MAISON PIC
285 AVENUE VICTOR-HUGO
VALENCE (FRANCIA)
TEL. (+ 33) 4-75441532
LICIA GRANELLO
LCIBOTRASFORMALANOSTRAVITA.Per questo, dobbiamo essere responsabili e offrire una cucina coscienziosa, che preservi il sistema alimentare”. E ancora: “I piatti devono raccontare delle
storie, la gastronomia deve essere emozione”. Il decalogo della nuova eco-cucina declinato al femminile appartiene alla cuoca Roberta Sudbrack, prima donna a condurre le cucine del palazzo presidenziale in Brasile. Il suo ristorante a pochi passi dal
giardino botanico di Rio de Janeiro è un bell’esempio di alta gastronomia a supporto dei piccoli produttori virtuosi. Le sue parole sono state coperte dagli applausi durante i lavori del Parabere Forum, l’assemblea mondiale di donne&cibo, che si è svolta nei giorni scorsi a Bilbao. Piccole cuoche crescono, e tanto piccole non sono più. Ancora pochi anni fa, un evento come quello di Bilbao sarebbe stato impensabile. E invece, grazie al coraggio visionario della giornalista-scrittrice spagnola Maria Canabal, che ha inventato e organizzato il forum, trecento tra scienziate, contadine, ristoratrici,
produttrici da ventisei paesi si sono confrontate per mettere a punto la prima piattaforma internazionale no-profit di alimentazione al femminile. “Sebben che siamo donne”, come cantavano le mondine un secolo fa, e come ribadisce Nadia Santini, storica tre stelle Michelin a pochi
“I
la Repubblica
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41
Spodestate
da quando
friggere
è glamour
Valeria Piccini
Mix talentuoso di radici
contadine e tecnica
aggraziata, per la signora
della cucina maremmana
d’autore, oggi impegnata
anche nel ristorante
di uno degli hotel-culto
di Firenze
Tortelli di Cinta senese
Con brodo di gallina,
castagne e verdure
al balsamico
DA CAINO
VIA DELLA CHIESA 4
MONTEMERANO (GR)
TEL. 0564-602817
Helena Rizzo
Appassionata di cibo
da sempre, ha lavorato
come modella per pagarsi
le scuole di cucina
Si alterna ai fornelli
col marito, conosciuto
durante uno stage
al Celler de Can Roca
Nuova insalata Waldorf
Con gelatina di mele,
gorgonzola e noci
caramellate
MANÍ MANIOCA
RUA JOAQUIM ANTUNES 210
SAN PAOLO (BRASILE)
TEL. (+55) 1130854148
Nadia Santini
Silenziosa e incrollabile,
è la monaca zen dell’alta
cucina tradizionale
italiana. Nata e cresciuta
nella campagna
mantovana, vanta
tre stelle Michelin
e due mani sapientissime
Tortelli di zucca
A renderli unici,
amaretti e mostarda
d’anguria bianca
DAL PESCATORE
LOCALITÀ RUNATE
CANNETO SULL’OGLIO (MN)
TEL. 0376-723001
Clare Smyth
Prima cuoca inglese
ad aver conquistato
tre stelle Michelin e 10/10
nella Good Food Guide,
è chef e coproprietaria
del Restaurant Gordon
Ramsay a Chelsea, dove
lavora da diciassette anni
chilometri da Mantova, rivendicando l’originalità della cucina femminile, anche ai livelli più alti, «perché gli uomini pensano a stupire, noi prima di tutto a nutrire».
Non tutte le donne e non tutte le cuoche, naturalmente. Ma se esiste uno specifico che abbraccia gran parte delle professioniste dei fornelli, riguarda la sensibilità speciale connessa al
ruolo genetico: partorire, allevare, tramandare. Non a caso, moltissime tra loro, dalle mense
scolastiche all’Olimpo delle guide gastronomiche, scelgono di approvvigionarsi a fonti biologiche. La francese Dominique Crenn, per esempio. Prima executive chef donna di tutta l’Indonesia all’hotel Intercontinental di Jakarta, quasi vent’anni fa. E poi in California, responsabile
dei catering privati di politici e star, da Al Gore a Sharon Stone. Capace, tra un premio e l’altro,
di trovare tempo e risorse per inventare “A Moveable Feast”, un calendario di feste mobili di cucina a quattro mani con illustri colleghi, cucinando solo prodotti di fattorie biologiche locali.
Una scelta di campo confermata nel suo ristorante di San Francisco, “Atelier Crenne”, dove ha
conquistato la doppia stella Michelin, unica donna in tutti gli Stati Uniti. Oppure l’inglese Clare Smyth, arrivata ventenne alla corte di Gordon Ramsey, tra i risolini sarcastici della brigata.
