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Sandro Pertini: la politica delle mani pulite
Pigmenti Periodico dell’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit di Savona Direttore Responsabile: Silvio Riolfo Marengo - Numero 5 • Maggio 2016 • Anno III • Copia omaggio Editoriale Q uale voce culturale dell’associazione Aiolfi, che conta stabilmente oltre 600 iscritti, la nostra rivista si è posta, da sempre, l’obiettivo di diversificare gli argomenti proposti all’attenzione dei lettori. Pur mantenendo costante l’interesse per l’arte, la storia e la tutela ambientale si sono così approfonditi, via via, temi sempre più articolati. Nuova, in questo numero, è la rubrica, che avrà cadenza fissa, “Pagine ritrovate”: riproposizione di testi esemplari per impedire che cada definitivamente l’oblio su persone, luoghi, avvenimenti nei quali si rispecchiano le nostre radici e valgono, forse, a comprendere meglio il presente. Con questo spirito va riletto un articolo di Orio Vergani apparso sul « Corriere della Sera» il 26 giugno 1931, che ripercorre con garbo e ironia le tappe della vocazione turistica di Alassio. Sempre sul «Corriere della Sera», ma trent’anni prima, il 5 agosto 1900 erano comparse due tavole di Achille Beltrame, sull’uccisione a Monza di Umberto I e la rivolta dei Boxer a Pechino che, pour cause, ha commentato per noi Camilla Salvago Raggi una delle più raffinate scrittrici italiane. Altro significativo affondo sulla storia economica e culturale della nostra regione è l’articolo su « La riviera Ligure», il primo house-organ italiano diventato una delle più importanti riviste d’arte e di letteratura del nostro paese tra Otto e Novecento sotto la direzione di Mario Novaro, come ricorda sua nipote Maria Novaro che dell’omonima Fondazione è presidente. Dell’ultima tragica spedizione geografica in Congo di Giacomo Bove rende conto il contributo di Francesco Surdich, professore di storia delle esplorazioni geografiche all’ateneo genovese, mentre alla storia politica e sociale italiana rimandano gli interventi di Giuseppe Milazzo sulla presenza a Savona di Arcangelo Ghisleri, personalità poliedrica della cultura italiana tra Ottocento e Novecento, e quello su Sandro Pertini di Mario Almerighi che, pretore a Genova nel 1974, aveva dato avvio all’inchiesta sullo scandalo petrolifero poi condotta insieme ai colleghi Carlo Brusco e Adriano Sansa. Alle consuete interviste ( di Sonia Pedalino alla campionessa di nuoto Erica Musso, vincitrice del Premio Alluto 2016, e di Silvia Bottaro a Elisa De Padova, assessore alla cultura del Comune di Savona) si affiancano, e sono anche questi due temi nuovi per i lettori di Pigmenti, una rassegna di curiosità etimologiche dovuta a Fiorenzo Toso, docente di linguistica generale all’università di Sassari, e un contributo di Furio Ciciliot, direttore di un ampio programma di toponomastica storica, sui primi cognomi registrati a Savona nel Medioevo. Gianni Venturino, designer e autore di campagne pubblicitarie internazionali, si occupa poi dello splendore, del degrado e delle spoliazioni della chiesa di san Giacomo eretta a Savona durante il pontificato di Sisto IV, facendosi anche promotore di una modernissima proposta museale. Sulla famiglia di un altro pontefice, Pio VII, che a Savona subì anni di prigionia, si sofferma il contributo di un suo discendente, Gregorio d’Ottaviano Chiaramonti. Infine ancora Silvia Bottaro richiama l’ attenzione sul recupero di un bene raro e significativo come il globo terracqueo di Giovanni Antonj, restaurato a cura dell’Associazione Aiolfi, che rappresenta lo stato del mondo nel 1851 corredato da curiose e interessanti annotazioni calligrafiche, che documentiamo attraverso alcune splendide fotografie di Gibi Peluffo. Un’ultima considerazione sulla redazione dei testi, sollecitati ma, più spesso, inviati spontaneamente da amici ed estimatori della rivista, che, pur degni di interesse, non sono informati a regole comuni: da qui controlli, aggiustamenti e correzioni, di cui – anche ricordando quella “forza del cestino” consistente nel documentarsi, scrivere, rileggere, sfrondare e riscrivere postulata da Giovanni Arpino come condizione per raggiungere la chiarezza espressiva- mi sono assunto fino ad oggi la responsabilità. Per ovviare a questo inconveniente, vengono proposte, anche se in maniera semplificata, le norme di uniformazione più comuni nel mondo editoriale. Da oggi, inoltre, ogni contributo viene corredato da una notizia biografica dell’autore. Silvio Riolfo Marengo Sandro Pertini: la politica delle mani pulite Sandro Pertini, Silvio Riolfo Marengo, Umberto Scardaoni sindaco di Savona, e la scultrice Renata Cuneo, al Quirinale (1983) È l’inizio dell’inverno del 1973. Gli ospedali, le scuole, gli uffici pubblici e privati, le abitazioni di mezza Italia sono privi di riscaldamento. Un inverno durissimo, le pompe di benzina vuote, le case e gli ospedali senza riscaldamento, le auto in garage. La situazione, insomma, è drammatica e i mass-media attribuiscono tutte le colpe agli sceicchi del petrolio. Forse solo allora, all’improvviso, mi resi conto di quanto il nostro sistema economico, la nostra qualità della vita, dipendano dal petrolio e dai petrolieri e di quanto sia capace la disinformazione. Per andare in tribunale devo percorrere un notevole tratto di Mario Novaro in un ritratto degli anni ‘20 M ario Novaro (Diano Marina, 1868 - Nava, 1944) dopo gli studi liceali trascorre un primo semestre di università a Berlino (1889), quindi, negli anni accademici 1889-90 e 1890-91, è a Vienna, da dove torna a Berlino per laurearsi in filosofia nel luglio 1893 con una tesi su Malebranche. Nel 1895 consegue la laurea anche all’Università lungomare. In lontananza, ogni giorno scorgo delle navi ormeggiate al largo, nel tratto di mare prospiciente la lanterna. Qualche giornale scrive che si tratta di petroliere che non possono scaricare perché i depositi della raffineria di Riccardo Garrone sono strapieni. Lungo il mio tragitto giornaliero noto che effettivamente quelle navi hanno la linea di galleggiamento sotto l’acqua del mare. Per saperne di più decido di sottoporre a intercettazione telefonica alcune utenze degli uffici della Garrone spa. Da alcune telefonate emerge che i depositi petroliferi della società genovese di Riccardo Garrone sono “a tappo”. La guerra del Kippur è il velenoso boccone propinato al popolo italiano – con la compiacenza dei mass-media – per nascondere il vero obbiettivo che è quello dell’aumento del prezzo della benzina e di tutti gli altri prodotti petroliferi. Questo integra in pieno il reato di aggiotaggio: sottrarre al mercato il prodotto per farne aumentare il prezzo. Decido di proseguire e intensificare le indagini. Mi precipito a Roma con al seguito 60 finanzieri e sottopongo a perquisizione tutti gli uffici centrali delle multinazionali e delle compagnie petrolifere italiane. Torno a Genova con un camion pieno di documenti. Leggi e decreti predisposti dai petrolieri e pagati con tangenti miliardarie ai partiti di Governo pari al 5% dei profitti ricavati dall’applicazione di quelle leggi e di quei decreti. Chiedo e ottengo dal pretore dirigente di essere affiancato da altri due colleghi. segue a pagina 2 Tra industria e letteratura: Mario Novaro di Torino. Nel frattempo escono un’interessante Lettera a Simirenko (1890), dedicata a un compagno di università, La teoria della causalità in Malebranche (1893), Il partito socialista in Germania (1894) erroneamente attribuito al fratello Angiolo Silvio, Il concetto di infinito e il problema cosmologico (1895). Tornato ad Oneglia, Mario Novaro diventa assessore comunale per il giovane partito socialista e, dopo un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si inserisce con i fratelli nell’industria olearia di famiglia. Questa attività non gli impedisce però di continuare a coltivare interessi letterari e culturali, anzi, assunta la direzione della rivista dell’azienda di famiglia, la trasforma completamente facendo sì che «La Riviera Ligure» (1899-1919) rappresenti un eccezionale prototipo di Panorama di Oneglia in una cartolina della serie “La Riviera ligure illustrata”, dono ai clienti della Ditta Sasso per l’anno 1900 house-organ a livello europeo, dove per la prima volta la promozione industriale si coniuga con la letteratura, la poesia, l’arte. Per completare la bibliografia di Mario Novaro, si ricorda la raccolta di poesie Murmuri ed echi (1912, poi rielaborata in cinque successive edizioni e oggetto di una recente “edizione critica”; le edizioni, curate e tradotte, dei Pensieri metafisici di Malebranche (1910 e 1932) e di Acque d’autunno, dall’opera del filosofo cinese Ciuang-zé (1922). Nel 1935 Novaro pubblica anche, in piccola edizione numerata, Alcuni scritti e lettere […] e pensieri da lui raccolti dell’amatissisegue a pagina 2 dalla prima pagina: Sandro Pertini: la politica delle mani pulite 2 Faccio i nomi di Carlo Brusco e Adriano Sansa, secondo me, i migliori magistrati della pretura di Genova. Data la gravità dei reati e delle persone coinvolte ai più alti livelli istituzionali ci preoccupiamo dei riflessi politici delle indagini. E’ Adriano Sansa che ha l’idea di contattare Sandro Pertini. La Sua storia è una garanzia per la democrazia del Paese. E poi, Pertini all’epoca è il Presidente della Camera, l’Autorità alla quale saranno destinati, per legge, gli atti concernenti le responsabilità dei cinque ministri coinvolti. Chiediamo ed otteniamo un appuntamento. L’appuntamento è per le nove del mattino del 9 febbraio 74 in via dell’Impresa n.1: ci sarà qualcuno ad attenderci. Usciamo dall’ascensore, che dà direttamente all’interno di una stanza e lì ci viene incontro il Presidente della Camera. Ci sorride. Dietro gli occhiali, i Suoi occhi lampeggiano una vitalità impressionante e, insieme, una dolcezza infinita. Dopo aver fatto un cenno di saluto con la testa, Pertini porta il dito indice della mano destra a fianco del naso e, sottovoce, ci dice: “Non parlate, state in silenzio e seguitemi”. Dopo aver percorso dietro di lui in discesa una lunghissima scala a chiocciola, Pertini si ferma dinanzi ad una porticina, gira la maniglia e ci fa accomodare attorno ad un tavolino rotondo, sul quale è sistemato un telo di velluto verde del tipo di quelli dei tavoli da gioco. Le pareti della stanza sono occupate da una serie di lavatrici. Si tratta chiaramente di un locale adibito a lavanderia. “Finalmente qui possiamo parlare anche a voce alta: dovete sapere che questo palazzo è pieno di micro-spie. La democrazia della nostra Italia sta attraversando un momento delicatissimo. Corriamo il rischio che si realizzi qualche colpo di Stato che ci farebbe ripiombare nella barbarie del ventennio. Comunque, ditemi, ditemi, quali sono le ragioni per cui mi avete chiesto questo incontro?”. Nell’accendersi la pipa, ci scruta con uno sguardo penetrante come volesse studiarci. Seguono imbarazzanti attimi di silenzio. “Signor Presidente – esordisco, con la voce roca dall’emozione – abbiamo avvertito il bisogno di incontrarLa perché stiamo per trasmettere a Lei, nella Sua qualità di Presidente della Camera dei deputati, documenti relativi a reati che potrebbero coinvolgere non solo parlamentari, ma anche alcuni Ministri.”. “Ma la cosa più grave – aggiunge Adriano Sansa – è che dalle carte sequestrate risulta l’esistenza di un collaudato sistema di corruzione del Parlamento…” “…e che questo sistema – conclude Carlo Brusco – passa attraverso dazioni di denaro che coinvolgono i partiti che sostengono attualmente il Governo”. “Ma chi di voi tre è sceso a Roma con al seguito 60 finanzieri ed ha osato violare i templi delle compagnie petrolifere nazionali e internazionali? Ma voi, così giovani, avete idea di quale sia il potere delle sette sorelle?”. In un primo momento penso che Pertini mi stia rimproverando. Il tono delle sue parole è piuttosto burbero. Subito dopo, mi rendo conto che di rimprovero non si tratta bensì di paterna preoccupazione e di disponibilità a capire il perché di quel compor- tamento. Il silenzio si taglia a fette e le mie mani cominciano a sudare. I due colleghi mi guardano anch’essi imbarazzati, invitandomi con lo sguardo a dire qualcosa. Io taccio anche perché Pertini è intento a riaccendersi la pipa che si è appena spenta. “Sono stato io, Signor Presidente…ma sa, dopo aver rinvenuto questo documento a casa di un petroliere genovese …vede…qui c’è scritto che i petrolieri hanno versato ai partiti di governo una serie di tangenti corrispondenti al 5% dei vantaggi loro derivanti dall’approvazione delle leggi approvate, ammontanti a circa 200 miliardi…una volta in possesso di questo documento ho avvertito il dovere di andare alla ricerca dei riscontri …così a Roma ho trovato anche questo…”. Nel dire le ultime parole metto nelle Sue mani un pacco di assegni. Sono gli assegni relativi al pagamento delle varie tangenti incassati per il tramite di nomi di fantasia dalle segreterie della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista, del P.S.D.I. e del P.R.I. Pertini ci ascolta in silenzio e poi passa a leggere alcune delle carte che avevamo portato con noi in copia. Si sofferma nell’osservare a lungo alcuni degli assegni. Poggia la cartella che gli avevamo consegnato sul tavolino e, per alcuni secondi che sembrano un’eternità, non dice nulla. Questa volta è Lui che ha la voce roca dall’emozione. “Vedo che tra i partiti che hanno ricevuto denaro c’è anche il Partito Socialista Italiano …”. A quel punto, Pertini interrompe la frase, si toglie gli occhiali e si asciuga due lacrime che lentamente gli scorrono sul viso da sotto gli occhiali. “Questo mi addolora in particolare …, ma tutta la vicenda mi addolora e mi fa soffrire …” Più parla e più i sentimenti di dolore e sofferenza che aveva espresso con le parole e con l’espressione dei suoi occhi, cedono spazio a sentimenti reattivi, quasi di rabbia, che ancora una volta vengono espressi, oltre che dal tono della voce, dal suo sguardo che diventa, però, sempre più imperioso. Dopo una pausa, che sembra non finire mai, prosegue. “Ma la forza della democrazia, siete anche voi. Dovete andare avanti. Continuate a fare il vostro dovere. Coraggio. Io starò al vostro fianco, così come nel corso della mia vita sono sem- pre stato a fianco dei valori della democrazia e della legalità. Questa democrazia l’abbiamo conquistata col sangue e la galera. Non possiamo correre il rischio di perdere la libertà per colpa di chi la usa per rubare”. Alzatosi in piedi, Pertini ci abbraccia uno per uno: “Ragazzi, voi siete giovani, avete il dovere di prendere delle precauzioni a tutela della sicurezza delle vostre persone, mi raccomando!” Ci allontaniamo da via dell’Impresa, raggianti di felicità. L’indomani Sandro Pertini dichiara alla stampa: “La morale è una scienza morta se la politica non cospira con lei. La democrazia si difende, si sostiene e si rafforza con una grande tensione morale; la corruzione è nemica della democrazia e offende la coscienza del cittadino onesto. Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza solidarietà di amicizia o di partito. Questa solidarietà sarebbe vera complicità: la politica deve essere fatta con le mani pulite”. Dopo qualche anno incontrai nuovamente Pertini che come presidente della Repubblica era anche presidente del Consiglio superiore della Magistratura, organo nel quale io ero stato eletto. A fine seduta era solito chiamarmi prendermi sottobraccio e passeggiare con me intorno all’emiciclo della sala consigliare. In una di queste occasioni mi disse: “Coraggio, voi giovani dovete avere coraggio … i tempi cambieranno … la storia deve andare avanti … Sai, tutto muore con noi, però noi rimaniamo nel cuore di quelli che ci amano. Lì non moriamo mai e, perciò, possiamo parlare con i nostri cari ed essi parlano con noi in silenzio”. Quanto vorrei adesso, nei giorni nostri, che Sandro Pertini non si limitasse a parlare a quelli che lo hanno amato e che lo amano ancora oggi. Mario Almerighi Roma, 6.03.2016 Mario Almerighi è nato a Cagliari il 28 settembre 1939. Entrato in magistratura nel 1970, è stato pretore in Sardegna e poi a Genova. Nel 1974, insieme ai colleghi Adriano Sansa e Carlo Brusco, svelò lo scandalo dei petroli. Eletto nel 1976 al Consiglio Superiore della Magistratura, divenne poi giudice istruttore a Roma e presidente del Tribunale di Civitavecchia. Nel 1998 è stato Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Attualmente è Presidente dell’Associazione “Sandro Pertini Presidente”. Tra i suoi libri si ricordano “I banchieri di Dio” (2002), “Petrolio e politica” (2006), “Tre suicidi eccellenti” (2009), “Mistero di Stato - La strana morte dell’ispettore Donatoni” (2010), “Suicidi? - Castellari, Cagliari, Gardini” (2011), “La storia si è fermata. Giustizia e politica. La testimonianza di un magistrato” (2014) e “La borsa di Calvi” (2015). Ha inoltre curato la raccolta di scritti di Sandro Pertini “La politica delle mani pulite” (2012). dalla prima pagina: Tra industria e letteratura: Mario Novaro Plinio Nomellini, manifesto pubblicitario, 1901, particolare. Illustrazione di Plinio Nomellini per l’Inno all’olivo di Giovanni Pascoli («La Riviera Ligure», n. 30, 1901). mo secondogenito Cellino, caduto appena ventenne durante il primo conflitto mondiale (1917), Alcune lettere inedite di Giovanni Pascoli (1934) a lui indirizzate durante il periodo di “Riviera” e, in quattro volumi, le opere dell’amico Boine (1938-39). «Alcuni elementi circa il rapporto tra Novaro e la sua famiglia, tra Novaro e se stesso, tra Novaro poeta e Novaro industriale, il rigore che doveva darsi per scegliere quanta pubblicità e quanta letteratura mettere nelle pagine di “La Riviera Ligure”, mi fanno pensare che esistono due aspetti di Mario Novaro […]». Aveva pienamente ragione Gian Luigi Falabrino a voler approfondire (intervento al convegno “Mario Novaro: una città, un’industria, un poeta”, Imperia 1994) la complessa personalità di un protagonista del Novecento, la cui opera soltanto a distanza di oltre un secolo viene conosciuta e, via via, meglio apprezzata, anche grazie al lavoro che la Fondazione, con sede a Genova, a lui intitolata porta avanti da oltre un trentennio. Prosegue Falabrino: «Uno degli aspetti da approfondire riguarda il padre, Agostino. è vero che nella famiglia si respirava letteratura […], ma Agostino non aveva certo compiuto studi superiori. […] Assaggiatore d’olio, fonda nel 1860 una propria piccola industria olearia, ed una seconda nel 1895, intestandola alla moglie, Paolina Sasso. Eppure Agostino insiste perché Mario vada a studiare in Germania, quando la Germania - non dobbiamo dimenticarlo - era all’avanguardia in quasi tutti i campi della cultura. […] è sempre lo stesso Agostino a fondare nel 1895 “La Riviera Ligure di Ponente”, come si chiamava inizialmente la rivista destinata a promuovere i prodotti dell’azienda». Se la bibliografia di Mario Novaro ci tratteggia un intellettuale aperto a differenti aspetti della cultura - dalla poesia alla filosofia all’arte -, ciò che ancor oggi ci sorprende è proprio la maniera assolutamente innovativa con cui egli ha intrecciato la cultura alla promozione d’azienda, sia con la rivista “La Riviera Ligure”, sia nella scelta degli artisti a cui affidare l’immagine dei prodotti Sasso: da Plinio Nomellini a Giorgio Kienerk, da Franz Laskoff a Cesare Ferro a Galileo Chini. «La Riviera Ligure», rivista mensile, risulta avesse raggiunto tirature davvero eccezionali per l’epoca (100/120.000 copie) e, a parte un piccolo numero di abbonati, veniva inviata gratuitamente, inserita nelle cassette dei prodotti Sasso, in ogni parte del mondo in cui la ditta aveva “rappresentanti” e distributori. L’ elenco dei Paesi indicati in un fascicolo scelto a caso (n. 12, dicembre 1912) è sorprendente: oltre ai paesi europei (comprese l’Inghilterra e la Scozia), troviamo, fra gli altri, Eritrea, Tunisia, Tripolitania, Marocco, Senegal, Sudan, Colombia, Argentina, Shanghai, Stati Uniti, Indie inglesi, Uruguay, Venezuela, Turchia, Cuba, Giappone, Messico, Persia, Siam, Nuova Zelanda, Nicaragua, Guatemala, Canada, Tasmania, eccetera… Davvero una copertura “globale”! Ecco, tutto questo per dire come Novaro - che aveva respirato un’aria internazionale nel corso della sua formazione - non aveva mai smesso di credere nei valori ai quali era stato formato, e lavorando per la diffusione di quello splendido prodotto delle nostre terre, l’olio, dedicasse altrettanta attenzione a far giungere in tutti i paesi del mondo anche le voci dei migliori scrittori, poeti ed artisti italiani. Maria Novaro Maria Novaro è architetto e presidente della Fondazione Mario Novaro, costituita a Genova nel 1983, che ha per scopo istituzionale lo studio e la diffusione della cultura ligure novecentesca anche attraverso la pubblicazione della rivista quadrimestrale « La Riviera Ligure», quaderni monografici, che esce dal 1990. Giorgio Kienerk, copertina per l’Almanacco Sasso 1911 Mio nonno, Giuseppe Salvago Raggi, e la rivolta dei Boxer. 5 agosto 1900: esce la «Domenica del Corriere» con – in copertina – disegnata da Beltrame l’uccisione di Umberto I da parte di Bresci. C’è la carrozza, il Sovrano riverso, i soccorritori, la folla… Ma la « Domenica del Corriere » ha anche una copertina sul retro, e cosa rappresenta? Mio nonno, Giuseppe Salvago Raggi, con la moglie e il figlioletto, nel cortile della Legazione italiana a Pechino: tutti e tre dati per morti nel corso dell’assedio dei Boxer, e invece, per fortuna, risultati vivi. La notizia della loro morte era circolata durante l’assedio: e non solo della loro ma di tutto il corpo Diplomatico asserragliato nel Quartiere delle Legazioni. La smentita arrivò in ritardo, questo forse spiega l’accostamento con la morte di Umberto I, avvenuta il 29 luglio. E allora eccoli lì tutti e tre, un’immagine serena che certo è antecedente all’assedio, ai quaranta giorni di sparatorie e di fame , notti insonni e di attese sempre deluse di venir liberati. (Lo furono poi grazie all’arrivo delle truppe del generale Seymour). Circola ancora un film, “55 giorni a Pechino”, protagonista Charlton Heston , in cui compare – un “cameo” – anche il ministro d’Italia, cioè il nonno, ma rappresentato come gli americani vedono gli italiani, basso, capelli nerissimi e baffetti, e l’aria molto molto meridionale - mentre mio nonno era alto un metro e novanta e nelle fotografie che lo ritraggono con un cappellaccio alla yankee e i gambali ha un’aria tutt’altro altro che meridionale! Comunque, a me la coincidenza dei due eventi ha sempre fatto effetto. E la mano di Beltrame già allora si rivela di altissima qualità. Giuseppe Salvago Raggi a Pechino insieme al giornalista Luigi Barzini, in una tavola di Achille Beltrame. Camilla Salvago Raggi, La nonna era bellissima, Il canneto editore. Serata in maschera nella Legazione italiana a Pechino prima della rivolta dei Boxer. Salvago Raggi è il primo a sinistra. 3 Camilla Salvago Raggi La Badia di Tiglieto e i Salvago Raggi M ia nonna paterna Rosa Nervi era nata nel 1885 a Tiglieto, località Casa d’Aste, in prossimità della Badia, la più antica abbazia cistercense italiana, annidata fin dal 1120 nell’alto Appennino ligure, che papa Innocenzio X nel 1648 aveva concesso in enfiteusi perpetua con tutte le sue vastissime pertinenze territoriali al cardinale Lorenzo Raggi, il quale la trasmise per via ereditaria ai propri congiunti. La nonna mi raccontava fiabe meravigliose e ricordava di aver conosciuto, quand’era bambina, il marchese Giuseppe Salvago Raggi, “molto buono e gentile con lei”. Mai avrei immaginato che tanti anni dopo sarei diventato amico dell’ultima discendente della casata, quella Camilla Salvago Raggi che non solo è l’unica donna al mondo proprietaria di un’abbazia, ma è anche una delle più grandi e raffinate scrittrici italiane. In una dozzina di libri ha ricostruito, su basi concretamente documentate e sentimenti cresciuti nell’invenzione, le vicende dei suoi antenati, nei due rami dei Salvago e dei Raggi: dal primo romanzo corale L’ultimo sole sul prato che nel 1982 aveva dedicato alla Badia al recen- te Mia nonna era bellissima, appena uscito nelle edizioni de Il canneto. Partendo dal ricordo (e dalla riproduzione, purtroppo solo in bianco e nero) di un quadro rubato e da inedite carte d’archivio, Camilla segue la vita dell’omonima nonna Pallavicino, in un momento storico di grandi tensioni trascorse accanto al marito, il marchese Giuseppe Salvago Raggi appunto, Ministro d’Italia a Pechino nel 1900, durante la rivolta dei Boxer, ma anche Governatore in Eritrea e senatore del Regno. Il nome di Camilla Salvago Raggi è legato a Savona per essere stata nel corso degli anni ‘90 presidente del concorso nazionale di narrativa “Voci di donne“, ma anche la protagonista del suo ultimo libro vi era in qualche modo legata. Era, infatti, figlia della marchesa Laura Gropallo sposata Pallavicino e aveva celebrato il suo matrimonio con Giuseppe Salvago Raggi a Vado Ligure il 19 ottobre 1891. Della loro storia fa parte, incorniciata e ingentilita da un nastro tricolore, una vecchia copertina della « Domenica del Corriere» che Camilla conserva tra i suoi ricordi e che ha accettato di commentare per noi. Silvio Riolfo Marengo L’Abbazia cistercense di Tiglieto: sala capitolare. Badia alla fine dell’Ottocento. Silvio Riolfo Marengo, nato a Castelvecchio di Rocca Barbena nel 1940, vive tra Savona e Milano dove ha diretto le redazioni della casa editrice Garzanti e dove è consigliere della Fondazione Corrente. Oltre che di Pigmenti è direttore responsabile di Resine, quaderni liguri di cultura, la rivista che prende titolo dal primo libro di Camillo Sbarbaro ed esce ormai da 43 anni. A Savona è anche presidente della Fondazione Museo d’arte contemporanea Milena Milani in memoria di Carlo Cardazzo. T 4 ra i personaggi di maggior spicco che, tra Ottocento e Novecento, furono presenti a Savona, uno dei più interessanti fu certamente Arcangelo Ghisleri (Persico Dosimo, 15 aprile 1855 – Bergamo, 19 agosto 1938). Intellettuale, uomo di cultura, giornalista, grande studioso di geografia e cartografia, Ghisleri fu una tra le personalità più illustri del Partito Repubblicano d’inizio Novecento, cui giunse dopo un’iniziale adesione al socialismo. A Savona arrivò poco più che trentenne. Nel settembre del 1884, aveva iniziato a dedicarsi all’attività di insegnamento, ottenendo il primo incarico al liceo di Matera, come professore di storia e geografia. Ben presto, però, le condizioni di grave arretratezza riscontrate nella città lucana lo avevano indotto a chiedere il trasferimento, ottenendolo, infine, al liceo Chiabrera di Savona, dove giunse nell’autunno del 1886. Qui sarebbe rimasto per due anni, insegnando storia e geografia storica. Nel breve periodo in cui risedette nella città ligure, Ghisleri si mise in luce per l’entusiasmo con cui si dedicò alle iniziative culturali. In tal senso, grande rilievo ebbe la nascita della rivista mensile Cuore e critica, il cui primo numero fu pubblicato a Savona il 1° gennaio del 1887 dalla tipografia vescovile Miralta, avendo come direttore Arcangelo Ghisleri e come gerente responsabile Francesco Ferro. Presentandosi come «rivista mensile di studi e discussioni di vario argomento pubblicata da alcuni scrittori eccentrici e solitari», Cuore e critica pubblicò in quei due anni articoli di «letteratura, filosofia, storia, scienze penali, economia e varietà», scritti da intellettuali e politici tra i più impegnati di quel periodo, quali Andrea Costa, Mario Rapisardi, Giovanni Bovio, Gabriele Rosa, Tancredi Galimberti, Napoleone Colajanni, Leonida Bissolati, Giuseppe Macaggi e Filippo Turati; di quest’ultimo, in particolare, nel primo numero della rivista apparve un articolo intitolato Socialismo e Scienza. Fin dalla pubblicazione del suo primo numero, Cuore e Critica apparve chiaramente rivolto allo studio delle questioni sociali, proponendosi altresì come Arcangelo Ghisleri a Savona strumento di educazione civile e di diffusione dei valori democratici, per lo sviluppo, come si auspicava, di una autentica “coscienza popolare”, assecondando le istanze di emancipazione dei lavoratori. I concetti e le parole d’ordine del socialismo erano quindi ben presenti nella rivista, così come le idee del positivismo e le tematiche anticlericali. In tal senso, «particolare curioso», come avrebbe notato Francesco Bruzzone in un articolo da lui scritto per il quotidiano Il Lavoro che fu pubblicato il 21 giugno 1938, «Cuore e critica veniva stampato nella Tipografia Vescovile Miralta, e il fatto sollevava l’indignazione dei reverendi padri di Civiltà Cattolica, i quali, con i loro attacchi alla reproba rivista savonese, ottenevano da questa Curia il divieto per il povero Miralta di continuare ad usare l’attributo “Vescovile” per la propria ragione commerciale». Nell’autunno del 1888 Ghisleri lasciò Savona, avendo ottenuto la cattedra al liceo Sarpi di Bergamo. A seguito di ciò, a partire dall’ottobre di quell’anno, la redazione della rivista – che nel successivo mese di dicembre divenne quindicinale – fu trasferi- ta in quella località. Pressato dai numerosi impegni scolastici e lavorativi, ma anche a causa delle sue idee contrarie a certe posizioni assunte dai socialisti, nel numero del 15 ottobre del 1890 Ghisleri annunciò la sua volontà di lasciare la direzione di Cuore e critica, affidandola così a Filippo Turati, che assunse la guida della rivista a partire dal 4 novembre 1890. Da tempo, ormai, gli articoli in essa pubblicati erano chiaramente rivolti allo studio delle questioni economiche e sociali che maggiormente interessavano l’Italia di quegli anni. Sotto la direzione di Turati, la testata si orientò in modo ancor più chiaro e netto in questa direzione, assumendo, a partire dal gennaio del 1891, il nome di Critica sociale e divenendo apertamente un fondamentale punto di riferimento per quanti si rifacevano al modello di società teorizzato da Karl Marx. Il ricordo dell’esperienza savonese di Ghisleri fu giustamente messo in luce da Francesco Bruzzone – futuro Prefetto della Liberazione – nel suo breve saggio scritto, intitolato Arcangelo Ghisleri a Savona nel 1888, che apparve nel volume Testimonianze di affetto e stima per Arcangelo Ghisleri, stampato a Torino per le Edizioni L’impronta