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Versione pdf - Limited Edition Books
Bianca Marconero Albion Diario di un’assassina Una pubblicazione LIMITED EDITION BOOKS Cura editoriale: Isabella Donato © 2013 Christian Borghi © 2013 LIMITED EDITION BOOKS per la presente edizione Tutti i diritti riservati. All rights reserved www.limitededitionbooks.it [email protected] Isbn: 978-88-908413-1-6 Avvertenza dell'Autore Se un manoscritto è una pianta selvaggia, che cresce secondo la sua natura gettando i rami in ogni direzione, un libro è un bonsai, che con arte, cura e tagli assume un aspetto il più possibile armonioso e coerente. 'Albion' prima di essere dato alle stampe è stato un manoscritto, che come una pianta nata spontaneamente aveva tanti, troppi rami. Durante il processo di risistemazione editoriale un taglio, pur doveroso, ha portato alla scomparsa della storia di Sam. Le trame segrete di questa insospettabile, piccola spia che venivano -frettolosamente- svelate in uno dei capitoli finali, sono cadute sotto le forbici dell'editing. Questi tagli sono stati un bene per il libro, ma una parte di me non si è rassegnata di buon grado. Sentivo il bisogno di raccontare, a chi aveva letto Albion, chi fosse davvero Samira. Occorreva 'metterla in pari' con gli altri personaggi. Ho provato a inserire la storia di Sam nel secondo libro, ma poi tutti stavano più stretti, come succede quando vuoi infilare troppe cose in una scatola. La soluzione era quindi prendere questo piccolo ramo e piantarlo in un vaso, prendersi cura di lui e regalarlo a chiunque lo volesse. Ed eccolo qui, il 'Diario di un'Assassina', la voce di Sam offerta e dedicata a quanti hanno letto Albion. Diffiderei chiunque non l'abbia fatto a intraprenderne la lettura perché non è una storia che sta in piedi da sola. Acquisisce senso solo se conoscete gli eventi narrati in Albion. Così come le risposte interessano solo a chi si è posto le domande. Il ‘Diario di un'Assassina’ risponde a una parte di quelle che potete esservi fatte, leggendo Albion. Per le altre, siate pazienti, come diceva il poeta: "un'altra fiata, se mi fia concesso, racontarovi il tutto per espresso". Bianca Marconero A Voi, che leggete. Serve God, love me and mend This is not the end Live unbruised, we are friends And I’m sorry I’m sorry Sigh no more – Mumford and Sons Ieri La mia vita senza nome Mi chiamano Samira, ho più o meno tredici anni e non sono una ragazza come tante. Io e la mia gente siamo ciò che resta dei Nizariti, i fumatori di hashish seguaci di Hasan-i Sabbah, noto anche come il Vecchio della Montagna. La Montagna è ancora oggi la nostra casa, ci accoglie e ci educa facendo di noi quello che siamo. È il centro delle nostre esistenze. Siamo emanazioni della sua volontà, esecutori implacabili dei suoi mandati. I nostri amici, gli alleati che sono da sempre al nostro fianco, preferiscono identificarci con il luogo da cui proveniamo, e ci chiamano “agenti della Montagna”, quasi avessero pudore di dichiarare ad alta voce il nostro vero nome. Perché noi siamo la Setta del Veglio, e "assassino" è una parola che non piace a nessuno. Io non sono pura, è un attributo che spetta solo ai nativi, e non sono neppure un’ospite, perché dovrei conoscere il nome di mia madre e invece non lo so. Sono una senza nome, un’orfana figlia di nessuno. Ho passato i primi anni della mia vita in una casa per bambini di Shiraz, un inferno in terra come non ne ho più visti. Non so chi mi abbia abbandonata lì, ma è qualcuno che non potrò mai perdonare. La mia vita di prima vorrei dimenticarla, perché è stata un’esistenza miserevole, scandita da privazioni e