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Il profeta Geremia - Oblati di Maria Vergine

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Il profeta Geremia - Oblati di Maria Vergine
Capitolo 25
Il profeta Geremia
La vicenda storica del profeta Geremia è certamente tra le più drammatiche: il Signore lo ha letteralmente strappato dalle sue scelte personali, dai suoi progetti privati per farne uno strumento del
suo amore misericordioso. Talvolta Dio sembra fare violenza alle sue creature, adottando metodi
troppo forti; in realtà in questo modo Egli intende manifestare la serietà del suo disegno nel momento stesso in cui chiama qualcuno alla diretta collaborazione.
1. Vocazione di Geremia (Ger 1,4-19)
Della famiglia sacerdotale di Ebiatar, deposta dall’esercizio del sacerdozio ed esiliata da Salomone in Anatot, nel paese di Beniamino, a 5 chilometri circa a nord-est di Gerusalemme (cf. 1Re
2,26-27), Geremia, figlio di Chelckia, viene chiamato da JHWH alla diaconia profetica, poco più
che ventenne, verso il 627/626, cioè nel tredicesimo anno di regno di Giosia (cf. Ger 1,1-3; 3,6).
Trovandosi già per questa sua appartenenza familiare come una «pietra scartata dai costruttori»
(cf. Sal 118,22), Geremia, come Osea più di un secolo prima, è scelto dal Signore quale uomo nella
cui carne (= nella sua personalissima storia) la parola di YHWH si manifesta più e prima che nei
messaggi affidatigli per il popolo di Dio. Vedremo in seguito alcuni dei numerosi gesti e azioni efficaci in cui si incarna simbolicamente la parola di Dio nella persona stessa di questo profeta.
La vocazione di Geremia in radice scaturisce dal fatto che YHWH fin dal grembo materno lo aveva voluto e lo conosceva (cf. v. 5). Cioè lo stesso profeta – insieme alla sua missione – è frutto
dell’amore divino. Ora questa missione gli viene manifestata: «ti ho stabilito profeta delle nazioni».
A differenza di Isaia e di Ezechiele, l’origine della vocazione non è una visione, ma una parola
che dà alla vocazione del profeta una caratteristica di interiorità. Sente una parola interna, così come
fu per Elia l’esperienza di Dio sul monte Oreb. In questo senso Geremia è molto vicino a noi. E’
l’uomo della parola lieve, sottile, ascoltata.
Come risponde Geremia alla vocazione? Con il senso della sua inadeguatezza reale: «non so parlare», cioè sono balbuziente, e questo sarebbe certamente un grosso handicap per un profeta; «sono
giovane» e intorno a lui c’erano adulti molto autorevoli. Ma tutto ciò non è un ostacolo per Dio, che
sceglie mezzi umanamente inadeguati per raggiungere il suo scopo; non gli servono grandi oratori o
personaggi di grande rilievo. Gli basta un uomo povero ma disponibile, una persona umile ma desiderosa di collaborare, un povero peccatore ma aperto alla parola di Dio. Per questo il Signore insiste: «Non dire…» (v. 7): l’iniziativa è mia, sono io che ti mando. Forse a Geremia è venuto in mente che, per esempio, al tempo di Mosé, tanti uomini erano più loquaci di lui, eppure Dio lo aveva
scelto; che al tempo di Amos c’erano uomini dotti, ma il Signore aveva scelto lui, un povero pastore, raccoglitore di sicomori. L’autorevolezza viene dal Signore, non dalla capacità e dalla bravura
umana!
Al v. 9 è descritta la consacrazione. Lo stendere e l’imporre le mani è il gesto di trasmissione del
potere. Ma a Geremia non viene toccato il capo, bensì la bocca. Geremia, infatti, non sarà reggitore
di un popolo, non dovrà presiedere comunità, ma un profeta. Il dono che gli è dato è quindi quello
della Parola, e in questa missione riconoscerà i suoi limiti e la forza di Dio.
Il programma della missione affidatagli da JHWH è terribile: «Ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (v. 10). Sei
verbi, quattro negativi e due positivi, a indicare che la missione sarà piuttosto una missione di critica, di minaccia, anche se sarà presente la missione costruttiva; sarà un compito pesante, faticoso.
Ogni profeta ha il suo filone di missione, la sua linea. Il Deuteroisaia (Is 40-55), è un profeta consolatore, mentre Geremia deve profetare soprattutto sventure. E’ YHWH a decidere la missione di ciascuno a partire dalle circostanze storiche.
E’ da notare che il profetare sventure fa di Geremia un profeta che, lungi dal fatalismo, ha il
compito di alimentare la fede in JHWH e la speranza del popolo. YHWH, infatti, tiene in mano le
stesse vicende sventurate dal popolo e, anche attraverso esse, vuole realizzare il suo disegno storico.
Seguono quattro simboli e quattro oracoli che ritmano la spiegazione della missione di Geremia:
- il simbolo del ramo di mandorlo (v. 11) con l’oracolo (v. 12) assicura Geremia che YHWH vigila (shaqad) sulla sua parola per realizzarla nella storia, come un mandorlo (shaqed) vigila in vista
della primavera – lo ha «consacrato» per essere «profeta delle nazioni».
- la caldaia sul fuoco (v. 13) con l’oracolo (vv. 14-16), che afferma che dal settentrione si rovescerà la sventura (vv. 13-16);
- i fianchi cinti e lo stare in piedi: esprime la sollecitudine che deve avere il profeta
nell’esecuzione di ogni ordine divino (cf. 1Re 18,46), come pure l’immediata disposizione alla lotta
(cf. Gb 38,3; 40,7); l’oracolo ripete di non aver paura, di non spaventarsi (v. 17);
- la città fortificata e il muro di bronzo; l’oracolo avverte che nel suo andare contro i re di Giuda
e i loro capi, contro i sacerdoti e tutto il popolo del paese, Geremia non sarà vinto perché YHWH è
con lui per salvarlo (vv. 18-19).
La parola di YHWH gli consumerà il cuore e le ossa, come un fuoco ardente, esponendolo agli
insulti e alla persecuzione di molti, come un agnello mansueto portato al macello. Soprattutto, la Parola lascia il profeta in preda a una solitudine desolata che, nelle sue accorate «confessioni»1, lo
spingerà a maledire il giorno della sua nascita, come più tardi farà Giobbe. Ma rimarrà comunque –
nonostante in questa sofferenza – un profeta interamente «sedotto» da JHWH, dal suo primo concepimento fino alla sua forzata deportazione in Egitto, impostagli da coloro ai quali ha comunicato la
parola di Dio. Là si perdono le sue tracce. E solamente molto tempo dopo la sua morte Geremia sarà
riconosciuto come vero e decisivo profeta di JHWH2.
2. Geremia e la politica
Dopo la morte di Giosia a Meghiddo contro Necao che guidava l’armata egiziana, Ioacaz, quarto
figlio del re defunto è posto sul trono dal popolo del paese – probabilmente dal partito anti-egiziano
che desiderava il proseguimento della politica del padre. Il suo regno durò solo tre mesi poiché fu
deposto da Necao (cf. 2Re 23,31) a favore del fratello Eliakim, cambiandogli il nome in Ioiakim.
Sottolineiamo il cambiamento di nome, perché esso vuol significare che non si ha autonomia. E’ un
altro che ti dà il nome: è lui il tuo padrone, tu sei uno schiavo, un vassallo. Il nome è poi piuttosto
ironico: Ioiakìm infatti vuol dire: «il re ti ha stabilito», mentre in realtà egli fu un fantoccio nelle
mani dell’Egitto.