nell’aprile del 1938. Il libro fu pubblicato tre mesi prima della morte di Ghisleri: oppositore intransigente del fascismo, lo studioso viveva da anni in una condizione di semi-isolamento, emarginato dal Regime a causa delle sue idee politiche. Quell’operazione editoriale, che vide la luce sotto la veste di attività storico-letteraria, fu chiaramente un’iniziativa politica attuata in modo sottile e raffinato aggirando i divieti e le censure del fascismo. Il volume ebbe infatti come promotore il quarantottenne repubblicano Mario Razzini, esponente di spicco di Giustizia e Libertà, che fu affiancato da altri tre repubblicani molto noti in quel periodo: il medesimo proprietario de L’Impronta Terenzio Grandi, Valentino Rovida e il medico repubblicano Aldo Spallicci (futuro deputato all’Assemblea Costituente e senatore nelle prime due legislature repubblicane nonché sottosegretario nel sesto e settimo governo De Gasperi). Nel libro, contenente numerosissimi ricordi e attestazioni di stima di varie personalità pubbliche del mondo accademico italiano e non solo nei confronti dell’illustre geografo e fondatore della rivista Cuore e Critica, mazziniano e democratico, apparvero anche scritti di alcuni antifascisti italiani, tra cui Ferruccio Parri, il repubblicano Arturo Codignola (ex vicepresidente della sezione di Genova dell’Associazione Nazionale Combattenti), l’ex deputato repubblicano Paolo Taroni, il prof. Gino Luzzatto (che nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce), l’ex deputato socialista Adelchi Baratono, l’ex direttore del giornale Il Lavoro di Genova Giuseppe Canepa e, appunto, il repubblicano savonese Francesco Bruzzone. Giuseppe Milazzo è nato a Savona il 7 gennaio 1964. Laureato all’Università di Genova in lettere moderne e in storia, vive e lavora a Savona, dove è insegnante di ruolo presso l’Istituto Comprensivo Savona I. Da molti anni si dedica allo studio di figure e momenti della storia della sua città. In tale ambito ha pubblicato, fra l’altro: Michele da Cuneo e l’isola di Saona (1995), Piazza delle Erbe (1998), Giuseppe Cava (Beppìn da Cà), il poeta di Savona, biografia del celebre poeta dialettale (2007), Da Boves a Clavesana. Vita, esperienze, lotte del partigiano albissolese Matteo Lino Repetto (2014). L’ultima sua fatica è Cristoforo Astengo, le lotte politiche e l’impegno antifascista, biografia del martire dell’antifascismo savonese. Alcuni suoi saggi sono stati pubblicati sugli Atti della Società Savonese di Storia Patria e sui Quaderni Savonesi dell’I.S.R.E.C. È consigliere dell’associazione Aiolfi. Giuseppe Milazzo T ra i diversi restauri portati a termine, ben sei, dall’Associazione Renzo Aiolfi di Savona dal 2003 al 2015, tutti interventi suggeriti dal competente Ministero dei Beni Culturali attraverso la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici della Liguria, l’ultimo in ordine di tempo, che ha richiesto l’ impegno delle centinaia di associati “Aiolfi” per reperire i fondi necessari, è stato molto particolare e coinvolgente: il restauro del Globo terracqueo dell’ingegner Giovanni Antonj del 1856 (carta stampata, dipinta a olio e verniciata applicata su cartapesta e supporto ligneo), diametro della sfera cm.88, diametro base cm.108, altezza complessiva cm. 178. Lo stesso autore aveva donato il Globo alla città di Savona il 14 gennaio 1893 e la donazione era stata accettata dal sindaco il 17 gennaio, come risulta dalle le Carte Antonj conservate presso l’Archivio di Stato di Savona, dalle quali ho ricavato le poche notizie in mio possesso. Il Globo fu collocato nell’allora Biblioteca civica, ovvero in Palazzo Gavotti (oggi sede della civica Pinacoteca di Savona) nel cuore antico di via Pia, ma la sua conservazione Il Globo terracqueo di Giovanni Antonj 5 risultò assai problematica. Nella rubrica “Occhiate in Biblioteca” del «Giornale di Genova», edito il 25 maggio 1941, si poteva leggere che il Globo era lasciato “nel più completo abbandono con falle e incrinature …”. Soltanto nel maggio del 1950, grazie all’intervento di Renzo Aiolfi, l’ allora assessore alla cultura del Comune di Savona, questo particolare manufatto storico artistico, unico nel suo genere, ebbe qualche primitivo lavoro di incollaggio in corrispondenza dell’asse dell’orizzonte. Venne anche trasferito nella Sala Giunta del Municipio attuale, dove è ancora allocato dopo il suo recente risanamento durato diciotto mesi ed effettuato a cura del laboratorio specializzato Nicola Restauri s.r.l., in Aramengo1. Nel suo Globo l’Antonj aveva realizzato la rappresentazione geografica del mondo conosciuto nel 1851: una “mappa” corredata da moltissime annotazioni calligrafiche recanti, come lui stesso indica nel cartiglio, la descrizione delle terre e delle acque, con l’indicazione geografica dei luoghi, arricchita da accurate descrizioni dei territori, dei nomi degli esploratori, raffigurazioni di velieri, indicazioni delle rotte anche commerciali note fino allora, il corso dei battelli a vapore e la durata dei relativi tragitti. Non mancano, inoltre, informazioni astronomiche, quali i segni zodiacali, il calendario e le gradazioni terrestri. Dopo il restauro il Globo è tornato ad incuriosire i visitatori della Sala Giunta e gli addetti ai lavori istituzionali che vi si svolgono quotidianamente: è nuovamente in asse, può ruotare ed essere ammirato in tutta la sua bellezza e la sua maestosità, tanto da far riflettere sulla possibilità di proporlo come oggetto di studio per una prossima tesi di laurea. Silvia Bottaro mentre osserva i particolari del Globo terracqueo. Ben poco si conosce della vita e dell’attività dell’ingegner Giovanni Antonj; ho comunque trovato notizia di un’attestazione ufficiale rilasciatogli il 15 agosto 1883 dal professor Vittorio Farolfi dell’Imperiale Regio Istituto di nautica di Trieste dove, forse, in gioventù aveva studiato. Notizia che mi ha invogliato a compiere alcune ricerche presso il Comune di Trieste e la biblioteca civica “A. Hortis”2. Ho rintracciato così alcune pubblicazioni delle quali fornisco l’elenco : - Sui motori per la piccola industria, di Domenico Antonj, Atti della Società d’Ingegneri ed Architetti di Trieste, A. 1, 1878, fasc.3. - Biografia di Giorgio Stephenson, di Domenico Antonj, Atti della Società d’Ingegneri ed Architetti di Trieste, A. 4, 1878, fasc.3. - Trattato teorico pratico di pirotecnia civile, per Domenico Antonj, Trieste, Stab. Tip. Lit. E. Sambo e C., 1893 - XV, 283, p.(12) c., di tav. ripieg; 23 cm. Domenico Antonj è lo stesso autore del Globo, che qui ha usato solo uno dei suoi nomi propri, o si tratta di un’altra persona? Non possiamo dire nulla con certezza, anche se rende probabile la prima ipotesi la pubblicazione, a sua firma, avvenuta pochi anni dopo sul porto savonese dal titolo Progetto di costruzione di nuove calate nel porto di Savona, di Giovanni Domenico Antonj, Savona, tipografia A. Battaglia, 1899. Ai fini di questa ricerca devo ringraziare il dottor Riccardo Cepach del Comune di Trieste per avermi informato che una copia del Trattato teorico pratico di pirotecnia civile, di cui ho già fatto cenno (firmata e sottolineata), era di proprietà di Italo Svevo: copia recentemente ritrovata da Simone Volpato fra i libri di Antonio Fonda Savio (deposito all’Unitis), come ricordano Volpato e Cepach nel volume Alla peggio andrò in biblioteca. I libri ritrovati di Italo Svevo, Macerata, Biblohaus, 2013. Volpato scheda il libro in questione e, in una nota a pagina 258, Cepach informa che “fra questo nuovo nucleo di libri sveviani troviamo anche il Trattato teorico-pratico di pirotecnia civile di Domenico Antonj, con numerose sottolineature. “L’esplosivo incomparabile” che alla fine della Coscienza polverizza la Terra veniva forse studiato qui.” Queste poche notizie lasciano ovviamente spazio a miei successivi approfondimenti. Per concludere è necessario ricordare che del restauro del Globo si è occupata anche la nostra associata Rosaria Avagliano, che lo ha descritto dal punto di vista tecnico in alcuni incontri che si sono tenuti nella Sala Rossa del Comune di Savona e che , da gennaio a marzo 2016, ho svolto una serie di visite guidate, nelle quali un folto pubblico ha potuto ammirare un manufatto così particolare. Silvia Bottaro 1 Il laboratorio nel corso degli anni ha restaurato e studiato vari tipi di mappamondo, mettendo anche in luce le caratteristiche di uno dei più interessanti: A. R. Nicola, Note sul restauro del Globo celeste di Pietro Maria da Vinchio 1750-1751, in “Orizzonti celesti. La raffigurazione del cielo: la sfera restaurata di Pietro Maria da Vinchio e i libri antichi delle collezioni civiche di Alessandria”, Città di Alessandria, 2011. 2 Ringrazio per la collaborazione la dottoressa Mariella Natural del Servizio Biblioteche civiche e il bibliotecario Stelio Zoratto del civico Museo del Mare di Trieste. Silvia Bottaro è nata a Savona nel 1951. Laureata in pedagogia presso l’Università di Genova, ha lavorato per il Comune di Savona quale direttore della Pinacoteca e del Museo civico fino al 1994. Nel 2003 ha fondato, con altri amici, l’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit, di cui è presidente pro tempore. Ricercatrice e studiosa dell’arte italiana dall’Ottocento al Futurismo, si è interessata anche di arte minore e di storia locale. Ha organizzato numerose mostre e ha collaborato al Dizionario del futurismo pubblicato da Vallecchi. Tra i suoi libri: Intarsiatori savonesi dell’Ottocento; Colombo e Savona nell’Ottocento; Vincenzo Nosenzo prestidigitatore e re della latta. I 6 l premio “Renato Alluto” per il 2016 viene assegnato alla giovane nuotatrice savonese Erica Musso, che ha portato il nome di Savona e della Liguria sul podio delle gare più prestigiose. Molti successi compongono il suo palmarés, a iniziare dalla conquista della medaglia d’argento ai mondiali di Kazan 2015 nella staffetta 4x200 m stile libero insieme ad Alice Mizzau, Chiara Masini Luccetti e Federica Pellegrini. Erica ha successivamente partecipato agli europei in vasca corta di Netanya, in Israele, classificandosi al settimo posto nei 400m stile libero e al trofeo Sette Colli di Roma, dove ha vinto il bronzo nella stessa specialità. Il 2015 è stato inoltre l’anno in cui, ai campionati invernali, ha conquistato il suo primo titolo italiano, aggiudicandosi la medaglia d’oro sempre nei 400 m stile libero. Erica si è avvicinata al nuoto agonistico a sedici anni: “ La mia famiglia – afferma – mi ha trasmesso da sempre la passione per lo sport e i suoi valori: i miei genitori sono diplomati ISEF, mia sorella fa parte della nazionale di nuoto sincronizzato e mio fratello è una delle punte nel pattinaggio di velocità su pista a livello regionale e nazionale. Pur amando molte altre discipline che seguo nel tempo libero, la mia grande passione è il nuoto. La convocazione in nazionale è per me una grande soddisfazione; poter rappresentare il nostro paese e portare in alto il tricolore, un onore e uno stimolo a fare sempre bene. Il mio primo mondiale, a Kazan in Russia, mi ha regalato tantissime emozioni nuove: nuotare insieme a Federica Pellegrini resterà, per me, uno dei momenti più belli e intensi della mia carriera.” Erica fa parte del gruppo sportivo delle Fiamme Oro e la sua società civile è l’Andrea Doria Genova, alla quale l’amatori Nuoto Savona, dove Erica aveva cominciato a gareggiare, si è unita da poco per ragioni logistiche. Nonostante le medaglie vinte, la nostra giovane campionessa non dorme sugli allori. Per migliorare sempre più, si allena in media cinque sei ore al giorno: “Conciliare studio e allenamenti non è semplice, soprattutto nel nostro paese che, a differenza di altri, non offre strutture specifiche in Premio “Renato Alluto” 2016 Erica Musso con le sue compagne d’avventura Alice Mizzau, Chiara Masini Luccetti e Federica Pellegrini, con la medaglia d’argento della staffetta 4x200 m. stile libero conquistata ai Mondiali di Kazan 2015. grado di favorire entrambe le attività”, è il suo commento. “ È comunque bello sapere che dopo le ore trascorse in piscina, mi aspetta anche qualcosa di completamente diverso; lo studio è un modo per staccarmi un po’ dagli allenamenti. Quest’anno, anche se ho deciso di dare la precedenza al nuoto, continuerò Erica Musso, con Andrea Ambra Pescio, quando indossava la maglia dell’Amatori Nuoto Savona. Dal 2016 l’atleta è ufficialmente tesserata per la Società Andrea Doria di Genova. NORME PER LA REDAZIONE DEI CONTRIBUTI a frequentare la facoltà di scienze motorie di Genova, alla quale sono iscritta.” Tra gli obiettivi di Erica, ci sono ovviamente le Olimpiadi 2016, sogno di ogni atleta: “ Penso giorno per giorno, non guardo troppo lontano. Sono contenta di quello che faccio e spero in futuro di migliorarmi sempre di più.” Erica ha vissuto le competizioni con calma, senza stress né particolari tensioni fin dagli inizi della sua carriera: “Le gare, mi piacciono tanto quanto gli allenamenti, mi concentro e non sento troppo la pressione. Ogni sfida è diversa, il contesto e gli avversari cambiano e di conseguenza anche le sensazioni e le emozioni sono sempre diverse. In ogni caso cerco semplicemente di divertirmi nel fare quello che faccio. A conclusione di questo colloquio vorrei dire che sono molto grata e soddisfatta di ricevere il premio Alluto per due motivi sostanziali: perché conosco la famiglia Alluto, sono persone molto oneste e generose che meritano il meglio, e perché sono molto legata alla mia città: in ogni parte del mondo in cui vado a gareggiare, la mia mente e il mio cuore sono rivolti a Savona, ed essere riconosciuta come una tra le sportive savonesi che si sono maggiormente distinte non può che onorarmi.” Sonia Pedalino Sonia Pedalino, savonese, si è laureata in lettere moderne (specializzazione in storia del teatro e dello spettacolo) con la tesi Totò e la maschera, pubblicata da Firenze Libri. Giornalista pubblicista, collabora con il trimestrale “Mater Misericordiae” e con il mensile “Il Letimbro” della Diocesi di Savona-Noli, occupandosi di cultura, chiesa e spettacolo con indagini e interviste ai protagonisti della vita sociale e culturale della provincia di Savona. Barra obliqua (/) per delimitare il verso e doppia barra obliqua ( // ) per delimitare il fine strofa. I versi vanno in corsivo, tra virgolette inglesi semplici: Gli articoli proposti alla rivista, su file in formato Word, devono essere inviati ‘nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura.’ Dialoghi per posta elettronica agli indirizzi di [email protected]. e [email protected] e devono essere compresi tra le 4000 e le 6000 battute, superabili solo in Vanno contrassegnati con un trattino lungo: – Eccola! Eccola – disse, e si casi particolari e con l’assenso preventivo della redazione, altrimenti non allontanò. verranno presi in considerazione. Puntini di sospensione I testi vanno composti in carattere Time New Roman, corpo 12, giustificato e Sono sempre tre, compreso anche il punto fermo … le immagini a loro corredo devono essere in formato jpg ad alta risoluzione Rinvii bibliografici in nota (300 dpi). Le note vanno a piè di pagina, in corpo 10. I testi, privi di errori o Utilizzare, come abbreviazione , sempre “cfr.” (e non “v.” o simili) refusi dovranno rispondere alle seguenti norme: Per la prima citazione: Nome per esteso e cognome in tondo, città, editore, anno e indicazione delle pagine usando sempre i numerali per esteso: “149Uso delle virgolette 152”, non 149-52. Es: Eugenio Montale, L’opera in versi, Torino, Einaudi, Tra caporali o virgolette francesi ( «….» ) vanno: 1980, p. 30. Per le citazioni successive: solo il cognome Montale, L’opera in - le citazioni nel testo versi, cit, p. 60 . Se si cita in immediata successione la stessa opera usare “Ivi”, - i titoli di giornali, riviste, enciclopedie, raccolte ecc. seguito dalla o dalle pagine (« Ivi, p. 56». Se si cita in immediata successione I segni di interpunzione vanno dopo le virgolette. Gli esponenti di nota vanno dopo la virgolette e prima di eventuali segni la stessa pagina Ibidem in corsivo. Abbreviazioni di interpunzione: Nel mezzo del cammin di nostra vita 1. Per le note a piè di pagina si usa il numero normale, allineato con il testo e seguito da un Pagina, pagine p., pp. Per esempio p.es. semplice punto fermo. Es. : 1. Archivio di Stato di Genova (ASG). Volume, volumi vol., voll. Uso del corsivo Per tutti i vocaboli stranieri ( p.es. ante litteram, chance) e i titoli delle opere Numero, numeri n., nn. letterarie, scientifiche, musicali ecc. La punteggiatura prima e dopo il Fascicolo, fascicoli fasc. (anche al plurale) Verso, versi v., vv. corsivo va in tondo. Gli autori dovranno corredare i testi con un breve profilo biografico, il Segni diacritici nelle citazioni da testi letterari loro indirizzo mail e il numero di telefono. Tre puntini tra parentesi quadre […] per segnalare i tagli nelle citazioni. Al termine del suo mandato, vuole tracciare un breve bilancio della sua esperienza? Sono stati cinque anni molto intensi nei quali non ho mai smesso di studiare e imparare da moltissime persone che ho incontrato, anche se è stato doloroso rispondere negativamente a qualche richiesta per le difficoltà di bilancio. Molte cose sono comunque andate in porto, soprattutto da quando, tre anni fa, ho ricevuto dal sindaco Federico Berruti anche la delega alla Cultura. Altre sono rimaste nel cassetto in attesa di tempi migliori: bisogna avere progetti pronti se si vogliono prendere al volo le occasioni. Compito di un buon amministratore è non farsi trovare impreparato e avere a cuore la città come primo obiettivo in una visione strategica di medio – lungo periodo. Parlando di fatti concreti, ho avuto l’onore di inaugurare insieme al sindaco quattro nuove strutture. Nel 2013 ho tagliato il nastro al Museo Pertini Cuneo nel Palazzo della Loggia alla Fortezza del Priamar, a conclusione di un progetto che ha riunito due importanti collezioni cittadine in una nuova e qualificata sede: la prima donata dal Presidente Sandro Pertini, la seconda dalla scultrice Renata Cuneo. E’ stato così completato il Polo Museale del Priamar, grazie anche all’ampliamento del civico Museo Archeologico e della Città, reso possibile mediante il progetto europeo Accessit. Nel dicembre 2014 ho inaugurato il Museo della Ceramica, a conclusione dell’intervento di restauro e riqualificazione funzionale del Palazzo del Monte di Pietà, adiacente a Palazzo Gavotti sede della Pinacoteca Civica, promosso dalla Fondazione De Mari. Un museo straordinario che richiederebbe un approfondimento a parte: mi limito qui ad osservare che nel 2015 ha accolto 25mila visitatori e che la sua presenza, come si deduce dalla rassegna stampa, è ormai segnalata a livello internazionale. Per la prima volta Savona si è dotata di uno specifico Assessorato alle Politiche Giovanili, con molti progetti attuati in questo campo, alcuni avviati in precedenza e altri del tutto innovativi. Sono state aperte due nuove strutture culturali dedicate ai giovani: nel 2013 le Officine Solimano in Darsena, che hanno dato spazio a un’ offerta nuova e integrata (cinema, teatro e musica) e Music Lab, laboratorio per prove e registrazioni musicali inaugurato nel 2014. In entrambi i casi la gestione coinvolge associazioni culturali giovanili. Non va però dimenticato il Teatro Chiabrera che ha ottenuto importanti riconoscimenti, nonostante la grave crisi che in questi anni ha colpito quasi tutti i teatri italiani con significative perdite di spettatori. Il Chiabrera ha registrato invece una sostanziale tenuta grazie alla bontà della programmazione artistica che ha saputo rispondere alle aspettative del pubblico introducendo anche spunti innovativi quali il rapporto tra teatro, cinema e televisione. Che cosa pensa della cultura a Savona e quali ritiene siano le prospettive per una valorizzazione delle istituzioni presenti sul territorio cittadino? L’associazionismo culturale è uno degli aspetti più importanti. L’ascolto delle istanze che provengono dalle associazioni è fondamentale. Sono le antenne sul territorio, animate dalla passione per la nostra città e compito degli amministratori è saper coniugare la loro naturale propensione a occuparsi di iniziative che possano avere utili ricadute su tutta la comunità: in futuro sarà necessario lavorare insieme per costruire progetti condivisi che vadano soprattutto nella direzione di valorizzare la bellezza del nostro territorio. Viviamo in una città bellissima ma devono ancora crescere il nostro orgoglio e la nostra identità. Possediamo un patrimonio culturale e artistico preziosissimo e dobbiamo ingranare la quarta nel campo della comunicazione e della promozione per farlo conoscere sempre meglio. Il volontariato culturale quale ruolo ha avuto e avrà per un futuro sempre più aperto, condiviso in Savona? Ci sono associazioni, e l’Aiolfi ne è una dimostrazione, che costituiscono un braccio operativo importantissimo per l’ Amministrazione. L’esempio del restauro del globo terracqueo di Antonj è lampante: grazie all’Aiolfi un bene pubblico di grande bellezza e grande valore è tornato a Elisa Di Padova Assessore alla cultura e alle politiche giovanili del Comune di Savona: bilancio di fine mandato. Intervista a cura di Silvia Bottaro risplendere ed ora, partecipando alle visite guidate, i cittadini possono ammirarlo insieme agli affreschi delle sale comunali. Questo significa prendersi cura del bene comune. Altre organizzazioni basate sul volontariato agiscono in questo modo e inducono a riflettere su realtà culturali importanti: patrimonio inestimabile per noi amministratori, che ci sentiamo così fortemente sostenuti e invogliati a un dialogo continuo. Sono stati aperti sotto il suo mandato nuovi spazi culturali, che ruolo vi hanno avuto ed avranno i giovani? L’apertura di due spazi culturali che ho già ricordato è il primo segnale rilevante di una nuova attenzione riservata alle nuove generazioni. Ma ho iniziato anche un lavoro che ha operato una sorta di rivoluzione copernicana del concetto delle politiche giovanili, fino a qualche anno essenzialmente intese come un sistema di offerta di occasioni da consumare. Più che occuparsi di giovani si finiva esclusivamente per “preoccuparsene”. Le Politiche Giovanili avevano come obiettivo la Protezione e l’Intrattenimento, anche se non sono un costo sociale da sopportare nell’attesa che passi la “nottata giovanile”, quasi fosse una tassa generazionale. Devono essere considerate come potenzialità da tradurre in risorse per il territorio; bisogna entrare dentro l’ingranaggio, stimolare processi, lasciando perdere scatole ed etichette che non possono in alcun modo identificare in maniera esaustiva la popolazione giovanile. Savona, in linea con il trend nazionale, è una città con una percentuale bassa di giovani che passano molto tempo in casa o in solitudine. Per invertire questa tendenza abbiamo cercato per prima cosa di conquistare piccoli spazi di fiducia: le politiche giovanili dovevano diventare politiche della cura e dell’incontro, delle relazioni sociali e della partecipazione alla vita cittadina anche a livello istituzionale. Superato l’esclusivo dualismo tra “protezione” e “intrattenimento”, è emersa l’idea di stimolare in maniera decisa il protagonismo giovanile, mettendo da parte il sistema delle azioni a spot. In questo nuovo modello l’Amministrazione ha cercato di proporsi come uno strumento utile ai giovani per realizzare le loro idee in quanto interlocutore affidabile e pronto a rispondere e a spiegare, mettendo per un momento da parte la forte tentazione di risolvere, di fare e proporre dall’alto. La prima iniziativa che ho messo in Elisa Di Padova tra un gruppo di studenti italiani e tedeschi nel 2013, in occasione del gemellaggio tra Savona e Aurich. pratica è stata quella di incontrare, ascoltare, costruire relazioni affinché i giovani fossero ben disposti a entrare in gioco. La costruzione dei rapporti non avviene per miracolo o per pura formalizzazione; avviene per fiducia, per credito dato, per interesse all’incontro con l’altro. In seconda battuta ho cercato di mettere in relazione le risorse presenti sul territorio che vantavano già grandissime potenzialità ma fino a quel momento non avevano avuto occasione di dialogo. Una volta raccolte e messe in relazione fra loro, è capitato che automaticamente, in un processo moltiplicatore, si siano prodotte risorse aggiuntive e prospettive nuove. In terza battuta ho cercato di costruire e attivare buone esperienze, buone prassi, che diano un metodo di lavoro aperto e disponibile ad essere utilizzato per ogni iniziativa da promuovere in futuro. Avvicinare i ragazzi al loro Comune significa Il successo del Capodanno in Darsena 2013 far vivere l’istituzione come una opportunità, in luoghi (reali e virtuali) e con linguaggi che si avvicinino e che facilitino il rapporto, su territori comuni, costruendo piattaforme di incontro e comunicazione agili. I ragazzi percepiscono tutte le potenzialità che la nostra città ha ancora da esprimere. Noi dobbiamo fidarci del loro istinto e sono convinta che anche le ricadute saranno trasversali e positive per tutti. Quale eredità lascia a chi verrà dopo di lei? Un’eredità bellissima. Obiettivi ambiziosi e coraggiosi hanno guidato le scelte recenti dell’amministrazione: in primis il progetto di restauro funzionale di Palazzo Della Rovere quale nuova sede della Biblioteca civica. L’Amministrazione ha acquisito dal Demanio statale l’immobile, uno dei più prestigiosi edifici rinascimentali della Liguria, in disuso e in condizioni di degrado da anni: una ferita nel cuore della città, che è stata letta come una grande opportunità per Savona, con il duplice fine di dare una nuova casa a uno dei nostri più importati istituti culturali, oggi in una sede non più adeguata, e di innescare, attraverso questo recupero, un formidabile volano per la rivitalizzazione del centro cittadino. E’ stato dunque approvato il piano di valorizzazione, siglato con la Soprintendenza e con il Demanio ed è stato avviato il complesso iter di fund raising e di recupero. Continua poi la stretta collaborazione con la Fondazione De Mari per valorizzare il Museo della Ceramica e dello straordinario patrimonio in esso contenuto. Due le iniziative previste nel 2016: la creazione di una Fondazione dedicata alla gestione e allo sviluppo delle attività muse- ali e il completamento del restauro della residua porzione del Palazzo del Monte di Pietà - edificio storico fondato nel 1479 dal Papa savonese Sisto IV - in cui il museo ha sede. La Fondazione De Mari ha approvato la redazione del progetto e l’ampliamento degli spazi fruibili non solo dai visitatori del Museo: ospiteranno, infatti, servizi di accoglienza al pubblico, collaterali ma integrati alla funzione espositiva principale, quali un ampio bookshop, dove sarà possibile consultare e acquistare testi legati all’arte e alla ceramica, un “caffè letterario” e un intero piano adibito alle esposizioni temporanee. Credo siano azioni importantissime per allargare il bacino di utenza del nostro patrimonio culturale e, al contempo, rendere la nostra città sempre più bella, all’avanguardia, culturalmente stimolante e accogliente. Durante tutto l’anno la Fortezza del Priamar è vissuta e valorizzata con mostre temporanee, con la visita ai suoi musei e l’attività congressuale presso il Palazzo della Sibilla che ospita convegni di livello nazionale. D’estate la stagione culturale coinvolge sia la Fortezza del Priamar, sia il lungomare, la Darsena e il centro cittadino con molte iniziative gratuite. Si sono accresciute le manifestazioni in grado di vivacizzare vaste aree della città. Recentemente al Priamar è stata sviluppata, con grande successo di pubblico, l’attività fieristica di qualità. L’amministrazione comunale ha collaborato attivamente alla sperimentazione di grandi eventi quali Equa, fiera del commercio equo solidale, Why Bio? dedicata al biologico e Savonaturalmente dedicata al benessere. Il lavoro sui giovani è una delle cose a cui tengo di più e che spero non venga gettato via da un mio eventuale successore. Il lavoro sull’ascolto e sulla fiducia è importante non solo per la nostra città ma per tenere agganciati i ragazzi ai valori della condivisione, del senso civico e della stima nelle Istituzioni contro l’individualismo e l’antipolitica galoppante. Quale idea le è rimasta nel cassetto? Vi faccio una confidenza. Sul comodino, accanto al letto, tengo sempre un taccuino e una penna. Sono per me strumenti fondamentali, perché può capitare alla sera o nel cuore della notte (e questo capitava soprattutto qualche mese fa quando il mio piccolo Giulio si svegliava più di una volta) di avere improvvisamente un’idea, un’intuizione e di annotarla nel taccuino. Da quegli appunti sono nate o sono state impostate molte iniziative. Molte rimangono ancora sulla carta, per mancanza di tempo o di risorse, ma sono pronte per essere attuate. Quegli appunti parlano di nuove opportunità lavorative per i giovani, di una nuova alleanza tra le generazioni, di nuovi progetti che mettono al centro l’orgoglio e l’identità come rilancio verso il turismo culturale. Parlano di valorizzazione della bellezza delle periferie e di reti tra cultura e sviluppo economico. Parlano di dare maggiore spazio alle giovani menti nella progettazione e nelle strategie della città del futuro. Ritorna sempre, nei miei appunti, un concetto fondamentale: la cultura come investimento e l’importanza di lavorare avendo a cuore la città e i suoi abitanti, evitando di cadere nell’isolamento e nell’autoreferenzialità e pensando invece al bene comune. 