menzogne. Sono stata picchiata perché avevo fame e non sapevo nasconderlo, ma ho smesso di piangere nell’istante in cui ho capito che non importava a nessuno. Non conosco di preciso la mia età, ma so che sono rimasta nella casa dei bambini per quattro anni, undici mesi e sette giorni, vale a dire fino al momento in cui ho deciso che sarei morta piuttosto che restare un minuto di più. La notte che sono scappata poteva davvero essere l’ultima della mia vita. Altri avevano tentato la fuga, ma senza fortuna. Li riprendevano tutti e li riportavano all’inferno, in un modo o nell’altro. Quattro bambini fuggirono con me. Non ne ricordo i volti né il suono della voce, ma sento ancora il rumore dei passi che inciampano sul selciato e riempiono il silenzio della notte. Il rumore dei loro passi, non dei miei. Perché, a differenza degli altri fuggiaschi, sapevo correre sfiorando appena il terreno, sapevo scivolare nelle ombre e sparire nel loro abbraccio, sapevo diventare invisibile come uno spettro. La nostra fuga durò un’infinità, mi sembra di aver corso per settimane, giorni, di averlo fatto per anni, secoli, millenni. E ancora mi sveglio, in piena notte, convinta di essere lì, con il respiro spezzato dalla paura, a cercare chissà dove la forza per non fermarmi. Nel mio cuore la fuga non finirà mai. I miei compagni furono presi molto presto. I nostri guardiani scoprirono che eravamo scappati e si misero sulle nostre tracce; dovevano lavare subito l’affronto di una ribellione che sarebbe stata come fuoco tra l’erba secca. Il primo a cadere fu il più grande di noi. Aveva una malformazione all’anca e sapevamo che non ce l’avrebbe fatta. Anche lui ne era consapevole, ma la ragione dei disperati è come quella dei folli: ha regole proprie e si alimenta di idiozia, o di speranza, che per alcuni versi sono la stessa cosa. Sentii le grida del secondo e del terzo fuggiasco che si confondevano con il latrare dei cani. L’urlo dell’ultimo mi gelò il sangue nelle vene. Dovevano averlo azzannato. Sapevo che dopo sarebbe toccato a me, a meno che non fossi riuscita a sparire. Mi arrampicai su per una grondaia e continuai la mia fuga attraverso i tetti. Ricordo che considerai di nascondermi al bazar, ma che alla fine decisi di correre verso i giardini di Narenjeistan. Cambiando direzione potevo confondere i miei inseguitori, anche se i loro segugi erano più difficili da ingannare, perché non potevo liberarmi del mio odore. E così cominciai a togliermi i vestiti e a lanciarli dai tetti, a mano a mano che mi avvicinavo alla meta. Se avessi potuto strapparmi la pelle, l’avrei fatto. Quando arrivai al Bagh-e Eram, avevo bisogno di vestiti nuovi. Mi arrampicai sulla terrazza del primo piano, poi scesi al piano terra. Riuscii a trovare una camicia e la infilai. Era di una lunghezza pericolosa, perché sfiorava terra e mi copriva i piedi, rischiando di farmi inciampare a ogni passo. Uscii dal retro. Quando quella mattina il sole mi salutò, sorgendo sul mausoleo di Shagh-e Cheragh, non riuscii neppure a sorridere. Ero fuggita da un inferno che conoscevo, ma non sapevo quale inferno avrei scoperto. Nei giorni seguenti ne ebbi un assaggio. Vivevo di furti. Rubavo sempre in posti diversi, per evitare problemi, e dormivo dove capitava. Ero cauta e, all’occorrenza, veloce; sapevo rimandare i miei bisogni e ridimensionare le esigenze. Evitavo, per quel che potevo, di attirare l’attenzione, perché sapevo che mi stavano cercando e che non mi volevano lasciare andare; se uno ce la faceva, la speranza degli altri sarebbe rimasta accesa. In ogni caso non mi trovarono mai. Forse perché ero davvero brava, o forse perché i Cercatori della