Tuttavia Ioiakìm ha un periodo di una certa indipendenza. Di fronte alla massiccia avanzata di
Babilonia infatti l’Egitto abbandona sempre più il suddito al suo destino. Nel momento in cui Ioiakìm si sente un po’ libero, dà inizio al sogno nazionalistico: senza riguardo alla sua gestione di governo profondamente ingiusta, fomenta nel popolo sogni di grandezza e di gloria così da tenere unita la massa. Illude il popolo affermando di essere in grado di controllare il re di Babilonia, qualor
apparisse all’orizzonte. Ma proprio questo grande sogno Geremia ha l’ordine di frantumare. Si può
quindi immaginare come la sua figura risulti odiatissima dal re. Essa è soprattutto odiata, perché
Geremia, come tutti i profeti, punta l’indice anche contro le ingiustizie commesse da questa classe
politica.
In 22,13-19 Geremia denuncia la corruzione e le violenze che il re perpetrava contro i deboli. La
denuncia è carica di ironia e si rivolge contro lo sperpero dei politici, la loro arroganza, la loro ricchezza ostentata. Non viene fatto subito il nome del re, ma tutti riuscivano a intuirlo.
«Guai a chi costruisce la casa senza giustizia
e il piano di sopra senza equità,
che fa lavorare il suo prossimo per nulla,
1
2
Cf. Ger 11,18-12,6; 15,10-21; 18,18-23; 20,7-18.
Cf. 2Cr 36,12.21; Esd 1,1; Dn 9,1-2; 2Mac 15,13-16.
2
senza dargli la paga,
e dice: “Mi costruirò una casa grande
con spazioso piano di sopra”
e vi apre finestre
e la riveste di tavolati di cedro
e la dipinge di rosso.
Forse tu agisci da re
perché ostenti passione per il cedro?» (vv. 13-15b)
- sarcastica la sferzata: tu credi di diventare famoso solo perché riesci a tappezzare con decorazioni in legno così raffinate le pareti del tuo palazzo? -.
«Forse tuo padre non mangiava e beveva?
Ma egli praticava il diritto e la giustizia
e tutto andava bene.
Egli tutelava la causa del povero e del misero
e tutto andava bene;
questo non significa infatti conoscermi?
Oracolo del Signore.
I tuoi occhi e il tuo cuore,
invece, non badano che al tuo interesse,
a spargere sangue innocente,
a commettere violenza e angherie» (vv. 15c-17).
In finale viene pronunciata l’offesa peggiore che si possa fare ad una persona: dichiarare che il
suo destino sarà quello di essere trattato da defunto come una carogna di animale, cioè il rimanere
insepolto, senza funerali, senza lamentazioni3. Ciò significava non entrare nello sheol, nell’area dei
padri che ti accolgono, e quindi non avere un’immortalità (cf. vv. 18-19). L’animale scelto, al quale
Ioiakìm viene comparato, è suggestivo. Geremia rappresenta la figura di un animale da soma: tu,
che sei stato sempre così signore e che volevi essere così aristocratico e non eri mai contento del
lusso della tua casa, ebbene, finirai come un animale selvatico.
Sale sul trono Ioiakìn (chiamato anche Conia o Ieconia), figlio di Ioiakìm, ma solo per tre mesi.
E’ costretto ad uscire da Gerusalemme per arrendersi ai babilonesi che assediavano la città. Viene
deportato a Babilonia con una parte della famiglia reale (prima deportazione). A Gerusalemme Nabucodonosor installa sul trono Sedecia, uno zio del re. Anche contro questo re Geremia è implacabile perché, spinto probabilmente dall’Egitto, che soffia sulle braci, illudendosi di potersi scrollare di
dosso il pesante giogo babilonese, inizia un doppio gioco. Nel 594-593, con il partito favorevole
all’Egitto, appoggiandosi al faraone Psammetico II, Sedecia cerca di organizzare una coalizione anti-babilonese insieme a Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone. Tale coalizione viene condannata energicamente da Geremia, che gira per Gerusalemme con un giogo da buoi sulle spalle (cf. Ger 27)
per indicare che il tentativo del re Sedecia non solo sarà inutile ma dannoso: Babilonia reagirà facendo cadere Gerusalemme e ci sarà l’esilio. Nel capitolo 28, invece, il falso profeta Anania si fa
avanti per dare un messaggio diametralmente opposto: spezza il giogo e rompe le corde per indicare
la liberazione della città di Gerusalemme dalla morsa babilonese. Il messaggio attribuito a YHWH è
chiaro: «Io spezzo il giogo del re di Babilonia» (Ger 28,2). Ma Anania sarà smentito dai fatti e sarà
pure castigato, mentre il messaggio di Geremia troverà conferma negli eventi storici. Il re, in seguito la catastrofe di Gerusalemme (cf. Ger 52,4ss), sfugge nelle steppe di Gerico; ma viene catturato e
condotto a Ribla nel paese di Hamat (l’attuale Libano orientale) presso il re di Babilonia, Nabucodonosor, il quale lo fa assistere all’uccisione dei suoi figli, e poi – dopo averlo accecato – lo fa condurre in catene a Babilonia (cf. Ger 39,4-7).
Anche Geremia ha dunque dovuto fare i conti con profeti falsi e bugiardi che andavano mendi3
Ricordiamo che il re sottomesso a Nabucodonosor, che aveva sconfitto le truppe egiziane a Carchemis, gli si rivolta.
Nabucodonosor dapprima gli manda contro le truppe provenienti da Moab, Edom, Ammon (2Re 24,2), poi arriva lui
stesso a porre l’assedio (598). Il re muore probabilmente assassinato durante l’assedio e rimarrà, almeno per un certo
tempo, insepolto (cf. Ger 36,30). Secondo 2Cr 36,6, invece, sarebbe stato deportato in Babilonia.
3
cando e spesso ottenevano l’assenso del re e il plauso del popolo4. Del resto YHWH, quando lo
chiamò, per farlo profeta, glielo aveva predetto (cf. Ger 1,4-10): la sua missione doveva far fronte
non solo alla resistenza spirituale dei suoi connazionali, ma anche alla controtestimonianza di questi
profeti.
3. I peccati del popolo
Durante il regno di Ioiakim Geremia si mette sulla porta del tempio di Gerusalemme, dicendo:
«Ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che attraversate queste porte per prostrarvi al Signore.
Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Migliorate la vostra condotta e le vostre azioni e io vi farò abitare in questo luogo. Pertanto non confidate nelle parole menzognere di coloro che dicono: Tempio
del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo! Poiché, se veramente emenderete la vostra
condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo avversario; se
non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e
se non seguirete per vostra disgrazia altri dèi, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre. Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate. Poi venite e vi presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo
salvi! per poi compiere tutti questi abomini. Forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio
che prende il nome da me? Anch’io, ecco, vedo tutto questo. Parola del Signore» (Ger 7,2-11).
