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Sandro Pertini: la politica delle mani pulite

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Sandro Pertini: la politica delle mani pulite
Pigmenti
Periodico dell’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit di Savona
Direttore Responsabile: Silvio Riolfo Marengo - Numero 5 • Maggio 2016 • Anno III • Copia omaggio
Editoriale
Q
uale voce culturale dell’associazione Aiolfi, che conta stabilmente oltre 600 iscritti, la nostra rivista si è
posta, da sempre, l’obiettivo di diversificare gli argomenti proposti all’attenzione dei
lettori. Pur mantenendo costante l’interesse
per l’arte, la storia e la tutela ambientale si
sono così approfonditi, via via, temi sempre più articolati. Nuova, in questo numero, è la rubrica, che avrà cadenza fissa,
“Pagine ritrovate”: riproposizione di testi
esemplari per impedire che cada definitivamente l’oblio su persone, luoghi, avvenimenti nei quali si rispecchiano le nostre
radici e valgono, forse, a comprendere meglio il presente. Con questo spirito va riletto un articolo di Orio Vergani apparso sul «
Corriere della Sera» il 26 giugno 1931, che
ripercorre con garbo e ironia le tappe della
vocazione turistica di Alassio.
Sempre sul «Corriere della Sera», ma
trent’anni prima, il 5 agosto 1900 erano
comparse due tavole di Achille Beltrame,
sull’uccisione a Monza di Umberto I e la
rivolta dei Boxer a Pechino che, pour cause,
ha commentato per noi Camilla Salvago
Raggi una delle più raffinate scrittrici italiane. Altro significativo affondo sulla storia
economica e culturale della nostra regione
è l’articolo su « La riviera Ligure», il primo
house-organ italiano diventato una delle più
importanti riviste d’arte e di letteratura del
nostro paese tra Otto e Novecento sotto la
direzione di Mario Novaro, come ricorda
sua nipote Maria Novaro che dell’omonima Fondazione è presidente.
Dell’ultima tragica spedizione geografica
in Congo di Giacomo Bove rende conto il
contributo di Francesco Surdich, professore di storia delle esplorazioni geografiche
all’ateneo genovese, mentre alla storia
politica e sociale italiana rimandano gli
interventi di Giuseppe Milazzo sulla presenza a Savona di Arcangelo Ghisleri, personalità poliedrica della cultura italiana tra
Ottocento e Novecento, e quello su Sandro
Pertini di Mario Almerighi che, pretore a
Genova nel 1974, aveva dato avvio all’inchiesta sullo scandalo petrolifero poi condotta insieme ai colleghi Carlo Brusco e
Adriano Sansa.
Alle consuete interviste ( di Sonia Pedalino alla campionessa di nuoto Erica Musso,
vincitrice del Premio Alluto 2016, e di Silvia
Bottaro a Elisa De Padova, assessore alla
cultura del Comune di Savona) si affiancano, e sono anche questi due temi nuovi per
i lettori di Pigmenti, una rassegna di curiosità etimologiche dovuta a Fiorenzo Toso,
docente di linguistica generale all’università di Sassari, e un contributo di Furio Ciciliot, direttore di un ampio programma di
toponomastica storica, sui primi cognomi
registrati a Savona nel Medioevo. Gianni
Venturino, designer e autore di campagne
pubblicitarie internazionali, si occupa poi
dello splendore, del degrado e delle spoliazioni della chiesa di san Giacomo eretta a
Savona durante il pontificato di Sisto IV,
facendosi anche promotore di una modernissima proposta museale. Sulla famiglia
di un altro pontefice, Pio VII, che a Savona
subì anni di prigionia, si sofferma il contributo di un suo discendente, Gregorio d’Ottaviano Chiaramonti. Infine ancora Silvia
Bottaro richiama l’ attenzione sul recupero
di un bene raro e significativo come il globo
terracqueo di Giovanni Antonj, restaurato
a cura dell’Associazione Aiolfi, che rappresenta lo stato del mondo nel 1851 corredato
da curiose e interessanti annotazioni calligrafiche, che documentiamo attraverso
alcune splendide fotografie di Gibi Peluffo.
Un’ultima considerazione sulla redazione
dei testi, sollecitati ma, più spesso, inviati
spontaneamente da amici ed estimatori
della rivista, che, pur degni di interesse,
non sono informati a regole comuni: da
qui controlli, aggiustamenti e correzioni,
di cui – anche ricordando quella “forza del
cestino” consistente nel documentarsi, scrivere, rileggere, sfrondare e riscrivere postulata da Giovanni Arpino come condizione
per raggiungere la chiarezza espressiva- mi
sono assunto fino ad oggi la responsabilità.
Per ovviare a questo inconveniente, vengono proposte, anche se in maniera semplificata, le norme di uniformazione più comuni
nel mondo editoriale. Da oggi, inoltre, ogni
contributo viene corredato da una notizia
biografica dell’autore.
Silvio Riolfo Marengo
Sandro
Pertini:
la politica
delle mani
pulite
Sandro Pertini, Silvio Riolfo Marengo,
Umberto Scardaoni sindaco di Savona,
e la scultrice Renata Cuneo,
al Quirinale (1983)
È
l’inizio dell’inverno del
1973. Gli ospedali, le scuole, gli uffici pubblici e privati, le abitazioni di mezza Italia
sono privi di riscaldamento. Un
inverno durissimo, le pompe di
benzina vuote, le case e gli ospedali senza riscaldamento, le auto
in garage.
La situazione, insomma, è drammatica e i mass-media attribuiscono tutte le colpe agli sceicchi
del petrolio. Forse solo allora,
all’improvviso, mi resi conto di
quanto il nostro sistema economico, la nostra qualità della vita,
dipendano dal petrolio e dai petrolieri e di quanto sia capace la
disinformazione.
Per andare in tribunale devo
percorrere un notevole tratto di
Mario Novaro in un ritratto degli anni ‘20
M
ario Novaro (Diano Marina, 1868 - Nava, 1944) dopo
gli studi liceali trascorre un
primo semestre di università a Berlino (1889), quindi, negli anni accademici 1889-90 e 1890-91, è a Vienna,
da dove torna a Berlino per laurearsi
in filosofia nel luglio 1893 con una
tesi su Malebranche. Nel 1895 consegue la laurea anche all’Università
lungomare. In lontananza, ogni
giorno scorgo delle navi ormeggiate al largo, nel tratto di mare
prospiciente la lanterna. Qualche
giornale scrive che si tratta di
petroliere che non possono scaricare perché i depositi della raffineria di Riccardo Garrone sono
strapieni. Lungo il mio tragitto
giornaliero noto che effettivamente quelle navi hanno la linea
di galleggiamento sotto l’acqua
del mare. Per saperne di più decido di sottoporre a intercettazione telefonica alcune utenze degli
uffici della Garrone spa.
Da alcune telefonate emerge che
i depositi petroliferi della società genovese di Riccardo Garrone
sono “a tappo”. La guerra del
Kippur è il velenoso boccone propinato al popolo italiano – con la
compiacenza dei mass-media –
per nascondere il vero obbiettivo che è quello dell’aumento del
prezzo della benzina e di tutti gli
altri prodotti petroliferi. Questo
integra in pieno il reato di aggiotaggio: sottrarre al mercato il
prodotto per farne aumentare il
prezzo. Decido di proseguire e
intensificare le indagini.
Mi precipito a Roma con al seguito 60 finanzieri e sottopongo
a perquisizione tutti gli uffici
centrali delle multinazionali e
delle compagnie petrolifere italiane. Torno a Genova con un
camion pieno di documenti.
Leggi e decreti predisposti dai
petrolieri e pagati con tangenti
miliardarie ai partiti di Governo pari al 5% dei profitti ricavati
dall’applicazione di quelle leggi
e di quei decreti. Chiedo e ottengo dal pretore dirigente di essere
affiancato da altri due colleghi.
segue a pagina 2
Tra industria e letteratura:
Mario Novaro
di Torino.
Nel frattempo escono un’interessante Lettera a Simirenko (1890), dedicata a un compagno di università, La
teoria della causalità in Malebranche
(1893), Il partito socialista in Germania (1894) erroneamente attribuito
al fratello Angiolo Silvio, Il concetto
di infinito e il problema cosmologico
(1895).
Tornato ad Oneglia, Mario Novaro
diventa assessore comunale per il
giovane partito socialista e, dopo
un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si inserisce con i
fratelli nell’industria olearia di famiglia. Questa attività non gli impedisce però di continuare a coltivare
interessi letterari e culturali, anzi,
assunta la direzione della rivista
dell’azienda di famiglia, la trasforma completamente facendo sì che
«La Riviera Ligure» (1899-1919) rappresenti un eccezionale prototipo di
Panorama
di Oneglia
in una cartolina
della serie
“La Riviera
ligure illustrata”,
dono ai clienti
della Ditta Sasso
per l’anno 1900
house-organ a livello europeo, dove
per la prima volta la promozione
industriale si coniuga con la letteratura, la poesia, l’arte.
Per completare la bibliografia di Mario Novaro, si ricorda la raccolta di
poesie Murmuri ed echi (1912, poi rielaborata in cinque successive edizioni e oggetto di una recente “edizione
critica”; le edizioni, curate e tradotte,
dei Pensieri metafisici di Malebranche (1910 e 1932) e di Acque d’autunno, dall’opera del filosofo cinese
Ciuang-zé (1922). Nel 1935 Novaro
pubblica anche, in piccola edizione
numerata, Alcuni scritti e lettere […]
e pensieri da lui raccolti dell’amatissisegue a pagina 2
dalla prima pagina: Sandro Pertini: la politica delle mani pulite
2
Faccio i nomi di Carlo Brusco
e Adriano Sansa, secondo me, i
migliori magistrati della pretura
di Genova.
Data la gravità dei reati e delle
persone coinvolte ai più alti livelli istituzionali ci preoccupiamo dei riflessi politici delle indagini. E’ Adriano Sansa che ha
l’idea di contattare Sandro Pertini. La Sua storia è una garanzia
per la democrazia del Paese. E
poi, Pertini all’epoca è il Presidente della Camera, l’Autorità
alla quale saranno destinati, per
legge, gli atti concernenti le responsabilità dei cinque ministri
coinvolti.
Chiediamo ed otteniamo un appuntamento. L’appuntamento
è per le nove del mattino del 9
febbraio 74 in via dell’Impresa
n.1: ci sarà qualcuno ad attenderci.
Usciamo dall’ascensore, che dà
direttamente all’interno di una
stanza e lì ci viene incontro il
Presidente della Camera. Ci sorride. Dietro gli occhiali, i Suoi
occhi lampeggiano una vitalità
impressionante e, insieme, una
dolcezza infinita. Dopo aver
fatto un cenno di saluto con la
testa, Pertini porta il dito indice
della mano destra a fianco del
naso e, sottovoce, ci dice: “Non
parlate, state in silenzio e seguitemi”. Dopo aver percorso dietro di lui in discesa una lunghissima scala a chiocciola, Pertini si
ferma dinanzi ad una porticina,
gira la maniglia e ci fa accomodare attorno ad un tavolino rotondo, sul quale è sistemato un
telo di velluto verde del tipo di
quelli dei tavoli da gioco. Le pareti della stanza sono occupate
da una serie di lavatrici. Si tratta
chiaramente di un locale adibito
a lavanderia.
“Finalmente qui possiamo parlare anche a voce alta: dovete
sapere che questo palazzo è pieno di micro-spie. La democrazia
della nostra Italia sta attraversando un momento delicatissimo. Corriamo il rischio che si
realizzi qualche colpo di Stato
che ci farebbe ripiombare nella
barbarie del ventennio. Comunque, ditemi, ditemi, quali sono le
ragioni per cui mi avete chiesto
questo incontro?”. Nell’accendersi la pipa, ci scruta con uno
sguardo penetrante come volesse studiarci. Seguono imbarazzanti attimi di silenzio.
“Signor Presidente – esordisco,
con la voce roca dall’emozione –
abbiamo avvertito il bisogno di
incontrarLa perché stiamo per
trasmettere a Lei, nella Sua qualità di Presidente della Camera
dei deputati, documenti relativi
a reati che potrebbero coinvolgere non solo parlamentari, ma
anche alcuni Ministri.”.
“Ma la cosa più grave – aggiunge
Adriano Sansa – è che dalle carte sequestrate risulta l’esistenza
di un collaudato sistema di corruzione del Parlamento…”
“…e che questo sistema – conclude Carlo Brusco – passa attraverso dazioni di denaro che
coinvolgono i partiti che sostengono attualmente il Governo”.
“Ma chi di voi tre è sceso a Roma
con al seguito 60 finanzieri ed
ha osato violare i templi delle
compagnie petrolifere nazionali e internazionali? Ma voi, così
giovani, avete idea di quale sia il
potere delle sette sorelle?”.
In un primo momento penso che
Pertini mi stia rimproverando. Il
tono delle sue parole è piuttosto
burbero. Subito dopo, mi rendo
conto che di rimprovero non si
tratta bensì di paterna preoccupazione e di disponibilità a
capire il perché di quel compor-
tamento. Il silenzio si taglia a
fette e le mie mani cominciano
a sudare. I due colleghi mi guardano anch’essi imbarazzati, invitandomi con lo sguardo a dire
qualcosa. Io taccio anche perché
Pertini è intento a riaccendersi
la pipa che si è appena spenta.
“Sono stato io, Signor Presidente…ma sa, dopo aver rinvenuto
questo documento a casa di un
petroliere genovese …vede…qui
c’è scritto che i petrolieri hanno
versato ai partiti di governo una
serie di tangenti corrispondenti
al 5% dei vantaggi loro derivanti dall’approvazione delle leggi
approvate, ammontanti a circa
200 miliardi…una volta in possesso di questo documento ho
avvertito il dovere di andare
alla ricerca dei riscontri …così
a Roma ho trovato anche questo…”. Nel dire le ultime parole
metto nelle Sue mani un pacco
di assegni. Sono gli assegni relativi al pagamento delle varie
tangenti incassati per il tramite
di nomi di fantasia dalle segreterie della Democrazia Cristiana,
del Partito Socialista, del P.S.D.I.
e del P.R.I.
Pertini ci ascolta in silenzio e
poi passa a leggere alcune delle
carte che avevamo portato con
noi in copia. Si sofferma nell’osservare a lungo alcuni degli assegni. Poggia la cartella che gli
avevamo consegnato sul tavolino e, per alcuni secondi che
sembrano un’eternità, non dice
nulla. Questa volta è Lui che ha
la voce roca dall’emozione.
“Vedo che tra i partiti che hanno
ricevuto denaro c’è anche il Partito Socialista Italiano …”.
A quel punto, Pertini interrompe la frase, si toglie gli occhiali
e si asciuga due lacrime che lentamente gli scorrono sul viso da
sotto gli occhiali. “Questo mi
addolora in particolare …, ma
tutta la vicenda mi addolora e
mi fa soffrire …”
Più parla e più i sentimenti di
dolore e sofferenza che aveva espresso con le parole e con
l’espressione dei suoi occhi, cedono spazio a sentimenti reattivi, quasi di rabbia, che ancora
una volta vengono espressi, oltre che dal tono della voce, dal
suo sguardo che diventa, però,
sempre più imperioso. Dopo
una pausa, che sembra non finire mai, prosegue.
“Ma la forza della democrazia,
siete anche voi. Dovete andare
avanti. Continuate a fare il vostro dovere. Coraggio. Io starò
al vostro fianco, così come nel
corso della mia vita sono sem-
pre stato a fianco dei valori della
democrazia e della legalità. Questa democrazia l’abbiamo conquistata col sangue e la galera.
Non possiamo correre il rischio
di perdere la libertà per colpa di
chi la usa per rubare”.
Alzatosi in piedi, Pertini ci abbraccia uno per uno: “Ragazzi,
voi siete giovani, avete il dovere
di prendere delle precauzioni a
tutela della sicurezza delle vostre persone, mi raccomando!”
Ci allontaniamo da via dell’Impresa, raggianti di felicità.
L’indomani Sandro Pertini dichiara alla stampa: “La morale è
una scienza morta se la politica
non cospira con lei. La democrazia si difende, si sostiene e si rafforza con una grande tensione
morale; la corruzione è nemica
della democrazia e offende la
coscienza del cittadino onesto.
Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza
solidarietà di amicizia o di partito. Questa solidarietà sarebbe
vera complicità: la politica deve
essere fatta con le mani pulite”.