Montagna Verde mi stanarono per primi, mostrandosi più abili di me, che scappavo, e dei guardiani, che mi davano la caccia. Allora non lo sapevo, ma gli orfanatrofi sono sempre stati tra i luoghi preferiti dai Cercatori. Posti senza speranza dove la gente come me ha poche scelte: o aspetta di spegnersi, o si crea un’occasione per evitarlo. La mia fuga e il fatto che riuscissi a non farmi trovare avevano suscitato il loro interesse. E quando decisero di mettersi sulle mie tracce, diedi loro del filo da torcere. Non sono mai stata una persona facile da raggirare, e per settimane evitai i loro tranelli. Alla fine mi presero per fame. Ero al bazar e avevo lo stomaco così vuoto che avrebbe mangiato se stesso. Quando vidi un banco di frutta incustodito non mi fermai a pensare a quanto quella circostanza fosse strana, o forse lo feci, ma la fame vinse su ogni altra considerazione. Mi avvicinai e afferrai una mela. Un attimo dopo qualcuno stringeva il mio polso. Non alzai neppure lo sguardo. Gli sferrai un calcio sull’osso della gamba destra così forte da farmi male e azzannai la mano che teneva la mia, come un cane furioso. Tanto bastò per essere di nuovo libera. C’era una gran folla, e il terrore di essere presa mi metteva le ali ai piedi. Correvo tra i banchi, cambiavo direzione, trascinavo nella mia corsa ogni cosa potesse ostacolare i miei inseguitori, ma erano ovunque e sbucavano da ogni angolo, come artigli in un roveto. Alla fine fui colpita alla nuca da un colpo di chakram che mi stordì. Mi presero e mi trascinarono in un retrobottega. La prima volta che vidi Bashir El Farenz aveva più o meno l’età che ho adesso. Era alto, lo è sempre stato, ed era serio: un’espressione che conferiva un’autorevolezza adulta al suo sguardo severo. Si rivolse a me come se fossi un ragazzo. La cosa, non so perché, mi indispettì. Morsicai anche lui. Lo azzannai al polso così forte che ebbi la sensazione di poter trapassare la pelle, di affondare i denti nella carne. Si liberò con l’aiuto degli altri e mi ritrovai scaraventata per terra. Quando sollevai la testa ci scambiammo lo sguardo più lungo che avessi mai condiviso con un essere umano più grande di me. Il mio cuore si era fermato in attesa della punizione, ma lui mi tese la mano. La stessa che avevo morso. «Alzati in piedi» mi disse. Osservai quell’offerta, aspettava la mia mano. Così come il mio cuore aspettava di essere ingannato dalle sue parole. Nessuno mi aveva mai aiutata, non mi sfiorava il sospetto che le cose potessero cambiare. E così rifiutai il suo invito. Mi rialzai da sola. Quella fu la prima volta che vidi lo stupore balenare oltre i suoi occhi neri. Ciò che accadde dopo è la mia storia. Nel segno della Montagna Pochi giorni dopo quell’incontro i Cercatori lasciarono Shiraz e mi portarono con loro. Non diedero mai a intendere che avessi scelta, e io non pretendevo di averne una. Durante il viaggio, scoprii che Bashir non era di molte parole e che la serietà che avevo scorto sul suo viso non era un’espressione, ma un’impronta, uno stato perenne che albergava nei suoi lineamenti. Il suo fratellastro, Hamid, che guidava quella spedizione, era molto diverso. Più scuro di carnagione, più basso – nonostante avesse cinque anni in più –, era anche più affabile, cosa che lo portava spesso a rivolgermi la parola. Non perdeva occasione per dirmi che mi avrebbero offerto una possibilità preziosa. Dopo tre giorni di viaggio su un paio di jeep, e molte soste in villaggi e piccoli centri abitati, arrivammo alla Cittadella, a est di Alamut, nel Nord del Paese. La Cittadella è un antico borgo fortificato che si inerpica su per un colle. Un’alta