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Spaghetti all`Assassina

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Spaghetti all`Assassina
Gabriella Genisi
Spaghetti all’Assassina
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12/05/15 17:29
Della stessa autrice
nel catalogo Sonzogno
La circonferenza delle arance
Giallo ciliegia
Uva noir
Gioco pericoloso
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice e, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è
del tutto casuale.
Copyright © 2015 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Prima edizione: giugno 2015
www.sonzognoeditori.it
ISBN 978-88-454-2604-9
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Ai miei lettori
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SPAGHETTI ALL’ASSASSINA
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Femmina piccante, pigliala per amante.
Femmina cuciniera, pigliala pe’ mugliera.
I soliti ignoti
Non esistono uomini cattivi se sono cucinati
bene.
STEFANO BENNI
Un cuoco, dopo aver consumato il pasto
e fattigli i dovuti complimenti
per la squisitezza delle pietanze,
mi svelò il suo segreto:
un preludio di brodo vegetale
con poche cose nel piatto,
un fuoco suscettibile tra l’apatico e l’iroso,
ma preciso come l’ago di una bilancia,
un intento di spezie,
un odio sterminato per le mescolanze,
ma soprattutto,
fare l’amore ogni volta
che se ne presenta l’occasione
con la persona giusta,
ovviamente.
MUSTAPHA RAJAOUI
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Lolita
C
i sono storie che cominciano dalle padelle, come i grandi
piatti che raccontano una città. E per preparare degli spaghetti all’Assassina come si deve, occorre che la padella sia rigorosamente di ferro, comprata dal negozio di tegami a Barivecchia. Perché solo lì, a essere fortunati, ancora si trova. Ma di
questo racconterò più in là.
A fine gennaio Marietta l’amicamia diventò procuratore
capo.
Certo non se l’aspettava nessuno, nemmeno lei, che a Bari la
spuntasse una donna giovane e pure bella femmina, con tutte
le richieste dei baroni che erano piovute sulla scrivania del Csm.
Ma a distanza di un mese dalla nomina, anziché godersi il meritato successo, mi affliggeva con le solite storie di Nicolasuo.
Sì, perché fino a che trattavasi di lavorare in due Procure diverse l’affaire tra i due filava piuttosto bene ma adesso che era un
sottoposto, l’uomo con cui Marietta intratteneva da un certo
numero di anni una relazione semiclandestina, doveva renderle conto di certe cose, almeno così sosteneva. La parte in causa
era però di tutt’altro parere e difatti argomentava che la femmina sotto all’uomo deve stare, pure se fa il procuratore capo. E
forte di questo suo pensiero, non voleva sentire ragione.
In mezzo a questi due, stavo io. Che di pensieri per la testa
ne tenevo già di mio. Con Giovanni il bello che non mi faceva
stare un attimo tranquilla. Perché no, i problemi nostri non si
erano risolti con il botto di Capodanno, tutt’altro.
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La cosa finì a schifio pochi giorni prima di San Valentino
quando il giovane si recò in un centro commerciale a comprare tre regali tuttuguàl. Che ci vuole pure un poco di fantasia,
dico io. Ma certi uomini sono prevedibili come i questurini dei
film anni Settanta. E anche Giovanni in questo non faceva
difetto.
Ovviamente in mezzo a quei tre regali ci stava pure quello
mio. E non mi piaceva neanche, tra le altre cose. Paccottiglia,
per fare il paio con i suoi sentimenti.
Sì, ma gli altri due regali per chi erano?
Certo, ci avevo provato a fargli l’interrogatorio ma essendo
magistrato non si era fatto fregare. E siccome la verità non è
venuta fuori, è stato licenziato senza referenze. L’ho lasciato
sì, su due piedi, senza nemmeno stare ad ascoltare le solite
bugie. E dopotutto, navòld che si erano lasciati Albano e Romina, ci potevamo lasciare pure noi.
E poi adesso ho un nuovo caso da risolvere, con l’ultimo
morto ammazzato su cui indagare e tutti quanti i riflettori accesi fino a che non consegno l’assassino alla giustizia. Come
al solito, voglio dire. Perché di casi irrisolti nel mio curriculum, non ce ne stanno.
Anche se, a voler essere onesti, in questo omicidio non si
vede uno spiraglio che sia uno. L’unica cosa sicura è che dai
primi accertamenti sul corpo, con Colino Stramaglia dovevano tenercela assai per ridurlo a quel modo.
Ci sono giorni in cui Bari è di una bellezza incredibile, avvolta in un bagliore roseo e lagunare, come se fosse Venezia.
Sono i giorni in cui ti sembra che nulla di male possa accadere
in questa controversa città. E invece no, non è mai così. Del
caso vengo a sapere a prim’ora della mattina successiva alla
Festa di San Nicola, mentre, ancora stordita dai fuochi pirotecnici della sera prima, guardo il mare dal balconcino della
stanza da letto e i pescatori a gran voce sbattono i polpi al
mercato del pesce n-dèrr’a la lanze.
Sono incantata dal ritmo sincopato dello sbattimento con12
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tro gli scogli, morso in testa e poi dàll e dàll, quando sul cellulare mi arriva una telefonata di Antonio Forte, l’ispettore. Direttamente dalla Questura.
«Uè Antò.»
«Ciao Lolì, stavi dormendo?»
«No, ma che dormendo! Mi stavo a togliere i bigodini, mi
stavo. Ch’è succèss?»
«Hai già fatto colazione, il caffè? Tutt’appòst?»
«No veramente il caffè nonangòra, tenevo una voglia di
taralli e peperoni stamattina, e stavano giusto due cornetti
fritti di ieri sera. Ho mangiato quelli. Perché?»
«Peperoni a colazione? Ommadonna Lolì! Mè fai presto e
vieni, il caffè te lo offro io. Teniamo una certa urgenza. Stanotte c’è stato un delitto.»
«Un altro? Mannaggia. Chi è la vittima?»
«Colin Paprùss, manco a farlo apposta.»
«E chi sarebbe? Non mi sovviene. Dovrei conoscerlo?»
«Direi di sì. Paprùss, al secolo Nicola Stramaglia. Il miglior
cuoco di tutta Bari.»
«Nientemeno. Comunque no, buio...»
«Oggesù, quello degli spaghetti all’Assassina? Ti dice
niente?»
«Sarebbe? Una ricetta tipica?»