L’intero ministero di Geremia fu contrastato e insidiato dai sacerdoti, dai profeti di corte e da tutto il popolo, fino al tentativo – come vedremo – di uccidere il profeta stesso. Tutti costoro non potevano accettare la parola, secondo cui Giuda e Gerusalemme, già tanto miracolosamente salvati sotto
Ezechia dalla minaccia di Sennacherib, nel 702-701, potessero correre dei rischi di sopravvivenza
con l’appressarsi dei babilonesi. Il grido «Il Signore è con noi!» (= Emmanuele) si era trasformato
nella convinzione che «il Signore è nostro, e noi lo teniamo nelle nostre mani. Siamo il regno legittimo della discendenza di Davide!». Soltanto i re discendenti di Giosia – da Ioacaz a Sedecia -, i
quali stimavano segretamente il profeta tanto legato alla memoria e all’opera del grande re caduto a
Meghiddo, difesero Geremia e lo consultarono, di nascosto, fino alla fine, mostrandosi però deboli e
paurosi di obbedire alla sua profezia che li esortava ad arrendersi ai babilonesi.
Leggiamo ora alcuni testi di Geremia ove il profeta denuncia il peccato del popolo e il giudizio
di JHWH per mezzo di diverse immagini e azioni simboliche.
3.1. Le cisterne, la cintura e la cammella (Ger 2,13ss; 13,1-11)
«Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva,
per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (2,13). L’acqua nella Scrittura è simbolo
di vita o di morte, di fecondità o di distruzione, di salvezza o di perdizione. Ma a Geremia più che
l’acqua interessa la sorgente, più che il dono il donatore, più che la creatura il Creatore.
Il discorso ha tonalità molto negative: siamo dinanzi a un ennesimo lamento di YHWH con il
quale egli smantella due malvagità del suo popolo. In realtà non si tratta di due, ma di una sola colpa, che è scaturita da un errore di discernimento e di scelta: abbandonando la sorgente di acqua viva, Israele si è trovato nelle terribile necessità di dissetarsi a cisterne screpolate, capaci solo di fornire acqua ferma e putrida. Sono due aspetti di una sola scelta.
L’accusa per i tradimenti dell’alleanza, che viene fatta nel genere letterario del rib o «processo»,
è qui lo sfogo di una lite appassionata tra amanti. L’accusa esplicita di YHWH è l’idolatria: «Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: tu mi hai generato» (2,27). La riflessione di
YHWH su ciò evidenzia la stoltezza di Israele: «Ha mai cambiato un popolo dèi? Eppure quelli non
erano dèi! Ma il mio popolo ha cambiato colui che è la sua gloria con un essere inutile e vano» (2,
4
In 23,9-40 troviamo un libretto nel quale Geremia descrive la perversità dei falsi profeti (vv. 9-14) e denuncia il giudizio di YHWH su di loro (vv. 15-40).
4
11). Il tono retorico del discorso nulla toglie alla serietà dell’accusa, anzi! In realtà, il suo pensiero
YHWH lo articola mediante un paradosso: perché Israele comprenda e si ravveda, Dio formula un
argomento per absurdum. E’ contro ogni evidenza storica, infatti, che uno degli innumerevoli popoli pagani abbia cambiato dèi, rifiutando i propri e mettendosi alla ricerca di altri: si direbbe che gli
infedeli sono più fedeli ai loro dèi di quanto non lo sia Israele all’unico vero Dio! Assurdità atroce
ma vera.
Sulle labbra di YHWH questa lamentazione equivale ad una confessione: deve ammettere che
tutte le sue attenzioni paterne verso Israele5 sono rimaste inefficaci. Lo stesso dicasi delle sue attenzioni sponsali: «Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti, una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per giorni innumerevoli» (2,32). La cintura a quei tempi era
presumibilmente uno dei regali più desiderabili per la sposa: simbolo di un legame di amore che
l’amato liberamente assumeva nei confronti dell’amata e, come tale, promessa e profezia di un vincolo che non sarebbe mai cessato. YHWH è un Dio appassionato che prende atto e soffre per
l’amore tradito.
Questa immagine della cintura ritorna anche in Ger 13,1-11. Tre sono i comandi che YHWH dà
a Geremia (comprare una cintura; nasconderla; prendere la cintura dal nascondigli) e il profeta obbedisce senza capire. Solo alla fine, quando in mano ha la cintura guasta, inservibile, l’oracolo spiega (vv. 8-10): la cintura è Giuda, è Gerusalemme, è il mio popolo, è la mia città che, avendo adorato
gli idoli e avendomi dimenticato, è marcita, inutilizzabile. Tutto si conclude al v. 11:
«come aderisce questa cintura ai fianchi di un uomo, così io volli che aderisse a me tutta la casa d’Israele
e tutta la casa di Giuda – parola del Signore – perché fossero mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria, ma non mi ascoltarono».
«Sono forse diventato un deserto per Israele, o un terreno caliginoso?» (2,31). Anche questa duplice immagine getta luce su ciò che YHWH intende e attende dal suo popolo. Non caligine, ma
piena luce che YHWH ha offerto e offre a Israele; non la solitudine e la tristezza di un luogo desolato, ma il luogo dell’incontro e della comunione amorosa (cf. Os 2,16.21).
Abbandonato YHWH il popolo ha riposto la fiducia nell’Egitto (cf. 2,18), ma ciò non servirà a
nulla: da esso «sarai delusa, come fosti delusa dall’Assiria. Anche di là tornerai con le mani sul capo, perché il Signore ha rigettato coloro nei quali confidavi»: 2,36-37.
Altra immagine con la quale il profeta denuncia il peccato del popolo che si illude di una fatua
potenza idolatrando se stesso o prostrandosi agli idoli delle nazioni dominanti è contenuta in 2,2324. E’ un’immagine violenta, quasi oscena, intenzionalmente volgare, per esprimere come l’uomo
possa degradarsi negli abissi della vergogna e della bestialità. Geremia paragona il popolo a una bestia presa dall’estro, ad una cammella o ad un’asina selvatica in calore, che non può essere trattenuta, che sfugge. Si cerca di legarla, ma essa spezza i legacci ed erra in ansiosa ricerca del maschio,
verso cui l’istinto, la brama fisica irresistibile la conduce.
3.2. Due sorelle (Ger 3,6-13)
Questo testo di Geremia è del periodo delle riforme promosse dal re Giosia, riforme alle quale il
profeta collabora, a suo modo. Geremia manifesta nei confronti del giovane sovrano segni di stima,
di vero e sincero apprezzamento. Soltanto che le riforme che il re promuove con tanto impegno non
ottengono gli effetti desiderati. La sua politica riformatrice risulta inutile. Geremia è spettatore di
questi eventi, ne è testimone, ne patisce intimamente il dramma.
«Il Signore mi disse al tempo del re Giosia: Hai visto ciò che ha fatto Israele, la ribelle?» (v. 6a)
Per Israele si intende il regno del nord, che già è sparito da tanto tempo, in quanto è dal 721 che
non esiste più, mentre Geremia nasce nel 650. Reminiscenze. Israele la ribelle. Il nostro profeta parla dei due regni come di due sorelle e attribuisce al regno d’Israele il titolo di ribelle, mentre attri5
L’acqua limpida e fresca è l’amore con il quale Egli ha scelto, cresciuto e vezzeggiato il suo popolo; la medesima cosa
è anche espressa con l’immagine della vigna, che YHWH stesso ha curato: 2,21.
5
buirà al regno di Giuda il titolo di perfida. Sono due sorelle.