cinta muraria la circonda. Sulla sommità del colle sorge la Scuola, abbracciata dal borgo e dai suoi sette rioni. Questi ultimi sono piccole città nella città. Oltre alle abitazioni dei nativi ci sono laboratori artigiani e luoghi di svago, soprattutto taverne, dove, come scoprii in seguito, si onora l’abitudine di fumare oppio e hashish. E accade spesso che qualcuno lo faccia più del dovuto. Arrivai lì in un giorno di sole, assieme ad altri tre ragazzi, tutti maschi. Ero la più bassa e probabilmente la più giovane. Dopo aver varcato il portone della cinta di mura lasciammo la jeep. Proseguimmo a piedi, scortati dai Cercatori. La strada di terra battuta si snodava tra edifici bassi, ordinati, del colore della sabbia, e si arrampicava verso il colle. Molte persone ci venivano incontro. Erano quasi tutte giovani donne; vestite con tuniche bianche e verdi, avevano il capo scoperto. Salutavano i Cercatori chiamandoli per nome. I loro sguardi ci accoglievano con una gentilezza inaspettata. Dopo un’ultima tratta in forte pendenza, arrivammo all’ingresso della Scuola. Sembrava l’accesso a una reggia tanto era solenne. La ricchezza dell’atrio mi fece sentire inadeguata. L’immensa superficie circolare era sormontata da una cupola decorata con magnifici intarsi colorati; le colonne, nella loro splendida imponenza, scandivano lo spazio, e le sette scalinate in marmo verde, disposte a raggiera, si arrampicavano verso luoghi che rimanevano nascosti allo sguardo. Cinque uomini vestiti di verde vennero incontro ai Cercatori, li salutarono e ci presero in consegna. Io e gli altri bambini li seguimmo lungo la prima gradinata. Mi sforzai di stare al loro passo, senza voltarmi indietro, ma ricordo che avrei voluto incrociare lo sguardo di Bashir, o quello di Hamid, per leggervi quel che stava per accadere. Le guardie della Scuola marciarono spedite davanti a noi per tutti gli interminabili duecento gradini che servono per accedere alle capitanerie. Alla sommità della scala si addentrarono, precedendoci, lungo un magnifico corridoio, affiancato dalle colonne e scandito da finestre slanciate. Quando arrivammo a destinazione mi colse un senso di meraviglia mai provato. Eravamo in un giardino pensile così straordinario e rigoglioso che il paradiso doveva per forza assomigliargli. Avevo perfino timore di calpestare i ricchi mosaici verdi e oro che lastricavano i pavimenti, ma i miei occhi vagarono su di essi, ansiosi di decifrare le splendide storie di duelli e battaglie, di tesori e magie, di cavalieri portatori di spade, lance e croci. I miei compagni invece corsero alla fontana di marmo. Uccellini colorati giocavano con gli zampilli cristallini e, al centro, la statua di un vecchio dalla lunga barba si inginocchiava su cuscini di pietra. Nelle ore che seguirono ebbi modo di esplorare quel luogo, ma non di abituarmi alle sue meraviglie. Il giardino era lussureggiante e fiorito, le siepi si alternavano alle aiuole e i rampicanti si fondevano con le colonne. La fontana con la statua del vecchio non era la sola, anche se era la più grande. In tutte bevevano gli uccelli. Il loro canto era trasportato da una brezza leggera, intrisa dell’odore dei fiori. Una balaustra di marmo solido e splendente circondava il giardino pensile. Sporgendomi da essa, il mio sguardo abbracciava i rioni della Cittadella e la cinta di mura. Ma, abbassandolo, compresi che il giardino era parte della collina e che le scale che avevamo percorso, e lo stesso splendido corridoio che ci aveva condotti lì, si incuneavano nel cuore della terra. Nel cuore della Montagna. Trascorsi lì tutto il pomeriggio, mentre, a uno a uno, gli altri venivano