«Hai capito bene. I migliori spaghetti della città. Fino a ieri,
almeno.»
«Com’è morto?»
«Nel peggiore dei modi. Incaprettato.»
«Incaprettato? A Bari!? Stai scherzando!»
«A Bari, sì. Chetticredi.»
«Ok, dammi dieci minuti e arrivo.»
Incaprettato. Altro che taralli e peperoni. Capitasse mai
una gioia in questa città. Solo delitti, uno dietro l’altro. Cinquantacinque solo nell’ultimo anno. Mica si scherza.
Quando accompagnata da Forte arrivo sul luogo del delitto, sulla linea di frontiera che separa Bari dalla città vecchia,
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sul Corso ci sono le tracce della festa di ieri. La festa grande,
quella in onore del patrono della città. Processioni in costume, luminarie, caravelle infiocchettate e la popolazione intera
riversata sul lungomare per rendere omaggio al Santo. Insieme alle migliaia di pellegrini accorsi per le celebrazioni.
Probabilmente l’assassino non ha scelto il giorno a caso.
Cercare un omicida in mezzo a tanta gente, sarà come cercare
l’ago in un pagliaio.
Sto osservando il tappeto colorato di coriandoli e petali
lanciati la sera prima dai balconi al passaggio della statua,
quando Marietta – un po’ limitata dal tacco alto e dalla gonnella stretta – esce dal gippone blu della Procura, scortata da
tre poliziotti, come si conviene al nuovo ruolo di procuratore
capo. E intanto a me i peperoni verdi fritti mi stanno già a fare
su e giù. Che forse ho sbagliato a mangiarli, forse.
Ci salutiamo come si conviene ai ruoli, anche se tutti sanno che siamo intime come tazza e cucchiaio. Certo, la confidenza non impedisce di pensare che pare strano si sia mossa
addirittura lei e non un semplice sostituto come di prassi.
Evidentemente Stramaglia era più conosciuto di quanto immaginassi.
La cucina del ristorante Al Ciuccio ha l’accesso secondario
da via Indipendenza, già dentro Barivecchia. È quello usato
da dipendenti e fornitori, completamente diverso dall’altro
ingresso affacciato sul salotto buono della città, scenografico
e pretenzioso come si conviene ai costumi locali. Difatti il ristorante dagli anni Settanta è uno dei più noti e meglio frequentati dalla crème barese. Politici, professionisti, commercianti della vecchia guardia, faccendieri della nuova. Un bel
salto dal localuccio malfamato dove per anni e per poche lire
si cenava con carne d’asino, ù ciucc appunto. Carne dura e
della peggiore qualità ma cucinata con grande maestria da
Colino che leggenda vuole avesse fatto il sous-chef niente
meno che ad Alain Chapel, a Parigi. Ora, che noi baresi alle
cose francesi siamo sensibili assai, si sa. Bastò quel piccolo
dettaglio e una certa bravura, per catalogarlo come uno dei
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migliori cuochi della città. Quando poi s’inventò non si sa
bene come, ma si vocifera a causa di un fornello dimenticato
acceso, i famosissimi spaghetti bruciati, la consacrazione fu
compiuta al punto che per prenotare al Ciuccio un tavolino
da due, ci volevano mesi di attesa oltre che la solita raccomandazione.
Tutte queste cose le racconta a mezza voce un giovane e
informatissimo giornalista di cronaca, sperando di barattare
qualche indiscrezione sul delitto. Sperando, per l’appunto.
Perché su cosa possa essere accaduto lì dentro non ne ho idea.
E per mia abitudine con i giornalisti parlo poco.
Ad ogni buon conto, stando alla scena del crimine che ho
davanti, Colino Stramaglia, 75 anni, vedovo con una figlia,
barese da sette generazioni almeno, e una evidente pinguedine dovuta probabilmente al suo mestiere, deve aver passato
un brutto quarto d’ora prima di morire conciato in quel modo.
Con mani e piedi legati all’indietro e poi attaccati al collo.
Non senza una certa maestria. Che forse manco in Sicilia li
incaprettano così bene.
Resto in un angolo mentre il medico legale e i tecnici della Scientifica compiono i rilevi. Marietta è dall’altro lato. Ci
guardiamo e parliamo in silenzio.
La cucina ampia e piastrellata di bianco è perfettamente
pulita, a parte tutto quel sangue rappreso vicino al corpo e una
padella colma di spaghetti al pomodoro rovesciata per terra.
I tegami di alluminio lucidi come specchi e una serie di padelle nere come la pece sono appesi a una rastrelliera alla
parete. Piatti e bicchieri, impilati sugli appositi scaffali e coperti da strofinacci. I secchi della spazzatura sono stati svuotati e lucidati anch’essi. Evidentemente il delitto è avvenuto
nelle prime ore dell’alba, quando gli inservienti e i lavapiatti
erano andati via dopo aver riordinato ogni cosa. Forse non
tutti, però. Vai a capire. Bisognerà interrogarli uno per uno,
questo è certo.
Quando io e Forte ce ne andiamo, la notizia del delitto ha
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già fatto il giro della città e corso Vittorio Emanuele – gli
Champs-Elysées baresi, tanto per capirci – è affollato come
per la processione della sera prima, mancano solo i bambini
col palloncino legato al polso e le bancarelle dei nocellai. A
prestare ascolto al chiacchiericcio, pare che tutti lo conoscessero bene a Colino. Un vero galantuomo, un gran lavoratore
insignito con un cavalierato da un Presidente della Repubblica di qualche anno fa. I capannelli riempiono l’ampio marciapiede a ridosso del ristorante. Tutti clienti affezionati, pare.
Appunto per questo scelgo di tornare a piedi in Questura, per
orecchiare dicerie e pettegolezzi.
Cominfatti nel breve tratto che mi separa dall’ufficio ne
ascolto tanti, alcuni direttamente – commissà, che brava persona era Colino. L’avete mai assaggiata l’Assassina sua? – e
altri origliati al volo en passant. Vengo a sapere anche che il
defunto Stramaglia era chiamato Paprùss, ovverossia peperone, in virtù del temperamento sanguigno e della pressione
alta che spesso gli colorivano l’incarnato. E anche, come racconta qualcuno sottovoce, per una sua lunga costumanza con
le donne. Specie quelle piccanti. E il detto, da queste parti, si
sa bene qual è. Femmina piccante, pigliala per amante. Femmina
cuciniera, pigliala pe’ mugliera. Lecito dunque ipotizzare tra gli
altri moventi anche quello passionale. Il più scontato, lo so.