Dopo qualche anno incontrai
nuovamente Pertini che come
presidente della Repubblica era
anche presidente del Consiglio
superiore della Magistratura,
organo nel quale io ero stato
eletto. A fine seduta era solito
chiamarmi prendermi sottobraccio e passeggiare con me
intorno all’emiciclo della sala
consigliare. In una di queste occasioni mi disse: “Coraggio, voi
giovani dovete avere coraggio
… i tempi cambieranno … la
storia deve andare avanti … Sai,
tutto muore con noi, però noi rimaniamo nel cuore di quelli che
ci amano. Lì non moriamo mai
e, perciò, possiamo parlare con
i nostri cari ed essi parlano con
noi in silenzio”.
Quanto vorrei adesso, nei giorni
nostri, che Sandro Pertini non si
limitasse a parlare a quelli che
lo hanno amato e che lo amano
ancora oggi.
Mario Almerighi
Roma, 6.03.2016
Mario Almerighi è nato a Cagliari il
28 settembre 1939. Entrato in magistratura nel 1970, è stato pretore in
Sardegna e poi a Genova. Nel 1974,
insieme ai colleghi Adriano Sansa
e Carlo Brusco, svelò lo scandalo
dei petroli. Eletto nel 1976 al Consiglio Superiore della Magistratura, divenne poi giudice istruttore a
Roma e presidente del Tribunale di
Civitavecchia. Nel 1998 è stato Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Attualmente è Presidente dell’Associazione “Sandro Pertini Presidente”.
Tra i suoi libri si ricordano “I banchieri di Dio” (2002), “Petrolio e
politica” (2006), “Tre suicidi eccellenti” (2009), “Mistero di Stato - La
strana morte dell’ispettore Donatoni” (2010), “Suicidi? - Castellari,
Cagliari, Gardini” (2011), “La storia
si è fermata. Giustizia e politica.
La testimonianza di un magistrato”
(2014) e “La borsa di Calvi” (2015).
Ha inoltre curato la raccolta di scritti di Sandro Pertini “La politica delle mani pulite” (2012).
dalla prima pagina: Tra industria e letteratura: Mario Novaro
Plinio Nomellini, manifesto pubblicitario, 1901, particolare.
Illustrazione di Plinio Nomellini per
l’Inno all’olivo di Giovanni Pascoli
(«La Riviera Ligure», n. 30, 1901).
mo secondogenito Cellino, caduto
appena ventenne durante il primo
conflitto mondiale (1917), Alcune lettere inedite di Giovanni Pascoli (1934)
a lui indirizzate durante il periodo
di “Riviera” e, in quattro volumi, le
opere dell’amico Boine (1938-39).
«Alcuni elementi circa il rapporto
tra Novaro e la sua famiglia, tra Novaro e se stesso, tra Novaro poeta e
Novaro industriale, il rigore che doveva darsi per scegliere quanta pubblicità e quanta letteratura mettere
nelle pagine di “La Riviera Ligure”, mi fanno pensare che esistono
due aspetti di Mario Novaro […]».
Aveva pienamente ragione Gian
Luigi Falabrino a voler approfondire (intervento al convegno “Mario
Novaro: una città, un’industria, un
poeta”, Imperia 1994) la complessa
personalità di un protagonista del
Novecento, la cui opera soltanto a
distanza di oltre un secolo viene conosciuta e, via via, meglio apprezzata, anche grazie al lavoro che la
Fondazione, con sede a Genova, a
lui intitolata porta avanti da oltre un
trentennio.
Prosegue Falabrino: «Uno degli
aspetti da approfondire riguarda il
padre, Agostino. è vero che nella
famiglia si respirava letteratura […],
ma Agostino non aveva certo compiuto studi superiori. […] Assaggiatore d’olio, fonda nel 1860 una
propria piccola industria olearia, ed
una seconda nel 1895, intestandola
alla moglie, Paolina Sasso. Eppure
Agostino insiste perché Mario vada
a studiare in Germania, quando la
Germania - non dobbiamo dimenticarlo - era all’avanguardia in quasi tutti i campi della cultura. […] è
sempre lo stesso Agostino a fondare
nel 1895 “La Riviera Ligure di Ponente”, come si chiamava inizialmente la rivista destinata a promuovere i prodotti dell’azienda».
Se la bibliografia di Mario Novaro
ci tratteggia un intellettuale aperto a
differenti aspetti della cultura - dalla
poesia alla filosofia all’arte -, ciò che
ancor oggi ci sorprende è proprio la
maniera assolutamente innovativa
con cui egli ha intrecciato la cultura
alla promozione d’azienda, sia con
la rivista “La Riviera Ligure”, sia
nella scelta degli artisti a cui affidare l’immagine dei prodotti Sasso: da
Plinio Nomellini a Giorgio Kienerk,
da Franz Laskoff a Cesare Ferro a
Galileo Chini.
«La Riviera Ligure», rivista mensile, risulta avesse raggiunto tirature davvero eccezionali per l’epoca
(100/120.000 copie) e, a parte un
piccolo numero di abbonati, veniva
inviata gratuitamente, inserita nelle
cassette dei prodotti Sasso, in ogni
parte del mondo in cui la ditta aveva
“rappresentanti” e distributori.
L’ elenco dei Paesi indicati in un fascicolo scelto a caso (n. 12, dicembre
1912) è sorprendente: oltre ai paesi
europei (comprese l’Inghilterra e la
Scozia), troviamo, fra gli altri, Eritrea, Tunisia, Tripolitania, Marocco,
Senegal, Sudan, Colombia, Argentina, Shanghai, Stati Uniti, Indie inglesi, Uruguay, Venezuela, Turchia,
Cuba, Giappone, Messico, Persia,
Siam, Nuova Zelanda, Nicaragua,
Guatemala, Canada, Tasmania, eccetera… Davvero una copertura
“globale”!
Ecco, tutto questo per dire come Novaro - che aveva respirato un’aria
internazionale nel corso della sua
formazione - non aveva mai smesso
di credere nei valori ai quali era stato formato, e lavorando per la diffusione di quello splendido prodotto
delle nostre terre, l’olio, dedicasse
altrettanta attenzione a far giungere
in tutti i paesi del mondo anche le
voci dei migliori scrittori, poeti ed
artisti italiani.
Maria Novaro
Maria Novaro è architetto e presidente della Fondazione Mario Novaro,
costituita a Genova nel 1983, che ha
per scopo istituzionale lo studio e la
diffusione della cultura ligure novecentesca anche attraverso la pubblicazione della rivista quadrimestrale «
La Riviera Ligure», quaderni monografici, che esce dal 1990.
Giorgio
Kienerk,
copertina
per
l’Almanacco
Sasso
1911
Mio nonno, Giuseppe Salvago Raggi,
e la rivolta dei Boxer.
5 agosto 1900: esce la «Domenica
del Corriere» con – in copertina –
disegnata da Beltrame l’uccisione
di Umberto I da parte di Bresci.
C’è la carrozza, il Sovrano riverso,
i soccorritori, la folla…
Ma la « Domenica del Corriere »
ha anche una copertina sul retro,
e cosa rappresenta? Mio nonno,
Giuseppe Salvago Raggi, con la
moglie e il figlioletto, nel cortile
della Legazione italiana a Pechino:
tutti e tre dati per morti nel corso
dell’assedio dei Boxer, e invece,
per fortuna, risultati vivi.
La notizia della loro morte era circolata durante l’assedio: e non solo
della loro ma di tutto il corpo Diplomatico asserragliato nel Quartiere delle Legazioni. La smentita
arrivò in ritardo, questo forse spiega l’accostamento con la morte di
Umberto I, avvenuta il 29 luglio.
E allora eccoli lì tutti e tre, un’immagine serena che certo è antecedente all’assedio, ai quaranta giorni di sparatorie e di fame , notti
insonni e di attese sempre deluse
di venir liberati. (Lo furono poi
grazie all’arrivo delle truppe del
generale Seymour).
Circola ancora un film, “55 giorni
a Pechino”, protagonista Charlton
Heston , in cui compare – un “cameo” – anche il ministro d’Italia,
cioè il nonno, ma rappresentato
come gli americani vedono gli
italiani, basso, capelli nerissimi e
baffetti, e l’aria molto molto meridionale - mentre mio nonno era
alto un metro e novanta e nelle fotografie che lo ritraggono con un
cappellaccio alla yankee e i gambali ha un’aria tutt’altro altro che
meridionale!
Comunque, a me la coincidenza
dei due eventi ha sempre fatto effetto. E la mano di Beltrame già allora si rivela di altissima qualità.
Giuseppe Salvago
Raggi a Pechino
insieme al
giornalista Luigi
Barzini, in una
tavola di Achille
Beltrame.
Camilla Salvago Raggi,
La nonna era bellissima,
Il canneto editore.
Serata in maschera nella Legazione italiana a Pechino prima della rivolta dei
Boxer. Salvago Raggi è il primo a sinistra.
3
Camilla Salvago Raggi
La Badia di Tiglieto
e i Salvago Raggi
M
ia nonna paterna Rosa
Nervi era nata nel 1885
a Tiglieto, località Casa
d’Aste, in prossimità della Badia, la
più antica abbazia cistercense italiana, annidata fin dal 1120 nell’alto
Appennino ligure, che papa Innocenzio X nel 1648 aveva concesso in
enfiteusi perpetua con tutte le sue
vastissime pertinenze territoriali al
cardinale Lorenzo Raggi, il quale la
trasmise per via ereditaria ai propri
congiunti.
La nonna mi raccontava fiabe meravigliose e ricordava di aver conosciuto, quand’era bambina, il
marchese Giuseppe Salvago Raggi,
“molto buono e gentile con lei”. Mai
avrei immaginato che tanti anni
dopo sarei diventato amico dell’ultima discendente della casata, quella
Camilla Salvago Raggi che non solo
è l’unica donna al mondo proprietaria di un’abbazia, ma è anche una
delle più grandi e raffinate scrittrici
italiane. In una dozzina di libri ha
ricostruito, su basi concretamente
documentate e sentimenti cresciuti
nell’invenzione, le vicende dei suoi
antenati, nei due rami dei Salvago e
dei Raggi: dal primo romanzo corale
L’ultimo sole sul prato che nel 1982
aveva dedicato alla Badia al recen-
te Mia nonna era bellissima, appena
uscito nelle edizioni de Il canneto.
Partendo dal ricordo (e dalla riproduzione, purtroppo solo in bianco
e nero) di un quadro rubato e da
inedite carte d’archivio, Camilla segue la vita dell’omonima nonna Pallavicino, in un momento storico di
grandi tensioni trascorse accanto al
marito, il marchese Giuseppe Salvago Raggi appunto, Ministro d’Italia
a Pechino nel 1900, durante la rivolta dei Boxer, ma anche Governatore
in Eritrea e senatore del Regno.
Il nome di Camilla Salvago Raggi
è legato a Savona per essere stata
nel corso degli anni ‘90 presidente
del concorso nazionale di narrativa
“Voci di donne“, ma anche la protagonista del suo ultimo libro vi era in
qualche modo legata. Era, infatti, figlia della marchesa Laura Gropallo
sposata Pallavicino e aveva celebrato il suo matrimonio con Giuseppe
Salvago Raggi a Vado Ligure il 19
ottobre 1891. Della loro storia fa parte, incorniciata e ingentilita da un
nastro tricolore, una vecchia copertina della « Domenica del Corriere»
che Camilla conserva tra i suoi ricordi e che ha accettato di commentare
per noi.
Silvio Riolfo Marengo
L’Abbazia cistercense di Tiglieto: sala capitolare.
Badia alla fine dell’Ottocento.
Silvio Riolfo Marengo, nato a Castelvecchio di Rocca Barbena nel 1940,
vive tra Savona e Milano dove ha diretto le redazioni della casa editrice
Garzanti e dove è consigliere della
Fondazione Corrente. Oltre che di
Pigmenti è direttore responsabile di
Resine, quaderni liguri di cultura,
la rivista che prende titolo dal primo
libro di Camillo Sbarbaro ed esce ormai da 43 anni. A Savona è anche
presidente della Fondazione Museo
d’arte contemporanea Milena Milani in memoria di Carlo Cardazzo.
T
4
ra i personaggi di maggior
spicco che, tra Ottocento
e Novecento, furono presenti a Savona, uno dei più interessanti fu certamente Arcangelo Ghisleri (Persico Dosimo, 15
aprile 1855 – Bergamo, 19 agosto 1938). Intellettuale, uomo di
cultura, giornalista, grande studioso di geografia e cartografia,
Ghisleri fu una tra le personalità
più illustri del Partito Repubblicano d’inizio Novecento, cui
giunse dopo un’iniziale adesione al socialismo.
A Savona arrivò poco più che
trentenne. Nel settembre del
1884, aveva iniziato a dedicarsi all’attività di insegnamento,
ottenendo il primo incarico al
liceo di Matera, come professore di storia e geografia. Ben presto, però, le condizioni di grave
arretratezza riscontrate nella
città lucana lo avevano indotto
a chiedere il trasferimento, ottenendolo, infine, al liceo Chiabrera
di Savona, dove giunse nell’autunno del 1886. Qui sarebbe rimasto per due anni, insegnando
storia e geografia storica.
Nel breve periodo in cui risedette nella città ligure, Ghisleri
si mise in luce per l’entusiasmo
con cui si dedicò alle iniziative
culturali. In tal senso, grande rilievo ebbe la nascita della rivista
mensile Cuore e critica, il cui primo numero fu pubblicato a Savona il 1° gennaio del 1887 dalla tipografia vescovile Miralta,
avendo come direttore Arcangelo Ghisleri e come gerente responsabile Francesco Ferro. Presentandosi come «rivista mensile
di studi e discussioni di vario argomento pubblicata da alcuni scrittori
eccentrici e solitari», Cuore e critica
pubblicò in quei due anni articoli di «letteratura, filosofia, storia,
scienze penali, economia e varietà»,
scritti da intellettuali e politici
tra i più impegnati di quel periodo, quali Andrea Costa, Mario
Rapisardi, Giovanni Bovio, Gabriele Rosa, Tancredi Galimberti, Napoleone Colajanni, Leonida Bissolati, Giuseppe Macaggi
e Filippo Turati; di quest’ultimo,
in particolare, nel primo numero
della rivista apparve un articolo
intitolato Socialismo e Scienza.
Fin dalla pubblicazione del suo
primo numero, Cuore e Critica
apparve chiaramente rivolto
allo studio delle questioni sociali, proponendosi altresì come
Arcangelo
Ghisleri
a
Savona
strumento di educazione civile
e di diffusione dei valori democratici, per lo sviluppo, come
si auspicava, di una autentica
“coscienza popolare”, assecondando le istanze di emancipazione dei lavoratori. I concetti e
le parole d’ordine del socialismo
erano quindi ben presenti nella
rivista, così come le idee del positivismo e le tematiche anticlericali. In tal senso, «particolare
curioso», come avrebbe notato
Francesco Bruzzone in un articolo da lui scritto per il quotidiano Il Lavoro che fu pubblicato
il 21 giugno 1938, «Cuore e critica veniva stampato nella Tipografia
Vescovile Miralta, e il fatto sollevava l’indignazione dei reverendi
padri di Civiltà Cattolica, i quali,
con i loro attacchi alla reproba rivista savonese, ottenevano da questa
Curia il divieto per il povero Miralta di continuare ad usare l’attributo
“Vescovile” per la propria ragione
commerciale».
Nell’autunno del 1888 Ghisleri
lasciò Savona, avendo ottenuto
la cattedra al liceo Sarpi di Bergamo. A seguito di ciò, a partire dall’ottobre di quell’anno, la
redazione della rivista – che nel
successivo mese di dicembre divenne quindicinale – fu trasferi-
ta in quella località. Pressato dai
numerosi impegni scolastici e
lavorativi, ma anche a causa delle sue idee contrarie a certe posizioni assunte dai socialisti, nel
numero del 15 ottobre del 1890
Ghisleri annunciò la sua volontà
di lasciare la direzione di Cuore e
critica, affidandola così a Filippo
Turati, che assunse la guida della rivista a partire dal 4 novembre 1890. Da tempo, ormai, gli
articoli in essa pubblicati erano
chiaramente rivolti allo studio
delle questioni economiche e
sociali che maggiormente interessavano l’Italia di quegli anni.
Sotto la direzione di Turati, la
testata si orientò in modo ancor
più chiaro e netto in questa direzione, assumendo, a partire
dal gennaio del 1891, il nome di
Critica sociale e divenendo apertamente un fondamentale punto
di riferimento per quanti si rifacevano al modello di società teorizzato da Karl Marx.