«Si è recata su ogni luogo elevato e sotto ogni albero verde per prostituirsi. E io pensavo: Dopo che avrà
fatto tutto questo tornerà a me, ma essa non è ritornata. La perfida Giuda sua sorella ha visto ciò, ha visto
che ho ripudiato la ribelle Israele proprio per tutti i suoi adultèri, consegnandole il documento del divorzio, ma la perfida Giuda sua sorella non ha avuto alcun timore. Anzi anch’essa è andata a prostituirsi…»
(vv. 6b-8)
E’ il Signore che pensa, che “dice” nel suo cuore. Il profeta Geremia è particolarmente attento a
questa auscultazione del cuore di JHWH onnipotente, il Signore che “pensava”, sperando un ritorno
di Giuda6. Ma la perfida Giuda non ha imparato nulla dalla sorte di sua sorella, Israele la ribelle. Per
cui Giuda si trova in una situazione peggiore di quella in cui si trovò Israele, perché Giuda non ha
approfittato dell’opportunità che le era stata offerta dalla disgrazia di cui fu vittima Israele, la ribelle. La perfida Giuda non ha avuto alcun timore. Menzognere sono le riforme, il suo ritorno al Signore è fasullo, inconsistente, anzi in questa ambiguità di una presunta conversione, dichiarata ufficialmente, la perversione più insopportabile è la menzogna.
«Allora il Signore mi disse: Israele ribelle si è dimostrata più giusta della perfida Giuda. Và e grida tali
cose verso il settentrione dicendo…» (vv. 11-12a).
Il profeta è mandato per gridare verso il settentrione, il nord. Dal nord viene il male. E’ un modo
di intendere le cose, non soltanto in senso politico. Proprio dal nord in questo periodo cominciano
ad affacciarsi le minacce di invasori. L’impero assiro veniva dal nord. Il nord è una entità simbolica, è il buio della mezzanotte, è il gelo della tenebra.
«Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il
Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore
tuo Dio; hai profuso l’amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo
del Signore» (vv. 12-13).
E’ più facile che Israele, già in esilio da un pezzo, ritorni che non la conversione di Giuda.
3.3. «Taglia la tua chioma»!
In Ger 7,16-20 ritorna la condanna del peccato dell’idolatria: c’è chi raccoglie la legna (i figli),
chi accende il fuoco (i padri) e chi impasta la farina per preparare focacce (le donne) (cf. v. 18).
Tutto il popolo è coalizzato per offrire libazioni ad altri dèi, segnatamente alla Regina del cielo
(probabilmente Astarte, dea della fecondità nel panteon mesopotamico) (v. 18). Tale culto idolatrico
e la profanazione del tempio (cf. Ger 7,30) minaccia di far ritornare Israele in una situazione pregressa: non solo lo assimilerebbe a tanti altri popoli, ai quali Dio non ha parlato, ma a lungo andare
gli farebbe perdere la sua identità spirituale. Ecco perché subito sotto YHWH ordina a Israele: «Taglia la tua chioma e gettala via e intona sulle alture un canto lugubre…» (v. 29). Se i lunghi capelli
erano segno di consacrazione a YHWH (cf. legge del nazireato in Nm 6), YHWH vuol far capire
che Israele non è più un popolo consacrato al suo Dio perché ha rimosso YHWH dal tempio del suo
cuore.
3.4. La gabbia e i cacciatori
In Ger 5,26-31 la duplice immagine del cacciatore, che allude all’operato di alcuni abitanti di
Gerusalemme, e della gabbia, che dipinge plasticamente le loro case, serve a Geremia per stigmatizzare la responsabilità di coloro che approfittano del momento di crisi per emergere spavaldi e
millantatori, per farsi giustizia da soli e sommariamente, per trarne profitto materiale e sociale, naturalmente a spese dei poveri e delle categorie sociali meno protette. Ciò che i cacciatori fanno nei
confronti di certi animali (infatti sono descritti come coloro che si mettono a spiare il comportamento altrui), costoro lo fanno a danno dei loro simili, senza alcuno scrupolo, anzi facendosi forti delle
6
Cf. anche 5,4-5.31: YHWH pensava di essere almeno ascoltato dalle classi dirigenti dei sacerdoti e dei profeti (v. 31).
6
loro furberie. Una categoria di persone – è fin troppo facile rilevarlo – che opera in ogni cultura, che
si insinua in ogni situazione, che vive in ogni tempo!
L’immagine della gabbia è altrettanto forte e chiara: «Come una gabbia è piena di uccelli, così le
loro case sono piene di frode; perciò diventano grandi e si arricchiscono (v. 27)». Chi si avvicina a
quelle case rischia, come gli uccelli catturati, di perdere la libertà. Fuori metafora Geremia proclama: «Ingrassano, hanno il volto lucido, oltrepassano ogni limite di male. Non difendono la causa, la
causa dell’orfano, eppure prosperano; non fanno giustizia nei processi dei poveri» (v. 28), così come prescritto dalla legge7.
3.5. La brocca spezzata (Ger 19,1-15) e i boccali di vino fracassati (Ger 13,12-14)
Il Signore dice a Geremia di comprare una brocca di terracotta e di recarsi con alcuni anziani alla
Porta dei cocci (vv. 1-2). Lì, dopo aver pronunziato il peccato di Israele (abbandono di YHWH, idolatria e disumanità [sangue innocente]: vv. 3-5) e il «castigo» divino (devastazione e morte: vv. 69), si ha il gesto profetico: spezzare la brocca davanti ai loro occhi. La brocca spezzata, resa inutile,
inservibile, solo degna di essere gettata via, sottolinea che ci sono azioni umane inguaribili, distruttive dell’umanità, che non soltanto non servono a nulla, ma che vanno decisamente buttate, rifiutate.
Geremia ne elenca tre (cf. v. 4): l’incredulità, ossia Dio non è più ritenuto come Colui che è il Signore di tutta la vita («mi hanno abbandonato»); l’idolatria («hanno destinato il mio luogo per scaricare altri dèi») che non è solo la classica adorazione degli idoli, ma anche il riconoscere signori
della propria vita il successo, il potere ad ogni costo, il godimento, il denaro, ecc.; la disumanità,
cioè il non commuoversi per le sofferenze dell’altro, l’usare dell’altro, opprimere o disprezzare i
poveri8. Da notare il forte legame di questa disumanità con le radici idolatriche di ogni società e,
ancor più a monte, con l’aver dimenticato Dio.
In 13,12-14 troviamo un’altra immagine in “presa diretta”. Il profeta entra in un’osteria a Gerusalemme e vede sul tavolo tanti boccali colmi di vino. Senza dire una parola egli con un colpo di
mano scaraventa tutto a terra, rovinando vino e boccali. Si tratta ancora una volta di un gesto profetico. Il riversarsi del vino nella polvere, come l’infrangersi dei boccali sono il segno di un giudizio
che toccherà il contenitore – Gerusalemme – e al contenuto – le illusioni nazionalistiche –.
4. Il fardello del deportato e l’intercessione di Geremia (Ger 10,17-25)
Geremia – lo abbiamo visto - ha predetto in anticipo la deportazione forzata di Israele9. Ritroviamo lo stesso messaggio in 10,17-25.
«Raccogli il tuo fardello fuori dal paese, tu [Gerusalemme] che sei cinta d’assedio, poiché dice il Signore:
“Ecco, questa volta, caccerò lontano gli abitanti del paese, li metterò alle strette…» (vv. 17-18).
E’ giocoforza prepararsi, perché il popolo tanto amato da YHWH si è trasformato in una genia di
ribelli.
Ma non c’è proprio speranza? E’ tramontata del tutto ogni prospettiva di un futuro migliore? La
deportazione e l’esilio segneranno la fine di Israele? No: c’è un barlume di luce e di speranza:
«…perché mi ritrovino» (v. 18). Il peccato non potrà mai superare la potenza dell’amore di Dio che
si manifesta soprattutto nel perdonare!