Eppure a tutt’oggi abbastanza frequente.
Alla Questura sono in agitazione, tutti clienti pure qui. Nonostante lo stipendio non consenta miracoli. Di tutta la sezione, a ben vedere, sono l’unica a non aver assaggiato la famosa
Assassina.
Non conoscendo la materia sono costretta a fare outing,
ma con questi deficienti che tengo davanti mi pento dopo tre
minuti.
«Mai! Addirittura?!»
Esposito e Forte parlano all’unisono e si stupiscono assai.
«No davvero, mai mangiata. E che è un delitto?»
«Eccerto» sbotta Forte, che di cucina se ne intende, alme16
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no così dice. «Perché l’Assassina a Bari è una cosa seria, anzi di più, una filosofia, azzarderei. Il piatto principe di questa
città.»
Esposito come al solito fa da spalla, ma adesso dopo l’exploit iniziale si limita ad annuire. Teme reazioni scomposte da
parte mia, e non reggerebbe al trauma.
«Ennò, bèll bèll, non mi si venga a dire piatto principe. Perché una arriva a quarant’anni con una serie di certezze incrollabili. Tipo che a Bari tre sono i piatti tipici. Risopatatecozze,
orecchiette con le cime di rape e cicorie e fave. Mi voglio rovinare e ci metto pure focaccia e panzerotti, anche se non fanno
parte dei primi piatti. Ma ’sti spaghetti all’Assassina da dove
escono, fatemi capire? Mica vengo dalla Germania. A Bari sto,
da quando nascetti.»
«Lolì, vuol dire che non sei informata bene, il problema è
tuo che non ti aggiorni. Non studi.»
«Come sarebbe, non studio?»
«Eccerto, perché a te molte cose sfuggono, e ignori anche
che a Bari ci sta addirittura l’Accademia dell’Assassina, per
dirti quant’è seria la cosa. E se proprio vuoi approfondire ti
posso presentare il presidente. Quello Massimo, non sai?
Brava persona.»
«Massimo, chi? E comunque no, non lo so. E non lo voglio
sapere.»
«Come vuoi. Come farai a risolvere il caso, voglio vedere.»
«A risolvere il caso? Antò ma stiamo pazziando? Veramente siete convinti che per risolvere un omicidio ci dobbiamo mangiare un piatto di spaghetti? Espò per piacere, diglielo tu a ’sto pazzo.»
Cerco conforto nel mio assistente. Che invece, timorato di
Dio com’è, con una botta di coraggio mi si mette contro e
spalleggia Forte. Nientemeno.
«Commissà, mi dovete scusare assai, ma l’ispettore stavolta tiene ragione. Niente di personale si capisce, però gli spaghetti li dovreste assaggiare: sono fondamentali per la circostanza.»
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La goccia che fa traboccare il vaso. A questo punto non mi
resta che metterli alla porta con un Uè sciatavìnn, che il commissario qua sono io – che si sente fino al porto, per passare a
fare qualche telefonata informativa.
Una su tutte al professor Franco Introna, direttore di Medicina legale, anche lui cuoco curioso e sopraffino. Così piglio
due piccioni con una fava.
«Ciao Prof, come va.»
«Oh Lolitabella. Un nome da tango il tuo, te l’hanno mai
detto?»
«No, veramente no. Sai, sono negata per il ballo. Ma per
restare in tema Argentina leggo Pérez-Reverte, Borges e Cortá­
zar. Magari può servire.»
«Caspita, certo. Ottime letture. Dimmi tutto.»
«Trattasi di Nicola Stramaglia.»
«Sì, immaginavo. Un cadavere eccellente, come l’ha appena definito un mio collega. È arrivato in Istituto da pochi minuti e stiamo per cominciare un primo esame autoptico. Se
vuoi possiamo sentirci dopo. Meglio nel tardo pomeriggio.»
«Grazie, sì. Potrei passare verso le 18 se per te va bene.»
«Perfetto. Ti aspetto.»
«Grazie. Ah no senti, ancora una cosa... Gli spaghetti al­
l’As­sas­sina. Ne hai mai sentito parlare?»
E qui io mi aspetto conforto, mi aspetto che almeno il Prof
condivida la mia disinformazione sull’argomento. Invece no,
figurati. Sa tutto pure lui. E si meraviglia della mia non conoscenza.
«Lolita mi stupisci. Ma perché, in città esiste un vero barese che possa dirsi tale senza aver mai assaggiato la ricetta di
Colino Stramaglia? Non credo, e anch’io non faccio difetto.
Al Ciuccio ci capito ogni tanto, ma lasciamelo dire, personalmente li preparo pure meglio.»
Di male in peggio.
«Anche tu allora. Vabbè. Non stai scherzando, vero?»
«Scherzando? E come potrei? La buona cucina, dovresti
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saperlo, è un argomento serissimo. A volte si uccide, in suo
nome. E perché no, questo potrebbe essere il caso.»
«Ma dici davvero? E quindi io che ’sti spaghetti non li ho
assaggiati mai, come cavolo farò a scoprire l’assassino? Mannaggia.»
«Tranquilla, nulla che non si possa rimediare. Al caso,
posso indicarti due o tre ristoranti in cui cucinano l’Assassina in maniera superba. E magari una sera di queste te li cucino io.»
«Be’, sarebbe un grande onore. Nel frattempo credo di poter risolvere diversamente. A più tardi, e grazie. Come farei
senza di te? Spaghetti compresi.»
«Chi può saperlo? Ciao Lolita.»
Ci si mette anche il professor Introna, mannaggia. E a questo punto, l’unica cosa che resta da fare è quella di chinare il
capo e richiamare i due dell’Avemaria. Anche perché manca
pochissimo all’ora di pranzo.
«Espò senti un attimo.»
«Comandi, commissà.»
«Tu e Forte, vi voglio qui entro cinque minuti.»
«A disposizione. Lo convoco subito.»
«Brà.»
«Allora?»
L’ispettore fa un po’ l’offeso, ma appena sente di cosa si
tratta, si rianima. Ennò perché a me ’sto fatto che qualcosa mi
sfugge, mi manda il sangue alla testa. «Allora niente. Ci ho
ripensato e poiché data l’ora ho un certo appetito, al pianterreno teniamo la cucinetta a disposizione e voi due siete tanto
ferrati in materia, vi volevo proporre, ce li facciamo due spaghetti?»