Il ricordo dell’esperienza savonese di Ghisleri fu giustamente messo in luce da Francesco
Bruzzone – futuro Prefetto della
Liberazione – nel suo breve saggio scritto, intitolato Arcangelo
Ghisleri a Savona nel 1888, che
apparve nel volume Testimonianze di affetto e stima per Arcangelo
Ghisleri, stampato a Torino per
le Edizioni L’impronta nell’aprile del 1938. Il libro fu pubblicato tre mesi prima della morte di
Ghisleri: oppositore intransigente del fascismo, lo studioso viveva da anni in una condizione di
semi-isolamento,
emarginato
dal Regime a causa delle sue
idee politiche. Quell’operazione
editoriale, che vide la luce sotto
la veste di attività storico-letteraria, fu chiaramente un’iniziativa
politica attuata in modo sottile
e raffinato aggirando i divieti e
le censure del fascismo. Il volume ebbe infatti come promotore
il quarantottenne repubblicano Mario Razzini, esponente di
spicco di Giustizia e Libertà, che
fu affiancato da altri tre repubblicani molto noti in quel periodo: il medesimo proprietario
de L’Impronta Terenzio Grandi, Valentino Rovida e il medico repubblicano Aldo Spallicci
(futuro deputato all’Assemblea
Costituente e senatore nelle prime due legislature repubblicane
nonché sottosegretario nel sesto
e settimo governo De Gasperi).
Nel libro, contenente numerosissimi ricordi e attestazioni di
stima di varie personalità pubbliche del mondo accademico
italiano e non solo nei confronti
dell’illustre geografo e fondatore della rivista Cuore e Critica, mazziniano e democratico,
apparvero anche scritti di alcuni antifascisti italiani, tra cui
Ferruccio Parri, il repubblicano
Arturo Codignola (ex vicepresidente della sezione di Genova dell’Associazione Nazionale
Combattenti), l’ex deputato repubblicano Paolo Taroni, il prof.
Gino Luzzatto (che nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto
Croce), l’ex deputato socialista
Adelchi Baratono, l’ex direttore
del giornale Il Lavoro di Genova
Giuseppe Canepa e, appunto, il
repubblicano savonese Francesco Bruzzone.
Giuseppe Milazzo è nato a
Savona il 7 gennaio 1964. Laureato all’Università di Genova
in lettere moderne e in storia,
vive e lavora a Savona, dove è
insegnante di ruolo presso l’Istituto Comprensivo Savona I. Da
molti anni si dedica allo studio
di figure e momenti della storia
della sua città. In tale ambito ha
pubblicato, fra l’altro: Michele
da Cuneo e l’isola di Saona (1995),
Piazza delle Erbe (1998), Giuseppe Cava (Beppìn da Cà), il poeta
di Savona, biografia del celebre
poeta dialettale (2007), Da Boves
a Clavesana. Vita, esperienze, lotte
del partigiano albissolese Matteo
Lino Repetto (2014). L’ultima sua
fatica è Cristoforo Astengo, le lotte
politiche e l’impegno antifascista,
biografia del martire dell’antifascismo savonese. Alcuni suoi
saggi sono stati pubblicati sugli
Atti della Società Savonese di
Storia Patria e sui Quaderni Savonesi dell’I.S.R.E.C. È consigliere
dell’associazione Aiolfi.
Giuseppe Milazzo
T
ra i diversi restauri portati
a termine, ben sei, dall’Associazione Renzo Aiolfi
di Savona dal 2003 al 2015, tutti
interventi suggeriti dal competente Ministero dei Beni Culturali attraverso la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e
Etnoantropologici della Liguria,
l’ultimo in ordine di tempo, che
ha richiesto l’ impegno delle centinaia di associati “Aiolfi” per
reperire i fondi necessari, è stato
molto particolare e coinvolgente:
il restauro del Globo terracqueo
dell’ingegner Giovanni Antonj
del 1856 (carta stampata, dipinta a olio e verniciata applicata
su cartapesta e supporto ligneo),
diametro della sfera cm.88, diametro base cm.108, altezza complessiva cm. 178.
Lo stesso autore aveva donato il
Globo alla città di Savona il 14
gennaio 1893 e la donazione era
stata accettata dal sindaco il 17
gennaio, come risulta dalle le
Carte Antonj conservate presso
l’Archivio di Stato di Savona,
dalle quali ho ricavato le poche
notizie in mio possesso. Il Globo
fu collocato nell’allora Biblioteca
civica, ovvero in Palazzo Gavotti
(oggi sede della civica Pinacoteca di Savona) nel cuore antico di
via Pia, ma la sua conservazione
Il Globo terracqueo
di Giovanni Antonj
5
risultò assai problematica. Nella
rubrica “Occhiate in Biblioteca”
del «Giornale di Genova», edito il 25 maggio 1941, si poteva
leggere che il Globo era lasciato
“nel più completo abbandono
con falle e incrinature …”. Soltanto nel maggio del 1950, grazie
all’intervento di Renzo Aiolfi,
l’ allora assessore alla cultura
del Comune di Savona, questo
particolare manufatto storico artistico, unico nel suo genere,
ebbe qualche primitivo lavoro
di incollaggio in corrispondenza
dell’asse dell’orizzonte. Venne
anche trasferito nella Sala Giunta del Municipio attuale, dove è
ancora allocato dopo il suo recente risanamento durato diciotto mesi ed effettuato a cura del
laboratorio specializzato Nicola
Restauri s.r.l., in Aramengo1.
Nel suo Globo l’Antonj aveva realizzato la rappresentazione geografica del mondo conosciuto
nel 1851: una “mappa” corredata
da moltissime annotazioni calligrafiche recanti, come lui stesso
indica nel cartiglio, la descrizione delle terre e delle acque, con
l’indicazione geografica dei luoghi, arricchita da accurate descrizioni dei territori, dei nomi degli
esploratori, raffigurazioni di velieri, indicazioni delle rotte anche commerciali note fino allora,
il corso dei battelli a vapore e la
durata dei relativi tragitti. Non
mancano, inoltre, informazioni
astronomiche, quali i segni zodiacali, il calendario e le gradazioni terrestri. Dopo il restauro il
Globo è tornato ad incuriosire i
visitatori della Sala Giunta e gli
addetti ai lavori istituzionali che
vi si svolgono quotidianamente:
è nuovamente in asse, può ruotare ed essere ammirato in tutta la
sua bellezza e la sua maestosità,
tanto da far riflettere sulla possibilità di proporlo come oggetto
di studio per una prossima tesi
di laurea.
Silvia Bottaro
mentre osserva
i particolari del
Globo terracqueo.
Ben poco si conosce della vita e
dell’attività dell’ingegner Giovanni Antonj; ho comunque trovato notizia di un’attestazione
ufficiale rilasciatogli il 15 agosto
1883 dal professor Vittorio Farolfi dell’Imperiale Regio Istituto di
nautica di Trieste dove, forse, in
gioventù aveva studiato. Notizia
che mi ha invogliato a compiere
alcune ricerche presso il Comune
di Trieste e la biblioteca civica
“A. Hortis”2. Ho rintracciato così
alcune pubblicazioni delle quali
fornisco l’elenco :
- Sui motori per la piccola industria,
di Domenico Antonj, Atti della
Società d’Ingegneri ed Architetti
di Trieste, A. 1, 1878, fasc.3.
- Biografia di Giorgio Stephenson,
di Domenico Antonj, Atti della
Società d’Ingegneri ed Architetti
di Trieste, A. 4, 1878, fasc.3.
- Trattato teorico pratico di pirotecnia civile, per Domenico Antonj,
Trieste, Stab. Tip. Lit. E. Sambo e
C., 1893 - XV, 283, p.(12) c., di tav.
ripieg; 23 cm.
Domenico Antonj è lo stesso autore del Globo, che qui ha usato
solo uno dei suoi nomi propri, o
si tratta di un’altra persona? Non
possiamo dire nulla con certezza,
anche se rende probabile la prima ipotesi la pubblicazione, a
sua firma, avvenuta pochi anni
dopo sul porto savonese dal titolo Progetto di costruzione di nuove
calate nel porto di Savona, di Giovanni Domenico Antonj, Savona,
tipografia A. Battaglia, 1899.
Ai fini di questa ricerca devo
ringraziare il dottor Riccardo Cepach del Comune di Trieste per
avermi informato che una copia
del Trattato teorico pratico di pirotecnia civile, di cui ho già fatto
cenno (firmata e sottolineata), era
di proprietà di Italo Svevo: copia
recentemente ritrovata da Simone Volpato fra i libri di Antonio
Fonda Savio (deposito all’Unitis), come ricordano Volpato e
Cepach nel volume Alla peggio
andrò in biblioteca. I libri ritrovati
di Italo Svevo, Macerata, Biblohaus, 2013. Volpato scheda il libro in questione e, in una nota a
pagina 258, Cepach informa che
“fra questo nuovo nucleo di libri
sveviani troviamo anche il Trattato teorico-pratico di pirotecnia civile
di Domenico Antonj, con numerose sottolineature. “L’esplosivo
incomparabile” che alla fine della Coscienza polverizza la Terra
veniva forse studiato qui.”
Queste poche notizie lasciano ovviamente spazio a miei successivi
approfondimenti. Per concludere è necessario ricordare che del
restauro del Globo si è occupata
anche la nostra associata Rosaria Avagliano, che lo ha descritto
dal punto di vista tecnico in alcuni incontri che si sono tenuti
nella Sala Rossa del Comune di
Savona e che , da gennaio a marzo 2016, ho svolto una serie di visite guidate, nelle quali un folto
pubblico ha potuto ammirare un
manufatto così particolare.
Silvia Bottaro
1
Il laboratorio nel corso degli anni ha
restaurato e studiato vari tipi di mappamondo, mettendo anche in luce le caratteristiche di uno dei più interessanti: A.
R. Nicola, Note sul restauro del Globo celeste di Pietro Maria da Vinchio 1750-1751,
in “Orizzonti celesti. La raffigurazione
del cielo: la sfera restaurata di Pietro
Maria da Vinchio e i libri antichi delle
collezioni civiche di Alessandria”, Città
di Alessandria, 2011.
2
Ringrazio per la collaborazione la dottoressa Mariella Natural del Servizio Biblioteche civiche e il bibliotecario Stelio
Zoratto del civico Museo del Mare di
Trieste.
Silvia Bottaro è nata a Savona
nel 1951. Laureata in pedagogia
presso l’Università di Genova,
ha lavorato per il Comune di Savona quale direttore della Pinacoteca e del Museo civico fino al
1994.
Nel 2003 ha fondato, con altri
amici, l’Associazione Culturale
e del Paesaggio “Renzo Aiolfi”
no profit, di cui è presidente pro
tempore.
Ricercatrice e studiosa dell’arte
italiana dall’Ottocento al Futurismo, si è interessata anche di arte
minore e di storia locale. Ha organizzato numerose mostre e ha
collaborato al Dizionario del futurismo pubblicato da Vallecchi.
Tra i suoi libri: Intarsiatori savonesi dell’Ottocento; Colombo e Savona
nell’Ottocento; Vincenzo Nosenzo
prestidigitatore e re della latta.
I
6
l premio “Renato Alluto” per
il 2016 viene assegnato alla
giovane nuotatrice savonese
Erica Musso, che ha portato il
nome di Savona e della Liguria
sul podio delle gare più prestigiose.
Molti successi compongono il
suo palmarés, a iniziare dalla conquista della medaglia d’argento
ai mondiali di Kazan 2015 nella
staffetta 4x200 m stile libero insieme ad Alice Mizzau, Chiara
Masini Luccetti e Federica Pellegrini. Erica ha successivamente
partecipato agli europei in vasca
corta di Netanya, in Israele, classificandosi al settimo posto nei
400m stile libero e al trofeo Sette
Colli di Roma, dove ha vinto il
bronzo nella stessa specialità.
Il 2015 è stato inoltre l’anno in
cui, ai campionati invernali, ha
conquistato il suo primo titolo
italiano, aggiudicandosi la medaglia d’oro sempre nei 400 m
stile libero.
Erica si è avvicinata al nuoto
agonistico a sedici anni: “ La
mia famiglia – afferma – mi ha
trasmesso da sempre la passione per lo sport e i suoi valori:
i miei genitori sono diplomati
ISEF, mia sorella fa parte della
nazionale di nuoto sincronizzato
e mio fratello è una delle punte nel pattinaggio di velocità su
pista a livello regionale e nazionale. Pur amando molte altre
discipline che seguo nel tempo
libero, la mia grande passione
è il nuoto.
La convocazione in nazionale è
per me una grande soddisfazione; poter rappresentare il nostro
paese e portare in alto il tricolore, un onore e uno stimolo a
fare sempre bene. Il mio primo
mondiale, a Kazan in Russia, mi
ha regalato tantissime emozioni
nuove: nuotare insieme a Federica Pellegrini resterà, per me, uno
dei momenti più belli e intensi
della mia carriera.”
Erica fa parte del gruppo sportivo delle Fiamme Oro e la sua società civile è l’Andrea Doria Genova, alla quale l’amatori Nuoto
Savona, dove Erica aveva cominciato a gareggiare, si è unita
da poco per ragioni logistiche.
Nonostante le medaglie vinte, la
nostra giovane campionessa non
dorme sugli allori. Per migliorare sempre più, si allena in media
cinque sei ore al giorno: “Conciliare studio e allenamenti non è
semplice, soprattutto nel nostro
paese che, a differenza di altri,
non offre strutture specifiche in
Premio
“Renato Alluto” 2016
Erica Musso con
le sue compagne
d’avventura Alice
Mizzau, Chiara
Masini Luccetti e
Federica Pellegrini,
con la medaglia
d’argento della
staffetta 4x200
m. stile libero
conquistata ai
Mondiali
di Kazan 2015.
grado di favorire entrambe le
attività”, è il suo commento. “
È comunque bello sapere che
dopo le ore trascorse in piscina,
mi aspetta anche qualcosa di
completamente diverso; lo studio è un modo per staccarmi un
po’ dagli allenamenti. Quest’anno, anche se ho deciso di dare la
precedenza al nuoto, continuerò
Erica Musso, con Andrea Ambra Pescio, quando indossava la maglia dell’Amatori
Nuoto Savona. Dal 2016 l’atleta è ufficialmente tesserata per la Società Andrea Doria
di Genova.
NORME PER LA REDAZIONE DEI CONTRIBUTI
a frequentare la facoltà di scienze motorie di Genova, alla quale
sono iscritta.”
Tra gli obiettivi di Erica, ci sono
ovviamente le Olimpiadi 2016,
sogno di ogni atleta: “ Penso
giorno per giorno, non guardo
troppo lontano. Sono contenta di
quello che faccio e spero in futuro
di migliorarmi sempre di più.”
Erica ha vissuto le competizioni con calma, senza stress né
particolari tensioni fin dagli inizi della sua carriera: “Le gare,
mi piacciono tanto quanto gli
allenamenti, mi concentro e non
sento troppo la pressione. Ogni
sfida è diversa, il contesto e gli
avversari cambiano e di conseguenza anche le sensazioni e le
emozioni sono sempre diverse.
In ogni caso cerco semplicemente di divertirmi nel fare quello
che faccio. A conclusione di questo colloquio vorrei dire che
sono molto grata e soddisfatta
di ricevere il premio Alluto per
due motivi sostanziali: perché
conosco la famiglia Alluto, sono
persone molto oneste e generose
che meritano il meglio, e perché
sono molto legata alla mia città:
in ogni parte del mondo in cui
vado a gareggiare, la mia mente
e il mio cuore sono rivolti a Savona, ed essere riconosciuta come
una tra le sportive savonesi che
si sono maggiormente distinte non può che onorarmi.”
Sonia Pedalino
Sonia Pedalino, savonese, si è
laureata in lettere moderne (specializzazione in storia del teatro e
dello spettacolo) con la tesi Totò e
la maschera, pubblicata da Firenze Libri.
Giornalista pubblicista, collabora con il trimestrale “Mater Misericordiae” e con il mensile “Il
Letimbro” della Diocesi di Savona-Noli, occupandosi di cultura,
chiesa e spettacolo con indagini
e interviste ai protagonisti della
vita sociale e culturale della provincia di Savona.
Barra obliqua (/) per delimitare il verso e doppia barra obliqua ( // ) per
delimitare il fine strofa. I versi vanno in corsivo, tra virgolette inglesi semplici:
Gli articoli proposti alla rivista, su file in formato Word, devono essere inviati ‘nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura.’
Dialoghi
per posta elettronica agli indirizzi di [email protected]. e [email protected]
e devono essere compresi tra le 4000 e le 6000 battute, superabili solo in Vanno contrassegnati con un trattino lungo: – Eccola! Eccola – disse, e si
casi particolari e con l’assenso preventivo della redazione, altrimenti non allontanò.
verranno presi in considerazione.