Del resto, ciò che segue alla profezia di Geremia (vv. 17-18) presenta dapprima un lamento della
nazione personificata (vv. 19-22) e poi una preghiera del profeta (vv. 23-25). Nella prima il popolo
riconosce le disastrose conseguenze delle sue infedeltà:
7
Cf. Es 23,6-13; Lv 25,11-24, 35-41.
In 9,1-5 Geremia traccia un quadro di questa disumanità in Giuda.
9
Ricordo che la prima deportazione è avvenuta nel 597 a.C. sotto Ioiachin: Nabucodonòsor, dopo aver assediato e saccheggiato Gerusalemme, porta a Babilonia il re e «tutti i capi (tutti i politici), tutti i prodi (tutti i militari) in numero di
diecimila, tutti i falegnami e i fabbri (i tecnici). Rimase solo la gente povera del paese» (2Re 24,14). Nabucodònosor
cioè piega lo stato di Giuda deportando tutta la classe dirigente, tutti gli ufficiali e tutti i tecnici, così da lasciare iil paese
indifeso.
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7
«Guai a me a causa della mia ferita; la mia paga è incurabile […] I miei figli si sono allontanati
da me e più non sono» (vv. 19-20). Israele è come un malato incurabile, come un vagabondo senza
casa, come un padre senza figli. Le immagini parlano chiaro e mettono a nudo una situazione insopportabile. Israele è come un gregge senza pastore, privo di una guida sicura ed esposto alla paura: «I pastori sono diventati insensati, non hanno ricercato più il Signore; per questo […] è disperso
tutto il loro gregge» (v. 21). Infine la devastazione: «Si ode un rumore che avanza e un grande frastuono giunge da settentrione, per ridurre le città di Giuda un deserto, un rifugio di sciacalli»(v.
22)10.
Di fronte a questo quadro desolante Geremia dimentica il comando con il quale il Signore, in
precedenza, gli aveva proibito di pregare per Israele: «Tu, poi, non pregare per questo popolo, non
innalzare per esso suppliche e preghiere né insistere presso di me, perché non ti ascolterò» (Ger
7,16). Geremia non resiste alla tentazione di prendere la difesa di chi è debole, del popolo a cui appartiene. Infatti fa presente al Signore la debolezza congenita di ogni creatura e Lui, che ne è il creatore, non può non tenerne conto quando deve pronunziare un giudizio (v. 23). Intercede poi a favore
di Israele, invitando YHWH ad adottare misure mitigate nel giudizio (v. 24). Se esso deve essere
pronunziato, sia improntato alla clemenza, e se giustizia deve essere fatta, si ispiri alla natura di
YHWH e non a quella degli uomini.
Segue l’ultimo sfogo di Geremia contro i nemici di Israele (v. 25): il Signore non può, non deve
tollerarli! Questo modo di pregare, così frequente in Geremia, nasconde il desiderio di ricuperare la
libertà da coloro che con le loro proposte idolatriche distolgono Israele dall’amare il Signore con
cuore indiviso.
5. Geremia e la Parola
Se chiediamo a Geremia come egli ha vissuto la Parola, ci risponderà con delle immagini.
- La parola come fuoco: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi
sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9b). Per lui la Parola era fuoco che gli bruciava le
ossa, non un concetto ricevuto e conservato nella mente. In un altro passo l’immagine è usata dal
Signore: «la mia parola non è forse come il fuoco – oracolo del Signore -?» (23,29). La forza della
predicazione di Geremia è sostenuta dall’esperienza bruciante dell’incontro con Dio, con la sua parola, che, in quanto bruciante, non lascia nulla di immutato.
- La parola come inquietudine. Essa scuote dentro: «Le mie viscere, le mia viscere! Sono straziato. Le pareti del mio cuore! Il cuore mi batte forte; non riesco a tacere» (4,19).
- La parola come vino inebriante: «sono come un ubriaco e come chi è inebetito dal vino, a causa del Signore e a causa delle sue sante parole» (23,9).
Sono tutte metafore che indicano che cos’è la Parola per noi. Essa ci illumina, ci informa, ci nutre, ci cambia, e a un certo punto ci apre nuovi orizzonti, ci stimola, ci commuove, ci innamora, ci
porta fuori senno, fuori della ragionevolezza con cui io calcolo (posso fare tanto, devo fare tanto…).
Ci spinge a buttarci per amore di Colui che ha parlato, sfidando l’incognita e l’oscurità. Geremia si
esprime con immagini diverse perché ha davvero vissuto l’esperienza straordinaria di questa Parola
e ne è stato trasformato.
6. L’intervento di YHWH
6.1. Il popolo ricreato
«Li mieto e li anniento, dice il Signore, non c’è più uva nella vigna né frutti sui fichi;
anche le foglie sono avvizzite. Ho procurato per loro degli invasori» (Ger 8,13).
In una vigna che è già calpestata dai cattivi pastori che l’hanno sfruttata e calpestata (cf. Ger 5,710
Circa l’invasione vedi anche 4,5-31; 6,1-30; 12,7-13; 15,5-9; 16,16-18.
8
9), ed ora è secca e infeconda, subentrano invasori, estranei e nemici, che non hanno altra mira che
quella di distruggere e di seminare desolazione e morte. Essi tuttavia sono strumenti nelle mani di
YHWH. Non c’è dubbio per il profeta che YHWH sta preparando una stagione nuova nella storia
del suo rapporto con Israele. Egli non può abbandonare il suo progetto. Lo fa nuovo – lo ricrea –
mediante il perdono:
«Io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,34)
«Li purificherò da tutta l’iniquità con cui hanno peccato contro di me e perdonerò tutte le iniquità che han
commesso verso di me e per cui si sono ribellati contro di me» (Ger 33,38)
«In quei giorni e in quel tempo - dice il Signore - si cercherà l’iniquità di Israele, ma essa non sarà più, si
cercheranno i peccati di Giuda, ma non si troveranno, perché io perdonerò a quanti lascerò superstiti»
(Ger 50,20)
Israele ne uscirà purificato e rinnovato per pura grazia e sarà ancora una volta testimone della
vittoria di YHWH sugli idoli, dell’amore sull’odio, della fedeltà di YHWH sulle molteplici e immotivate infedeltà del suo popolo.
I capitoli 30-31 del cosiddetto «libro della consolazione» contengono la promessa di restaurazione di Israele.
6.2. I fichi buoni e i fichi cattivi (Ger 24)
Il cap. 24 ci parla di quel che succede dopo l’anno 597 a.C. quando ormai l’esilio è in atto, una
certa parte della popolazione di Gerusalemme è stata deportata. Bisognerà aspettare ancora qualche
anno per arrivare alla deportazione più ampia e più drammatica, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. Geremia sarà spettatore di questi avvenimenti.
Nel v. 2 si ha la visione dei due canestri di fichi, uno di fichi molto buoni e l’altro di fichi molto
cattivi11. Poi dopo l’interrogazione rivolta al profeta si ha la spiegazione della visione:
«Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: Dice il Signore Dio di Israele: Come si ha riguardo di
questi fichi buoni, così io avrò riguardo, per il loro bene, dei deportati di Giuda che ho fatto andare da
questo luogo nel paese dei Caldei. Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più» (vv. 4-6).