Silenzio generale. Poi Forte esplode.
«Ah, te ne vieni mo’, commissario Sottutto. Ti possiamo
dire di no? Espò, vai a fare la spesa e compra pure una padella adatta, che qui dobbiamo lavorare, dobbiamo.»
Mezz’ora dopo siamo nella cucinetta della Questura usata
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nei casi d’emergenza per preparare caffè e camomilla di conforto. Ma anche questa è un’emergenza, io penso.
Dunque, la scena è questa: io ed Esposito seduti al tavolo,
mentre Forte in piedi discetta sulla ricetta, manco fosse l’Artusi e non un ispettore di Polizia. Peggio di Giovannimio, con
le sue melanzane destrutturate.
«Dunque signori, per questa ricetta meravigliosa occorrono 400 g di spaghetti, 150 g di passata di pomodoro, un tubetto di concentrato di pomodoro, e poi olio, aglio, peperoncino, sale, zucchero. Sistemiamo tutti gli ingredienti sul
ripiano della cucina e procediamo con la preparazione. In
una padella, rigorosamente di ferro e già trattata per l’uso,
mettere circa 150 g di olio, tre spicchi d’aglio senza anima e
peperoncino abbondante. Direi, due interi e un po’ di tritato.
Con la fiamma vivace far colorire l’aglio, quindi versare la
passata di pomodoro. Schizzerà dappertutto, ma l’Assassina
val bene la causa. Al caso aggiungete una punta di zucchero
per correggere l’acidità del pomodoro. Distribuite con un
cucchiaio di legno la passata su tutto il fondo e quindi mettete direttamente in padella a crudo gli spaghetti. Con perizia e maestria, come appunto in questo mio caso, bisogna
cominciare a girare con cura gli spaghetti lasciando che comincino ad attaccarsi un po’ al fondo della padella, di quelle
in ferro che a Barivecchia trovi solo da Traversa, e portando
su quelli che iniziano ad attaccarsi. Usate una spatola di legno che funge meglio allo scopo rispetto al cucchiaio. Su di
un altro fornello avrete preparato e portato a ebollizione un
brodo fatto con acqua abbondante, concentrato di pomodoro e sale. Deve essere rosso vivo e saporito. Versate in padella un mestolo di media grandezza di brodo sugli spaghetti e
continuate a girare gli stessi. Appena il brodo comincia a
sobbollire lasciatelo consumare (adesso senza girare gli spaghetti) e “ascoltate” l’avvio della cottura. Quando sentirete
di nuovo “sfriggere”, con la solita spatola in legno staccate
gli spaghetti che si sono attaccati e portate, come fatto prima, quelli che cominciano a bruciacchiare sopra e quelli me20
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no cotti sul fondo. Versate un altro mestolo di brodo e continuate così, come se steste preparando un risotto, ma senza
girare continuamente, un mestolo dopo l’altro con le dovute
interruzioni per ascoltare lo sfriggere dell’olio. Pian piano lo
spaghetto comincerà a piegarsi, ad assumere forme sinuose
in padella, ad accovacciarsi su se stesso. Non abbiate pietà e
continuate a trattarlo come vi ho detto e dopo otto-nove minuti di trattamento, quando l’equilibrio dei colori virerà verso il rosso bruno con sparute presenze di marrone dovuto
agli spaghetti che non ne vogliono sapere di staccarsi dal
fondo, allora finalmente assaggiate e valutate il grado di cottura. Naturalmente con la cottura direttamente in padella
non sarà possibile ottenere lo stesso grado di consistenza di
uno spaghetto cotto in acqua e sale. Assolutamente. Lo spaghetto deve risultare più calloso, più invitante sotto i denti.
Però attenzione, solo quelli bruciacchiati devono “crocchiare”. Il grado di cottura e di bruciato quindi lo decidete voi.
Dovete avere occhio e gusto. Quando avrete deciso che secondo voi l’Assassina è pronta allora servite direttamente
portando al tavolo la padella. L’Assassina, ovverossia lo spaghetto all’Assassina, è una teoria piuttosto che un semplice
piatto. Appare di una semplicità disarmante ma richiede attenzione, cura e distacco. Lasciatemelo dire, è un atto d’amore. Bene, adesso assaggiate. Gustate in silenzio, mi direte
in seguito.»
Sono sconvolta, chi se l’aspettava una tiritera simile da Antonio. Do di gomito a Esposito, intanto che riempio un mezzo
bicchiere di vino rosso. Perché è vero che siamo in servizio,
ma se dobbiamo combattere combattiamo.
«Espò, quell’Antonio è uscito pazzo.»
«No commissà, gli piacciono assai le puntate di Masterchef.»
«Sarebbe Masterscè?»
Il mio attendente mi guarda attonito.
«’O vèr, commissà? Non avete visto mai ’na puntata di
Masterchef? No, non è possibile. Voi scherzate, vi prendete
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gioco di me. Ma se tutta l’Italia si ferma il giovedì sera, com’è
che voi non ne sapete niente?»
Come dirgli che non sto scherzando affatto e che oggi è già
la terza volta che mi sento un pesce fuor d’acqua? Ma la colpa
lo so io di chi è, di Giovannimio, perché troppo mi sono dedicata a lui in questi anni, troppo mi sono impegnata ad amarlo
trascurando tutto e tutti. Con quale risultato? Scavalcata dai
miei sottoposti perfino in cucina. Ad ogni modo, anche se gli
spaghetti ùscano da morire ce ne spazzoliamo quasi mezzo
chilo in tre. Perché stavolta Forte tiene ragione. La ricetta può
servire a capire molte cose. Ed è talmente buona che quasi
quasi impacchetto l’avanzo e me lo porto a casa per stasera.
Tornata nel mio ufficio do un’occhiata ai rilievi e chiamo
Marietta. La mia intenzione è di parlare dell’omicidio invece
capisco subito che lei ha equivocato il senso della telefonata e
va sul personale, cominciando a parlare di Nicola e dei giorni
di ritardo delle sue cose. Da amica comprendo la preoccupazione ma qui stiamo lavorando. Taglio corto e chiudo la conversazione per procedere con tutto il resto della lista delle
persone informate sui fatti che bisogna convocare nelle prossime ore. Camerieri, cuochi, addetti alle cucine. Tutta la squadra di lavoro presente la sera precedente l’omicidio, che si
presume avvenuto alle prime luci dell’alba.