Puntini di sospensione
I testi vanno composti in carattere Time New Roman, corpo 12, giustificato e Sono sempre tre, compreso anche il punto fermo …
le immagini a loro corredo devono essere in formato jpg ad alta risoluzione
Rinvii bibliografici in nota
(300 dpi). Le note vanno a piè di pagina, in corpo 10. I testi, privi di errori o
Utilizzare,
come abbreviazione , sempre “cfr.” (e non “v.” o simili)
refusi dovranno rispondere alle seguenti norme:
Per la prima citazione: Nome per esteso e cognome in tondo, città, editore,
anno e indicazione delle pagine usando sempre i numerali per esteso: “149Uso delle virgolette
152”, non 149-52. Es: Eugenio Montale, L’opera in versi, Torino, Einaudi,
Tra caporali o virgolette francesi ( «….» ) vanno:
1980, p. 30. Per le citazioni successive: solo il cognome Montale, L’opera in
- le citazioni nel testo
versi, cit, p. 60 . Se si cita in immediata successione la stessa opera usare “Ivi”,
- i titoli di giornali, riviste, enciclopedie, raccolte ecc.
seguito dalla o dalle pagine (« Ivi, p. 56». Se si cita in immediata successione
I segni di interpunzione vanno dopo le virgolette.
Gli esponenti di nota vanno dopo la virgolette e prima di eventuali segni la stessa pagina Ibidem in corsivo.
Abbreviazioni
di interpunzione: Nel mezzo del cammin di nostra vita 1. Per le note a piè
di pagina si usa il numero normale, allineato con il testo e seguito da un Pagina, pagine p., pp.
Per esempio p.es.
semplice punto fermo. Es. : 1. Archivio di Stato di Genova (ASG).
Volume, volumi vol., voll.
Uso del corsivo
Per tutti i vocaboli stranieri ( p.es. ante litteram, chance) e i titoli delle opere Numero, numeri n., nn.
letterarie, scientifiche, musicali ecc. La punteggiatura prima e dopo il Fascicolo, fascicoli fasc. (anche al plurale)
Verso, versi v., vv.
corsivo va in tondo.
Gli autori dovranno corredare i testi con un breve profilo biografico, il
Segni diacritici nelle citazioni da testi letterari
loro indirizzo mail e il numero di telefono.
Tre puntini tra parentesi quadre […] per segnalare i tagli nelle citazioni.
Al termine del suo mandato, vuole
tracciare un breve bilancio della
sua esperienza?
Sono stati cinque anni molto intensi nei quali non ho mai smesso di
studiare e imparare da moltissime
persone che ho incontrato, anche se
è stato doloroso rispondere negativamente a qualche richiesta per
le difficoltà di bilancio. Molte cose
sono comunque andate in porto, soprattutto da quando, tre anni fa, ho
ricevuto dal sindaco Federico Berruti anche la delega alla Cultura. Altre
sono rimaste nel cassetto in attesa di
tempi migliori: bisogna avere progetti pronti se si vogliono prendere
al volo le occasioni. Compito di un
buon amministratore è non farsi trovare impreparato e avere a cuore la
città come primo obiettivo in una
visione strategica di medio – lungo
periodo.
Parlando di fatti concreti, ho avuto
l’onore di inaugurare insieme al sindaco quattro nuove strutture. Nel
2013 ho tagliato il nastro al Museo
Pertini Cuneo nel Palazzo della
Loggia alla Fortezza del Priamar, a
conclusione di un progetto che ha
riunito due importanti collezioni
cittadine in una nuova e qualificata
sede: la prima donata dal Presidente Sandro Pertini, la seconda dalla
scultrice Renata Cuneo. E’ stato così
completato il Polo Museale del Priamar, grazie anche all’ampliamento
del civico Museo Archeologico e della Città, reso possibile mediante il
progetto europeo Accessit.
Nel dicembre 2014 ho inaugurato il
Museo della Ceramica, a conclusione dell’intervento di restauro e riqualificazione funzionale del Palazzo del
Monte di Pietà, adiacente a Palazzo
Gavotti sede della Pinacoteca Civica, promosso dalla Fondazione De
Mari. Un museo straordinario che richiederebbe un approfondimento a
parte: mi limito qui ad osservare che
nel 2015 ha accolto 25mila visitatori
e che la sua presenza, come si deduce dalla rassegna stampa, è ormai segnalata a livello internazionale.
Per la prima volta Savona si è dotata di uno specifico Assessorato alle
Politiche Giovanili, con molti progetti attuati in questo campo, alcuni avviati in precedenza e altri del
tutto innovativi. Sono state aperte
due nuove strutture culturali dedicate ai giovani: nel 2013 le Officine
Solimano in Darsena, che hanno
dato spazio a un’ offerta nuova e
integrata (cinema, teatro e musica)
e Music Lab, laboratorio per prove
e registrazioni musicali inaugurato
nel 2014. In entrambi i casi la gestione coinvolge associazioni culturali
giovanili. Non va però dimenticato il
Teatro Chiabrera che ha ottenuto importanti riconoscimenti, nonostante
la grave crisi che in questi anni ha
colpito quasi tutti i teatri italiani con
significative perdite di spettatori. Il
Chiabrera ha registrato invece una
sostanziale tenuta grazie alla bontà
della programmazione artistica che
ha saputo rispondere alle aspettative del pubblico introducendo anche
spunti innovativi quali il rapporto
tra teatro, cinema e televisione.
Che cosa pensa della cultura a Savona e quali ritiene siano le prospettive per una valorizzazione delle istituzioni presenti sul territorio
cittadino?
L’associazionismo culturale è uno
degli aspetti più importanti. L’ascolto delle istanze che provengono dalle
associazioni è fondamentale. Sono le
antenne sul territorio, animate dalla
passione per la nostra città e compito degli amministratori è saper coniugare la loro naturale propensione
a occuparsi di iniziative che possano
avere utili ricadute su tutta la comunità: in futuro sarà necessario lavorare insieme per costruire progetti
condivisi che vadano soprattutto
nella direzione di valorizzare la bellezza del nostro territorio. Viviamo
in una città bellissima ma devono
ancora crescere il nostro orgoglio e
la nostra identità. Possediamo un
patrimonio culturale e artistico preziosissimo e dobbiamo ingranare la
quarta nel campo della comunicazione e della promozione per farlo
conoscere sempre meglio.
Il volontariato culturale quale ruolo ha avuto e avrà per un futuro
sempre più aperto, condiviso in Savona?
Ci sono associazioni, e l’Aiolfi ne
è una dimostrazione, che costituiscono un braccio operativo importantissimo per l’ Amministrazione.
L’esempio del restauro del globo terracqueo di Antonj è lampante: grazie
all’Aiolfi un bene pubblico di grande
bellezza e grande valore è tornato a
Elisa
Di Padova
Assessore alla cultura
e alle politiche giovanili
del Comune di Savona:
bilancio di fine mandato.
Intervista a cura di Silvia Bottaro
risplendere ed ora, partecipando
alle visite guidate, i cittadini possono ammirarlo insieme agli affreschi
delle sale comunali. Questo significa
prendersi cura del bene comune. Altre organizzazioni basate sul volontariato agiscono in questo modo e inducono a riflettere su realtà culturali
importanti: patrimonio inestimabile
per noi amministratori, che ci sentiamo così fortemente sostenuti e invogliati a un dialogo continuo.
Sono stati aperti sotto il suo mandato nuovi spazi culturali, che ruolo vi hanno avuto ed avranno i giovani?
L’apertura di due spazi culturali che
ho già ricordato è il primo segnale
rilevante di una nuova attenzione
riservata alle nuove generazioni.
Ma ho iniziato anche un lavoro che
ha operato una sorta di rivoluzione
copernicana del concetto delle politiche giovanili, fino a qualche anno essenzialmente intese come un sistema
di offerta di occasioni da consumare.
Più che occuparsi di giovani si finiva
esclusivamente per “preoccuparsene”. Le Politiche Giovanili avevano
come obiettivo la Protezione e l’Intrattenimento, anche se non sono un
costo sociale da sopportare nell’attesa che passi la “nottata giovanile”,
quasi fosse una tassa generazionale.
Devono essere considerate come potenzialità da tradurre in risorse per
il territorio; bisogna entrare dentro
l’ingranaggio, stimolare processi,
lasciando perdere scatole ed etichette che non possono in alcun modo
identificare in maniera esaustiva la
popolazione giovanile.
Savona, in linea con il trend nazionale, è una città con una percentuale
bassa di giovani che passano molto
tempo in casa o in solitudine. Per
invertire questa tendenza abbiamo
cercato per prima cosa di conquistare piccoli spazi di fiducia: le politiche giovanili dovevano diventare
politiche della cura e dell’incontro,
delle relazioni sociali e della partecipazione alla vita cittadina anche a
livello istituzionale.
Superato l’esclusivo dualismo tra
“protezione” e “intrattenimento”, è
emersa l’idea di stimolare in maniera decisa il protagonismo giovanile,
mettendo da parte il sistema delle
azioni a spot. In questo nuovo modello l’Amministrazione ha cercato
di proporsi come uno strumento
utile ai giovani per realizzare le loro
idee in quanto interlocutore affidabile e pronto a rispondere e a spiegare,
mettendo per un momento da parte la forte tentazione di risolvere, di
fare e proporre dall’alto.
La prima iniziativa che ho messo in
Elisa Di Padova
tra un gruppo di studenti italiani
e tedeschi nel 2013,
in occasione del gemellaggio
tra Savona e Aurich.
pratica è stata quella di incontrare,
ascoltare, costruire relazioni affinché i giovani fossero ben disposti a
entrare in gioco. La costruzione dei
rapporti non avviene per miracolo
o per pura formalizzazione; avviene
per fiducia, per credito dato, per interesse all’incontro con l’altro.
In seconda battuta ho cercato di mettere in relazione le risorse presenti sul territorio che vantavano già
grandissime potenzialità ma fino a
quel momento non avevano avuto
occasione di dialogo. Una volta raccolte e messe in relazione fra loro, è
capitato che automaticamente, in un
processo moltiplicatore, si siano prodotte risorse aggiuntive e prospettive nuove.
In terza battuta ho cercato di costruire e attivare buone esperienze,
buone prassi, che diano un metodo
di lavoro aperto e disponibile ad essere utilizzato per ogni iniziativa da
promuovere in futuro. Avvicinare
i ragazzi al loro Comune significa
Il successo del Capodanno in Darsena 2013
far vivere l’istituzione come una opportunità, in luoghi (reali e virtuali)
e con linguaggi che si avvicinino e
che facilitino il rapporto, su territori
comuni, costruendo piattaforme di
incontro e comunicazione agili.
I ragazzi percepiscono tutte le potenzialità che la nostra città ha ancora da esprimere. Noi dobbiamo
fidarci del loro istinto e sono convinta che anche le ricadute saranno
trasversali e positive per tutti.
Quale eredità lascia a chi verrà
dopo di lei?
Un’eredità bellissima. Obiettivi ambiziosi e coraggiosi hanno guidato
le scelte recenti dell’amministrazione: in primis il progetto di restauro
funzionale di Palazzo Della Rovere
quale nuova sede della Biblioteca
civica. L’Amministrazione ha acquisito dal Demanio statale l’immobile,
uno dei più prestigiosi edifici rinascimentali della Liguria, in disuso
e in condizioni di degrado da anni:
una ferita nel cuore della città, che è
stata letta come una grande opportunità per Savona, con il duplice fine
di dare una nuova casa a uno dei
nostri più importati istituti culturali,
oggi in una sede non più adeguata,
e di innescare, attraverso questo recupero, un formidabile volano per la
rivitalizzazione del centro cittadino.
E’ stato dunque approvato il piano
di valorizzazione, siglato con la Soprintendenza e con il Demanio ed
è stato avviato il complesso iter di
fund raising e di recupero.
Continua poi la stretta collaborazione con la Fondazione De Mari per
valorizzare il Museo della Ceramica e dello straordinario patrimonio
in esso contenuto. Due le iniziative
previste nel 2016: la creazione di una
Fondazione dedicata alla gestione
e allo sviluppo delle attività muse-
ali e il completamento del restauro
della residua porzione del Palazzo
del Monte di Pietà - edificio storico
fondato nel 1479 dal Papa savonese
Sisto IV - in cui il museo ha sede.
La Fondazione De Mari ha approvato
la redazione del progetto e l’ampliamento degli spazi fruibili non solo
dai visitatori del Museo: ospiteranno, infatti, servizi di accoglienza al
pubblico, collaterali ma integrati alla
funzione espositiva principale, quali
un ampio bookshop, dove sarà possibile consultare e acquistare testi legati all’arte e alla ceramica, un “caffè
letterario” e un intero piano adibito
alle esposizioni temporanee. Credo
siano azioni importantissime per allargare il bacino di utenza del nostro
patrimonio culturale e, al contempo,
rendere la nostra città sempre più
bella, all’avanguardia, culturalmente stimolante e accogliente.
Durante tutto l’anno la Fortezza del
Priamar è vissuta e valorizzata con
mostre temporanee, con la visita ai
suoi musei e l’attività congressuale presso il Palazzo della Sibilla che
ospita convegni di livello nazionale.
D’estate la stagione culturale coinvolge sia la Fortezza del Priamar, sia
il lungomare, la Darsena e il centro
cittadino con molte iniziative gratuite. Si sono accresciute le manifestazioni in grado di vivacizzare
vaste aree della città. Recentemente
al Priamar è stata sviluppata, con
grande successo di pubblico, l’attività fieristica di qualità. L’amministrazione comunale ha collaborato
attivamente alla sperimentazione di
grandi eventi quali Equa, fiera del
commercio equo solidale, Why Bio?
dedicata al biologico e Savonaturalmente dedicata al benessere.
Il lavoro sui giovani è una delle cose a
cui tengo di più e che spero non venga
gettato via da un mio eventuale successore. Il lavoro sull’ascolto e sulla
fiducia è importante non solo per la
nostra città ma per tenere agganciati
i ragazzi ai valori della condivisione,
del senso civico e della stima nelle
Istituzioni contro l’individualismo e
l’antipolitica galoppante.
Quale idea le è rimasta nel cassetto?
Vi faccio una confidenza. Sul comodino, accanto al letto, tengo sempre
un taccuino e una penna. Sono per
me strumenti fondamentali, perché
può capitare alla sera o nel cuore
della notte (e questo capitava soprattutto qualche mese fa quando il mio
piccolo Giulio si svegliava più di
una volta) di avere improvvisamente
un’idea, un’intuizione e di annotarla
nel taccuino. Da quegli appunti sono
nate o sono state impostate molte
iniziative. Molte rimangono ancora
sulla carta, per mancanza di tempo
o di risorse, ma sono pronte per essere attuate. Quegli appunti parlano
di nuove opportunità lavorative per
i giovani, di una nuova alleanza tra
le generazioni, di nuovi progetti che
mettono al centro l’orgoglio e l’identità come rilancio verso il turismo
culturale. Parlano di valorizzazione
della bellezza delle periferie e di reti
tra cultura e sviluppo economico.
Parlano di dare maggiore spazio alle
giovani menti nella progettazione e
nelle strategie della città del futuro.
Ritorna sempre, nei miei appunti,
un concetto fondamentale: la cultura come investimento e l’importanza
di lavorare avendo a cuore la città e
i suoi abitanti, evitando di cadere
nell’isolamento e nell’autoreferenzialità e pensando invece al bene
comune.
7
P
arliamo di nomi di persona.
Tutti noi sappiamo come seguano le mode, le ideologie
e gli accidenti vari della storia: per
questo sono indicatori delle società
che li hanno imposti e fonti uniche
per la storia generale.
Uno straordinario registro savonese, il cartulario notarile di Arnaldo
Cumano e di Giovanni di Donato,
conserva 1149 atti privati savonesi
rogati tra il 1178 ed il 1188 - quasi una “preistoria” or sono - dove
compaiono migliaia di persone.
Trattandosi di passaggi di proprietà, di atti e società commerciali
vi intervengono solamente persone di un certo rilievo nella scala
sociale dell’epoca. Sono i nomi dei
ricchi e non dei disperati. Eppure
le persone citate per nome – e talora per cognome, anche se ancora piuttosto raramente – a volte ci
sconcertano.
Il numero spropositato di Willelmus, indica una diffusione capillare di tale nome: decine e decine,
espressi in ogni possibile variante
e di ogni provenienza dei dintorni
di Savona. Un nome germanico del
genere doveva allora significare
qualche cosa per chi lo imponeva
ai figli, valore aggiunto di gloria
futura, ancora sussiegoso verso
antiche dominazioni barbariche.
Così i tantissimi Oddo, Obertus, Anselmus, Ansaldus, Ardiçonus, Cunradus, nomi non latini che si rincorrono tra vendite di terre e di case.