Geremia è presso i suoi contemporanei annunciatore di un messaggio sconcertante, istintivamente e visceralmente rifiutato da tutti: quelli che sono in esilio, proprio loro sono nella condizione di
poter tornare al Signore ed essere il popolo d’Israele fedele all’alleanza e alla sua missione nel
mondo: sono fichi buoni. L’esilio, nella pedagogia divina, è per loro un tempo e un luogo adatti per
acquisire un cuore capace di conoscere il Signore:
«Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò
il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi così parla il Signore così io farò di Sedecìa re di Giuda, dei suoi capi e del
resto di Gerusalemme, ossia dei superstiti in questo paese, e di coloro che abitano nel paese d’Egitto. Li
renderò oggetto di spavento per tutti i regni della terra, l’obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione
in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste finché non scompariranno dal paese che io diedi a loro e ai loro padri» (vv. 7-10).
Fichi cattivi sono invece quelli che ancora sono rimasti e rimangono nella loro ostinazione; la loro sorte è la conseguenza del perdurare della loro chiusura di cuore. YHWH, in quanto da essi rigettato, non può che abbandonarli agli eventi della storia.
6.3. L’annuncio di un’alleanza nuova (Ger 31,31-34)
YHWH non risponde all’infedeltà di Israele rompendo l’alleanza, ma riformulandola ed elevandola trasfigurandola in termini nuovi; è un’invenzione nuova della misericordia e dell’ostinazione
11
Questa visione richiama quella di Amos (8,1-2).
9
del Signore nel mostrarsi fedele al suo primo, unico amore.
In cosa consiste questa novità? Nel fatto che la medesima Torah (YHHW non ne ha un’altra!)
verrà inserita, adesso, nell’animo degli israeliti e da Lui scritta nel loro cuore, cioè nella coscienza
del popolo di Dio. Questo fatto segnerà un progresso straordinario sia nella comprensione della Torah (le Dieci Parole, più tutti i precetti che accompagnano la loro applicazione: le 613 mitzwoth riconosciute dalla letteratura talmudica), sia nella mente e nel cuore degli israeliti. Ormai la Torah
non colpirà dall’esterno le orecchie per poi passare nel cuore dell’uomo o della donna, ma scaturirà
dall’interno della persona, liberata, non dalla Parola, ma dal carattere eteronomo di essa.
6.4. L’acquisto di un campo come segno del futuro di gioia (Ger 32)
Ormai la morsa dell’armata babilonese si fa sentire fino a Gerusalemme. Anatot, come le altre
contrade circostanti a Gerusalemme, è senza difesa di fronte al nemico e tutti cercano di rifugiarsi in
città o si disperdono. In tali frangenti i terreni non valgono più nulla, saranno messi a ferro e a fuoco
e presi dai nuovi padroni. Nessuno li acquista più. Il profeta, invece, riceve dal Signore un ordine
stranissimo, sconcertante: comperare dal cugino Canamèl un campo per costruirvi una casa e imparvi un orto. Il documento di compravendita, in duplice copia, viene e posto in un vaso di terracotta stilato perché resti a testimonianza. Una parola dunque di fiducia e di speranza, di ricostruzione,
mentre tutto sta per piombare nel baratro. Allorché ci si illudeva, Geremia disilludeva; allorché si
dispera, egli fa sperare.
Molto bella è la preghiera del profeta (vv. 16-25) e la risposta del Signore (vv. 26-44) che conferma a Geremia il ritorno degli israeliti nel paese e un avvenire felice. Anche qui si parla di una
nuova alleanza:
«Concluderò con essi un’alleanza eterna e non mi allontanerò più da loro per beneficarli; metterò nei loro
cuori il mio timore, perché non si distacchino da me. Godrò nel beneficarli, li fisserò stabilmente in questo paese, con tutto il cuore e con tutta l'anima». Poiché così dice il Signore: come ho mandato su questo
popolo tutto questo grande male, così io manderò su di loro tutto il bene che ho loro promesso» (vv. 4042)
7. La passione di Geremia
7.1. Il dramma del Libro (Ger 36,1-6)
La narrazione è molto incisiva. Comincia con il comando dato a Geremia di scrivere; siamo nel
604 a.C. - «nel quarto anno di Ioiakim» -, il profeta ha circa 40-41 anni e, pur se ha già parlato al
popolo, non ha ancora scritto nulla, almeno in forma ordinata. Ora, invece, in obbedienza al preciso
ordine di YHWH, la sua parola diventa Libro. Geremia scrive, come si usava allora, utilizzando uno
scriba, Baruc - che fungerà da segretario del profeta -, il resoconto essenziale del messaggio comunicatogli da JHWH fino a quel momento12.
Dopo qualche mese (v. 9) essendo Geremia impedito ad accedere alla casa del Signore, forse per
uno scontro con i sacerdoti, Baruc - durante un giorno di digiuno e di liturgie penitenziali - viene
inviato nel tempio a leggere a voce alta il rotolo davanti a tutto il popolo di Giuda, nella speranza di
provocarne una conversione generale al Signore. Una volta letto il rotolo al popolo nella stanza di
Ghemarià, figlio di Safàn, Michea, figlio di Ghemaria, scende alla reggia e riferisce a tutti i capi le
parole lette da Baruc. Questi, allora, viene invitato a rileggere il rotolo davanti a loro. Impressionati
e impauriti da tale lettura i capi ne riferiscono al re, ma non senza aver prima invitato Baruc a nascondersi, insieme con Geremia.
Il re si fa leggere il rotolo da Iudi e, man mano che la lettura procede, lacera con un temperino le
colonne lette e le getta nel fuoco di un braciere acceso davanti a lui (era inverno), e questo nonostante che Elnatàn, Delaià e Ghemaià avessero supplicato il re di non distruggere il rotolo. Il re, anzi, dà ordine di arrestare Geremia e il suo segretario, i quali però sfuggono all’arresto, essendosi na12
Un sommario di questo primo rotolo dettato a Baruc si può trovare in Ger 25,1-13.
10
scosti.
Per ordine del Signore, allora, Geremia detta a Baruc un nuovo rotolo, con le parole di prima e
con molte aggiunte, comprese le terribili minacce all’indirizzo di Giuda e di Gerusalemme, e specialmente contro Ioiakim (cf. v. 30 e Ger 22,16-19). Si allude qui a una seconda edizione riveduta e
ampliata delle profezie di Geremia, che sembra contenere il nucleo fondamentale del libro canonico
che noi possediamo.
7.2. Il dramma personale di Geremia
Geremia viene imprigionato a partire da un malinteso. C’è addirittura del comico in questo imprigionamento. Il profeta vuole uscire da Gerusalemme per andare ad Anatot, nella terra di Beniamino, a comprare un campo da Canamel, figlio di suo zio Sallum, perché, in una spartizione di eredità, a lui spetta il diritto di acquisto e a lui tocca il riscatto di quel campo (cf. Ger 37,11-16)13. Ma
una guardia del re, pensando che intenda passare al nemico, lo arresta e lo gettano in prigione, in
una cisterna sotterranea, ove rimase molti giorni (cf. Ger 37,11-16). Notiamo la somiglianza tra il
profeta imprigionato e Gesù imprigionato che, di notte, attende per alcune ore, in solitudine, il momento della prima audizione, della prima condanna.
Qui l’audizione è fatta personalmente dal re che lo interroga: «C’è qualche parola da parte del
Signore?». Geremia non tace: «”Sì”, e precisò: “Tu sarai dato in mano al re di Babilonia”». E dopo
aver parlato al re con tanto coraggio, si lamenta per l’ingiustizia subita: «Quale colpa ho commesso
contro di te, i tuoi ministri e contro questo popolo perché mi abbiate messo in prigione?» (Ger
37,18). Ricordiamo la domanda di Gesù alla guardia che lo percuote: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).