Dodici persone in tutto, molte delle quali straniere. Leggo
i profili che Esposito mi passa uno per volta e mi appunto tre
o quattro soggetti interessanti.
Geppino Schirone, 67 anni, capocameriere in servizio dal­
l’a­per­tu­ra del locale.
Giovanna Lafronza, 56 anni, cuoca.
Benallal Matou, algerino, 35 anni, chef.
Fanny Oliveira, brasiliana, 25 anni, un passato da entraî­
neuse spogliarellista, adesso guardarobiera.
Il Policlinico barese è una specie di paradigma della città.
L’eccellenza di alcuni reparti mescolata ai parcheggiatori abu22
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sivi. I luminari famosi in tutto il mondo accanto ai portantini
con la panza di fuori e la bottiglia della birra Peroni in mano.
Famiglie intere che bivaccano al pronto soccorso perché la
nonna ha mal di denti, e il custode all’ingresso che senza tesserino non vuole farmi passare. E se insiste, oggi lo faccio sospendere.
L’obitorio dell’Istituto di Medicina legale continua a mettermi addosso la stessa tensione di quando venni la prima
volta, con l’odore dell’acido fenico mischiato a quello della
morte, ma poi mi basta vedere il sorriso del professor Introna
per farmela passare.
«Lolitabella, eccoci. Ho appena completato un primo esame sommario.»
«Dimmi qualcosa Prof. Questo omicidio mi fa sentire sulla
graticola.»
«Come san Lorenzo?»
«Per l’appunto.»
«Allora cominciamo dall’inizio, perché temo che un particolare possa esserti sfuggito. E non è cosa da poco. Nel senso
che il dettaglio di cui sto per dirti può cambiare completamente le ipotesi su cui stai lavorando.»
«Ecco a dire la verità di quello su cui ho lavorato fino ad ora
vorrei parlarti in seguito. E non è granché. Anzi forse ti metti
a ridere. Ma parla tu adesso, sono abbastanza sulle spine.»
«Dalle foto scattate sulla scena del delitto è evidente una
gran quantità di sangue. L’incaprettamento invece è un omicidio – come dire – bianco, cioè il cadavere di norma non presenta tracce ematiche. Ma a un non addetto ai lavori certe
modalità possono sfuggire.»
«Infatti. Il cadavere era imbrattato di sangue in più punti.»
«Lolita, l’incaprettamento è un modo di ammazzare molto
violento. In pratica la stessa vittima finisce lentamente con lo
strangolarsi, a mano a mano che i muscoli della coscia iniziano a contrarsi e a estendere progressivamente le gambe piegate per accumulo di acido lattico. La morte è lentissima e
agonica. Una morte atroce che nel “codice” mafioso viene
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inflitta a chi non è degno di essere assassinato da un killer. Ma
l’aguzzino di Stramaglia non si è fermato all’incaprettamento.
Ha continuato a infierire sulla vittima e gli ha sfondato il cranio con una pesante padella. Ancora, ha evirato il soggetto e
gli ha posto i genitali in bocca. Un altro segnale raccapricciante che nel macabro rituale mafioso ha un significato inequivocabile. Una punizione che viene riservata a chi ha mancato di
rispetto a una “donna d’onore”, come può essere definita la
moglie, la madre, la sorella o la fidanzata di un boss. Non è
necessario che sia stata violentata: basta averla importunata,
o anche semplicemente sfiorata con lo sguardo, per incorrere
nella terribile vendetta delle cosche mafiose.»
«Ommadonna, evirato. E voglio dire, io credevo che ’ste
modalità si utilizzassero prevalentemente in Sicilia. In Sardegna. Ma a Bari!?»
«Hai mai sentito parlare di globalizzazione? Ormai anche
le mafie delocalizzano. Forse il killer ha origini siciliane. Ed
è venuto apposta sul Continente. Ma questo è campo tuo.
Ad ogni modo domani mattina dopo l’autopsia potrò essere
più preciso su altri elementi. Potremmo sentirci intorno alle
dodici.»
«Grazie. Questa conversazione ha aperto alcuni scenari e
ne ha rafforzati altri. Prof, sei insostituibile.»
«E tu sempre gentile. Che fai stasera, vai a mangiare un’Assassina? Fallo se ti riesce, non sai che ti sei persa fino ad ora.»
«Vuoi saperlo davvero? Già mangiata a pranzo, cucinata
dal­l’i­spet­to­re Forte, e sono costretta ad ammettere che avevate ragione. La mia era una lacuna gravissima.»
«Ottimo, l’ispettore avrà preparato la versione standard,
immagino.»
«Presumo di sì. Perché, esistono altre versioni?»
E mentre lo chiedo, penso che non è giusto, non è. Datemi
il tempo di imparare una cosa alla volta, cos’è adesso quest’altra novità?
«Certo cara Lolita, più d’una. Questa che sto per darti è la
versione più intima e romantica della famosa ricetta. Uno di
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quei piatti che nascono dalla tradizione. Quella che sembra
così lontana da noi. Quando non si buttava via niente. Quando si riciclava tutto, soprattutto in cucina. Certe ricette nascono proprio dall’esigenza di riciclare gli avanzi del giorno prima. Gli spaghetti all’Assassina che Colino Stramaglia preparava per i suoi dipendenti prima dell’apertura, per i teatranti
del Piccinni e del Petruzzelli dopo lo spettacolo a cucina già
chiusa, o per pochi fortunati quando a fine serata gli girava il
ghiribizzo e si rimetteva il grembiulone, nascono proprio così.
La materia prima, in questo caso è la pasta al sugo avanzata.
Ci vogliono spaghetti al sugo o al ragù del giorno prima, peperoncino abbondante, olio extravergine d’oliva. Poi bisogna
scaldare l’olio in una padella di ferro, versare gli spaghetti,
aggiungere il peperoncino e farli rosolare fino a quando non
si forma una crosticina scura. Con un’avvertenza: questo piatto va mangiato caldissimo proprio per apprezzare la croccantezza della pasta. Meglio se in due, va da sé.»
Uhm, quindi tutta ’sta storia per quello che mia nonna Dolò chiamava ’o ragù de la dì apprìss. Però resto zitta, in mezzo
a tutta questa sacralità apparirei quasi blasfema.