7 P arliamo di nomi di persona. Tutti noi sappiamo come seguano le mode, le ideologie e gli accidenti vari della storia: per questo sono indicatori delle società che li hanno imposti e fonti uniche per la storia generale. Uno straordinario registro savonese, il cartulario notarile di Arnaldo Cumano e di Giovanni di Donato, conserva 1149 atti privati savonesi rogati tra il 1178 ed il 1188 - quasi una “preistoria” or sono - dove compaiono migliaia di persone. Trattandosi di passaggi di proprietà, di atti e società commerciali vi intervengono solamente persone di un certo rilievo nella scala sociale dell’epoca. Sono i nomi dei ricchi e non dei disperati. Eppure le persone citate per nome – e talora per cognome, anche se ancora piuttosto raramente – a volte ci sconcertano. Il numero spropositato di Willelmus, indica una diffusione capillare di tale nome: decine e decine, espressi in ogni possibile variante e di ogni provenienza dei dintorni di Savona. Un nome germanico del genere doveva allora significare qualche cosa per chi lo imponeva ai figli, valore aggiunto di gloria futura, ancora sussiegoso verso antiche dominazioni barbariche. Così i tantissimi Oddo, Obertus, Anselmus, Ansaldus, Ardiçonus, Cunradus, nomi non latini che si rincorrono tra vendite di terre e di case. Statistiche non ne abbiamo, ma sono comunque un numero preponderante dei nomi presenti. Tra Iacobus e Iohannes se ne va una bella fetta dei nomi di origine cristiana, che sono spesso accompagnati dal cognome, in un momento in cui non riusciamo ancora distinguerli da loro eventuali provenienze geografiche. Se troviamo un 8 C i si può divertire con l’etimologia? Agli occhi dei non addetti ai lavori, le scienze linguistiche hanno fama talvolta di risultare noiose, difficili, per qualcuno persino inutili. Al tempo stesso, l’interesse per le lingue e i dialetti è diffusissimo, al punto che le “curiosità” etimologiche ad esempio, il desiderio di spiegare la provenienza di una parola, sono condivisi un po’ da tutti ai più diversi livelli. Questo vero e proprio “bisogno” ha dato origine, da un lato, a ricerche rigorose e basate su un solido metodo scientifico, soprattutto a partire dalla fine del Settecento, ma anche, dall’altro (già in epoca antica e poi nel medioevo) a speculazioni più o meno erudite che, come spesso avviene per le valutazioni in materia linguistica affidate alle sensazioni “a orecchio” o all’adesione incondizionata a determinati stereotipi, possono risultare francamente ridicole. D’altronde, per motivi che sarebbe interessante indagare, le lingue e i dialetti esercitano spesso un fascino perverso su persone che, prive di adeguata formazione e animate magari da esigenze di autoreferenzialità, contribuiscono a diffondere informazioni distorte, che finiscono per diventare ridicoli luoghi comuni: anche in Liguria “perle” di questo genere, dal preboggion inventato da Goffredo di Buglione, a boliccio che fa rima con molliccio, dal bellin adorato dai nostri antenati sotto il nome di dio Belenos alle radici arabe di maniman, fanno ormai parte di un consolidato stupidario giornalistico e televisivo, e meriterebbero in effetti l’attenzione, più che dei linguisti, di qualche bravo psicoanalista. Se la linguistica rischia allora di apparire un campo di ricerca un po’ arido è anche attraverso la revisione critica di queste sciocchezze che il linguista trova modo di divertirsi, contribuendo al tempo stesso a fare un po’ di chiarezza; e attraverso gli strumenti che ha a disposizione, riesce spesso a ricostruire “storie di parole” assai più affascinanti di quelle nate per il desiderio estemporaneo di fornire la spiegazione di una voce a partire da un’assonanza o da una casuale affinità. Nel Piccolo dizionario etimologico ligure che ho pubblicato di recente mi sono appunto “divertito”, e non poco, a ricostruire rigorosamente la storia di quattrocento termini condivisi dal genovese e dal savonese e dall’insieme dei dialetti liguri: una scelta molto parziale, in attesa di proporre un lavoro più completo, e concepita essenzialmente allo scopo di soddisfare le “curiosità” ricorrenti del pubblico. Sfruttando la documentazione antica, il confronto tra lingue diverse i criteri della fonetica e della semantica, è stato possibile scoprire, ad esempio, che anciöa è la parola ligure più diffusa nel mondo, o Nomi e Cognomi Pianta di Orazio Grassi, inizio del XVII secolo, Torretta e Sperone testimone che si chiama Iohannes Maximinus, siamo in presenza di un cognome o della provenienza da Massimino, nella familiare alta valle Tanaro? Ovviamente, alla prima occhiata, quelli che colpiscono di più sono i nomi che sembrano curiosità, anche se non sempre lo furono. Nel nostro Cumano sono una infinità e ne vorrei passare in rassegna alcu- ni, in ordine alfabetico. Se non capiamo a prima vista Abrilogio - ma ci sembra familiare - la sua variante latina Aperioculum, ci porta già nel pieno sviluppo della nostra lingua locale savonese con oculum latino che si alterna con il locale ogio, ben aperto in entrambi gli atti del 1179 e del 1185. Mestiere o che altro quello del signor Arnaldus Driçacolumpna, per cui vale la stessa osservazione sulla lingua comune? Donne diverse: Bella, Bellissima, Bellincontrum e Bellaflora, quest’ultima con un cognome che avrà forse tentato di occultare (Bavosa), o di cui sarà stata orgogliosa, date le numerose proprietà del padre, cui era stato imposto un nome che ora utilizziamo solo al femminile (Ido). Tralasciamo tutti i nomi augura- Divertirsi con l’etimologia Fiorenzo Toso in un ritratto di Mino Parodi che ciæabella fu inventato nel Cinquecento dai poeti per celebrare la bellezza luminosa delle loro dame, visto che la parola originaria per ‘lucciola’ (scorlussoa) era diventata sinonimo di ‘prostituta’; o ancora, che l’abbæn della Liguria non ha nulla a che fare con l’abbaino italiano, e che bricòccalo, nel Seicento, era criticato come si fa adesso con le tante parole inglesi che penetrano in in italiano. E c’è stata persino la possibilità, per gli appassionati di esoterismo, di scoprire attraverso la storia dell’innocuo grilletto da cucina, che in qualche paese della Liguria l’insalatiera ha lo stesso nome del santo Graal... Insomma, la vera sorpresa consiste forse nel fatto che le etimologie attendibili e solidamente motivate sono spesso più interessanti, curiose e affascinanti di quelle più fantasiose ed improbabili, una circostanza questa che non riguarda soltanto i termini dell’uso comune, ma anche (e spesso soprattutto) la toponomastica. Prendiamo il caso, ad esempio, delle leggende legate al nome di Savona. È ancora frequente trovare in città persone assolutamente convinte che esso derivi da savon o viceversa che il nome del sapone derivi da quello della città, una circostanza che collide evidentemente con la storia e con il buon senso: da un lato, perché il sapone fu introdotto in Europa solo tardivamente, in età medievale, quando la città esisteva ormai da secoli col proprio nome, e dall’altro perché è assodato che il termine sapone, savon, sabón risale a una voce germanica o celtica passata poi in latino, con la quale si indicava originariamente una miscela di sego e di cenere usata per tingere i capelli. L’unico dato di fatto è che Tito Livio, ri- ferendosi alle Guerre puniche, cita l’Oppidum Savonae come centro di una tribù ligure alpina alleata ai Cartaginesi, stanziata anche nei vicini Vada (scali, approdi) della popolazione dei Sabates. Tutto ciò sembra ricondurre (dico “sembra”, perché a quest’altezza cronologica siamo nel campo delle illazioni) a una radice prelatina *sab- / *sav- il cui significato resta incerto: il linguista G.B. Pellegrini la collega a un termine indoeuropeo che sarebbe alla base anche del nome del fiume Sava e della voce germanica che significa ‘umore’, ma rimaniamo appunto nel campo delle ipotesi. Tutto ciò dimostra che i nomi di luogo sono spesso di origine remota perché tendono a rimanere stabili nel tempo: d’altro canto, pur di spiegarne un significato ormai divenuto del tutto opaco, il ricorso ad assonanze (come nel caso di Savona) o a casuali affinità con voci di varia provenienza cela spesso anche intenti di “nobilitazione”: tempo fa mi ero occupato del nome di Alassio, ad esempio, fatto dai più risalire ad una non meglio identificata “principessa Adelasia”, per scoprire che molto probabilmente era invece da connettere col nome locale della ginestra (arascia, arastra) peraltro ereditato dalla lingua degli antichi Liguri preromani. Un’altra “leggenda etimologica” strampalata che si collega in qualche modo a Savona è contemplata nel mio Piccolo dizionario etimologico: la parola ligure per ‘crepacuore, dispiacere, afflizione’ detiene anzi, probabilmente, il record dell’etimologia più astrusa che sia mai stata perpetrata nei confronti di una parola. Come è noto, nel 205 a.C. il condottiero cartaginese Magone, fratello di Annibale, sempre nell’ambito delle Guerre pu- niche collocò a Savona la propria base navale, tra gli alleati Liguri ponentini, e da lì partì con la sua flotta alla volta di Genova, confederata a Roma, che sottopose a rigorosa distruzione. A partire da questo episodio storico, qualche erudito locale, probabilmente nell’Ottocento, ha immaginato che il termine moderno magon sia da associare al funesto evento verificatosi nel 205 a.C., e che i Genovesi abbiano conservato in tal modo l’esecrando ricordo del loro carnefice. Si tratterebbe di un caso quanto meno insolito di memoria storica in una città che nel 1886, meno di quarant’anni dopo il rovinoso bombardamento della città ordinato da Vittorio Emanuele II, non si peritò di dedicare al cosiddetto “re galantuomo” una statua equestre in una delle sue piazze più belle! In realtà il termine, diffuso in gran parte dell’Italia settentrionale, è un senso figurato della voce magone ‘gozzo, ventriglio’ e anche ‘stomaco’, presente anche in italiano e in diversi dialetti settentrionali e derivante dal germanico *mago: così come per stomacarsi, così, anche ammagonâse significa a sua volta ‘provare disgusto, dispiacere’, ed è opportuno notare come in genovese la prima attestazione della voce (e del verbo derivato) compaia ben 1950 anni dopo l’impresa dello scellerato cartaginese, nel 1755. Spesso proprio la datazione di una voce ci offre notizie importanti per ricostruirne la storia: così è per un termine che in Liguria è stato inopinatamente assunto, soprattutto negli ultimi tempi, come vero e proprio “feticcio” linguistico, e del quale sembra che non si possa più fare a meno quando si deve fare riferimento alla nostra lingua regionale: è vero che lo si trova spesso “sulla bocca” dei Liguri, ma a me è sempre sembrato un po’ misero basare sull’uso ripetuto di bellin la rivendicazione della nostra ben più complessa originalità linguistica. Ora, questo termine non compare in genovese prima del 1894, e proprio a Savona spetta il “primato” della prima attestazione (negli anni Quaranta dell’Ottocento) del suo derivato abellinou: si dirà che la letteratura antica non registrava volentieri questo tipo di voci, ma in realtà, spulciando nei testi dal medioevo in poi le parolacce liguri si ritrovano quasi tutte, segno abbastanza evidente che se è proprio questa a mancare, la sua introduzione non può essere antica: forse anteriore all’Ottocento, questo sì, ma non di molto. li in cui l’augurio si spreca generosamente (Benincasa, Bensevega, ecc…); ancora nelle varianti della lingua locale savonese: Buccapiçena e/o Buccapicenina. Ricordava Mario Stellatelli, storico della fotografia, che un suo antico collega savonese esponeva una pubblicità dove si vantava di ritoccare le immagini per fare “la bocca piccola”, particolare estetico prezioso di un tempo gozzaniano. La splendida attrice Virna Lisi millantava di sorbire il brodo con un cucchiaino da caffè. La risata facile arriva con Cagalardo, Cagalittera e Cagamodium anche se forse non vogliono sempre dire quanto immaginiamo. Soçopelo, Stancaiudicem e Strundebecco suonano altrettanto bene di Testadura, Testanova e Tetarel, a volte già cognomi in quegli anni e, ad alfabeto finito, sono tantissimi i nomi tralasciati da riprendere in ricerche sistematiche. Furio Ciciliot Furio Ciciliot, laureato con lode in lettere classiche e storico medievista, si interessa principalmente di archeologia e storia navale; ha pubblicato oltre un centinaio di articoli specialistici in riviste scientifiche e in atti dei principali convegni specialistici internazionali oltre ad una decina di monografie, é stato presidente della Società Savonese di Storia Patria e attualmente dirige il Progetto Toponomastica Storica. Per spiegarne l’origine si fa spesso e volentieri ricorso a questa o quella divinità antica (dal celtico Belenos al semitico Beel), ma l’attestazione tardiva, associata a considerazioni di altra natura (ad esempio il fatto che nei dialetti liguri la -l- tra vocali prima passa a -r- e poi cade, come in colin > coin) lascia intravedere una storia più prosaica: anche la derivazione da un senso figurato di belo / bela ‘budello’ non pare praticabile per motivi fonetici. E allora? Allora bisogna fare riferimento, con ogni probabilità, ai dialetti dell’Italia settentrionale dove, nel linguaggio infantile lombardo ed emiliano, si usava il diminutivo dell’aggettivo bello col valore di “giocattolo, trastullo, divertimento”: non a caso, un uso metaforico di bellin si ritrova ad Asti nel Cinquecento, dove un poeta locale, in una commedia, parla di una signora che prende in mano proprio “un giocattolo (bellin) con due sonagli attaccati”… Anche se in Liguria il valore di “giocattolo” è andato smarrito, pare altamente probabile che da un utilizzo allusivo di questo termine settentrionale si debba far derivare il significato di quella che a torto o a ragione qualcuno ha definito la parola “più amata” dai liguri. Divertirsi con l’etimologia? Gli esempi ricordati sembrano dimostrare che si può, purché non ci si lasci prendere la mano, in modo che il divertimento consista non nell’“inventare” etimologie estruse, ma nel proporne di sensate in base all’applicazione di un opportuno metodo di ricerca. Forse è un divertimento per pochi, ma i risultati di esso, se proposti in maniera non troppo paludata e con un po’ di ironia, possono diventare patrimonio comune e contribuire, oltre che a soddisfare qualche curiosità, a stimolare la riflessione e far acquisire una coscienza nuova sull’importanza e il valore culturale delle lingue che parliamo. Fiorenzo Toso Fiorenzo Toso (Arenzano, 1962) è professore di linguistica generale all’Università di Sassari. Esperto tra l’altro di dialettologia ligure, ha dedicato a questo tema numerose pubblicazioni, tra le quali il recentissimo Piccolo dizionario etimologico ligure, Edizioni Zona, Lavagna, 2015, al quale sono ispirati gli appunti qui presentati. Per lo stesso editore e nello stesso anno ha pubblicato anche una raccolta di poesie in genovese, E restan forme. Versci 1981-1990. P er i vecchi savonesi, vissuti ancora in tempo di guerra, S. Giacomo voleva dire “caserme” e relative frotte di rumorosi ragazzotti in divisa che la sera scorazzavano giù per l’omonima discesa sciamando per i vicoli, in cerca dei pochi svaghi gastronomici e amorosi che la città poteva offrire. In realtà camerate e dormitori erano alloggiati anche nella quattrocentesca chiesa medievale di San Giacomo Apostolo, stravolta da brutali interventi costruttivi, un tempo centro artistico tra i più importanti della Liguria, collocata sulla collina sovrastante il porto. Come si è arrivati a questo scempio è difficile dirlo; cominciò sicuramente con Napoleone, questo piccolo geniale arrogante corso che derubò l’Italia di innumerevoli capolavori d’arte di ogni genere. I durissimi contrasti tra lui e la chiesa cattolica si trascinarono per anni e finirono proprio a Savona, dove l’Imperatore trattenne a lungo prigioniero Papa Pio VII Chiaramonti. La