Geremia, dunque, si difende, vorrebbe far ragionare il re e gli chiede di metterlo almeno in una
prigione migliore. Sedecia, che pur ha ascoltato un messaggio durissimo, ha pietà e «comanda di
custodire Geremia nell’atrio della prigione e gli fu data ogni giorno una focaccia di pane proveniente dalla via dei Fornai, finché non fu esaurito tutto il pane in città» (Ger 37,21).
Anche dalla prigione, però, Geremia continua a far circolare tra il popolo l’invito del Signore ad
arrendersi ai babilonesi per salvarsi dalla morte. I capi si mostrano sdegnati ancora una volta e Geremia corre il pericolo di morire. Essi portano la loro accusa davanti al re:
«egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo, dicendo loro simili
parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male» (Ger 38,4).
E’ la stessa accusa portata contro Gesù: solleva il popolo, non pensa al bene di esso, verranno
contro di noi i romani… Gesù deve morire.
Consegnandolo nelle loro mani, i capi lo affondano in una cisterna piena di fango a morire di
fame. Possiamo immaginare il grido di Geremia dal fondo del pozzo mettendogli in bocca le parole
di alcuni salmi, ad es. il Sal 129: «Dal profondo a te grido, Signore».
Grazie all’intervento dell’Etiope che intercede presso il re Sedecia, Geremia viene salvato, per
così dire, all’ultimo momento.
Segue il dialogo tra il re Sedecia e il profeta (Ger 38,14-26). Notiamo la somiglianza con le interrogazioni a Gesù da parte del Sinedrio: «Se tu sei il Cristo, diccelo». Gesù rispose: «anche se ve lo
dico, non mi credereste; se vi interrogo, non mi risponderete» (Lc 22,67). Però Sedecia ha un cuore
più grande degli uomini del Sinedrio e promette al profeta che non gli farà del male. Geremia allora
prende la parola e invita Sedecia ad uscire incontro ai generali dell’esercito di Babilonia e arrendersi a loro per salvare la città e la sua stessa vita (cf. vv. 17-22). Ma il re non ha il coraggio di fare ciò.
Oramai la sorte del re e di Gerusalemme è segnata.
13
Questo acquisto sembra essere lo stesso di quello riferito in Ger 32. L’acquisto, allora, voluto da JHWH stesso, diventa un gesto profetico di cui non si vedrà la realizzazione perché è posto per il futuro: «Si compreranno ancora case, campi, vigne» (Ger 32,15), dal momento che quella terra, destinata alla distruzione, tornerà alla vita. Questa speranza è rafforzata anche dall’aver posto i contratti di acquisto – sempre in obbedienza a YHWH – «in un vaso di terra, perché si
conservino a lungo» (v. 14).
11
Dopo la caduta e la devastazione di Gerusalemme, per disposizione di Nabucodònosor Geremia
viene liberato dall’atrio della prigione (cf. Ger 39,11-14) e va a Mizpà dal governatore Godolia14,
figlio di Achikàm, che il re di Babilonia aveva messo a capo delle città di Giuda. Dopo l’assassinio
di Godolia per mano di Ismaele, figlio di Natania, i membri delle bande armate del partito filoegiziano, ostentando un falso rispetto per Geremia (gli chiedono di profetare), lo tradiranno (non
vogliono ascoltare la voce di JHWH che promette loro stabilità se rimarranno a Gerusalemme) e lo
trascineranno con loro nella fuga in Egitto verso la rovina (cf. Ger 40-44), dal momento che la spada del re di Babilonia li raggiungerà anche là (cf. 43,8-13; 46,13-28). Sembra paradossale, ma nonostante tutto ciò che è successo anche in Egitto gli israeliti continuano a dimenticare YHWH e,
come già facevano in Giuda prima della deportazione (cf. 7,18), offrono libazioni alla Regina del
Cielo (cf. 44,1-30). L’invasione dell’Egitto da parte dei caldei è davvero inevitabile: «Così dice il
Signore: Ecco metterò il faraone Cofrà re di Egitto in mano ai suo nemici e a coloro che attentano
alla sua vita, come ho messo Sedecìa re di Giuda in mano a Nabucodònosor re di Babilonia, suo
nemico, che attentava alla sua vita» (v. 30). Geremia, infine, predice anche la caduta di Babilonia e
la liberazione di Israele (cfr. 50,1-28)
8. Le cinque confessioni di Geremia
Tra le pagine del libro di Geremia troviamo alcuni brani delle «confessioni» del profeta, nei quali egli parla di sé, presenta una sorta di autobiografia, fa intendere qualcosa del suo ministero profetico. E’ singolare e inatteso che un profeta – in cui c’è tutta la forza di YHWH – insista nel descriversi come una persona debole. Geremia è parola, la sua missione è parola, però una parola debole.
8.1. L’agnello mansueto (Ger 11,18-23)
In questa prima confessione Geremia si vede nell’immagine dell’agnello mansueto. Il Signore
stesso gli ha mostrato che sarebbe stato respinto, tradito (cf. v. 18). Notiamo la sorpresa di un uomo
semplice, che scopre dolorosamente di non essere capito nemmeno dai suoi vicini, dai suoi amici,
dalla gente della sua terra (Anatòt); anzi scopre che stanno tramando del male. Nasce allora nel profeta la grande esclamazione:
«Ero come agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me
dicendo: “Abbattiamo l’albero nel suo rigoglio, strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo nome non sia
più ricordato» (v. 19).
Nella volontà di abbattere il profeta nel suo rigoglio c’è indubbiamente dell’invidia e addirittura
dell’odio. La gente si vergognava di Geremia e intendeva eliminarlo affinché il paese non venisse
più infangato dal suo nome. A questo punto nasce l’esclamazione di affidamento a YHWH, che esprime amore, fedeltà, certezza in Colui che ha inviato il profeta, unita alla richiesta di vendetta (cf.
v. 20). Geremia – rifiutando ogni autovendetta – affida la sua causa a YHWH, che risponde prendendo le difese del suo profeta e annuncia il «castigo» (cf. vv. 21-23).
8.2. Il torrente infido (Ger 15,10-21)
«Torrente infido» è un’espressione molto forte, che giunge quasi a insultare il Signore, a lamentarsi direttamente di lui. E’ un momento della vita di Geremia nel quale il profeta soffre la crisi della propria vocazione. Si sente ingannato dal Signore e giunge a pensare di essere abbandonato.
Sembra di udire il grido di Gesù sulla croce: «Perché, mio Dio, mi hai abbandonato?».
Il lungo brano comincia con un lamento, che chiama in causa la madre: «Me infelice, madre mia,
che mi hai partorito» (v. 10). In queste parole c’è tutto il dolore di chi si sente perdutamente solo.
Ed ecco subito la difesa, la testimonianza di Geremia che la coscienza di aver obbedito a YHWH,
anche se ora pensa di essere maledetto: «Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio…?» (v.
14
Godolia è membro di una famiglia di alti funzionari giudei, amico di Geremia (cf. Ger 26,24).