prelevati e portati altrove. Nessuno di loro tornava al giardino. Quando venne il mio turno, sperai con tutto il cuore di poter vedere ancora quel paradiso. Mi scortarono lungo il corridoio fino a che non terminò, dinanzi a una porta. Ormai avevo capito che eravamo dentro la montagna, e quando mi ritrovai nella stanza circolare, mi sorprese l’abbagliante presenza di sette grandi finestre. Scavate nella roccia, svettavano dal pavimento al soffitto, alte più di tre metri, con le ante di vetri colorati spalancate verso le luci della sera. In piedi accanto a una di esse c’era un uomo; era vestito di verde, come le guardie. Il tessuto del suo abito non era prezioso, ma una fascia di lucido raso bianco gli attraversava il petto e si appoggiava sulla spalla sinistra. Guardava fuori, verso le sabbie del deserto, fuse con il cielo nel medesimo tono di arancio. La presenza di Bashir, al suo fianco, mi alleggerì il cuore. L’uomo, lo scoprii in seguito, si chiamava El Faid, ed era il capitano del rione di Luce, al quale apparteneva il padre di Bashir e Hamid. Era un uomo sulla quarantina, alto e magro, dall’aria dignitosa. Nonostante mi fossero in un certo modo chiari il ruolo e il peso che avrebbe avuto la sua opinione sul mio futuro, non ero intimorita. Ero piuttosto sorpresa, perché, dall’istante in cui i miei passi erano risuonati nella stanza, né lui né Bashir mi avevano guardata. Sembravano presi da altro. Solo dopo molti minuti che me ne stavo in piedi, distante una decina di metri, cominciarono a parlare di me. «Chi è l’ultimo aspirante?» «Una bambina di Shiraz». «Di quanti anni?» «Sei. Più o meno» rispose Bashir, poi continuò spiegando che ero scappata da un orfanatrofio. Disse che avevo evitato la cattura per dodici giorni e che Hamid era convinto dei miei mezzi. Parlava di me come se non fossi in quella stanza. «Quindi l’idea di reclutarla è di tuo fratello?» domandò El Faid. «Sì». «Ha facoltà speciali?» «No» rispose Bashir. Il tono di El Faid era irritato, mentre notava: «Quindi non sa fare niente. A parte scappare». «Ha iniziativa» precisò Bashir. El Faid stette un attimo in silenzio, poi finalmente spostò i suoi occhi su di me, dandomi per la prima volta una prova della mia presenza in quella stanza. Gliene fui grata. Io stessa cominciavo a dubitarne. «Qual è la cosa più importante del mondo?» «Il cibo» risposi, senza pensare. «Il cibo?» ripeté, poco persuaso. «Sì. Senza… muori». «La vita può essere sacrificata, se la ragione è valida» mi riprese El Faid, «se la ragione è nobile». «Allora è meglio non morire di fame» ribattei, «sarebbe uno spreco». Scese un silenzio strano. Uno di quelli che ti urlano nelle orecchie. Poi la risata di El Faid lo spazzò via, e un attimo dopo l’uomo fece un cenno d’assenso a Bashir. «È vero, è meglio non morire di fame». Quindi tornò con lo sguardo su di me. Ed ebbi la sensazione che mi stesse guardando davvero solo in quell’istante. «Sembra che almeno uno l’abbiate trovato, Bashir. Accompagnala ai dormitori». Il giorno successivo cominciai l’addestramento. Affiliati Dei tre ragazzi che erano arrivati con me alla Cittadella nessuno venne ammesso all’addestramento. Dei venticinque bambini che entrarono con me per la prima volta nella Stanza dei Bracieri, nel cuore della Montagna, tredici erano nativi, sette erano ospiti e solo cinque senza nome, come me. La prima volta fu un massacro, ma con il tempo le cose migliorarono. E parecchio. Ero dotata, veloce e caparbia. Non ho mai messo in conto di non farcela, perché ho compreso subito che Hamid aveva ragione, mi era stata offerta un’opportunità preziosa: alla Scuola della Cittadella mi avrebbero trasformata