cancellazione di molti ordini monastici, lo smantellamento di conventi e chiese, l’assegnazione al demanio di beni dei monasteri soppressi non furono che l’inizio. Questa chiesa è ancor oggi strutturalmente presente dove era nata, ma ridotta a un ammasso di pareti fatiscenti. Era stata eretta nel 1471 dai frati francescani, mendicanti e zoccolanti, secondo severi principi di povertà e semplicità, ma ben presto fu ambìto luogo di sepoltura delle famiglie nobili più ricche e dei possidenti locali ai quali vennero assegnate le dieci cappelle che affiancano l’unica navata centrale. Papa Sisto IV della Rovere aveva a cuore chiesa e convento annesso e fece costruire il ponte tuttora esistente che collega il complesso alla città. Per abbellire la propria cappella, ciascuna famiglia non badò a spese ricorrendo all’intervento dei più grandi artisti del momento. Fortunatamente non tutto è andato perduto. Nella Pinacoteca di Savona e nel Museo del Tesoro della Cattedrale restano alcune opere meravigliose, un tempo in San Giacomo. La splendida chiesetta fu spogliata di tutti suoi tesori e abbandonata fino ai giorni nostri agli usi più sordidi, tra l’indifferenza generale dei cittadini e delle autorità. A metà del 1800, con ogni probabilità la struttura portante e la copertura erano ancora integre. Nel refettorio c’era un affresco, da qualcuno attribuito al Brea, che rappresentava la crocifissione e che un bravissimo decoratore, aiutante di Jacques Boselli, copiò con quest’appunto sottostante, evidentemente aggiunto in un secondo tempo: “Disegno dell’affresco del refettorio di SanGiacomo, venuto giù per disgrazia e per danno della città, la quale nell’ età presente soffre ingiurie di continuo dai vandali forestierie dai vandali del paese. Savona, addì 16 aprile 1863, Tommaso Torteroli.” E’ lo stesso personaggio che scrive anche della Pala con San Francesco orante con il Crocifisso di G.B.Casoni (1616) nella cappella della famiglia Girinzana in san Giacomo“venduta per un torsolo di cavolo”. Due commenti chiarificatori su come i cittadini dell’epoca fossero interessati alla salvaguardia dei loro tesori d’arte. Nelle ricerche fatte per la stesura del volumetto citato in calce, cercammo di rintracciare tutte le opere scomparse; ci riuscimmo solo per le tre che vengono pubblicate a colori con questo articolo, immagini ricuperate a fatica che generazioni di savonesi non videro mai. Tutte e tre furono rubate dalle truppe napoleoniche con molte altre per finire a Parigi. Al Louvre era stato anche portato il polittico dell’Assunta del Brea posto nella cappella dei Chiabrera, fortunatamente SAN GIACOMO: i valori si apprezzano una volta perduti 9 Visitazione di Maria ad Elisabetta, probabile scuola del Perugino. ricuperato e ora al Museo della Cattedrale, mutilato della parte superiore. Stessa sorte ha avuto il Polittico delle nozze mistiche di S. Caterina (cm191x175) di Tuccio d’Andria, tornato mutilato, ora nel Museo del Tesoro della Cattedrale, un tempo nella seconda cappella lato sinistro, dedicata a S. Bonaventura, di proprietà della famiglia Raimondi. Collocato sull’altare della terza cappella sul lato sinistro di proprietà della famiglia Sacco era il meraviglioso trittico di Giovanni Mazone (1453-1510) “Noli me tangere”. Dal 1876 è conservato al Musée des Beaux-arts et de la Dentelle di Alençon (Normandia-Francia) proveniente dal Louvre. Ha una base di cm 201,5 per un’altezza di cm 215,8, quindi misure imponenti, immaginandolo dietro l’altare delle piccole cappelle francescane, mediamente di m 3,50 x 3,30. Il dipinto rappresenta il noto episodio evangelico ed è molto raffinato nei colori e nei dettagli. A fianco del Cristo sono quattro monaci ed in alto tre formelle con la Crocifissione e l’Annunciazione; il tutto è contenuto in una delicata cornice in foglia d’oro zecchino, goloso argomento per i trafugatori. Non osiamo pensare alla barbarie del lungo viaggio di questi capolavori, in tempi in cui il solo mezzo di trasporto erano traballanti carri tirati da cavalli per strade impercorribili: inaccettabili ma comprensibili le mutilazioni. Non è stato così facile ricuperare l’immagine del secondo dipinto oggi al Louvre e quanto inviatoci non è riproduzione di altissima qualità. Si tratta della Genealogia della Vergine, nota anche come Genealogia di Gesù, un insieme affollato di personaggi ai quali solo un esperto potrebbe attribuire l’identità corretta. Al centro l’iscrizione LAURENTIUS PAPIEN SIS FECIT MDXIII. È un olio su tela di cm 202 x 144 di Lorenzo Fasolo il Pavese ed era posto nella seconda cappella sul lato destro, di proprietà della famiglia dei marchesi Multedo che vi erano sepolti. Al Louvre è così ipocritamente classificata: ”Opera prelevata e importata nel 1812 recail nome “La famille de la Vierge” e reca il numero di inventario Inv.302. La tela è firmata e datata 1513”. Lorenzo Fasolo, Genealogia della Vergine (1513) G. Venturino: ricostruzione della quattrocentesca chiesa di San Giacomo Apostolo. Giovanni Mazone (1453-1510), Noli me tangere. Nella cappella della Visitazione, terza sul lato destro, di proprietà della famiglia Salineri D’Oria, era posta la pala della “Visitazione di Maria ad Elisabetta”, un grande olio su tavola di cm 249 x 207 di altissima qualità pittorica. Pare abbia inspiegabilmente peregrinato dal Louvre alla Gran Bretagna e si trova oggi nel Museo di Wiesbaden in Germania. Anche qui una riproduzione più accurata permetterebbe di leggerne meglio i dettagli; non conosciamo l’attribuzio- ne che viene data oggi all’opera, ma non avremmo dubbi ad assegnarla alla scuola del Perugino. La perfezione e la cura nei dettagli dei personaggi, la delicatezza dei colori, i sapienti contrasti delle ombre, il meraviglioso sfondo paesaggistico, ne fanno un quadro spettacolare. Ne esiste una modesta copia di grandi dimensioni nella chiesa di San Giovanni Battista di Vado Ligure, pare proveniente dalla Chiesa della Visitazione di Porto Vado, della quale ci è stato impossibile esaminare da vicino la qualità e raccogliere notizie in merito più approfondite. Abbiamo sempre sostenuto che, con le possibilità tecniche oggi disponibili per ottenere immagini digitali d’alta qualità a basso costo, Savona dovrebbe avere un museo con le riproduzioni d’arte che le competono; prime fra tutte quelle di San Giacomo e quelle scenografiche dei due Papi cittadini. Museo modernissimo che incrementerebbe finalmente il turismo, unica linfa vitale per il futuro, in modo concreto. Purtroppo le aspirazioni dei cittadini che contano sono rivolte ad argomenti certamente più banali, ma socialmente più vantaggiosi. Gianni Venturino Per chi fosse interessato alla ricostruzione del San Giacomo può richiedere alla Grafiche F.lli Spirito di Cosseria (SV) il volumetto usato come strenna natalizia 2010 dal titolo “La chiesa Fantasma”. GIANNI VENTURINO Tecnico pubblicitario, designer, art director e autore di campagne pubblicitarie internazionali. Negli anni 50 dirige l’ufficio pubblicità della Crippa e Berger di Milano e realizza con la Gamma film i primissimi Caroselli. Dal 60 al 68 è Art Director della Clan spa, agenzia di pubblicità full service, e lavora ad alcune delle più importanti campagne, tra cui quelle per l ‘Italia Navigazione e per la RAI. Apre poi in proprio lo Studio Pentagono dove crea immagini passate alla storia della pubblicità e studiate come «case history» alla Bocconi. La specializzazione nello studio delle confezioni viene citata nei grandi annuari internazionali. Docente di estetica della comunicazione all’ ISFORP, scuola superiore di Public Relation, progetta una lunga serie di manifesti parte dei quali oggi al Museo Bertarelli del Castello Sforzesco di Milano. Giacomo Bove (Maranzana, Alessandria, 23 aprile 1852- Verona, 9 agosto 1887) è uno dei più grandi esploratori italiani: cuore avventuroso, lupo dei mari tempestosi, prese parte nel 1878, come rappresentante dell’Italia, alla spedizione polare della Vega al comando di Nordenskjöld. Nel 1880, tornato in patria, pensò di organizzare a sua volta una spedizione polare, senza trovare gli aiuti economici necessari. Nel 1881 il governo argentino gli affidò il comando del veliero Cabo de Hornos per esplorare l’Isola degli Stati e i canali Magdalena e Beagle. Si recò poi nella regione di Missiones con lo scopo di fondare una colonia. Ripartì, sempre su incarico del governo argentino, per la Terra del Fuoco dove raccolse importanti notizie e collezioni scientifiche. Rientrato in Italia, il Ministero degli Esteri lo inviò in Congo Belga e di questa ultima esperienza, che segnò la sua vita fino alla tragica decisione del suicidio, parla Francesco Surdich nel saggio pubblicato in questo numero. Ulteriori notizie su Bove si leggono in S. Zavatti, Dizionario degli esploratori, Milano, Feltrinelli, 1967; utilissima è inoltre la visita alla Casa Museo Bove a Maranzana (responsabile Maria Teresa Scarrone Feltrinelli). Silvia Bottaro A 10 lla fine del 1884 i delegati delle principali potenze europee e degli Stati Uniti, riuniti a Berlino, affrontarono, fra i tanti, anche il problema della libertà di commercio nel bacino del Congo e alle sue foci, nonché l’estensione al Congo e al Niger dei princìpi stabiliti dal Congresso di Vienna a proposito della libertà di navigazione dei cosiddetti “fiumi internazionali”, aprendo la strada all’espansione europea nel cuore del continente africano. In questo contesto pure il governo italiano programmò una missione ufficiale incaricata di accertare e valutare le potenzialità di sfruttamento economico della zona costiera del Congo e di verificare quali punti ancora liberi in quell’area avrebbero potuto essere adatti ad una eventuale colonizzazione organizzata. Affidato in un primo momento ad Antonio Cecchi (1849-1896), questo incarico venne poi espletato dal tenente di vascello Giacomo Bove (1852-1887), che aveva già al suo attivo la partecipazione fra il 1878 e il 1879, in qualità di idrografo, alla spedizione della “Vega” che, al comando di Adolf Erik Nordenskiöld, partendo dalla Svezia avrebbe raggiunto l’Oceano Pacifico attraverso il Mare di Siberia per risolvere il problema del passaggio di Nord-Est che dal nord dell’Europa e dell’Asia portasse al Pacifico attraverso il Mare Artico; e, fra il dicembre 1880 e il gennaio 1884, a tre spedizioni nell’America meridionale: la prima nella parte meridionale della Patagonia, nell’Isola degli Stati e nella Terra del Fuoco; la seconda nel territorio argentino delle Missioni (il territorio compreso tra l’Iguassù e la grande cascata del Guayra); la terza nuovamente nella Terra del Fuoco e nello Stretto di Magellano. Dopo essersi recato in Belgio e in Gran Bretagna, Bove partì da Liverpool il 2 dicembre 1885 assieme al capitano di artiglieria Giuseppe Fabrello, inviato della Società Geografica Italiana che aveva elargito Il fiume Lualaba, risalito da Bove. La missione in Congo di Giacomo Bove Ritratto di Giacomo Bove Il porto di Matadi, raggiunto da Bove durante la sua spedizione in Congo. un contributo per la spedizione, ed al biologo e naturalista Enrico Stassano, emissario dei ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Agricoltura, finanziato dal Banco di Napoli. I tre, giunti a Banana, uno scalo portuale situato alle foci del Congo, il 17 dicembre, risalirono il fiume fino a Matadi, dove rimasero per tutta la stagione delle piogge, compiendo osservazioni di carattere geografico e commerciale nel basso Congo. Ripartiti da Matadi il 3 giugno, risalirono il Congo prima fino a Léopoldville, raggiunta il 5 luglio, e poi fino alle cascate di Stanley, quasi fino ai confini dello Stato del Congo, dove arrivarono attorno alla metà di agosto e dove Stassano abbandonò la spedizione a causa di una malattia. Rientrato in Italia nell’autunno di quello stesso anno, in un rapporto consegnato al Ministero degli Affari Esteri (Relazione intorno al Congo, Genova, 1887) a proposito di un progetto di emigrazione italiana verso il neonato Stato indipendente del Congo avrebbe sostenuto che “non dico il consigliarla, ma il solo permetterla” gli sembrava “un delitto”, come peraltro aveva già fatto nei resoconti inviati nel corso della spedizione, limitandosi a suggerire che “i nostri commercianti potrebbero offrire prodotti, purché questi siano migliori ed a più buon mercato di quelli esistenti, alle case centrali europee delle fattorie stabilite nella costa d’Africa” (p. 42). Ma al di là delle informazioni, che sono prevalenti dato lo scopo della sua missione, fornite da Bove sugli aspetti economici dei territori visitati, la Relazione, pur nella sua brevità, attraverso una scrittura che procede in modo estremamente sintetico, mediante un lessico semplificato e ripetitivo finalizzato ad una mera registrazione dei fatti più degni di nota, è rivolta anche alle caratteristiche della strada percorsa, in alcuni casi anche con annotazioni circostanziate, come, ad esempio, quelle sviluppate sulla morfologia della foce del Congo durante la sosta della spedizione a Boma: Il porto di Banana (Congo) in una immagine del 1887. Bove vi arrivò il 17 dicembre 1885. “Boma – annota nella sua Relazione – è poco più che a mezza via tra Banana e Vivi. Quivi il Congo, che dopo Punta di Legna si era allargato o diviso in numerosi e ampi canali, si restringe di bel nuovo e comincia ad avvallarsi tra due ben distinte serie di colline e montagne. Tuttavia, dinanzi a Boma, il fiume ha ancora 4.500 metri di larghezza, divisi tra due canali, tra cui sta la pittoresca isola di N’Kete” (p. 30). Particolare attenzione venne riservata alle difficoltà ed ai pericoli che il viaggio comportava (sentieri scoscesi ai quali corrispondevano pericolose discese, stazioni di sosta sporche, scarsità di acqua pulita, presenza di insetti, ecc.). In questo contesto il paesaggio appariva di una monotonia disarmante, tanto che la semplice presenza di alberi o di palme diventava un fatto significativo e il suo colore era generalmente grigio giallastro, con chiazze rossastre di terreno e radi ciuffi di vegetazione verde scuri sparsi qua e là. Così Bove descrive infatti le caratteristiche del territorio da lui percorso fra Matadi e Lucungu in una lettera inviata il 15 giugno 1886 da Lucungu alla Società Geografica Italiana: “Strada più monotona, più sprovvista di vita, non si potrebbe trovare, che dico? Neppure immaginare! Nulla viene a rallegrare lo stanco viaggiatore, nulla a rinvigorirlo. Orizzonti limitatissimi, gialle colline e poi colline gialle, valli profonde e melanconiche, fiumi e torrenti incassati fra alte e difficili sponde, sentieri che s’inerpicano sul dorso di nude e rocciose montagne, alcuni ciuffi d’alberi e su tutto ciò sole, sole e sole. Nei tratti dove il piedi si sentirebbe più fermo e la marcia potrebbe essere più spedita, non è che una successione di erbe, tanto alte che si cammina come entro un angusto e lungo tunnel. E’ una disperazione!” Tutti elementi questi che, con modalità narrative ben più pregnanti e coinvolgenti, sarebbero ritornati frequentemente nella descrizione del suo itinerario attraverso il Congo realizzato pochi anni dopo dal capitano Konrad Korzeniowski, un giovane dipendente della Marina mercantile britannica