«Non durerà una settimana», dicevano. È ancora lì, head chef e socia del terribile Gordon nel locale di Chelsea, unica cuoca inglese con tre stelle Michelin. I numeri, per una volta, premiano
l’Italia, con le sue 47 chef stellate su 110 del totale mondiale. Una responsabilità che si sdoppia
quando dividono la cucina con uno o più maschi, insegnando loro a cucinare senza lasciare i fornelli come dopo uno tsunami. E non solo al ristorante.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Halibut marinato
Sopra, granchio,
cous cous di cavolfiore
e brodo speziato
GORDON RAMSAY
68 ROYAL HOSPITAL ROAD
LONDRA
TEL. (+44) 020-73524441
Luisa Valazza
Laureata in lettere
con la passione
della pittura, ha tradotto
in ricette i colori
dei suoi quadri, creando
una raffinata enclave
di sapori eleganti
nell’alto Piemonte
Fassone al Barbaresco
Con cannolo di verza
e raviolini di midollo
in consommé
AL SORRISO
VIA ROMA 18
SORISO (NO)
TEL. 0322-983228
GUIA SONCINI
M
IA NONNA FACEVA da
mangiare. Tutto il
giorno, tutti i giorni.
Sfamava la famiglia,
anzi la ingozzava: quel
«ma non hai mangiato niente», alla
quarta portata, che chiunque abbia
avuto una nonna conosce. La famiglia,
gli amici, chiunque passasse di lì. Era
una donna dei primi del Novecento, e le
donne del suo tempo nutrivano. Per
vocazione, per obbligo sociale, per
abitudine. Certo non perché
pensassero di farne una carriera, o
perché la ritenessero un’attività di un
qualche prestigio sociale.
Poi, friggere è diventato glamour.
Dev’essere stato il perfezionamento
delle cappe aspiranti, o l’avvento dei
cuochi a tutte le ore su ogni rete
televisiva, o il cambio di verbo. Fatto
sta che è diventata un’occupazione che
dà lustro, e quindi ambitissima dagli
uomini. Sembra la stessa cosa di un
secolo fa, ma non lo è: mia nonna
faceva da mangiare, gli uomini
cucinano.
L’ha detto impeccabilmente Paolo Poli:
pensavo fosse il secolo del sesso, e
invece è il secolo dei cuochi. Sono i sex
symbol che ci toccano nel presente, che
siano intellettuali come Massimo
Bottura, o si facciano fotografare con
un dentice a coprire le vergogne come
Carlo Cracco, comunque hanno
sostituito gli attori e i cantanti e gli
sportivi come soggetti da guardare.
Non fanno da mangiare: fanno
immaginario. E sono uomini. Perché
finché c’era da spignattare andavano
bene le mamme e le nonne, ma se si
tratta di fare delle cucine un’industria
dello spettacolo, beh, quando il gioco si
fa remunerativo i maschi iniziano a
giocare. La donna può starsene lì: nuda,
tra Cracco e il dentice.
La televisione dei cuochi, un genere
ormai dominante, è iniziata in
Inghilterra con una donna, Nigella
Lawson (sì, in Italia avevamo avuto
Vissani negli anni di D’Alema, ma era
più colore da pagine politiche che un
vero segnale dell’imminente
strapotere degli chef). Nigella è una
che cucina come se posasse per un
calendario scollacciato: mugolando,
leccandosi le dita, in vestaglia. Nessuno
degli uomini che sono venuti dopo, sia
lì sia qui, ha avuto bisogno di
ammiccamenti sessuali perché il
pubblico lo trovasse interessante: che
tu sia Gordon Ramsay o Carlo Cracco, il
caratteraccio e un set di tegami ti
renderanno sexy. E dominante rispetto
alla donna, che infatti a Masterchef
arriva terza. Una napoletana sconfitta,
nella prova di piatti napoletani, da un
veneto e un lombardo. Mia nonna
avrebbe tirato un mestolo al televisore.
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LA DOMENICA
DOMENICA 8 MARZO 2015
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L’incontro. Toste
LA DANZA È VENUTA
DA ME E MI HA
SALVATO LA VITA
HO COMINCIATO
IN STRADA
CON UN GRUPPO
DI AMICI.
CI CHIAMAVAMO
I “PEACEMAKERS”.