Statistiche non ne abbiamo, ma
sono comunque un numero preponderante dei nomi presenti.
Tra Iacobus e Iohannes se ne va una
bella fetta dei nomi di origine cristiana, che sono spesso accompagnati dal cognome, in un momento
in cui non riusciamo ancora distinguerli da loro eventuali provenienze geografiche. Se troviamo un
8
C
i si può divertire con l’etimologia?
Agli occhi dei non addetti ai lavori, le scienze linguistiche hanno
fama talvolta di risultare noiose, difficili,
per qualcuno persino inutili. Al tempo
stesso, l’interesse per le lingue e i dialetti
è diffusissimo, al punto che le “curiosità”
etimologiche ad esempio, il desiderio di
spiegare la provenienza di una parola,
sono condivisi un po’ da tutti ai più diversi livelli.
Questo vero e proprio “bisogno” ha dato
origine, da un lato, a ricerche rigorose e
basate su un solido metodo scientifico,
soprattutto a partire dalla fine del Settecento, ma anche, dall’altro (già in epoca
antica e poi nel medioevo) a speculazioni più o meno erudite che, come spesso
avviene per le valutazioni in materia linguistica affidate alle sensazioni “a orecchio” o all’adesione incondizionata a
determinati stereotipi, possono risultare
francamente ridicole.
D’altronde, per motivi che sarebbe interessante indagare, le lingue e i dialetti
esercitano spesso un fascino perverso su
persone che, prive di adeguata formazione e animate magari da esigenze di autoreferenzialità, contribuiscono a diffondere informazioni distorte, che finiscono
per diventare ridicoli luoghi comuni: anche in Liguria “perle” di questo genere,
dal preboggion inventato da Goffredo di
Buglione, a boliccio che fa rima con molliccio, dal bellin adorato dai nostri antenati
sotto il nome di dio Belenos alle radici
arabe di maniman, fanno ormai parte di
un consolidato stupidario giornalistico e
televisivo, e meriterebbero in effetti l’attenzione, più che dei linguisti, di qualche
bravo psicoanalista.
Se la linguistica rischia allora di apparire
un campo di ricerca un po’ arido è anche
attraverso la revisione critica di queste
sciocchezze che il linguista trova modo
di divertirsi, contribuendo al tempo stesso a fare un po’ di chiarezza; e attraverso
gli strumenti che ha a disposizione, riesce spesso a ricostruire “storie di parole” assai più affascinanti di quelle nate
per il desiderio estemporaneo di fornire
la spiegazione di una voce a partire da
un’assonanza o da una casuale affinità.
Nel Piccolo dizionario etimologico ligure
che ho pubblicato di recente mi sono
appunto “divertito”, e non poco, a ricostruire rigorosamente la storia di quattrocento termini condivisi dal genovese
e dal savonese e dall’insieme dei dialetti
liguri: una scelta molto parziale, in attesa di proporre un lavoro più completo,
e concepita essenzialmente allo scopo di
soddisfare le “curiosità” ricorrenti del
pubblico.
Sfruttando la documentazione antica, il
confronto tra lingue diverse i criteri della
fonetica e della semantica, è stato possibile scoprire, ad esempio, che anciöa è la
parola ligure più diffusa nel mondo, o
Nomi e Cognomi
Pianta di Orazio Grassi, inizio del XVII secolo, Torretta e Sperone
testimone che si chiama Iohannes
Maximinus, siamo in presenza di
un cognome o della provenienza
da Massimino, nella familiare alta
valle Tanaro?
Ovviamente, alla prima occhiata,
quelli che colpiscono di più sono
i nomi che sembrano curiosità, anche se non sempre lo furono. Nel
nostro Cumano sono una infinità e
ne vorrei passare in rassegna alcu-
ni, in ordine alfabetico.
Se non capiamo a prima vista Abrilogio - ma ci sembra familiare - la
sua variante latina Aperioculum, ci
porta già nel pieno sviluppo della
nostra lingua locale savonese con
oculum latino che si alterna con il
locale ogio, ben aperto in entrambi
gli atti del 1179 e del 1185. Mestiere o che altro quello del signor Arnaldus Driçacolumpna, per cui vale
la stessa osservazione sulla lingua
comune? Donne diverse: Bella, Bellissima, Bellincontrum e Bellaflora,
quest’ultima con un cognome che
avrà forse tentato di occultare (Bavosa), o di cui sarà stata orgogliosa,
date le numerose proprietà del padre, cui era stato imposto un nome
che ora utilizziamo solo al femminile (Ido).
Tralasciamo tutti i nomi augura-
Divertirsi con l’etimologia
Fiorenzo Toso
in un ritratto
di Mino Parodi
che ciæabella fu inventato nel Cinquecento dai poeti per celebrare la bellezza luminosa delle loro dame, visto che la parola originaria per ‘lucciola’ (scorlussoa)
era diventata sinonimo di ‘prostituta’; o
ancora, che l’abbæn della Liguria non ha
nulla a che fare con l’abbaino italiano, e
che bricòccalo, nel Seicento, era criticato
come si fa adesso con le tante parole inglesi che penetrano in in italiano.
E c’è stata persino la possibilità, per gli
appassionati di esoterismo, di scoprire
attraverso la storia dell’innocuo grilletto
da cucina, che in qualche paese della Liguria l’insalatiera ha lo stesso nome del
santo Graal...
Insomma, la vera sorpresa consiste forse
nel fatto che le etimologie attendibili e solidamente motivate sono spesso più interessanti, curiose e affascinanti di quelle
più fantasiose ed improbabili, una circostanza questa che non riguarda soltanto
i termini dell’uso comune, ma anche (e
spesso soprattutto) la toponomastica.
Prendiamo il caso, ad esempio, delle leggende legate al nome di Savona.
È ancora frequente trovare in città persone assolutamente convinte che esso derivi
da savon o viceversa che il nome del sapone derivi da quello della città, una circostanza che collide evidentemente con la
storia e con il buon senso: da un lato, perché il sapone fu introdotto in Europa solo
tardivamente, in età medievale, quando
la città esisteva ormai da secoli col proprio nome, e dall’altro perché è assodato
che il termine sapone, savon, sabón risale a
una voce germanica o celtica passata poi
in latino, con la quale si indicava originariamente una miscela di sego e di cenere
usata per tingere i capelli.
L’unico dato di fatto è che Tito Livio, ri-
ferendosi alle Guerre puniche, cita l’Oppidum Savonae come centro di una tribù
ligure alpina alleata ai Cartaginesi, stanziata anche nei vicini Vada (scali, approdi) della popolazione dei Sabates. Tutto
ciò sembra ricondurre (dico “sembra”,
perché a quest’altezza cronologica siamo
nel campo delle illazioni) a una radice
prelatina *sab- / *sav- il cui significato
resta incerto: il linguista G.B. Pellegrini
la collega a un termine indoeuropeo che
sarebbe alla base anche del nome del fiume Sava e della voce germanica che significa ‘umore’, ma rimaniamo appunto
nel campo delle ipotesi.
Tutto ciò dimostra che i nomi di luogo
sono spesso di origine remota perché
tendono a rimanere stabili nel tempo:
d’altro canto, pur di spiegarne un significato ormai divenuto del tutto opaco, il
ricorso ad assonanze (come nel caso di Savona) o a casuali affinità con voci di varia
provenienza cela spesso anche intenti di
“nobilitazione”: tempo fa mi ero occupato
del nome di Alassio, ad esempio, fatto dai
più risalire ad una non meglio identificata “principessa Adelasia”, per scoprire
che molto probabilmente era invece da
connettere col nome locale della ginestra
(arascia, arastra) peraltro ereditato dalla
lingua degli antichi Liguri preromani.
Un’altra “leggenda etimologica” strampalata che si collega in qualche modo
a Savona è contemplata nel mio Piccolo
dizionario etimologico: la parola ligure per
‘crepacuore, dispiacere, afflizione’ detiene anzi, probabilmente, il record dell’etimologia più astrusa che sia mai stata
perpetrata nei confronti di una parola.
Come è noto, nel 205 a.C. il condottiero
cartaginese Magone, fratello di Annibale, sempre nell’ambito delle Guerre pu-
niche collocò a Savona la propria base
navale, tra gli alleati Liguri ponentini, e
da lì partì con la sua flotta alla volta di
Genova, confederata a Roma, che sottopose a rigorosa distruzione.
A partire da questo episodio storico,
qualche erudito locale, probabilmente
nell’Ottocento, ha immaginato che il termine moderno magon sia da associare al
funesto evento verificatosi nel 205 a.C.,
e che i Genovesi abbiano conservato in
tal modo l’esecrando ricordo del loro
carnefice.
Si tratterebbe di un caso quanto meno
insolito di memoria storica in una città
che nel 1886, meno di quarant’anni dopo
il rovinoso bombardamento della città
ordinato da Vittorio Emanuele II, non si
peritò di dedicare al cosiddetto “re galantuomo” una statua equestre in una
delle sue piazze più belle!
In realtà il termine, diffuso in gran parte dell’Italia settentrionale, è un senso
figurato della voce magone ‘gozzo, ventriglio’ e anche ‘stomaco’, presente anche
in italiano e in diversi dialetti settentrionali e derivante dal germanico *mago:
così come per stomacarsi, così, anche
ammagonâse significa a sua volta ‘provare disgusto, dispiacere’, ed è opportuno
notare come in genovese la prima attestazione della voce (e del verbo derivato)
compaia ben 1950 anni dopo l’impresa
dello scellerato cartaginese, nel 1755.
Spesso proprio la datazione di una voce
ci offre notizie importanti per ricostruirne la storia: così è per un termine che
in Liguria è stato inopinatamente assunto, soprattutto negli ultimi tempi, come
vero e proprio “feticcio” linguistico, e del
quale sembra che non si possa più fare
a meno quando si deve fare riferimento
alla nostra lingua regionale: è vero che lo
si trova spesso “sulla bocca” dei Liguri,
ma a me è sempre sembrato un po’ misero basare sull’uso ripetuto di bellin la
rivendicazione della nostra ben più complessa originalità linguistica.
Ora, questo termine non compare in genovese prima del 1894, e proprio a Savona spetta il “primato” della prima attestazione (negli anni Quaranta dell’Ottocento) del suo derivato abellinou: si dirà
che la letteratura antica non registrava
volentieri questo tipo di voci, ma in realtà, spulciando nei testi dal medioevo in
poi le parolacce liguri si ritrovano quasi
tutte, segno abbastanza evidente che se
è proprio questa a mancare, la sua introduzione non può essere antica: forse anteriore all’Ottocento, questo sì, ma non
di molto.
li in cui l’augurio si spreca generosamente (Benincasa, Bensevega,
ecc…); ancora nelle varianti della
lingua locale savonese: Buccapiçena e/o Buccapicenina. Ricordava
Mario Stellatelli, storico della fotografia, che un suo antico collega
savonese esponeva una pubblicità
dove si vantava di ritoccare le immagini per fare “la bocca piccola”,
particolare estetico prezioso di un
tempo gozzaniano. La splendida
attrice Virna Lisi millantava di sorbire il brodo con un cucchiaino da
caffè.
La risata facile arriva con Cagalardo, Cagalittera e Cagamodium anche
se forse non vogliono sempre dire
quanto immaginiamo. Soçopelo,
Stancaiudicem e Strundebecco suonano altrettanto bene di Testadura,
Testanova e Tetarel, a volte già cognomi in quegli anni e, ad alfabeto
finito, sono tantissimi i nomi tralasciati da riprendere in ricerche
sistematiche.
Furio Ciciliot
Furio Ciciliot, laureato con
lode in lettere classiche e
storico medievista, si interessa principalmente di
archeologia e storia navale; ha pubblicato oltre un
centinaio di articoli specialistici in riviste scientifiche e in atti dei principali convegni specialistici
internazionali oltre ad una
decina di monografie, é
stato presidente della Società Savonese di Storia Patria e attualmente dirige
il Progetto Toponomastica
Storica.
Per spiegarne l’origine si fa spesso e volentieri ricorso a questa o quella divinità antica (dal celtico Belenos al semitico
Beel), ma l’attestazione tardiva, associata a considerazioni di altra natura (ad
esempio il fatto che nei dialetti liguri la
-l- tra vocali prima passa a -r- e poi cade,
come in colin > coin) lascia intravedere
una storia più prosaica: anche la derivazione da un senso figurato di belo / bela
‘budello’ non pare praticabile per motivi
fonetici.
E allora? Allora bisogna fare riferimento,
con ogni probabilità, ai dialetti dell’Italia settentrionale dove, nel linguaggio
infantile lombardo ed emiliano, si usava il diminutivo dell’aggettivo bello col
valore di “giocattolo, trastullo, divertimento”: non a caso, un uso metaforico di
bellin si ritrova ad Asti nel Cinquecento,
dove un poeta locale, in una commedia,
parla di una signora che prende in mano
proprio “un giocattolo (bellin) con due
sonagli attaccati”…
Anche se in Liguria il valore di “giocattolo” è andato smarrito, pare altamente
probabile che da un utilizzo allusivo di
questo termine settentrionale si debba
far derivare il significato di quella che a
torto o a ragione qualcuno ha definito la
parola “più amata” dai liguri.
Divertirsi con l’etimologia? Gli esempi ricordati sembrano dimostrare che si può,
purché non ci si lasci prendere la mano,
in modo che il divertimento consista non
nell’“inventare” etimologie estruse, ma
nel proporne di sensate in base all’applicazione di un opportuno metodo di ricerca. Forse è un divertimento per pochi,
ma i risultati di esso, se proposti in maniera non troppo paludata e con un po’
di ironia, possono diventare patrimonio
comune e contribuire, oltre che a soddisfare qualche curiosità, a stimolare la
riflessione e far acquisire una coscienza
nuova sull’importanza e il valore culturale delle lingue che parliamo.
Fiorenzo Toso
Fiorenzo Toso (Arenzano, 1962)
è professore di linguistica generale all’Università di Sassari.
Esperto tra l’altro di dialettologia ligure, ha dedicato a questo
tema numerose pubblicazioni,
tra le quali il recentissimo Piccolo dizionario etimologico ligure, Edizioni Zona, Lavagna, 2015,
al quale sono ispirati gli appunti qui presentati. Per lo stesso
editore e nello stesso anno ha
pubblicato anche una raccolta
di poesie in genovese, E restan
forme. Versci 1981-1990.
P
er i vecchi savonesi, vissuti ancora in tempo di guerra, S. Giacomo
voleva dire “caserme” e relative
frotte di rumorosi ragazzotti in divisa
che la sera scorazzavano giù per l’omonima discesa sciamando per i vicoli, in
cerca dei pochi svaghi gastronomici e
amorosi che la città poteva offrire.
In realtà camerate e dormitori erano
alloggiati anche nella quattrocentesca
chiesa medievale di San Giacomo Apostolo, stravolta da brutali interventi costruttivi, un tempo centro artistico tra i
più importanti della Liguria, collocata
sulla collina sovrastante il porto.
Come si è arrivati a questo scempio è
difficile dirlo; cominciò sicuramente
con Napoleone, questo piccolo geniale
arrogante corso che derubò l’Italia di
innumerevoli capolavori d’arte di ogni
genere.
I durissimi contrasti tra lui e la chiesa
cattolica si trascinarono per anni e finirono proprio a Savona, dove l’Imperatore trattenne a lungo prigioniero Papa
Pio VII Chiaramonti. La cancellazione
di molti ordini monastici, lo smantellamento di conventi e chiese, l’assegnazione al demanio di beni dei monasteri
soppressi non furono che l’inizio.
Questa chiesa è ancor oggi strutturalmente presente dove era nata, ma ridotta a un ammasso di pareti fatiscenti.
Era stata eretta nel 1471 dai frati francescani, mendicanti e zoccolanti, secondo
severi principi di povertà e semplicità,
ma ben presto fu ambìto luogo di sepoltura delle famiglie nobili più ricche
e dei possidenti locali ai quali vennero
assegnate le dieci cappelle che affiancano l’unica navata centrale. Papa Sisto IV
della Rovere aveva a cuore chiesa e convento annesso e fece costruire il ponte
tuttora esistente che collega il complesso alla città.
Per abbellire la propria cappella, ciascuna famiglia non badò a spese ricorrendo
all’intervento dei più grandi artisti del
momento.
Fortunatamente non tutto è andato perduto. Nella Pinacoteca di Savona e nel
Museo del Tesoro della Cattedrale restano alcune opere meravigliose, un tempo
in San Giacomo.
La splendida chiesetta fu spogliata di
tutti suoi tesori e abbandonata fino ai
giorni nostri agli usi più sordidi, tra l’indifferenza generale dei cittadini e delle
autorità. A metà del 1800, con ogni probabilità la struttura portante e la copertura erano ancora integre.