diventato celeberrimo con lo pseudonimo di Joseph Conrad, che ci seppe restituire in maniera magistrale il senso straniante e stravolgente, per chi a diversi livelli e in ruoli diversi ne fu protagonista, di queste esperienze: “Risalire quel fiume – avrebbe scritto nel suo Cuore di tenebre – era come viaggiare all’indietro verso i più lontani primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua deserto, un silenzio immane, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, greve, inerte. Nessuna gioia nello splendore del sole. I lunghi tratti di quella via navigabile continuavano a scorrere, deserti, entro l’oscurità di lontananze cariche d’ombra […]. E questa muta immobilità di vita non somigliava affatto alla pace. Era il mutismo di una forza implacabile, che covava un’intenzione imperscrutabile. Ti guardava con aria vendicativa”. L’idea di Africa appare sia in Conrad che in Bove un concetto complesso: per loro, come per i tantissimi altri viaggiatori che penetrarono al suo interno nella seconda metà dell’Ottocento, l’Africa non fu solo un paese, un luogo; ma fu soprattutto un’idea, un modo di essere, una malattia (“mal d’Africa”), tutti elementi che coesistono e si intrecciano negli scritti di Bove e di Conrad con esiti, naturalmente, diversi, ma con un fondo sostanzialmente comune, derivante dalla loro appartenenza al mondo dei colonizzatori. Francesco Surdich Francesco Surdich dall’anno accademico 1970/71 ha insegnato Storia delle esplorazioni e scoperte geografiche presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, dove dal 2008 al 2010 ha ricoperto anche la carica di Preside. Ha al suo attivo oltre duecentocinquanta contributi scientifici apparsi sulle principali riviste storiche e geografiche e in atti di convegni nazionali ed internazionali, nonché diversi volumi, tra cui Momenti e problemi di storia delle esplorazioni (1975); Fonti sulla penetrazione europea in Asia (1976); Verso il Nuovo Mondo. L’immaginario europeo e la scoperta dell’America (2002); La via della seta. Missionari, mercanti e viaggiatori europei in Asia nel Medioevo (2008); La via delle spezie. La Carreira da India portoghese e la Cina (2009); Verso i mari del Sud. L’esplorazione del pacifico centrale e meridionale da Magellano a Malaspina (2015).. Nel 1975 ha fondato la Collana “Studi di storia delle esplorazioni”, che tuttora dirige e nell’ambito della quale cura ogni anno la pubblicazione del periodico Miscellanea di Storia delle esplorazioni. P io VII nacque a Cesena il 14 agosto 1742. Decimo degli undici figli di Scipione Chiaramonti e Giovanna Coronata Ghini, fu battezzato il giorno successivo, festa dell’Assunzione di Maria Vergine, così come attesta il registro conservato presso la Cattedrale, ricevendo i nomi di Barnaba Nicolò Maria Luigi. Sono pertanto del tutto arbitrarie sia la data di nascita del 1740, riportata in diverse opere, sia il nome di Luigi Barnaba. Il nome di Gregorio, fu assunto solo quando il futuro pontefice entrò a far parte del cenobio benedettino presso l’Abbazia di Santa Maria del Monte a Cesena. Il fatto di essere stato battezzato in Duomo, così com’era avvenuto per i suoi antenati, e per di più nel giorno della festa più amata dai cesenati, spiega la devozione sempre provata da Pio VII per l’immagine venerata della Madonna del Popolo. La famiglia del papa La madre di Pio VII Giovanna Coronata nacque il 10 novembre 1713. Figlia del marchese Barnaba Eufrasio Ghini e di Isabella de’conti Aguselli, apparteneva ad una delle più importanti famiglie di Cesena, ancorché originaria di Siena. Essendo più che carina, non è da stupirsi se si sposò molto giovane – anche per l’epoca –- a soli diciassette anni, il 23 dicembre 1730, portando in dote al marito un podere di dodici ettari che contribuì, e non poco, a rialzare il reddito assai magro dell’illustre consorte. I loro bambini, anche se non tutti sopravvivono a lungo, nascono uno dopo l’altro come le perle di un rosario...ben undici! Rimasta vedova nel 1750, Giovanna deve trovare una sistemazione a una prole ancora numerosa e in parte molto giovane. Il 19 aprile 1761 rinuncia ad ogni eredità a favore dei figli e pone “ I Nobil Pupilli” sotto la tutela di Francesco Almerici, che appartiene ad una delle più antiche famiglie cesenati. Il primogenito Giacinto entra nella Compagnia di Gesù e il secondogenito Tommaso eredita così la responsabilità della famiglia. Ottavia viene presa sotto l’ala dell’amica - e parente, per via dei Ghini - Olimpia Braschi, superiora presso le Celibate di Rimini; Barnaba entra nel 1756, a 14 anni, fra i Benedettini di Santa Maria del Monte 1 e, infine, il piccolo Gregorio nello stesso anno fa il suo ingresso nel Collegio dei Nobili di Ravenna. Giovanna, sistemati tutti i figli, non senza aver predetto a Barnaba la futura elezione al soglio pontificio – predizione che fu preceduta da un severo rimbrotto perché il piccolo non si comportava bene in chiesa – può infine realizzare la sua segreta aspirazione: prendere il velo entrando fra le Carmelitane Scalze dove assume il nome di Suor Teresa Diletta di Gesù e Maria. L’ accoglie nel 1762 il Carmelo di Fano, da dove non cessa di seguire l’educazione dei figli. Dopo essere stata d’esempio a tutti, muore in concetto di santità il 22 novembre 1777. Le sue ceneri riposano dal 1890 nel nuovo monastero alla periferia di Fano (quello antico, fu prima soppresso, riaperto, poi trasformato in caserma ed infine demolito nel 1958) dove la pietà delle consorelle così la ricorda: TERESA DI GESÙ E MARIA / MONACA CARMELITANA SCALZA / NEL SECOLO / GIOVANNA CONTESSA GHINI CHIARAMONTI DI CESENA / MADRE DELL’AUGUSTO PONTEFICE PIO VII / SANTAMENTE MORTA L’ANNO 1777 / NEL 64.MO DELL’ETÀ SUA. Amatissima dai figli, è così ricordata nel 1786 dal primogenito Giacinto nel suo poemetto De Maiorum Suorum Laudibus dedicato al fratello, all’epoca cardinale e vescovo d’Imola: O semper memoranda parens! O carmine nostro / Non umquam laudata satis! Me respice clemens, / Exutumque tibi mortali corpore iunge: / Sit, precor, haec merces, nostrorum haec meta laborum. 2 Pio VII, appena divenuto papa, tre giorni dopo essere sbarcato a Pesaro dalla fregata austriaca La Bellona che proveniva da Venezia dove era stato eletto, si trovava già a Fano per visitare il convento. Erano presenti due fratelli e una sorella e nessuno riusciva a trattenere le lacrime. Periodico dell’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit, Savona Direzione e redazione: via P. Boselli 6/3 17100-Savona Anno III – Numero 5 - Maggio 2016 Registrazione presso il Tribunale di Savona 1/2014 La famiglia di Pio VII e il suo trionfale ritorno a Cesena Effigie della Serva di Dio Suor Teresa diletta di Gesù Maria Carmelitana Scalza, madre del Regnante Sommo Pontefice Pio VII. Al secolo contessa Giovanna Ghini, vedova del conte Scipione Chiaramonti di Cesena. Francesco Manno (Palermo 1752 – Roma 1831) Ritratto allegorico di Pio VII Chiaramonti al governo del timone della Chiesa, e dei suoi antenati dell’ordine dei cappuccini. I fratelli del Papa Giacinto Ignazio, il maggiore, nacque a Cesena il 19 Settembre 1731 e morì il 7 giugno 1805. Entrato a far parte della Compagnia di Gesù nei Collegi di Reggio Emilia, Guastalla e Carpi, la lasciò nel 1762 di sua iniziativa (ipso petente et propter melanchoniam)3 e ottenne dal vescovo di Cesena la carica di arcidiacono della Cattedrale. Fu uomo dottissimo particolarmente nella lingua latina e scrisse il già ricordato poemetto De Majorum suorum laudibus in onore della famiglia. Tommaso, da cui discende il ramo attuale dei Chiaramonti, nacque a Cesena il 19 Dicembre 1732. Nel 1769 si sposò con Marianna Aldini da cui ebbe cinque femmine e quattro maschi. Morì l’8 dicembre 1799 e riposa in Sant’Agostino dove fu traslato dal chiostro di San Francesco, a seguito della soppressione delle Congregazioni religiose, il 6 Febbraio 1808. Ottavia nacque a Cesena il 1 giugno 1738. Entrata presso il Ritiro delle Celibate a Rimini , per la cerimonia della sua vestizione ricevette dalla madre “ scudi 107 e baiocchi 6 “ che servirono per acquistare, fra l’altro, una libbra di caffè, 24 libbre di cioccolata oltre a 6 capponi e 6 piccioni “Per Regalo ai Padri ed al Signor Sindico”. 4. Tornò in seguito in famiglia senza prendere i voti. Morì a Cesena il 7 maggio 1814 e fu sepolta nella chiesa di Sant’ Agostino, in un arca fatta costruire appositamente. Maggiore di Pio VII di soli quattro anni, fu quella dei fratelli che rimase con lui in maggior comunione di spirito. L’ultimogenito Gregorio, nacque a Cesena nel 1746. Ammesso, all’età di 10 anni, al Collegio dei Nobili di Ravenna, iniziò a prepararsi per una carriera religiosa che poi abbandonò di sua spontanea volontà. Divenne infatti Cavaliere di Malta 5 e, in seguito, Cavaliere di Gran Croce Direttore responsabile: Silvio Riolfo Marengo Comitato di redazione: Mario Accatino, Silvia Bottaro, Giuseppe Milazzo, Sonia Pedalino dell’Ordine di Carlo III di Spagna. Prese dimora a Bologna dove morì il 5 aprile 1828. Non risulta che si sia mai sposato. Dei fratelli, fu quello che maggiormente chiese sussidi al Papa, il quale, tuttavia, più che di denari fu prodigo con lui di china e tabacco di Spagna! Il rientro di Pio VII a Cesena Nel 1814, dopo la battaglia di Lipsia, Napoleone decise di far rientrare in Italia il papa tenuto a lungo prigioniero a Savona e a Fontainebleau. Pio VII prese la via del ritorno che subito si trasformò in un trionfo: di città in città fra folle inginocchiate, archi trionfali fatti erigere ad ogni ingresso e popolo in lacrime, giunse infine a Imola, che aveva tanto amato e che lo aveva visto vescovo durante i lunghi anni di occupazione francese. Poiché non si decideva a lasciare la città, dove rimase dal 2 al 15 aprile, la sorella Ottavia gli fece sapere che stava per morire e che se non si risolveva a recarsi a Cesena, non l’avrebbe più rivista in vita. Pio VII le rispose di attendere perché non sarebbe passata a miglior vita senza averlo prima incontrato. E così, infatti, avvenne: il papa, giunto a Cesena, ebbe modo di intrattenersi in lunghi colloqui con la sorella che, fra l’altro, gli chiese di riedificare la chiesa di Santa Cristina. Infine, si accomiatò dai suoi e, rivoltosi alla sorella, le disse: “Io parto per Roma e tu per il Cielo”. Ottavia, ubbidiente al volere di Dio e preavvertita dal Suo vicario, morì nel momento preciso in cui la carrozza del papa varcava Porta Santi per imboccare l’Emilia in direzione di Roma. La sensazionale predizione non mancò di lasciar traccia fino ad esser riportata nella cappella di casa che al contempo ricorda il battesimo di Beatrice, figlia di Scipione e di Teresa Barberini. Entrato a Cesena il 20 aprile, dopo un solenne Te Deum in Cattedrale, Pio VII si installa per diciassette giorni nel palazzo acquistato sette anni prima. Per riceverlo si provvede a coprire tutti gli specchi, quattro torcieri vengono posti nello scalone e nell’androne a seconda del bisogno. Il piano nobile viene illuminato a torce, il primo piano e i mezzanini a lampioncini, così come le finestre del cortile e quelle che guardano sul lato di via Sacchi (all’epoca “Trova di Mezzo”). La camera allestita per lui prenderà da quel giorno in famiglia il nome di “Camera del Papa”. Non si tratta in alcun modo di una camera adatta a un uomo di chiesa. Anzi: sul soffitto dell’alcova c’è tutto un intrecciarsi di nodi d’amore, frecce, donzelle appena fasciate di morbidi veli, colombe tubanti e quant’altro la fantasia di un timido erotismo settecentesco avesse potuto provvedere a una camera da sposi. Tuttavia, Pio VII doveva essere sicuramente molto stanco e, reduce degli appartamenti di Fontainebleau, aveva visto senz’altro di peggio: lì, infatti, quante caminiere riportano le H di Enrico II di Francia intrecciate con le mezzelune della sua amante Diane de Poitiers! Sopra il letto, ad ogni buon conto, viene posto un “Padiglione, ad uso de’ Vescovi di color bianco. Crocefisso in faccia al letto – ed altro più piccolo sopra il letto – Scrittojo con suo tappeto – Crocifisso per lo scrittojo”. Di troni se ne fanno due, uno – probabilmente – nel Salotto Rosso e un “Trono a tre gradini con Poltrona” viene posto in quello che oggi è detto Salotto Veneziano: “Si copriranno tutti gli specchi. Il quadro rappresentante la Famiglia de’ Santi di Casa si metterà sopra lo specchio in faccia al Camino – Sul tavolino un Crocifisso grande – Sul Camino L’Orologio Non ci sarà alcun mobile . Tappeto che cuopra tutto il Piancito della Camera”.5 Il 24, festa della Madonna del Popolo, il papa rimane a casa raffreddato. Dispone, comunque, che il Pontificale venga celebrato dal suo Elemosiniere monsignor Bertazzoli, arcivescovo titolare di Edessa. Assistono i vescovi di Cervia, Sarsina, Forlì e Rimini. Il 1 maggio, sentendosi meglio, Pio VII sale al Monte dove incorona la Vergine. Al ritorno benedice la folla dal Municipio. Il 5 maggio esce da casa per la seconda volta per celebrare la messa in Duomo all’altare della Madonna del Popolo. Nel frattempo, battezza la piccola pronipote Maria Beatrice, figlia di Scipione e Teresa, nella cappella di casa. Compie anche miracoli: un fanciullo cieco venuto da Urbino ritrova la vista e un fanciullo idropico di Cesena viene guarito. Pochi giorni prima, a Ravenna, aveva risanato un paralitico da diversi anni in tale condizione. Partito da Cesena il 7, il 24 maggio entra in Roma, mentre Napoleone sbarca all’isola d’Elba. Così come Innocenzo XI Odescalchi, dopo la vittoria sui Turchi, aveva chiamato Maria “Regina delle Vittorie” e, prima di lui, san Pio V, dopo la battaglia di Lepanto, aveva fatto inserire nelle Litanie Lauretane l’invocazione alla Vergine quale Auxilium Christianorum, Pio VII, nel concistoro del 26 settembre 1814, istituisce la festa di Maria Ausiliatrice da celebrarsi ogni anno il 24 maggio, giorno del suo ritorno a Roma. Memore poi della richiesta della Pigmenti Cultura Hanno collaborato a questo numero M. Almerighi, S. Bottaro, F. Ciciliot, G. d’Ottaviano Chiaramonti, G. Milazzo, M. Novaro, S. Pedalino, S. Riolfo Marengo, C. Salvago Raggi, F. Surdich, F. Toso, G. Venturino. Revisione generale dei testi Silvio Riolfo Marengo. Del contenuto e delle opinioni espressi negli articoli pubblicati sono responsabili i singoli Autori che hanno anche fornito le immagini illustrative. Stampato e distribuito gratuitamente in 2000 copie. Stampa: Coop Tipograf, Savona sorella, affida l’incarico di progettare la riedificazione della Chiesa di Santa Cristina a Giuseppe Valadier che ne spedisce i disegni a Cesena6. Al fine di seguire i lavori e l’amministrazione dei fondi occorrenti, viene costituita una deputazione, a capo della quale è nominato Scipione Chiaramonti. Il denaro mandato da Roma si rivela presto insufficiente e Scipione si trova a combattere, da un lato per sollecitare ulteriori erogazioni da Roma, dall’altro perché il progetto di Valadier non venga stravolto a favore di una soluzione più economica. Come Dio volle, tutto si risolse per il meglio, con l’unica variante rispetto al disegno originario consistente nella copertura della cupola, realizzata in lastre di rame di forma rettangolare anziché a forma di scaglia di pesce. Gregorio d’Ottaviano Chiaramonti NOTE 1.”Confesso io sottoscritto d’aver ricevuto dal Nobil Sig.e Fran. Almerici tutore dei Nobili Viri Conti Chiaramonti scudi ventisei e mezzo per servirsene nel atto della vestizione del Nobil Sig .e Conte Barnaba Chiaramonti nel Convento delli Monici di S. Maria del Monte. In Fede mi dico Dom.co Lughi Agente di d.a Nobil Casa Chiaramonti aff.o”. ACC. ( Archivio Chiaramonti Cesena). 