OGNI POMERIGGIO
CI AGITAVAMO
CON MICHAEL
JACKSON
“Ero ancora una bambina eppure ero già schizzata, avevo sempre i
nervi a fior di pelle, non riuscivo mai a stare ferma. È praticamente
da allora che ballo”. Oggi la coreografa e danzatrice sudafricana ha
trent’anni, gira il mondo con la sua “Carmen” stuprata e il suo “Lago
dei cigni” fatto di maschi neri ed effemminati. Ed è ricordando la
sua infanzia in una Soweto violenta che riesce a raccontare dove nasce la forza esplosiva dei suoi
in cui vive quando non è in tournée («nel mio appartamento domina il caos, lo
assai più stimolante di un ordine eccessivo»), Dada corre nel pianeta a
passi da gigante mettendo in scena personalissime versioni di titoli senza temspettacoli. “Io porto in scena i trovo
po come Romeo e Giulietta, Il lago dei cigni, Carmen. Di volta in volta esplora
provocazioni linguistiche, divertendosi a intrecciare le tecniche di danza eucon i moduli inaspettati, la frenesia catartica e la ritmicità furiosa dei balproblemi degli esseri umani. Chi ropee
li africani: «Sono una materia piantata con forza profonda nella terra, mentre
il balletto classico va alla ricerca di una grazia volatile nell’intento di cancellail peso e la sensualità. Ho impiegato un mucchio di tempo per identificare la
viene a vedermi non potrà più di- remaniera
di assemblare queste due dimensioni opposte. Intendevo tracciare un
territorio che ne accogliesse i conflitti. Mi sembra che l’energia dei miei spetsia il frutto del duello». Anche l’esercizio plurilinguistico e l’adozione d’inre di non aver saputo come van- tacoli
numerevoli vocabolari (anche verbali) appartiene alle sue radici: «Ci sono undici lingue ufficiali in Sudafrica. Nella compagnia parliamo inglese, afrikaans,
zulu, tswana e tosa. La mia lingua materna è lo tswana, che fino alle scuole eleno le cose”
mentari era l’unico codice con cui sapevo comunicare. Quando sono andata al-
Dada
Masilo
L EO N ET T A B EN T I VO G LI O
ROMA
N SCENA È UN GUIZZO, un disegnino denso di spessore, una presenza emo-
I
zionante e ludica che sa parlare di preistoria e di modernità: Eva generata dalla costola di Adamo, il Puck shakespeariano immerso nell’inchiostro, un ibrido tra un’adulta e una bambina. Coreografa-danzatrice galoppante sull’onda del successo, la sudafricana Dada Masilo trasmette un
mix di rabbia, fantasia, ritualità e impulsi avveniristici. È una promessa di futuro e la memoria di un passato doloroso. Come la sua terra. «Ballo per lottare
contro le sopraffazioni», spiega seduta al tavolo di un bar romano. «Fin da ragazzina ho sentito il desiderio di combattere le violenze domestiche, una tra le
più orrende piaghe che affliggono il mio Paese. Avevo anche un gran bisogno
di esorcizzare nell’arte la mia storia familiare, una storia pesante». Nel corso
della conversazione la racconterà, in modo sincero e pudico.
Approdata nei mesi scorsi in Italia come ospite del festival Romaeuropa, dove ha portato la sua Carmen iconoclasta, Dada Masilo, a soli trent’anni,
ha guadagnato la fama di voce artistica tra le più originali e acclamate dell’Africa contemporanea. Quando danza è un fuoco d’intelligenza teatrale, come ha capito il geniale artista visivo sudafricano (bianco) William Kentridge, che l’ha incoronata star di Refuse the Hour, raffinatissima opera da camera presentata alcuni
anni fa anche a Roma: un amalgama di filmati, musica, coreografia e recitazione che non smette d’essere applaudito in giro per il
mondo (tra le tappe di quest’anno c’è New York). All’interno di questa giostra visionaria, Kentridge dà alla Masilo un ruolo fondamentale, espresso in un turbine di vitalità rapinoso e capace di sfidare il principio della scansione temporale, argomento-chiave
del pezzo. Dada si autodefinisce «il perno danzante del co-
IL BALLETTO CLASSICO RICERCA UNA GRAZIA
CHE CANCELLA PESO E SENSUALITÀ. QUELLO
AFRICANO È INVECE PROFONDAMENTE ANCORATO
ALLA TERRA. IO VOLEVO UN LUOGO CHE POTESSE
ACCOGLIERE E RAPPRESENTARE QUESTO DUELLO
smo magmatico di Refuse the Hour, dove si accavallano immagini e testi». E aggiunge: «La collaborazione con William
è stata così arricchente per entrambi che adesso sto partecipando alla realizzazione del suo nuovo progetto, dedicato alla rivoluzione cinese. Un incontro che mi ha aperto gli
occhi sul piano creativo, togliendomi da zone comode di
me stessa e introducendomi in un universo generoso di
sollecitazioni».
Nata nella township di Soweto e oggi coreografa della compagnia “Dance Factory” di Johannesburg, città
la high-school ho dovuto imparare faticosamente l’inglese».