Nel refettorio c’era un affresco, da qualcuno attribuito al Brea, che rappresentava la crocifissione e che un bravissimo
decoratore, aiutante di Jacques Boselli,
copiò con quest’appunto sottostante,
evidentemente aggiunto in un secondo
tempo:
“Disegno dell’affresco del refettorio di SanGiacomo, venuto giù per disgrazia e per
danno della città, la quale nell’ età presente
soffre ingiurie di continuo dai vandali forestierie dai vandali del paese. Savona, addì 16
aprile 1863, Tommaso Torteroli.”
E’ lo stesso personaggio che scrive anche della Pala con San Francesco orante
con il Crocifisso di G.B.Casoni (1616)
nella cappella della famiglia Girinzana
in san Giacomo“venduta per un torsolo di
cavolo”.
Due commenti chiarificatori su come i
cittadini dell’epoca fossero interessati
alla salvaguardia dei loro tesori d’arte.
Nelle ricerche fatte per la stesura del
volumetto citato in calce, cercammo di
rintracciare tutte le opere scomparse; ci
riuscimmo solo per le tre che vengono
pubblicate a colori con questo articolo,
immagini ricuperate a fatica che generazioni di savonesi non videro mai.
Tutte e tre furono rubate dalle truppe
napoleoniche con molte altre per finire
a Parigi.
Al Louvre era stato anche portato il polittico dell’Assunta del Brea posto nella
cappella dei Chiabrera, fortunatamente
SAN GIACOMO:
i valori si apprezzano
una volta perduti
9
Visitazione di Maria ad Elisabetta, probabile scuola del Perugino.
ricuperato e ora al Museo della Cattedrale, mutilato della parte superiore.
Stessa sorte ha avuto il Polittico delle nozze mistiche di S. Caterina
(cm191x175) di Tuccio d’Andria, tornato
mutilato, ora nel Museo del Tesoro della Cattedrale, un tempo nella seconda
cappella lato sinistro, dedicata a S. Bonaventura, di proprietà della famiglia
Raimondi.
Collocato sull’altare della terza cappella
sul lato sinistro di proprietà della famiglia Sacco era il meraviglioso trittico di
Giovanni Mazone (1453-1510) “Noli me
tangere”.
Dal 1876 è conservato al Musée des
Beaux-arts et de la Dentelle di Alençon
(Normandia-Francia) proveniente dal
Louvre.
Ha una base di cm 201,5 per un’altezza
di cm 215,8, quindi misure imponenti,
immaginandolo dietro l’altare delle piccole cappelle francescane, mediamente
di m 3,50 x 3,30. Il dipinto rappresenta
il noto episodio evangelico ed è molto
raffinato nei colori e nei dettagli. A fianco del Cristo sono quattro monaci ed
in alto tre formelle con la Crocifissione
e l’Annunciazione; il tutto è contenuto
in una delicata cornice in foglia d’oro
zecchino, goloso argomento per i trafugatori.
Non osiamo pensare alla barbarie del
lungo viaggio di questi capolavori, in
tempi in cui il solo mezzo di trasporto
erano traballanti carri tirati da cavalli
per strade impercorribili: inaccettabili
ma comprensibili le mutilazioni.
Non è stato così facile ricuperare l’immagine del secondo dipinto oggi al Louvre
e quanto inviatoci non è riproduzione
di altissima qualità. Si tratta della Genealogia della Vergine, nota anche come
Genealogia di Gesù, un insieme affollato di personaggi ai quali solo un esperto
potrebbe attribuire l’identità corretta.
Al centro l’iscrizione LAURENTIUS
PAPIEN SIS FECIT MDXIII.
È un olio su tela di cm 202 x 144 di Lorenzo Fasolo il Pavese ed era posto nella
seconda cappella sul lato destro, di proprietà della famiglia dei marchesi Multedo che vi erano sepolti. Al Louvre è così
ipocritamente classificata: ”Opera prelevata e importata nel 1812 recail nome “La famille de la Vierge” e reca il numero di inventario
Inv.302. La tela è firmata e datata 1513”.
Lorenzo Fasolo, Genealogia della Vergine (1513)
G. Venturino: ricostruzione della quattrocentesca chiesa di San Giacomo Apostolo.
Giovanni Mazone (1453-1510),
Noli me tangere.
Nella cappella della Visitazione, terza
sul lato destro, di proprietà della famiglia Salineri D’Oria, era posta la pala
della “Visitazione di Maria ad Elisabetta”, un grande olio su tavola di cm 249 x
207 di altissima qualità pittorica.
Pare abbia inspiegabilmente peregrinato dal Louvre alla Gran Bretagna e si
trova oggi nel Museo di Wiesbaden in
Germania.
Anche qui una riproduzione più accurata permetterebbe di leggerne meglio
i dettagli; non conosciamo l’attribuzio-
ne che viene data oggi all’opera, ma
non avremmo dubbi ad assegnarla alla
scuola del Perugino.
La perfezione e la cura nei dettagli dei
personaggi, la delicatezza dei colori, i
sapienti contrasti delle ombre, il meraviglioso sfondo paesaggistico, ne fanno
un quadro spettacolare. Ne esiste una
modesta copia di grandi dimensioni
nella chiesa di San Giovanni Battista
di Vado Ligure, pare proveniente dalla
Chiesa della Visitazione di Porto Vado,
della quale ci è stato impossibile esaminare da vicino la qualità e raccogliere
notizie in merito più approfondite.
Abbiamo sempre sostenuto che, con le
possibilità tecniche oggi disponibili per
ottenere immagini digitali d’alta qualità
a basso costo, Savona dovrebbe avere
un museo con le riproduzioni d’arte che
le competono; prime fra tutte quelle di
San Giacomo e quelle scenografiche dei
due Papi cittadini.
Museo modernissimo che incrementerebbe finalmente il turismo, unica linfa
vitale per il futuro, in modo concreto.
Purtroppo le aspirazioni dei cittadini
che contano sono rivolte ad argomenti
certamente più banali, ma socialmente
più vantaggiosi.
Gianni Venturino
Per chi fosse interessato alla ricostruzione del San Giacomo può richiedere alla
Grafiche F.lli Spirito di Cosseria (SV) il
volumetto usato come strenna natalizia
2010 dal titolo “La chiesa Fantasma”.
GIANNI VENTURINO
Tecnico pubblicitario, designer, art
director e autore di campagne pubblicitarie internazionali.
Negli anni 50 dirige l’ufficio pubblicità della Crippa e Berger di Milano e realizza con la Gamma film i
primissimi Caroselli. Dal 60 al 68 è
Art Director della Clan spa, agenzia di pubblicità full service, e lavora ad alcune delle più importanti
campagne, tra cui quelle per l ‘Italia
Navigazione e per la RAI.
Apre poi in proprio lo Studio Pentagono dove crea immagini passate
alla storia della pubblicità e studiate come «case history» alla Bocconi. La specializzazione nello studio
delle confezioni viene citata nei
grandi annuari internazionali. Docente di estetica della comunicazione all’ ISFORP, scuola superiore di
Public Relation, progetta una lunga
serie di manifesti parte dei quali
oggi al Museo Bertarelli del Castello Sforzesco di Milano.
Giacomo Bove (Maranzana, Alessandria, 23 aprile 1852- Verona, 9
agosto 1887) è uno dei più grandi
esploratori italiani: cuore avventuroso, lupo dei mari tempestosi,
prese parte nel 1878, come rappresentante dell’Italia, alla spedizione
polare della Vega al comando di
Nordenskjöld. Nel 1880, tornato in
patria, pensò di organizzare a sua
volta una spedizione polare, senza
trovare gli aiuti economici necessari. Nel 1881 il governo argentino gli
affidò il comando del veliero Cabo
de Hornos per esplorare l’Isola degli
Stati e i canali Magdalena e Beagle.
Si recò poi nella regione di Missiones con lo scopo di fondare una
colonia. Ripartì, sempre su incarico
del governo argentino, per la Terra
del Fuoco dove raccolse importanti
notizie e collezioni scientifiche. Rientrato in Italia, il Ministero degli
Esteri lo inviò in Congo Belga e di
questa ultima esperienza, che segnò
la sua vita fino alla tragica decisione
del suicidio, parla Francesco Surdich nel saggio pubblicato in questo
numero. Ulteriori notizie su Bove
si leggono in S. Zavatti, Dizionario
degli esploratori, Milano, Feltrinelli,
1967; utilissima è inoltre la visita
alla Casa Museo Bove a Maranzana
(responsabile Maria Teresa Scarrone
Feltrinelli).
Silvia Bottaro
A
10
lla fine del 1884 i delegati delle principali potenze
europee e degli Stati Uniti,
riuniti a Berlino, affrontarono, fra i
tanti, anche il problema della libertà
di commercio nel bacino del Congo
e alle sue foci, nonché l’estensione
al Congo e al Niger dei princìpi stabiliti dal Congresso di Vienna a proposito della libertà di navigazione
dei cosiddetti “fiumi internazionali”, aprendo la strada all’espansione
europea nel cuore del continente
africano. In questo contesto pure il
governo italiano programmò una
missione ufficiale incaricata di accertare e valutare le potenzialità
di sfruttamento economico della
zona costiera del Congo e di verificare quali punti ancora liberi in
quell’area avrebbero potuto essere
adatti ad una eventuale colonizzazione organizzata.
Affidato in un primo momento ad
Antonio Cecchi (1849-1896), questo incarico venne poi espletato dal
tenente di vascello Giacomo Bove
(1852-1887), che aveva già al suo
attivo la partecipazione fra il 1878 e
il 1879, in qualità di idrografo, alla
spedizione della “Vega” che, al comando di Adolf Erik Nordenskiöld,
partendo dalla Svezia avrebbe raggiunto l’Oceano Pacifico attraverso
il Mare di Siberia per risolvere il
problema del passaggio di Nord-Est
che dal nord dell’Europa e dell’Asia
portasse al Pacifico attraverso il
Mare Artico; e, fra il dicembre 1880
e il gennaio 1884, a tre spedizioni
nell’America meridionale: la prima
nella parte meridionale della Patagonia, nell’Isola degli Stati e nella
Terra del Fuoco; la seconda nel territorio argentino delle Missioni (il
territorio compreso tra l’Iguassù e la
grande cascata del Guayra); la terza
nuovamente nella Terra del Fuoco e
nello Stretto di Magellano.
Dopo essersi recato in Belgio e in
Gran Bretagna, Bove partì da Liverpool il 2 dicembre 1885 assieme
al capitano di artiglieria Giuseppe
Fabrello, inviato della Società Geografica Italiana che aveva elargito
Il fiume Lualaba, risalito da Bove.
La missione
in Congo di
Giacomo Bove
Ritratto di Giacomo Bove
Il porto di Matadi,
raggiunto da Bove
durante la sua spedizione
in Congo.
un contributo per la spedizione, ed
al biologo e naturalista Enrico Stassano, emissario dei ministeri della
Pubblica Istruzione e dell’Agricoltura, finanziato dal Banco di Napoli.
I tre, giunti a Banana, uno scalo portuale situato alle foci del Congo, il
17 dicembre, risalirono il fiume fino
a Matadi, dove rimasero per tutta la
stagione delle piogge, compiendo
osservazioni di carattere geografico
e commerciale nel basso Congo. Ripartiti da Matadi il 3 giugno, risalirono il Congo prima fino a Léopoldville, raggiunta il 5 luglio, e poi fino
alle cascate di Stanley, quasi fino ai
confini dello Stato del Congo, dove
arrivarono attorno alla metà di agosto e dove Stassano abbandonò la
spedizione a causa di una malattia.
Rientrato in Italia nell’autunno di
quello stesso anno, in un rapporto
consegnato al Ministero degli Affari Esteri (Relazione intorno al Congo,
Genova, 1887) a proposito di un
progetto di emigrazione italiana
verso il neonato Stato indipendente del Congo avrebbe sostenuto che
“non dico il consigliarla, ma il solo
permetterla” gli sembrava “un delitto”, come peraltro aveva già fatto
nei resoconti inviati nel corso della
spedizione, limitandosi a suggerire
che “i nostri commercianti potrebbero offrire prodotti, purché questi
siano migliori ed a più buon mercato di quelli esistenti, alle case centrali europee delle fattorie stabilite
nella costa d’Africa” (p. 42).
Ma al di là delle informazioni, che
sono prevalenti dato lo scopo della
sua missione, fornite da Bove sugli
aspetti economici dei territori visitati, la Relazione, pur nella sua brevità,
attraverso una scrittura che procede
in modo estremamente sintetico,
mediante un lessico semplificato e
ripetitivo finalizzato ad una mera
registrazione dei fatti più degni di
nota, è rivolta anche alle caratteristiche della strada percorsa, in alcuni casi anche con annotazioni circostanziate, come, ad esempio, quelle
sviluppate sulla morfologia della
foce del Congo durante la sosta della spedizione a Boma:
Il porto di Banana (Congo) in una immagine del 1887. Bove vi arrivò il 17 dicembre 1885.
“Boma – annota nella sua Relazione – è poco più che a mezza via tra
Banana e Vivi. Quivi il Congo, che
dopo Punta di Legna si era allargato
o diviso in numerosi e ampi canali,
si restringe di bel nuovo e comincia
ad avvallarsi tra due ben distinte serie di colline e montagne. Tuttavia,
dinanzi a Boma, il fiume ha ancora
4.500 metri di larghezza, divisi tra
due canali, tra cui sta la pittoresca
isola di N’Kete” (p. 30).
Particolare attenzione venne riservata alle difficoltà ed ai pericoli
che il viaggio comportava (sentieri
scoscesi ai quali corrispondevano
pericolose discese, stazioni di sosta
sporche, scarsità di acqua pulita,
presenza di insetti, ecc.). In questo
contesto il paesaggio appariva di
una monotonia disarmante, tanto
che la semplice presenza di alberi o
di palme diventava un fatto significativo e il suo colore era generalmente grigio giallastro, con chiazze
rossastre di terreno e radi ciuffi di
vegetazione verde scuri sparsi qua
e là.
Così Bove descrive infatti le caratteristiche del territorio da lui percorso
fra Matadi e Lucungu in una lettera
inviata il 15 giugno 1886 da Lucungu alla Società Geografica Italiana:
“Strada più monotona, più sprovvista di vita, non si potrebbe trovare,
che dico? Neppure immaginare!
Nulla viene a rallegrare lo stanco
viaggiatore, nulla a rinvigorirlo.
Orizzonti limitatissimi, gialle colline e poi colline gialle, valli profonde e melanconiche, fiumi e torrenti
incassati fra alte e difficili sponde,
sentieri che s’inerpicano sul dorso
di nude e rocciose montagne, alcuni ciuffi d’alberi e su tutto ciò sole,
sole e sole. Nei tratti dove il piedi
si sentirebbe più fermo e la marcia
potrebbe essere più spedita, non è
che una successione di erbe, tanto
alte che si cammina come entro un
angusto e lungo tunnel. E’ una disperazione!”
Tutti elementi questi che, con modalità narrative ben più pregnanti
e coinvolgenti, sarebbero ritornati
frequentemente nella descrizione
del suo itinerario attraverso il Congo realizzato pochi anni dopo dal
capitano Konrad Korzeniowski,
un giovane dipendente della Marina mercantile britannica diventato
celeberrimo con lo pseudonimo di
Joseph Conrad, che ci seppe restituire in maniera magistrale il senso
straniante e stravolgente, per chi a
diversi livelli e in ruoli diversi ne fu
protagonista, di queste esperienze:
“Risalire quel fiume – avrebbe
scritto nel suo Cuore di tenebre – era
come viaggiare all’indietro verso
i più lontani primordi del mondo,
quando la vegetazione tumultuava
sulla terra e i grandi alberi erano
sovrani. Un corso d’acqua deserto,
un silenzio immane, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa,
greve, inerte. Nessuna gioia nello
splendore del sole. I lunghi tratti di
quella via navigabile continuavano
a scorrere, deserti, entro l’oscurità
di lontananze cariche d’ombra […].
E questa muta immobilità di vita
non somigliava affatto alla pace.
Era il mutismo di una forza implacabile, che covava un’intenzione
imperscrutabile. Ti guardava con
aria vendicativa”.
L’idea di Africa appare sia in Conrad che in Bove un concetto complesso: per loro, come per i tantissimi altri viaggiatori che penetrarono al suo interno nella seconda
metà dell’Ottocento, l’Africa non
fu solo un paese, un luogo; ma fu
soprattutto un’idea, un modo di
essere, una malattia (“mal d’Africa”), tutti elementi che coesistono e
si intrecciano negli scritti di Bove e
di Conrad con esiti, naturalmente,
diversi, ma con un fondo sostanzialmente comune, derivante dalla
loro appartenenza al mondo dei
colonizzatori.