2 O madre sempre degna di ricordo/ O tu mai a sufficienza lodata/ dalla nostra poesia!/ Rivolgi a me lo sguardo clemente e, / quando mi sarò spogliato/di questo corpo mortale/ congiungimi a te. / Sia questo, ti prego, il premio, / questa la meta dei nostri travagli. (Traduzione di G. Maroni) 3 Archivi della curia generalizia della Società di Gesù, Catalogo della Provincia Veneta. 4 ACC 5. Nota delle cose preparate in Casa Chiaramonti per un decoroso ricevimento del S.Padre Papa Pio VII. 1814-Marzo. ACC 6 I disegni originali di Valadier sono conservati in parte in ACC, in parte presso il palazzo episcopale di Cesena. Il conte Gregorio d’Ottaviano Chiaramonti, nato a Firenze nel 1950, dimora in Francia dal 1952 al 1955 (prima a Parigi e poi a St. Gérmain en Laye dove il padre rappresenta la Marina Italiana allo S.H.A.P.E) e in seguito a Roma, Firenze e Venezia. Laureato in Scienze Politiche a Firenze, svolge funzioni direttive dal 1976 al 1984 al Centro Leasing SpA e dal 1985 al 2010, in Findomestic Banca. È stato, fra l’altro, presidente del Consiglio d’Amministrazione e membro del Comitato Esecutivo di ASSOFIN - Associazione Italiana Credito al Consumo e Immobiliare – Milano, Presidente di EUROFINAS (European Federation of Finance Houses Associations) - Bruxelles. È Cavaliere Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e capo di Guardia Nobile della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze. L’Ufficio dell’Associazione “Aiolfi” è sito in Via P. Boselli 6/3 – Savona aperto mercoledì ore 10-12 e giovedì ore 16-18 e-mail: [email protected] http://aiolfiassociazione.blogspot.it 11 Alassio, 26 giugno 1931. A rrivare in un luogo di villeggiatura qualche giorno prima che si inizi la stagione è imbarazzante come giungere dieci minuti prima dell’ora fissata in una casa dove si è invitati a pranzo. Anche gli oleandri della stazione di Alassio ti hanno guardato con meraviglia, te che sei giunto con un anticipo di quattro o cinque giorni, viaggiatore indiscreto e frettoloso che vuoi “scoprire l’estate”. Come hai fatto a non avvederti che la messa in scena del paese delle vacanze è pronta, ma lo spettacolo non è ancora incominciato? Sarebbe bastato che tu avessi guardato dal finestrino, prima di scendere. La piccola frotta di viaggiatori che è scesa con te è tutta gente del luogo, che i facchini non degnano neppure di uno sguardo. C’è, in stazione, una quiete di idillio, il tran - tran di tutti i giorni. Una lindura, una grazia, un profumo che, se ci fossero dei capistazione in gonnella, riconosceresti la mano di una attenta e gentile padrona di casa. Questa non è una stazione: è la villetta di un appassionato coltivatore di fiori. Come mai egli permette il passaggio di questi ospiti invadenti che sono i treni? Dovrebbero, se mai, passare soltanto treni nuziali, con carrozze alcova, da essere accolti con lancio di fiori: treni con locomotiva a confetti. 12 Un personaggio fuori stagione Come hai fatto a credere che questa sia una stazione da paese di bagni? Tu che viaggi, sei bene abituato a riconoscerle, quando non vi puoi scendere. Invece- hai visto? - nessuno è aspettato con questo treno. Niente ragazze dal passo ardito, dai vestitini leggeri, brune per il sole e ridenti; niente bambini coi sandali e il berretto da marinaio americano, pronti a lanciarsi incontro al “caro papà”, niente giovanotti in canottiera bianca e nude braccia bronzee timbrate coi generosi bolli del vaccino, niente signore senza cappello, coi polpacci nudi e gli abiti a vivaci colori. Niente corse lungo i vagoni, in cerca del caro cugino, delle carissime amiche. Niente possibilità, per chi scende, di dire a chi gli viene incontro: “ Come sei diventato nero”. Niente gai strilli , niente fresche risatine, niente gelati in vendita sul piazzale e gioioso schioccar di fruste dei vetturini oltre il cancello: niente di tutto quanto, in altri momenti, fa morire di invidia i poveri viaggiatori che, con tanto di giacca e di colletto, devono proseguire per ignota destinazione lasciando un pezzetto di cuore in ciascuno di questi paesi dove il treno si ferma soltanto per farti soffrire, cari paesi affacciati al mare, dove vive la felice razza della gente in maglietta e in maniche di camicia, lieti paesi che sanno di caramelle dissetanti, di vermut, di piccoli amori, di banda comunale in piazza, di tranquilli dormiveglia al riparo degli ombrelloni, giocondi paesi dove la domenica dura sessanta giorni… Non ti sei accorto di nulla. Non ti ha messo in allarme la quiete della stazione, il placido silenzio delle vie, il pacifico trottarello del cavallo, l’aria assonnata del portiere d’albergo. Hai voluto sfoderare i pantaloni bianchi, la canottiera, le scarpe da tennis , diventar tutto bianco, color gesso. Sei sceso difilato alla spiaggia, hai guardato il mare che veniva a stendere ai tuoi piedi un tappeto azzurro ricamato d’argento, hai respirato a pieni polmoni, hai pensato che la vita è bella, e soltanto dopo tutto questo ti sei reso conto che anche il paese delle vacanze ha i suoi orari e le sue giornate inaugurali, e ti sei accorto di essere solo, trasformato in un personaggio fuori stagione, “ l’uomo bianco”, il Pierrot da spiaggia che entra in scena il primo luglio e non prima .e al quale guardavano oggi con curiosità i rari Eleganza sulla spiaggia di Alassio (1910), da L’estate di Alassio, a cura di D. Astengo e A. Carossino, 2005. Manifesto di Filippo Romani (1929). pionieri delle bagnature, silenziosi e dimessi, nascosti qua e là dietro le barche dei pescatori, pattuglia di punta dei dodicimila bagnati che invaderanno Alassio tra qualche giorno. Queste sabbie, come si vede, sono veramente sabbie d’oro, per i cittadini di Alassio. Il calendario è tutto prenotato. Tutte le stagioni sono buone per chiamar gente a vivere nel sole del golfo tra Capo Mele e Capo Santa Croce. Si cerca soltanto un impiego più redditizio dell’autunno, tanto per dar ragione a quello storico locale che calandosi sotto lo pseudonimo abbastanza oscuro di “Un uomo” ha scritto la entusiastica guida del paese e , constatando che ad Alassio non si sente la differenza tra una stagione e l’altra, assicura che per questa riva incantata la natura ha creato una quinta stagione che cumula in sé l’autunno, l’inverno e la primavera e che si chiama con un nome piuttosto difficile da masticare, la “autinvera”. Giorno verrà, non dubitate, che anche l’autunno ad Alassio sarà di moda, e farà spasimar le fanciulle torinesi e milanesi, Questa popolazione che un tempo viveva con il frutto degli uliveti e della pesca, ha imparato a trasformare in carte da mille l’azzurro del cielo e del mare, prodigiosa e naturale officina di carte valori. Il primo alleato l’hanno avuto in Garibaldi, scopritore di Alassio quand’era già vecchio e tremulo. Venne qui, il grande vegliardo, nell’ottanta e nell’ottantuno. Alassio aveva ancora le sue cinta di mura, le sue torri marine, le sue porte di ferro. Il mare serviva per pescare, la spiaggia per stendervi le reti. La sua temperatura, anche allora, era mite come oggi, la più mite , si assicura, di tutta la Riviera, Costa azzurra compresa: ma nessuno ci faceva caso. L’”autinvera” non era stata ancora scoperta. Ad arricchire coi forestieri non ci pensava nessuno. Si tentavano piuttosto, imprese rischiose , come la pesca del corallo a Capo Mele, o si emigrava per le tonnare di Sardegna o di Tunisia. La stazione era senza fiori, sparuta, e non ci scendeva nessuno. Un cattivo raccolto di ulive voleva dire la miseria per tutti. Garibaldi era vecchio, e nelle sue vecchie membra generose e affaticate lavorava l’artrite. Venne qui, nell’inverno dell’ottanta, a prendere un po’ di sole; e ci tornò nell’ottantuno. Abitava quella che allora si chiamava la Villa Gotica, isolata sulla spiaggia di levante, tra un folto di pini. Dove il glorioso condottiero, la sera, sotto gli alberi sognava la sua giovinezza battagliera e le sue stelle di marinaio, oggi, meno eroicamente, sotto gli stessi pini e di fronte alle stesse stelle, in un piccolo dancing elegante sospirano le coppie che “ fanno la vita”. La mattina, la poltrona del generale veniva portata sulla spiaggia, e, a debita distanza, quelli che oggi sono i vecchi di Alassio e allora erano i bambini che giocavano sulla rena, potevano vedere, al sole, i capelli d’argento della lunga chioma del condottiero, la bianca barba, la berretta ricamata, il gesto tardo delle sue mani anchi- Pagine ritrovate Vigilia di Alassio. La domenica di sessanta giorni losate. Ogni tanto, di quella immobilità il canuto eroe non ne poteva più. Qualche pescatore accorreva dalle vicine case. Rimboccavano i pantaloni, prendevano in braccio la poltrona e il Generale, entravano in acqua e issavano il triste carico su un canotto. Poi, coi remi, si spingevano fino all’isola Gallinara, dove il Generale consumava una frugale colazione, una frittata involta in un pezzo di carta, un mela, un sorso d’acqua. Da Cenerentola a Reginetta Alla stazione scendevano i garibaldini che avevano saputo della presenza del condottiero in Liguria: Alassio era più vicina di Caprera ed era il luogo più comodo per poter ancora avvicinare il Generale. Prendevano alloggio in una piccola locanda, percorrevano a piedi la via del mare, suonavano al cancello della Villa Gotica. Ripartivano con le lagrime agli occhi, ma con anche, in un angolo del cuore, la memoria della quieta spiaggia , del dolce clima. Anche i garibaldini, ormai, avevano preso moglie, avevan figli, eran padri di famiglia. Tornando, la sera sotto il lume parlavano del Generale e del piccolo paese color di rosa dove passava il dicembre. Il marito parlava di battaglie, la moglie pensava al tepore di Alassio, dove la primavera sopravviveva in pieno inverno. Garibaldi, con la mano stanca, scriveva al sindaco del paese, prima di partire, l’elogio del “ clima benefico della interessantissima spiaggia di Liguria”, l’elogio per la “cordiale e generosa ospitalità”… La fortuna di Alassio era fatta. Gli inglesi venivano a rinsaldarla. I primi olivi vennero sradicati per far posto alle prime ville, le prime barche di pescatori vennero noleggiate per le gite, i primi bambini bravi venne- ro portati, in premio, alla spiaggia, la prima Vittoria, Maria Vittoria di Spagna, venne a darle l’impronta della regalità. Era ancora un paesotto dove non si pagava tassa di soggiorno. Un musicista, Amilcare Ponchielli, vi prese in affitto, nell’ottantacinque, una cameretta in vista del mare. Gli inglesi vi impiantarono il primo campo da tennis e il primo club, la biblioteca circolante e la chiesa. Alassio sentì passare sui suoi tetti e sulle sue terrazze il venticello della prossima ricchezza. Volle aver le sue carte in regola. Cercò, nella storia i suoi titoli nobiliari che facevano piacere ai piemontesi e trovò, nella leggenda, la lontana presenza, sulle sue rive, di Aleramo e di Adelasia. Trovò, nella storia anche i titoli che facevano piacere ai milanesi: e scovò che le sue origini si dovevano alla sosta, nel 568, di una colonna di milanesi fuggiti innanzi all’invasione di Alboino. Si ricordò che anche Napoleone era stato ad Alassio e che, anzi, c’era ancora il letto dove aveva dormito. Si amministrò con saggezza, abbatté le mura, allargò le vie, piantò filari di palme, consacrò l’inverno alla colonia permanente dei duemila inglesi, la primavera i tedeschi, l’estate agli italiani. Consacrò l’autunno, da buona figlia di Genova, a fare i conti. E vide che, ogni anno, i conti tornavano. Visse così facendosi sempre più bella, amministrando la propria civetteria, mettendo in bilancio l’arte della seduzione. Era spettinata e si pettinò. Era rustica e si incivilì. Ora si parla, addirittura, di demolire tutte le vecchie case lungo il mare, le bicocche dei pescatori, gli archi dove si annidano le barche, le terrazze dove la vite si arrampica. E questo forse è troppo. Ora comincia l’invidia per Viareggio, per San Remo, per Rapallo. Alassio, brava ragazza marinara, si è fatta signorina. Vuol essere la perla della Riviera. Era la Cenerentola, vuol diventare la Reginetta agghindata e preziosa. Alassio, gaia divetta Adesso si aggiusta i ricci, in un intervallo tra le due rappresentazioni. La sala è vuota, per qualche ora, ma già si fa “porta”. La spiaggia è vuota, ma operosa come un cantiere. E’ l’ultima ora, buona per i verniciatori, i falegnami, gli imbianchini e gli apparatori. Gli uomini vestiti di bianco sono inviatati a girare al largo, per poche ore. Vernice verde per le cabine, vernici di tutti i colori per le barche, tele a grandi righe per le sedie a sdraio e gli ombrelloni. Da tutte le parti si cuce, si taglia, si dipinge. I fattorini degli alberghi, davanti alla stazione, provan la voce. Le radio, ahimè, fan le prove nelle piazzette ancora deserte. I treni scaricano le vettovaglie per il grande esercito affamato di divertimenti e di piccole golosità: vagoni di biscotti, di vini bianchi, di liquori, di antipasti assortiti. Il commesso viaggiatore in abat-jours e in lampioncini alla veneziana non sa più dove mettere le ultime commissioni. I cartolai controllano i pacchi delle nuove tirature di cartoline illustrate. I negozi di mode, dietro le tendine calate, preparano le vetrine degli affascinanti pigiama, degli aderentissimi costumini, delle cuffiette per le birichine dai quindici ai quarantacinque anni. L’annaffiatrice stradale si prepara alla gran sortita per il 30 giugno e un omino paziente stura con un ago tutti i forellini arrugginiti. Mi pare che il direttore di scena giri già tra le quinte e ammonisca: “ Chi non è di scena, fuori!”. Lo spettacolo sia per incominciare. Alassio, gaia divetta delle spiagge, aspirante al ruolo di “vedetta” nella grande revue balneare, viene, in punta di piedi, a guardare per il buco del sipario. La folla dei bagnanti è pronta? Tutte le comparse sono a posto? Le girls anche? E allora, maestro Sole, si può cominciare la prima rappresentazione. Le sessanta repliche sono assicurate. Orio Vergani Orio Vergani (Milano 1889 – 1960), autore di romanzi e opere teatrali, era noto soprattutto per la sua infaticabile produzione giornalistica. Livio Garzanti mi raccontava che era in grado di scrivere contemporaneamente due articoli di taglio opposto: lasciava a metà la frase di uno per dedicarsi all’altro e , subito dopo, riprendeva il primo da dove lo aveva interrotto senza bisogno di rileggere una riga. Dalle corrispondenze di viaggio passava alla critica letteraria e alle cronache sportive con la stessa facilità e felicità di scrittura. Ne è prova questa pagina su Alassio, apparsa il 26 giugno 1931 sul «Corriere della Sera» che ripubblichiamo come godibile testimonianza di costume ed esempio di “bello stile” di fronte a tanta sciatteria e insipienza di oggi. (SRM)