Nella sua testa tonda e liscia come una boccia («rasarmi a zero è stata una
decisione sapiente, la mattina mi alzo, faccio la doccia e sono pronta. Senza capelli le giornate di una ragazza si semplificano») campeggia un obiettivo: offrire al pubblico un suo stile vigoroso e socialmente impegnato abbattendo le
barriere tra discipline artistiche e i tabù ancora impronunciabili della sua cultura, vedi l’omosessualità, gli amori interrazziali e la diffusa sofferenza femminile. «Sono cresciuta in un ambiente dove le aggressioni nei confronti delle
donne erano all’ordine del giorno. Per questo, nei miei balletti, mi piace dare
spazio a eroine potenti e in grado di difendersi. Mio padre era violentissimo con
mia madre, e io da piccola sono stata coinvolta in situazioni di abusi dolorosi.
Avevo pochi anni quando ho chiesto di essere mandata ad abitare con mia nonna. Ero schizzata, danneggiata e coi nervi a fior di pelle: non riuscivo mai a stare ferma. Sono rimasta così fragile fino al momento in cui la danza è giunta a
salvarmi la vita». Iniziò a ballare per gioco con un gruppo di strada chiamato i
“Peacemakers”: «Ci riunivamo ogni pomeriggio per agitarci forsennatamente
sulle canzoni di Michael Jackson. Nel 1996 Suzelle LeSueur, direttrice della
“Dance Factory”, cioè di quella che sarebbe divenuta la mia compagnia, ci scoprì e ci propose un metodico training di danza. Presi a studiare balletto accademico, danza contemporanea, “contact improvisation”… Era confortante venire introdotta in un sistema formativo strutturato, prima di allora avevo ignorato del tutto le regole. Superai un’audizione all’Arts School di Johannesburg
dove mi diedero la possibilità di frequentare il liceo». Quindi vola coraggiosamente a Bruxelles: «Volevo entrare nella scuola di danza e teatro della celebre
coreografa fiamminga Anne Teresa de Keersmaeker: un migliaio di aspiranti
erano arrivati da ogni continente. Ne selezionarono una trentina. Io ero fra loro».
Il resto è un viaggio in ascesa, lungo il quale Dada edifica via via una scrittura scenica orientata verso una prospettiva fusion («miscelo sempre varie
tecniche di movimento, in Carmen ho inserito anche il flamenco»), mentre si
lancia nell’indagine e reinterpretazione delle più mitiche trame classiche:
RASARMI A ZERO È STATA UNA DECISIONE
DAVVERO SAPIENTE. LA MATTINA MI ALZO,
FACCIO UNA DOCCIA E SONO GIÀ PRONTA
SENZA CAPELLI LE GIORNATE
DI UNA RAGAZZA SI SEMPLIFICANO
«Non amo la danza astratta, preferisco la concretezza narrativa. Certe vicende eterne sono intriganti e colme di spunti da sviluppare, e io voglio esporle
secondo la mia concezione. Per esempio Carmen, nel mio spettacolo, alla fine non muore, ma subisce uno stupro, un’altra forma di morte, poiché violentandola le rubano l’anima. Ora sto pensando di rimontare anche Giselle e La sagra della primavera in ottiche “altre”, soggettive e fertili di messaggi sociali». Al centro del suo Lago dei cigni ha messo un principe gay:
«Mi sono ispirata al resoconto gestuale di un mio amico che risultò esilarante quando mimò per me l’outing fatto con sua madre. Episodio buffissimo e tragico». L’uomo che balla, spiega la Masilo, non deve soltanto sorreggere la sua partner e fungere da porteur della ballerina: «Odio
le gerarchie degradanti della danza tradizionale». Non ha
avuto la minima difficoltà nel convincere i maschi del suo ensemble, in occasione di quel Lago specialissimo, a indossare scarpette con le punte e tutù. Parevano nubi candide spiccanti su pelli scure: «Il plot mi ha condotto a misurarmi col
tema dell’omofobia: mostro il principe Sigfrido più attratto
da un aitante cigno-nero maschio che dalla protagonista cigno-bianco. Le persone devono poter essere liberamente ciò
che sono, senza venire mai giudicate “diverse”».
Col suo sorriso ardente e la sua passione inesauribile, Dada crede che l’arte possa far galleggiare nelle tempeste della vita le creature più vulnerabili, «perché quello che si legge o si ascolta o si vede in teatro induce la gente a riflettere e a discutere. A volte la fa arrabbiare, dato che la produzione artistica, per sua natura, minaccia pregiudizi e fanatismi, e mette
in crisi chi si rifiuta di cambiare idea. Ma dopo
aver assistito a un’opera votata ai più autentici problemi umani
non si potrà più dire di non aver saputo come vanno le cose».
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