Francesco Surdich
Francesco Surdich dall’anno
accademico 1970/71 ha insegnato Storia delle esplorazioni
e scoperte geografiche presso la
Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, dove dal 2008 al
2010 ha ricoperto anche la carica
di Preside. Ha al suo attivo oltre
duecentocinquanta contributi
scientifici apparsi sulle principali riviste storiche e geografiche e in atti di convegni nazionali ed internazionali, nonché
diversi volumi, tra cui Momenti e
problemi di storia delle esplorazioni
(1975); Fonti sulla penetrazione europea in Asia (1976); Verso il Nuovo Mondo. L’immaginario europeo
e la scoperta dell’America (2002);
La via della seta. Missionari, mercanti e viaggiatori europei in Asia
nel Medioevo (2008); La via delle
spezie. La Carreira da India portoghese e la Cina (2009); Verso i mari
del Sud. L’esplorazione del pacifico
centrale e meridionale da Magellano a Malaspina (2015).. Nel 1975
ha fondato la Collana “Studi di
storia delle esplorazioni”, che
tuttora dirige e nell’ambito della
quale cura ogni anno la pubblicazione del periodico Miscellanea di Storia delle esplorazioni.
P
io VII nacque a Cesena il 14 agosto
1742. Decimo degli undici figli di
Scipione Chiaramonti e Giovanna
Coronata Ghini, fu battezzato il giorno
successivo, festa dell’Assunzione di
Maria Vergine, così come attesta il
registro conservato presso la Cattedrale,
ricevendo i nomi di Barnaba Nicolò Maria
Luigi. Sono pertanto del tutto arbitrarie
sia la data di nascita del 1740, riportata
in diverse opere, sia il nome di Luigi
Barnaba. Il nome di Gregorio, fu assunto
solo quando il futuro pontefice entrò a
far parte del cenobio benedettino presso
l’Abbazia di Santa Maria del Monte a
Cesena. Il fatto di essere stato battezzato
in Duomo, così com’era avvenuto per
i suoi antenati, e per di più nel giorno
della festa più amata dai cesenati, spiega
la devozione sempre provata da Pio VII
per l’immagine venerata della Madonna
del Popolo.
La famiglia del papa
La madre di Pio VII Giovanna Coronata
nacque il 10 novembre 1713. Figlia del
marchese Barnaba Eufrasio Ghini e di
Isabella de’conti Aguselli, apparteneva
ad una delle più importanti famiglie di
Cesena, ancorché originaria di Siena.
Essendo più che carina, non è da stupirsi
se si sposò molto giovane – anche per
l’epoca –- a soli diciassette anni, il 23
dicembre 1730, portando in dote al
marito un podere di dodici ettari che
contribuì, e non poco, a rialzare il reddito
assai magro dell’illustre consorte. I loro
bambini, anche se non tutti sopravvivono
a lungo, nascono uno dopo l’altro come le
perle di un rosario...ben undici!
Rimasta vedova nel 1750, Giovanna
deve trovare una sistemazione a una
prole ancora numerosa e in parte molto
giovane. Il 19 aprile 1761 rinuncia ad
ogni eredità a favore dei figli e pone “ I
Nobil Pupilli” sotto la tutela di Francesco
Almerici, che appartiene ad una delle più
antiche famiglie cesenati. Il primogenito
Giacinto entra nella Compagnia di Gesù
e il secondogenito Tommaso eredita
così la responsabilità della famiglia.
Ottavia viene presa sotto l’ala dell’amica
- e parente, per via dei Ghini - Olimpia
Braschi, superiora presso le Celibate
di Rimini; Barnaba entra nel 1756, a 14
anni, fra i Benedettini di Santa Maria del
Monte 1 e, infine, il piccolo Gregorio nello
stesso anno fa il suo ingresso nel Collegio
dei Nobili di Ravenna.
Giovanna, sistemati tutti i figli, non
senza aver predetto a Barnaba la futura
elezione al soglio pontificio – predizione
che fu preceduta da un severo rimbrotto
perché il piccolo non si comportava
bene in chiesa – può infine realizzare la
sua segreta aspirazione: prendere il velo
entrando fra le Carmelitane Scalze dove
assume il nome di Suor Teresa Diletta
di Gesù e Maria. L’ accoglie nel 1762 il
Carmelo di Fano, da dove non cessa di
seguire l’educazione dei figli.
Dopo essere stata d’esempio a tutti, muore
in concetto di santità il 22 novembre
1777. Le sue ceneri riposano dal 1890
nel nuovo monastero alla periferia di
Fano (quello antico, fu prima soppresso,
riaperto, poi trasformato in caserma ed
infine demolito nel 1958) dove la pietà
delle consorelle così la ricorda:
TERESA DI GESÙ E MARIA / MONACA
CARMELITANA SCALZA / NEL SECOLO
/ GIOVANNA CONTESSA GHINI
CHIARAMONTI DI CESENA / MADRE
DELL’AUGUSTO PONTEFICE PIO VII /
SANTAMENTE MORTA L’ANNO 1777 /
NEL 64.MO DELL’ETÀ SUA.
Amatissima dai figli, è così ricordata nel
1786 dal primogenito Giacinto nel suo
poemetto De Maiorum Suorum Laudibus
dedicato al fratello, all’epoca cardinale e
vescovo d’Imola:
O semper memoranda parens! O carmine
nostro / Non umquam laudata satis! Me
respice clemens, / Exutumque tibi mortali
corpore iunge: / Sit, precor, haec merces,
nostrorum haec meta laborum. 2
Pio VII, appena divenuto papa, tre giorni
dopo essere sbarcato a Pesaro dalla
fregata austriaca La Bellona che proveniva
da Venezia dove era stato eletto, si trovava
già a Fano per visitare il convento. Erano
presenti due fratelli e una sorella e nessuno
riusciva a trattenere le lacrime.
Periodico dell’Associazione Culturale e
del Paesaggio
“Renzo Aiolfi” no profit, Savona
Direzione e redazione:
via P. Boselli 6/3 17100-Savona
Anno III – Numero 5 - Maggio 2016
Registrazione presso
il Tribunale di Savona 1/2014
La famiglia di Pio VII
e il suo trionfale
ritorno a Cesena
Effigie della Serva di Dio Suor Teresa
diletta di Gesù Maria Carmelitana
Scalza, madre del Regnante Sommo
Pontefice Pio VII. Al secolo contessa
Giovanna Ghini, vedova del conte Scipione Chiaramonti di Cesena.
Francesco Manno (Palermo 1752 –
Roma 1831) Ritratto allegorico di
Pio VII Chiaramonti al governo
del timone della Chiesa, e dei suoi
antenati dell’ordine dei cappuccini.
I fratelli del Papa
Giacinto Ignazio, il maggiore, nacque
a Cesena il 19 Settembre 1731 e morì il
7 giugno 1805. Entrato a far parte della
Compagnia di Gesù nei Collegi di Reggio
Emilia, Guastalla e Carpi, la lasciò nel
1762 di sua iniziativa (ipso petente et
propter melanchoniam)3 e ottenne dal
vescovo di Cesena la carica di arcidiacono
della Cattedrale. Fu uomo dottissimo
particolarmente nella lingua latina e scrisse
il già ricordato poemetto De Majorum
suorum laudibus in onore della famiglia.
Tommaso, da cui discende il ramo attuale
dei Chiaramonti, nacque a Cesena il 19
Dicembre 1732. Nel 1769 si sposò con
Marianna Aldini da cui ebbe cinque
femmine e quattro maschi. Morì l’8
dicembre 1799 e riposa in Sant’Agostino
dove fu traslato dal chiostro di San
Francesco, a seguito della soppressione
delle Congregazioni religiose, il 6 Febbraio
1808.
Ottavia nacque a Cesena il 1 giugno
1738. Entrata presso il Ritiro delle Celibate
a Rimini , per la cerimonia della sua
vestizione ricevette dalla madre “ scudi
107 e baiocchi 6 “ che servirono per
acquistare, fra l’altro, una libbra di caffè,
24 libbre di cioccolata oltre a 6 capponi e
6 piccioni “Per Regalo ai Padri ed al Signor
Sindico”. 4. Tornò in seguito in famiglia
senza prendere i voti. Morì a Cesena il 7
maggio 1814 e fu sepolta nella chiesa di
Sant’ Agostino, in un arca fatta costruire
appositamente. Maggiore di Pio VII di
soli quattro anni, fu quella dei fratelli che
rimase con lui in maggior comunione di
spirito.
L’ultimogenito Gregorio, nacque a Cesena
nel 1746. Ammesso, all’età di 10 anni, al
Collegio dei Nobili di Ravenna, iniziò a
prepararsi per una carriera religiosa che
poi abbandonò di sua spontanea volontà.
Divenne infatti Cavaliere di Malta 5
e, in seguito, Cavaliere di Gran Croce
Direttore responsabile:
Silvio Riolfo Marengo
Comitato di redazione:
Mario Accatino, Silvia Bottaro,
Giuseppe Milazzo, Sonia Pedalino
dell’Ordine di Carlo III di Spagna. Prese
dimora a Bologna dove morì il 5 aprile
1828. Non risulta che si sia mai sposato.
Dei fratelli, fu quello che maggiormente
chiese sussidi al Papa, il quale, tuttavia,
più che di denari fu prodigo con lui di
china e tabacco di Spagna!
Il rientro di Pio VII a Cesena
Nel 1814, dopo la battaglia di Lipsia,
Napoleone decise di far rientrare in
Italia il papa tenuto a lungo prigioniero
a Savona e a Fontainebleau. Pio VII prese
la via del ritorno che subito si trasformò
in un trionfo: di città in città fra folle
inginocchiate, archi trionfali fatti erigere ad
ogni ingresso e popolo in lacrime, giunse
infine a Imola, che aveva tanto amato e che
lo aveva visto vescovo durante i lunghi
anni di occupazione francese. Poiché non
si decideva a lasciare la città, dove rimase
dal 2 al 15 aprile, la sorella Ottavia gli fece
sapere che stava per morire e che se non si
risolveva a recarsi a Cesena, non l’avrebbe
più rivista in vita. Pio VII le rispose di
attendere perché non sarebbe passata a
miglior vita senza averlo prima incontrato.
E così, infatti, avvenne: il papa, giunto
a Cesena, ebbe modo di intrattenersi in
lunghi colloqui con la sorella che, fra
l’altro, gli chiese di riedificare la chiesa
di Santa Cristina. Infine, si accomiatò dai
suoi e, rivoltosi alla sorella, le disse: “Io
parto per Roma e tu per il Cielo”. Ottavia,
ubbidiente al volere di Dio e preavvertita
dal Suo vicario, morì nel momento preciso
in cui la carrozza del papa varcava Porta
Santi per imboccare l’Emilia in direzione
di Roma. La sensazionale predizione
non mancò di lasciar traccia fino ad esser
riportata nella cappella di casa che al
contempo ricorda il battesimo di Beatrice,
figlia di Scipione e di Teresa Barberini.
Entrato a Cesena il 20 aprile, dopo un
solenne Te Deum in Cattedrale, Pio
VII si installa per diciassette giorni nel
palazzo acquistato sette anni prima. Per
riceverlo si provvede a coprire tutti gli
specchi, quattro torcieri vengono posti
nello scalone e nell’androne a seconda del
bisogno. Il piano nobile viene illuminato
a torce, il primo piano e i mezzanini a
lampioncini, così come le finestre del
cortile e quelle che guardano sul lato di via
Sacchi (all’epoca “Trova di Mezzo”). La
camera allestita per lui prenderà da quel
giorno in famiglia il nome di “Camera
del Papa”. Non si tratta in alcun modo di
una camera adatta a un uomo di chiesa.
Anzi: sul soffitto dell’alcova c’è tutto
un intrecciarsi di nodi d’amore, frecce,
donzelle appena fasciate di morbidi veli,
colombe tubanti e quant’altro la fantasia
di un timido erotismo settecentesco
avesse potuto provvedere a una camera
da sposi. Tuttavia, Pio VII doveva essere
sicuramente molto stanco e, reduce degli
appartamenti di Fontainebleau, aveva
visto senz’altro di peggio: lì, infatti, quante
caminiere riportano le H di Enrico II di
Francia intrecciate con le mezzelune della
sua amante Diane de Poitiers!
Sopra il letto, ad ogni buon conto, viene
posto un “Padiglione, ad uso de’ Vescovi di
color bianco. Crocefisso in faccia al letto – ed
altro più piccolo sopra il letto – Scrittojo con
suo tappeto – Crocifisso per lo scrittojo”. Di
troni se ne fanno due, uno – probabilmente
– nel Salotto Rosso e un “Trono a tre gradini
con Poltrona” viene posto in quello che oggi
è detto Salotto Veneziano: “Si copriranno
tutti gli specchi. Il quadro rappresentante la
Famiglia de’ Santi di Casa si metterà sopra lo
specchio in faccia al Camino – Sul tavolino un
Crocifisso grande – Sul Camino L’Orologio Non ci sarà alcun mobile . Tappeto che cuopra
tutto il Piancito della Camera”.5
Il 24, festa della Madonna del Popolo, il
papa rimane a casa raffreddato. Dispone,
comunque, che il Pontificale venga
celebrato dal suo Elemosiniere monsignor
Bertazzoli, arcivescovo titolare di Edessa.
Assistono i vescovi di Cervia, Sarsina,
Forlì e Rimini.
Il 1 maggio, sentendosi meglio, Pio VII
sale al Monte dove incorona la Vergine. Al
ritorno benedice la folla dal Municipio. Il
5 maggio esce da casa per la seconda volta
per celebrare la messa in Duomo all’altare
della Madonna del Popolo. Nel frattempo,
battezza la piccola pronipote Maria
Beatrice, figlia di Scipione e Teresa, nella
cappella di casa. Compie anche miracoli:
un fanciullo cieco venuto da Urbino
ritrova la vista e un fanciullo idropico di
Cesena viene guarito. Pochi giorni prima,
a Ravenna, aveva risanato un paralitico da
diversi anni in tale condizione. Partito da
Cesena il 7, il 24 maggio entra in Roma,
mentre Napoleone sbarca all’isola d’Elba.
Così come Innocenzo XI Odescalchi, dopo
la vittoria sui Turchi, aveva chiamato
Maria “Regina delle Vittorie” e, prima di
lui, san Pio V, dopo la battaglia di Lepanto,
aveva fatto inserire nelle Litanie Lauretane
l’invocazione alla Vergine quale Auxilium
Christianorum, Pio VII, nel concistoro del 26
settembre 1814, istituisce la festa di Maria
Ausiliatrice da celebrarsi ogni anno il 24
maggio, giorno del suo ritorno a Roma.
Memore poi della richiesta della
Pigmenti Cultura
Hanno collaborato a questo numero
M. Almerighi, S. Bottaro, F. Ciciliot,
G. d’Ottaviano Chiaramonti, G. Milazzo,
M. Novaro, S. Pedalino, S. Riolfo Marengo,
C. Salvago Raggi, F. Surdich,
F. Toso, G. Venturino.
Revisione generale dei testi
Silvio Riolfo Marengo.
Del contenuto e delle opinioni espressi
negli articoli pubblicati sono responsabili
i singoli Autori che hanno anche fornito
le immagini illustrative.
Stampato e distribuito gratuitamente
in 2000 copie.
Stampa:
Coop Tipograf, Savona
sorella, affida l’incarico di progettare
la riedificazione della Chiesa di Santa
Cristina a Giuseppe Valadier che ne
spedisce i disegni a Cesena6. Al fine di
seguire i lavori e l’amministrazione dei
fondi occorrenti, viene costituita una
deputazione, a capo della quale è nominato
Scipione Chiaramonti. Il denaro mandato
da Roma si rivela presto insufficiente
e Scipione si trova a combattere, da un
lato per sollecitare ulteriori erogazioni
da Roma, dall’altro perché il progetto di
Valadier non venga stravolto a favore
di una soluzione più economica. Come
Dio volle, tutto si risolse per il meglio,
con l’unica variante rispetto al disegno
originario consistente nella copertura
della cupola, realizzata in lastre di rame
di forma rettangolare anziché a forma di
scaglia di pesce.
Gregorio d’Ottaviano Chiaramonti
NOTE
1.”Confesso io sottoscritto d’aver ricevuto dal Nobil
Sig.e Fran. Almerici tutore dei Nobili Viri Conti
Chiaramonti scudi ventisei e mezzo per servirsene
nel atto della vestizione del Nobil Sig .e Conte
Barnaba Chiaramonti nel Convento delli Monici di
S. Maria del Monte. In Fede mi dico Dom.co Lughi
Agente di d.a Nobil Casa Chiaramonti aff.o”. ACC.