12
11). Sono sempre stato aperto verso gli altri, non ho fatto nulla per avere dei nemici: perché questa
persecuzione si è scatenata contro di me? Da qui la domanda accorata: «Tu lo sai, Signore, ricordati
di me e aiutami…» (v. 15). E, nel v. 16, c’è uno splendido ricordo del passato. Il profeta ammette,
forse per l’unica volta, che le parole di Dio messe nella sua bocca non sono state solo motivo di sofferenza, ma gli hanno procurato anche momenti di grande gioia. In un tempo felice, Geremia ha
amato e divorato la Parola che gli è penetrata nel cuore. Ma ora YHWH – lungi dall’essere un corso
d’acqua tranquillo, rassicurante, che continua a scorrere, gli è diventato «un torrente infido, dalle
acque incostanti» (v. 18). Siamo al massimo della tentazione: Signore, ora so che mi hai abbandonato, mi hai lasciato senza acqua, mentre io contavo su di te e tutto facevo davanti a te. E’ atroce la
sofferenza di Geremia che, dopo tanto coraggio nell’annuncio, non riesce più a pronunciare parole,
resta attanagliato dall’aridità. Ma ecco che, proprio quando è giunto quasi alla disperazione, gli viene riconfermata la vocazione: «Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò…» (v. 19). Cioè: se tu fai la
tua parte, io farò la mia. Geremia sa che non può ritornare a Dio se Dio stesso non lo chiama, e il
Signore glielo ricorda dicendogli: guarda che siamo una cosa sola, che la nostra azione è una. «Starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia
bocca» (v. 19), riprenderai a parlare di me se purificherai, attraverso questa sofferenza, il tuo desiderio di parlare senza prima ascoltarmi. Dobbiamo supporre che Geremia, nell’aridità e
nell’amarezza della prova, abbia un poco abbandonato la preghiera, l’ascolto della Parola. Poi
YHWH riprende l’immagine della primitiva vocazione: «ti renderò come un muro durissimo di
bronzo» (v. 20).
8.3. Perché a me? (Ger 17,14-18)
Si tratta di una preghiera accorata che il profeta perseguitato esprime a YHWH: «Guariscimi, Signore…». Geremia sente su di sé l’irrisione dei persecutori che gli dicono: «Dov’è la parola del Signore? Si compia finalmente!» (v. 15). In altri termini: tu vai parlando continuamente della distruzione di Gerusalemme, di castighi, ma come mai non si verificano? Li vogliamo vedere!
Ed ecco il lamento del profeta per l’incredulità che si esprime in modo commovente: «Io non ho
insistito presso di te nella sventura», non sono io che volevo pronunciare queste parole, «né ho desiderato il giorno funesto, tu lo sai…» (v. 16) e quindi ti supplico: «non essere per me causa di spavento… distruggi i miei avversari, distruggili per sempre» (v. 18). Torna il desiderio della vendetta.
8.4. Una sofferenza molto grande (Ger 18,18-23)
I primi due versetti contengono l’essenziale di questa confessione: «Venite e tramiamo insidie
contro Geremia, poiché la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né l’oracolo ai
profeti…» Qual è il motivo della sofferenza di Geremia in questo brano? Non solo quello di non essere considerato dai suoi avversari un sacerdote e un dotto (che egli peraltro non vuol essere), ma
nemmeno un profeta. Dicono infatti: se noi lo eliminiamo, non eliminiamo certo un sacerdote o un
dotto o un profeta; egli non ha nessuna di queste funzioni e non dobbiamo dunque tener conto di ciò
che va dicendo. Geremia soffre moltissimo perché vorrebbe che si tenesse conto della parola di Dio.
E’ la stessa sofferenza di un predicatore, di un pastore che si accorge di non essere preso sul serio;
la gente non dà peso alle sue parole, ascolta, ma lascia perdere, lascia cadere. Il profeta, che vive solo per la Parola, che si identifica con la Parola, avverte tutta la drammaticità dell’opposizione dei
nemici.
8.5. «Mi hai sedotto Signore» (Ger 20,7-18)
JHWH si è comportato con Geremia come un uomo che inganna una donna attraendola per poi
impadronirsi di lei e possederla: mi hai sedotto, mi hai fatto forza, hai prevalso su di me, e ora io ti
accuso. Non volevo profetare e tu mi hai tratto in inganno facendomi credere una cosa per l’altra;
mi hai costretto a seguirti, mi sono fidato di te e tu mi hai messo in una difficoltà estrema. Non mi
avrei mai immaginato di trovarmi senza una via d’uscita, senza scampo!
Le conseguenze di questo inganno sono drammatiche:
13
«Diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: “Violenza! Oppressione!” …
Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome» (vv. 7b-9a),
mi sono pentito di seguirlo, non intendo più dargli retta, non ce la faccio più.
Se riflettiamo attentamente sul testo, capiamo che, lungi dall’esprimere la disperazione, le parole
di Geremia sono parole di amore, di un amore appassionato e irritato proprio perché il profeta non
riesce a dimenticare Colui che ama. Infatti, continua così:
«Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (v. 9b).
I vv. 11-13 sembrano avviare ad una soluzione del conflitto («Ma il Signore è al mio fianco..»),
ma poco sotto – la composizione del brano lascia un po’ a desiderare – ritorna il dramma in toni ancora più accesi:
«Maledetto il giorno in cui nacqui;
il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto.
Maledetto l’uomo che portò la notizia a mio padre dicendo:
“Ti è nato un figlio maschio” […]
Perché mai sono uscito dal seno materno,
per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?» (v. 14-15.18).
9. La lettera agli esiliati in Babilonia
Nella lettera che Geremia scrive al resto di coloro che sono stati deportati in Babilonia, insieme
al re Ieconia (Ioiachin) e alla sua corte, troviamo l’esortazione a vivere nella pace la loro condizione di esiliati. Le cose andranno per le lunghe:
«Solamente quando saranno compiuti, riguardo a Babilonia, settant’anni, vi visiterò e realizzerò per voi la
mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza»
(Ger 29,10-11).
A Babilonia, però, bisognerà stare attenti a non dar retta ai falsi profeti e agli indovini, ma a rimanere saldi nella parola del Signore.
10. Le Lamentazioni e il libro di Baruc
Si tratta di cinque elegie15 che esprimono i sentimenti degli ebrei di fronte alla catastrofe nazionale, specie di fronte alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione. Sono erroneamente attribuite a Geremia; si tratta di autori diversi e anonimi.
Esse rappresentano un primo doloroso esame di coscienza di fronte al disastro: che fu provocato
per l’infedeltà del popolo d’Israele (2a elegia). Ma quando Israele comprende la sua storia, rinasce
la fiducia e la speranza che, più che mai, si esprime nella preghiera: «Facci ritornare a te, o Signore,e noi ritorneremo» (5a elegia, v. 21).
Nella Bibbia, alle Lamentazioni segue uno scritto, pervenutoci sotto il nome di Baruc, il segretario di Geremia, come una lettera attribuita allo stesso Geremia. In realtà si tratta di uno scritto di epoca ellenistica (II sec. a.C.). La prima pagina è una specie di prologo storico, in cui si descrive
l’importanza del viaggio dalla diaspora a Gerualemme (1,1-14). Da 1,15 a 3,8 abbiamo una lamentazione, una liturgia penitenziale, in cui si confessa il peccato dei padri. In 3,9-4,4 un inno sapienziale: si canta la sapienza che è nella Torah, la sapienza creatrice che si condensa nella Legge. Il libro termina con un discorso di consolazione (4,5,-5,9).
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L’elegia è una composizione che ha una forma metrica specifica: ha un ritmo di tre accenti più due, per cui non finisce mai pacatamente ma è sempre spezzata in un singulto finale.
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