e avrebbero cambiato la mia vita. Gli anni successivi furono per me i primi che valesse la pena ricordare. La Montagna prepara i migliori soldati del mondo. Non lo dico per orgoglio di parte. Nessuna società e nessun esercito allevano i propri figli per farne agenti operativi infallibili e letali. Questo succede solo alla Cittadella. Mi allenai a usare spade e pugnali, pistole ed esplosivi. Appresi tecniche di lotta avanzate, imparai a sparire, a mettere a punto sonniferi, droghe e veleni letali. Acquisii la capacità di difendermi da chi si insinua nella mente, per proteggere i miei pensieri. Respirai la Spezia che arde nei bracieri della Stanza e i miei occhi cambiarono il loro colore e la loro natura. Ricevetti il dono di penetrare le ombre, come una creatura della notte. Studiavo e mi allenavo dall’alba al tramonto, ogni giorno. In quei primi cinque anni ho lasciato la Cittadella solo per recarmi ai campi collettivi d’addestramento, nel nord della Francia, ad agosto e a dicembre. Ogni giorno consumavo i miei tre pasti nel silenzio del refettorio, e alla sera, quando i nativi tornavano in seno alle loro famiglie, e così facevano anche gli ospiti, affidati a nuclei familiari che avevano avuto figli da tempo o non ne avevano più, mi ritiravo con gli altri senza nome nei dormitori della scuola, e lì studiavo finché mi reggeva la vista. Al termine dell’addestramento parlavo russo, cinese e inglese, sapevo tradurre il sanscrito, pilotare un elicottero, aggirare un firewall, decrittare sistemi di sicurezza, costruire un esplosivo o una ricetrasmittente partendo da una lattina di Coca-Cola. Avevo più o meno dodici anni. Quando decisero che ero pronta per le missioni sul campo, il capitano del rione di Luce accolse la richiesta di Bashir di darmi un nome. Da quel momento appartengo al rione che mi ha adottata e alla squadra di Bashir. È lui che ha scelto di chiamarmi Samira. Significa ‘compagna’, ed era il nome della sua gemella, morta in missione l’anno che mi ha trovata. Nei due anni successivi all’addestramento non siamo rimasti per lungo tempo alla Montagna. Hamid è diventato capitano del nostro rione, dopo che El Faid è stato nominato ambasciatore. E neppure Bashir è più un Cercatore: ha ottenuto il grado di Siniscalco, e, con esso, l’autorità di coordinare missioni di alto livello. Io sono sempre con lui. Giriamo il mondo portando a termine i nostri incarichi. Aiutiamo la gente che ne ha bisogno. E non siamo soli nell’impresa. La Montagna agisce per il bene supremo, collettivo, e lo fa di concerto con altre organizzazioni segrete, dodici in tutto, sparse per l’Europa. Non si sente parlare di noi e non siamo sulle prime pagine dei giornali. Ma ciò che finisce in prima pagina è spesso opera nostra. Che nessuno lo sappia è uno dei requisiti fondamentali di ogni missione. Il nostro fulcro è un’organizzazione potentissima e antica, così abile da fingersi defunta da secoli e al contempo alimentare il proprio mito: i cavalieri del Tempio di Cristo. I Templari sono la nostra guida. Tutti gli affiliati riconoscono la loro superiorità decisionale. Sono loro a stabilire le indagini, sono loro a supervisionare gli addestramenti speciali che due volte l’anno richiamano tutte le reclute, sono loro a stanziare fondi ai gruppi che ne hanno bisogno per portare avanti la missione. So che il nostro accordo con il Tempio è antico. Risale alle prime crociate. Fu siglato a Gerusalemme, nel 1120, dal fondatore della nostra setta e dal gran maestro dell’Ordine. Non siamo mai stati mercenari e non siamo mai stati dei senza fede. Ma quel giorno, noi e i Templari promettemmo che le differenze non ci