( Archivio Chiaramonti Cesena).
2 O madre sempre degna di ricordo/ O tu
mai a sufficienza lodata/ dalla nostra poesia!/
Rivolgi a me lo sguardo clemente e, / quando
mi sarò spogliato/di questo corpo mortale/
congiungimi a te. / Sia questo, ti prego, il
premio, / questa la meta dei nostri travagli.
(Traduzione di G. Maroni)
3 Archivi della curia generalizia della Società di
Gesù, Catalogo della Provincia Veneta.
4 ACC
5. Nota delle cose preparate in Casa Chiaramonti
per un decoroso ricevimento del S.Padre Papa
Pio VII. 1814-Marzo. ACC
6 I disegni originali di Valadier sono conservati
in parte in ACC, in parte presso il palazzo
episcopale di Cesena.
Il conte Gregorio d’Ottaviano
Chiaramonti, nato a Firenze nel
1950, dimora in Francia dal 1952
al 1955 (prima a Parigi e poi a St.
Gérmain en Laye dove il padre
rappresenta la Marina Italiana allo
S.H.A.P.E) e in seguito a Roma,
Firenze e Venezia. Laureato in
Scienze Politiche a Firenze, svolge
funzioni direttive dal 1976 al 1984
al Centro Leasing SpA e dal 1985 al
2010, in Findomestic Banca.
È stato, fra l’altro, presidente del
Consiglio d’Amministrazione e
membro del Comitato Esecutivo di
ASSOFIN - Associazione Italiana
Credito al Consumo e Immobiliare –
Milano, Presidente di EUROFINAS
(European Federation of Finance
Houses Associations) - Bruxelles.
È Cavaliere Ufficiale dell’Ordine
dei SS. Maurizio e Lazzaro e capo
di Guardia Nobile della Venerabile
Arciconfraternita della Misericordia
di Firenze.
L’Ufficio dell’Associazione “Aiolfi”
è sito
in Via P. Boselli 6/3 – Savona
aperto mercoledì ore 10-12
e giovedì ore 16-18
e-mail: [email protected]
http://aiolfiassociazione.blogspot.it
11
Alassio, 26 giugno 1931.
A
rrivare in un luogo di villeggiatura qualche giorno prima
che si inizi la stagione è imbarazzante come giungere dieci minuti prima dell’ora fissata in una casa
dove si è invitati a pranzo. Anche
gli oleandri della stazione di Alassio
ti hanno guardato con meraviglia,
te che sei giunto con un anticipo di
quattro o cinque giorni, viaggiatore
indiscreto e frettoloso che vuoi “scoprire l’estate”. Come hai fatto a non
avvederti che la messa in scena del
paese delle vacanze è pronta, ma lo
spettacolo non è ancora incominciato? Sarebbe bastato che tu avessi
guardato dal finestrino, prima di
scendere. La piccola frotta di viaggiatori che è scesa con te è tutta gente
del luogo, che i facchini non degnano neppure di uno sguardo. C’è, in
stazione, una quiete di idillio, il tran
- tran di tutti i giorni. Una lindura,
una grazia, un profumo che, se ci
fossero dei capistazione in gonnella,
riconosceresti la mano di una attenta e gentile padrona di casa. Questa
non è una stazione: è la villetta di
un appassionato coltivatore di fiori.
Come mai egli permette il passaggio
di questi ospiti invadenti che sono i
treni? Dovrebbero, se mai, passare
soltanto treni nuziali, con carrozze alcova, da essere accolti con lancio di
fiori: treni con locomotiva a confetti.
12
Un personaggio fuori stagione
Come hai fatto a credere che questa
sia una stazione da paese di bagni?
Tu che viaggi, sei bene abituato a
riconoscerle, quando non vi puoi
scendere. Invece- hai visto? - nessuno è aspettato con questo treno.
Niente ragazze dal passo ardito, dai
vestitini leggeri, brune per il sole e
ridenti; niente bambini coi sandali
e il berretto da marinaio americano,
pronti a lanciarsi incontro al “caro
papà”, niente giovanotti in canottiera bianca e nude braccia bronzee
timbrate coi generosi bolli del vaccino, niente signore senza cappello,
coi polpacci nudi e gli abiti a vivaci
colori. Niente corse lungo i vagoni,
in cerca del caro cugino, delle carissime amiche. Niente possibilità, per
chi scende, di dire a chi gli viene incontro: “ Come sei diventato nero”.
Niente gai strilli , niente fresche risatine, niente gelati in vendita sul
piazzale e gioioso schioccar di fruste
dei vetturini oltre il cancello: niente
di tutto quanto, in altri momenti, fa
morire di invidia i poveri viaggiatori che, con tanto di giacca e di colletto, devono proseguire per ignota
destinazione lasciando un pezzetto
di cuore in ciascuno di questi paesi
dove il treno si ferma soltanto per
farti soffrire, cari paesi affacciati al
mare, dove vive la felice razza della gente in maglietta e in maniche
di camicia, lieti paesi che sanno di
caramelle dissetanti, di vermut, di
piccoli amori, di banda comunale
in piazza, di tranquilli dormiveglia
al riparo degli ombrelloni, giocondi
paesi dove la domenica dura sessanta giorni…
Non ti sei accorto di nulla. Non ti ha
messo in allarme la quiete della stazione, il placido silenzio delle vie, il
pacifico trottarello del cavallo, l’aria
assonnata del portiere d’albergo.
Hai voluto sfoderare i pantaloni
bianchi, la canottiera, le scarpe da
tennis , diventar tutto bianco, color
gesso. Sei sceso difilato alla spiaggia, hai guardato il mare che veniva
a stendere ai tuoi piedi un tappeto
azzurro ricamato d’argento, hai respirato a pieni polmoni, hai pensato
che la vita è bella, e soltanto dopo
tutto questo ti sei reso conto che anche il paese delle vacanze ha i suoi
orari e le sue giornate inaugurali,
e ti sei accorto di essere solo, trasformato in un personaggio fuori
stagione, “ l’uomo bianco”, il Pierrot da spiaggia che entra in scena il
primo luglio e non prima .e al quale
guardavano oggi con curiosità i rari
Eleganza sulla spiaggia di Alassio (1910), da L’estate di
Alassio, a cura di D. Astengo e A. Carossino, 2005.
Manifesto di Filippo Romani (1929).
pionieri delle bagnature, silenziosi
e dimessi, nascosti qua e là dietro
le barche dei pescatori, pattuglia di
punta dei dodicimila bagnati che
invaderanno Alassio tra qualche
giorno.
Queste sabbie, come si vede, sono
veramente sabbie d’oro, per i cittadini di Alassio. Il calendario è tutto prenotato. Tutte le stagioni sono
buone per chiamar gente a vivere
nel sole del golfo tra Capo Mele e
Capo Santa Croce. Si cerca soltanto
un impiego più redditizio dell’autunno, tanto per dar ragione a quello storico locale che calandosi sotto
lo pseudonimo abbastanza oscuro
di “Un uomo” ha scritto la entusiastica guida del paese e , constatando
che ad Alassio non si sente la differenza tra una stagione e l’altra, assicura che per questa riva incantata la
natura ha creato una quinta stagione che cumula in sé l’autunno, l’inverno e la primavera e che si chiama
con un nome piuttosto difficile da
masticare, la “autinvera”.
Giorno verrà, non dubitate, che
anche l’autunno ad Alassio sarà di
moda, e farà spasimar le fanciulle
torinesi e milanesi, Questa popolazione che un tempo viveva con il
frutto degli uliveti e della pesca, ha
imparato a trasformare in carte da
mille l’azzurro del cielo e del mare,
prodigiosa e naturale officina di
carte valori. Il primo alleato l’hanno avuto in Garibaldi, scopritore di
Alassio quand’era già vecchio e tremulo. Venne qui, il grande vegliardo, nell’ottanta e nell’ottantuno.
Alassio aveva ancora le sue cinta
di mura, le sue torri marine, le sue
porte di ferro. Il mare serviva per
pescare, la spiaggia per stendervi le
reti. La sua temperatura, anche allora, era mite come oggi, la più mite ,
si assicura, di tutta la Riviera, Costa
azzurra compresa: ma nessuno ci
faceva caso. L’”autinvera” non era
stata ancora scoperta. Ad arricchire
coi forestieri non ci pensava nessuno. Si tentavano piuttosto, imprese
rischiose , come la pesca del corallo
a Capo Mele, o si emigrava per le
tonnare di Sardegna o di Tunisia.
La stazione era senza fiori, sparuta,
e non ci scendeva nessuno. Un cattivo raccolto di ulive voleva dire la
miseria per tutti.
Garibaldi era vecchio, e nelle sue
vecchie membra generose e affaticate lavorava l’artrite. Venne qui,
nell’inverno dell’ottanta, a prendere un po’ di sole; e ci tornò nell’ottantuno. Abitava quella che allora
si chiamava la Villa Gotica, isolata
sulla spiaggia di levante, tra un folto di pini. Dove il glorioso condottiero, la sera, sotto gli alberi sognava la sua giovinezza battagliera e le
sue stelle di marinaio, oggi, meno
eroicamente, sotto gli stessi pini e
di fronte alle stesse stelle, in un piccolo dancing elegante sospirano le
coppie che “ fanno la vita”. La mattina, la poltrona del generale veniva
portata sulla spiaggia, e, a debita distanza, quelli che oggi sono i vecchi
di Alassio e allora erano i bambini
che giocavano sulla rena, potevano
vedere, al sole, i capelli d’argento
della lunga chioma del condottiero,
la bianca barba, la berretta ricamata,
il gesto tardo delle sue mani anchi-
Pagine ritrovate
Vigilia di Alassio.
La domenica di
sessanta giorni
losate. Ogni tanto, di quella immobilità il canuto eroe non ne poteva
più. Qualche pescatore accorreva
dalle vicine case. Rimboccavano i
pantaloni, prendevano in braccio la
poltrona e il Generale, entravano in
acqua e issavano il triste carico su
un canotto. Poi, coi remi, si spingevano fino all’isola Gallinara, dove
il Generale consumava una frugale
colazione, una frittata involta in un
pezzo di carta, un mela, un sorso
d’acqua.
Da Cenerentola a Reginetta
Alla stazione scendevano i garibaldini che avevano saputo della presenza del condottiero in Liguria:
Alassio era più vicina di Caprera
ed era il luogo più comodo per poter ancora avvicinare il Generale.
Prendevano alloggio in una piccola locanda, percorrevano a piedi la
via del mare, suonavano al cancello
della Villa Gotica. Ripartivano con
le lagrime agli occhi, ma con anche,
in un angolo del cuore, la memoria
della quieta spiaggia , del dolce clima. Anche i garibaldini, ormai, avevano preso moglie, avevan figli, eran
padri di famiglia. Tornando, la sera
sotto il lume parlavano del Generale
e del piccolo paese color di rosa dove
passava il dicembre. Il marito parlava di battaglie, la moglie pensava al
tepore di Alassio, dove la primavera
sopravviveva in pieno inverno. Garibaldi, con la mano stanca, scriveva al
sindaco del paese, prima di partire,
l’elogio del “ clima benefico della interessantissima spiaggia di Liguria”,
l’elogio per la “cordiale e generosa
ospitalità”…
La fortuna di Alassio era fatta. Gli inglesi venivano a rinsaldarla. I primi
olivi vennero sradicati per far posto
alle prime ville, le prime barche di
pescatori vennero noleggiate per le
gite, i primi bambini bravi venne-
ro portati, in premio, alla spiaggia,
la prima Vittoria, Maria Vittoria di
Spagna, venne a darle l’impronta
della regalità. Era ancora un paesotto dove non si pagava tassa di
soggiorno. Un musicista, Amilcare
Ponchielli, vi prese in affitto, nell’ottantacinque, una cameretta in vista
del mare. Gli inglesi vi impiantarono il primo campo da tennis e il primo club, la biblioteca circolante e la
chiesa. Alassio sentì passare sui suoi
tetti e sulle sue terrazze il venticello
della prossima ricchezza. Volle aver
le sue carte in regola. Cercò, nella
storia i suoi titoli nobiliari che facevano piacere ai piemontesi e trovò,
nella leggenda, la lontana presenza,
sulle sue rive, di Aleramo e di Adelasia. Trovò, nella storia anche i titoli
che facevano piacere ai milanesi: e
scovò che le sue origini si dovevano
alla sosta, nel 568, di una colonna di
milanesi fuggiti innanzi all’invasione di Alboino. Si ricordò che anche
Napoleone era stato ad Alassio e
che, anzi, c’era ancora il letto dove
aveva dormito. Si amministrò con
saggezza, abbatté le mura, allargò le
vie, piantò filari di palme, consacrò
l’inverno alla colonia permanente
dei duemila inglesi, la primavera i
tedeschi, l’estate agli italiani. Consacrò l’autunno, da buona figlia di
Genova, a fare i conti. E vide che,
ogni anno, i conti tornavano.
Visse così facendosi sempre più bella, amministrando la propria civetteria, mettendo in bilancio l’arte della seduzione. Era spettinata e si pettinò. Era rustica e si incivilì. Ora si
parla, addirittura, di demolire tutte
le vecchie case lungo il mare, le bicocche dei pescatori, gli archi dove
si annidano le barche, le terrazze
dove la vite si arrampica. E questo
forse è troppo. Ora comincia l’invidia per Viareggio, per San Remo,
per Rapallo. Alassio, brava ragazza
marinara, si è fatta signorina. Vuol
essere la perla della Riviera. Era la
Cenerentola, vuol diventare la Reginetta agghindata e preziosa.
Alassio, gaia divetta
Adesso si aggiusta i ricci, in un intervallo tra le due rappresentazioni.
La sala è vuota, per qualche ora, ma
già si fa “porta”. La spiaggia è vuota, ma operosa come un cantiere. E’
l’ultima ora, buona per i verniciatori, i falegnami, gli imbianchini e
gli apparatori. Gli uomini vestiti di
bianco sono inviatati a girare al largo, per poche ore. Vernice verde per
le cabine, vernici di tutti i colori per
le barche, tele a grandi righe per le
sedie a sdraio e gli ombrelloni. Da
tutte le parti si cuce, si taglia, si dipinge. I fattorini degli alberghi, davanti alla stazione, provan la voce.
Le radio, ahimè, fan le prove nelle
piazzette ancora deserte. I treni scaricano le vettovaglie per il grande
esercito affamato di divertimenti
e di piccole golosità: vagoni di biscotti, di vini bianchi, di liquori,
di antipasti assortiti. Il commesso
viaggiatore in abat-jours e in lampioncini alla veneziana non sa più
dove mettere le ultime commissioni. I cartolai controllano i pacchi
delle nuove tirature di cartoline
illustrate. I negozi di mode, dietro
le tendine calate, preparano le vetrine degli affascinanti pigiama, degli
aderentissimi costumini, delle cuffiette per le birichine dai quindici
ai quarantacinque anni. L’annaffiatrice stradale si prepara alla gran
sortita per il 30 giugno e un omino
paziente stura con un ago tutti i forellini arrugginiti.
Mi pare che il direttore di scena giri
già tra le quinte e ammonisca: “ Chi
non è di scena, fuori!”. Lo spettacolo sia per incominciare. Alassio,
gaia divetta delle spiagge, aspirante
al ruolo di “vedetta” nella grande
revue balneare, viene, in punta di
piedi, a guardare per il buco del sipario. La folla dei bagnanti è pronta? Tutte le comparse sono a posto?
Le girls anche? E allora, maestro
Sole, si può cominciare la prima
rappresentazione. Le sessanta repliche sono assicurate.
Orio Vergani
Orio Vergani (Milano 1889 – 1960),
autore di romanzi e opere teatrali,
era noto soprattutto per la sua infaticabile produzione giornalistica.
Livio Garzanti mi raccontava che
era in grado di scrivere contemporaneamente due articoli di taglio
opposto: lasciava a metà la frase
di uno per dedicarsi all’altro e , subito dopo, riprendeva il primo da
dove lo aveva interrotto senza bisogno di rileggere una riga. Dalle
corrispondenze di viaggio passava
alla critica letteraria e alle cronache sportive con la stessa facilità
e felicità di scrittura. Ne è prova
questa pagina su Alassio, apparsa
il 26 giugno 1931 sul «Corriere della Sera» che ripubblichiamo come
godibile testimonianza di costume
ed esempio di “bello stile” di fronte a tanta sciatteria e insipienza di
oggi. (SRM)
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