«Capito. In due allora.»
«Meglio, sì.»
«Ok, allora vado a organizzare. Ciao Prof, grazie ancora.»
«Ciao Lolì, domani mi racconti.»
Sì, e che gli racconto al Prof? Se fossero stati altri tempi
avrebbe avuto anche ragione, gli spaghetti per due ce li saremmo cucinati io e Giovanni, e dopo tutto quel peperoncino
piccante la direzione sarebbe stata una sola: la camera da letto. Per fare l’amore, mica per dormire.
Ma ormai c’est tout fini, anche Giovanni è andato. Senza
un vero motivo, stanchezza, bugie. Corna presunte. Tutte le
cose messe insieme. O forse per colpa del suo russare. Non so
dire, ma cominciò una notte in cui non riuscivo a dormire per
il mal di testa, e lui continuava a grufolare ignaro della mia
insofferenza. Accesi l’abat-jour e lo osservai. Nel sonno non
conservava le tracce della sua prepotente bellezza, c’era qual25
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cosa che si sbiadiva, che si corrompeva in quel ronfare scomposto, offendendo i miei timpani e la mia sensibilità. Cominciò quella notte il ridimensionamento di qualcuno che avevo
tanto amato, con cui avevo accarezzato l’idea di fermarmi.
Pensai alle sue parole senza riscontro, sempre più vuote, balorde, ballerine. Al mio bisogno di certezze, a lui che non me
ne dava. Ce l’avevo ogni sera nel letto eppure non riuscivo più
a fidarmi, come se qualcosa avesse inquinato irrimediabilmente i pozzi.
Sapevo benissimo come e quando. Ma era inutile ritornare,
rivangare. Nessuna parola, come diceva a volte lui. Nessun
amore pensavo io, non più. Non con Giovanni, almeno. Ne
avevo abbastanza, volevo arrivasse il mattino perché sgombrasse al più presto. Dal mio letto e quanto prima anche dalla
mia vita. Presi il cuscino e andai a dormire sul divano. Quella notte, dormii benissimo.
Adesso però che da San Valentino è passato un po’ di tempo, mi sono ripresa abbastanza, mi sono fatta lo sciatusc e
alla Questura stanno per darmi una bella promozione. Intanto mi vado convincendo che se decido di stare un poco da
sola, male non faccio. Perché dico la verità, certe volte con i
consigli di nonna Dolò non c’azzecco proprio. «Tu pensa ad
amare» diceva lei, «che prima o poi l’amore torna.» Invece qui
l’unica cosa che tornava ogni volta che lo vedevo a quello là,
era la nervatura.
Perché più ci penso e più mi convinco che Giovannimio
non era uomo per me. Nossignore, troppo freddo, troppo
preciso, troppo bugiardo. Sì bello, per carità. Ma anche la
troppa bellezza stanca, perché a lui tutte lo volevano. E io mi
ero stancata di fare il cane da guardia. Anche perché si può
conquistare una ragazza con la poesia, ma non si può tenerla
solo con la poesia. Altro ci vuole, dico io.
Ad ogni modo è acqua passata, e mo’ che sono tornata
zitella le opzioni per un vertice sugli spaghetti di stasera sono
soltanto due. Tonio, l’ex marito di mia sorella, oppure Marietta.
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Sono loro, insieme all’ispettore Forte, i miei amici più cari.
Anche se Tonio è piucchealtro un mezzo parente essendo stato per circa vent’anni il marito di mia sorella. Poi Carmela s’è
stancata delle troppe corna e l’ha sbattuto fuori, ma i cognati
non divorziano insieme ai coniugi e io continuo a volergli bene come quando ero una bimbetta e vidi Tonio per la prima
volta. Anche perché resta il padre dei miei nipoti, mica ’ste
cose cambiano quando due si lasciano.
Tonio da qualche settimana risulta irrintracciabile e ha anche attivato l’avviso di chiamata. Posso ritenermi fortunata
perché stavolta dopo una buona mezz’ora richiama.
«...pronto Lolì.»
La voce non è delle migliori, a metà tra il rauco e l’assonnato. Non è escluso si sia beccato l’influenza e forse l’Assassina stasera dovrò preparargliela a domicilio, mannaggia.
«To’, tutt’appòst?»
«Sì sì, perché? È succèss qualcheccosa? Ai bambini, a Carmela? A te, Lolì? Non mi tenere sulle spine.»
«Tranquillo, a casa tutti bene. Per il resto niente di grave a
parte il solito ammazzamento settimanale. Solo che non ti fai
sentire da un po’ e mi chiedevo se stasera ti andava di mangiare due spaghetti a casa mia. Così, per fare quattro chiacchiere. Lo sai che mi manchi.»
Tonio non risponde, tossicchia, temporeggia. È imbarazzato. Solo che io il commissario faccio, queste commedie le conosco a memoria, e mio cognato, perché per me tale resta, sta
nascondendo qualcosa. A quel punto lo imbecco. Come faccio
di solito con i testimoni.
«Che c’è? Sei già impegnato o non stai bene? Non ci stanno problemi con Lolitatua, lo sai.»
«No no, è che in effetti non tanto mi sento.»
«Ah, e che ti senti? Dai, meglio se vengo a vedere.»
E qui ti volevo, perché ovviamente Tonio va in allarme.
«No Lolì, non serve. Non ti disturbare, due lineette, ’na
cosetta passeggera, sto già meglio.»
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Poi però ci ripensa, e ritratta.
«Dai, tànd ’navòld dev’essere. Te lo volevo dire già da un
po’, ma tu sei sempre impegnata e non volevo disturbare.»
Ah, ecco. Ci ho preso. Ellovedi che ho sempre ragione, poi
dici.
«Ah, sono impegnata. Perché qualche volta mi hai chiamato e non ti ho risposto? Fammi capire. Dimmi che c’è,
sciamm’.»
«Lolì senti, non la prendere male, ma io mi sarei fidanzato.
Cioè, mi sono. Con Yolanda, la mia compagna, facciamo giusto un mese oggi. Un fatto serio, ormai con le avventure ho
chiuso. Sono un uomo diverso, Yolanda mi ha cambiato e me
la voglio sposare. Ma te lo volevo dire, giuro.»
«Uh uh, ti sei fidanzato. Ho capito. Un mese oggi. Con
Yolanda. E te la vuoi sposare. Bene, chettidevodire? Auguri e
figli maschi. Quella mia sorella comunque teneva ragione.»
«Su che cosa?»
«Sul fatto che sei un delinquente. Un puttaniere, niente di
più.»
«Lolì, ma che stai addìre... un delinquente, io? Ma quando
mai!»
Tonio continua a parlare ma ho già chiuso la comunicazione. E no, non ho esagerato. Bella delusione. Vatti a fidare degli ex cognati, vatti.
Scartato il delinquente, la seconda opzione è quella di invitare Marietta a casa. Per un summit sull’Assassina e/o l’assassino. Certo lei la vedo molto più spesso di Tonio e insieme
alle altre qualità per cui le sono amica, ha un grande pregio.
Non fa le mosse, ti dice subito sì. Anche se gemello uno deve
ancora fare i compiti di matematica e gemella due ha mal d’orecchi. Ma risolverà promette, e arriverà puntuale.
Sono già le sette e un quarto e ho il tempo di preparare una
focaccia. Quella barese, con le olive pizzicanti e l’acqua mischiata all’olio versata sopra. Uno shock, lo so. Che pure io la
prima volta per lo scrupolo che m’è venuto sono stata mezz’o28
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ra con il bicchiere in mano. Dopo però ti mangi pure il tegame
per quanto è buona.
Sulla puntualità dell’amicamia nulla da eccepire, a parte
una mezz’oretta fisiologica in linea con le abitudini del luogo.
Quello che non mi va è il codazzo che da qualche tempo si
porta dietro ogni volta che si muove. Lavoro o non lavoro.
Sono sul terrazzo a prendere due o tre foglioline di menta per
condire le zucchine alla poverella quando vedo arrivare il
blindato con i tre omaccioni della scorta. Che mentre lei sale
si mettono di guardia al mio portone per restare di piantone
tutto il tempo necessario. E mica Marietta è Obama, voglio
dire. È mai possibile che dobbiamo dare ’sto spettacolo al vicinato per due spaghetti che ci dobbiamo mangiare? Io non lo
so... O facciamo salire la scorta e prepariamo mezzo chilo di
spaghetti in più, o questi chissà che pensano, mannaggia.
Marietta però di far salire i poliziotti non ne vuole sapere, e
così apparecchio solo per due.
Tovaglia a quadretti bianchi e rossi, e ceramiche col galletto.
Poi focaccia, zucchine, pecorino fresco con marmellata d’arance, vino Negroamaro rosé ghiacciato e ovviamente un padellone di spaghetti all’Assassina. Nonostante anche l’amicamia li abbia assaggiati e cucinati più volte. Va a finire che ero
l’unica della città a non conoscere l’ottava meraviglia.
«E quindi con Giovanni?» chiede, quando, un po’ barcollanti dopo l’ultimo bicchiere, con la coppa delle ciliegie a portata di mano, ci infiliamo nel mio letto sotto il lenzuolo di lino
rosa pallido. Capisco che stasera non è cosa, Marietta dell’omicidio Stramaglia non ha nessuna voglia di parlare. E pazienza, vorrà dire che farò da sola. Come sempre.
«Che vuoi che ti dica? Niente... Tutto come prima. Io di
qui, lui di là. Storia chiusa. Stop.»
«Anche con questo? Ma perché, ma come fai a lasciarteli
sfuggire tutti, io non capisco. Giovanni sarà il decimo.»
Il decimo? Ma come si permette?
«Mariè, chiariamoci: primo, non è il decimo perché i miei
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uomini si possono contare sulle dita di una mano sola, e dati
i tempi, ti assicuro, si tratta di una grande qualità. Secondo,
certi soggetti è meglio perderli che altro, tant’è che senza Giovanni mi sento meglio, non lo vedi che sto come un fiore?»
E un po’ per ridere, un po’ per vendetta, mi scoscio tutta
quanta. Apposta sì, perché le gambe sono la croce di Marietta,
un po’ a prosciutto diciamo, contrariamente alle mie, perfette
non per dire.
«Sì sì, vedo» chiude lei, secca come l’uva passa prima di
buttarla nell’acqua calda. E non è faccenda di gambe. Poi continua.
«...solo che non vedo quello che tu pensi. Ti sei guardata
allo specchio? Da quando hai chiuso la storia con Giovanni
tuo, sei diventata verde come un limone. Acida come non
mai. Dovresti imparare da me come si fa a tenersi l’uomo, altroché.»
Ora, che io non toccherei un uomo sposato neanche se
fosse l’ultimo a disposizione, è cosa risaputa. Della situazione
sentimentale di Marietta abbiamo ampiamente disquisito in
passato, e cioè sposata da una dozzina d’anni abbondante
con San Filippo, nonché amante disinvolta e semiufficiale di
un soggettone barese. Nicola Morisco, sessant’anni passati,
alias Nicolamio, sostituto procuratore nella Procura da lei diretta da qualche mese in qua. Certo, siamo nel nuovo millennio, si teorizza il poliamore, ma un certo decoro ci vuole eccheccacchio. Come si fa a non sbottare, non lo so.
«Ah be’ Mariè, questo è sicuro. Sei una maestra sull’argomento, infatti ti tieni due uomini da anni come se niente
fosse.»
«Embè, c’entra ’sta cosa adesso? Ti metti a fare la moralista? Ne tengo due solo perché quelli, Filippo e Nicola, si compensano, sono due ma è come se fosse uno solo.»
«Si compensano?! Noooo, allora tu sei pazza, l’ho sempre
pensato ma stasera ho la conferma.»
«Lolì, la tua è invidia. Perché sei acida e tutti scappano dal
tuo letto. Più conferma di questa, che vuoi?»
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Credetemi, non mi raccapezzo più, il nuovo lavoro, con
tutte le tensioni e l’esposizione mediatica che comporta, deve
averle dato alla testa. Solo per questo ho pietà e non la metto
alla porta.
«Guarda Mariè, chiudiamola qui e parliamo d’altro.»
«Sì, è meglio. Giovanni però si vede con una, tanto vale
che tu lo sappia.»
Sbam. Non poteva dirmi cosa peggiore. Il cuore mi sbatte
nel petto, così forte che anche Marietta lo può sentire.
«Come sarebbe si vede con una?! Una chi? Proprio a Bari,
dove si sa pure a che ora la gente prende il diuretico. Fammi il
nome per piacere.»
«Ma niente, non ci pensare. Una sciacquetta da quattro
soldi. Vistosa, leggera al punto giusto. Di quelle scopabili e
basta, che non ti sottopongono alla Santa Inquisizione ogni
volta che le vedi. Insomma quello che gli ci vuole per disintossicarsi da te e dai tuoi interrogatori. Adesso però rilassati, che
non ne vale la pena agitarsi per uno così.»
Interrogatori? Rilassarsi? E come si fa, di sicuro passerò la
notte in bianco a verificare i collegamenti su WhatsApp. Mannagg’, n’aldra vòld.
«Scusa Mariè, leggera in che senso? Più magra, intendi?»
«No, zoccola per dire. Nel senso che a casa di quella sono zoccole pure le gatte. Una professionista della categoria.
Però carina, biondina, vezzosa. Una che l’unico fastidio che
ha avuto nella vita è stato lavarsi i capelli con l’unghia spezzata.»
«Disgraziato. Bestia. Animale feroce. Forse uno dei regali
per San Valentino era per lei. Quello con la scatola rosa e il
fiocchetto.»
«Lolì, eddai non ci pensare. È lui ad aver perso di più.»
Marietta cerca di consolarmi, mi abbraccia, accarezza i miei
capelli e asciuga le lacrime. E menomale che la tengo. «Grazie
Mariè, meno male che ci sei, siamo così fortunate noi donne
ad avere le amiche. Come fanno gli uomini in certi casi? Ah sì,
alcuni scrivono alle poste del cuore. Si è mosso anche Haruki
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Murakami, pare. Certi altri, dai non lo voglio manco dire.
Ammazzano e basta.»
«Perché non gli scrivi pure tu a Murakami? Magari ti dà il
consiglio giusto.»
«Stai scherzando, spero? No, preferisco rileggere i suoi libri più belli, a scrivergli non ci penso nemmeno. Ecco, se c’è
una cosa positiva quando finisce una storia, è che ti ritrovi
un sacco di tempo a disposizione. E per i primi tempi va tutto
benissimo. Riordini gli stipetti, la scarpiera, il cassetto delle
bollette, la libreria... Due settimane fa ho sistemato tutti gli
autori in ordine alfabetico, Murakami compreso. Una soddisfazione che non ti dico. Però dopo che riordini anche l’ultimo
cassetto e sistemi l’ultimo volume, ti torna addosso la solitudine. E non sai che fare, con chi parlare, con chi piangere.
Non sai il dolore, Marietta. Credimi.»
«Vieni qui tesoro, ci sono io adesso. Piangi, ti fa bene. Ma
tu pure, però. Ti devi addolcire Lolì, ti devi scordare il lavoro
che fai quando torni a casa. Invece non sei capace.»
«Come si fa allora? Insegnami. Che io il capo della Sezione
Omicidi faccio, mica la parrucchiera. E se so che c’è un omicida libero in giro per la città non riesco a distrarmi, anche fuori dall’orario di ufficio. Poi questa nuova esplosione di criminalità, i clan, i Kalashnikov, i regolamenti di conti... Con la
camorra barese che incalza, perché di questo parliamo sorella
mia, anche se non voglio certo insegnarti il mestiere o farti
parlare di lavoro al di fuori dell’orario. No, io non cambio, a
quest’età non posso più permettermi di essere ingenua, e chi
mi vuole deve prendere il pacchetto completo. Il lato sexy, la
quinta di reggiseno, i capelli lunghi... e anche il fatto che sono
come sono. Un commissario della Omicidi.»
«Hai detto niente. E forse era meglio se facevi la parrucchiera. Per quanto certe volte... Me ne ricordo una più di
vent’anni fa, con una valigetta metallizzata al seguito, veniva
a casa a fare la testa a tutte le donne della famiglia. Da noi in
Basilicata si usava così, non eravamo gente di città. Il progresso viaggiava in bicicletta. Be’, Lina si chiamava, a sentir
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lei esisteva un rimedio per ogni cosa. Mi incantavo ad ascoltarla. Sosteneva per esempio che davanti a un piatto di peperoni cruschi, si riusciva a dimenticare tutto. Lutti, doglie o pene d’amore. Come fate qui a Bari con la focaccia. Mangiate un
pezzo, o ne impastate una apposta, e tutto vi passa. Adesso
però ascolta il mio consiglio: il prossimo, sceglilo separato. È
meglio. Perché se un uomo è single come Giovannituo, nessuna se lo è preso. Manco tu, come vedi. Un capo difettato
insomma. E ci sarà un motivo.»
«Non lo so se è così. L’amore trova sempre il modo, quando c’è. Forse tra me e Giovanni l’amore non c’era, si trattava
di altro.»
«Per esempio? Sesso!? Dai, dimmi ti prego.»
«Quante ne vuoi sapere. Sesso, dici? Può essere. Ma sono
fatti miei, e adesso s’è fatta pure mezzanotte.»
«Mezzanotte!!! Madonna, con quei poveracci giù ad aspettare.»
«Hai vìst, te l’avevo detto di farli salire.»
«Certe volte c’hai ragione. Gli spaghetti erano fantastici,
per essere la tua prima volta. Emmo’ damm’ nu vàs. Buonanotte.»
«Muah. Ciao Mariè, buonanotte.»
E ditemi come faccio a non pensare.
Un’altra.
Disgraziato.
Mi sento la febbre addosso, e prometto a me stessa che
stanotte perdo la nottata, ma è davvero l’ultima volta. Da domani penserò solo a lavorare. Casomai mi iscrivo in palestra.
O a uno di quei corsi di burlesque che andavano tanto di moda qualche anno fa. Per mantenermi seduttiva con moderazione e distrarmi dopo l’ufficio. Stasera no però, stasera voglio vedere quello cosa fa.
Prendo il cellulare e digito il suo nome.
Giovanni P.
Online.
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Figurati. Dai mi lavo i denti, magari è solo un caso.
Mi strucco, mi spoglio, metto la sottana per dormire. Riprovo.
Giovanni P.
Online.
Ok, leggo un po’. Magari spegne.
Dopo un quarto d’ora mi collego ancora.
Giovanni P.
Online.
A me poi scriveva tre parole in croce. E non è giusto, non è.
Sono così stanca, così sfinita che infilo la testa sotto il cuscino per nascondere a me stessa il mio pianto.
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