avrebbero separati. Perché, comunque lo si chiami, Dio è grande, e l’uomo giusto deve fare il bene di tutti. Da allora il legame si è fatto più stretto. Oggi noi siamo il loro braccio armato più potente e fedele. Fino a poco tempo fa non sospettavo che sarei stata coinvolta in una missione che riguardava l’altro braccio del Tempio, l’Ordine riluttante che da quasi cinque decadi è sparito dalla lista degli affiliati. Non sapevo che mi sarei dovuta occupare di loro e che mi stava per capitare, tra capo e collo, l’unico incarico al mondo che, potendo, avrei rifiutato. Oggi 14 febbraio – Nazioni Unite Capisco subito che qualcosa non va. Bashir è silenzioso. E non mi riferisco alle parole. Non è mai loquace. È più il fatto che è capace di zittire il proprio umore, i propri occhi, l’espressione del viso. Mette a tacere tutto il suo corpo e diventa muto. È un segnale rilevante solo per chi lo conosce da tempo. È paradossale che, proprio nel momento in cui diventa imperscrutabile e si nasconde al mondo intero, io capisca che è alle prese con un problema. Mi chiedo cosa lo preoccupi, mentre percorriamo l’avenue de la Paix sotto la pioggia battente, diretti al palazzo delle Nazioni Unite. Stiamo andando a incontrare gli agenti del Tempio. Ci aspettano negli uffici del Sovrano Ordine di Malta. Gli Ospedalieri sono affiliati al Tempio. Sono quelli che definiamo “tattici”, raramente impegnati in missioni operative e piuttosto dediti alla ricerca e alla diplomazia. Sono loro a bisbigliare alle orecchie dei monaci quello che poi il Tempio chiede a noi di fare. Arriviamo alle porte dei loro uffici e vedo due uomini che conversano animatamente. Uno dei due è Francesco Archibugi, un membro della Santa Inquisizione, capo della divisione della Cerca Arcana. Non è cambiato dall’ultima volta che l’ho incontrato, sei mesi fa, a Praga. Le nostre strade si sono incrociate alla fine dell’estate. Noi della Montagna abbiamo contribuito a mettere in sicurezza una cantina del quartiere di Mala Strana. Dietro una porta murata, Archibugi e i suoi hanno scoperto 2377 codici antichi. Una collezione segreta di testi proibiti di alchimisti ed eretici. Li aveva raccolti un farmacista, Venceslao Radu, che, ironia della sorte, è stato bruciato sul rogo nel 1486, per ordine del Tribunale dell’Inquisizione. Ed è proprio la divisione degli Inquisitori della Cerca Arcana che sta esaminando quei codici per le proprie ricerche esoteriche. Archibugi non gode della mia simpatia. È un uomo dalla corporatura esile, pallido come un cadavere. I suoi gesti sono sempre spasmodici. Passa dall’assoluta immobilità alla foga. È un aspetto che trovo disorientante. Quando parla ti sputa addosso le parole, ma la cosa peggiore è il modo in cui ti guarda. I suoi occhi ti colgono e si abbattono come un falco sulla preda. È lo sguardo di chi ti accusa ed è convinto che prima o poi ne avrà motivo. Archibugi sta discutendo con un benedettino, un uomo piuttosto grasso che ci saluta per primo. Conosce Bashir e lo accoglie con estrema gentilezza, senza ottenere in cambio lo stesso trattamento. Mi guarda e mi riconosce, quindi ricorda la circostanza in cui ci siamo incontrati. Poi Bashir interrompe i convenevoli chiedendo se siano già arrivati tutti. La risposta alla sua domanda si materializza all’imbocco del corridoio. Il decano Sebastiano di Lamarck viene verso di noi! Mi sforzo di restare impassibile. Fino a ora mi è capitato solo due volte di ricevere un incarico direttamente da uno dei dieci decani del Tempio. Succede solo per le missioni più delicate e segrete. La prima volta è accaduto un anno e mezzo fa. Il Tempio è intervenuto per liberare trentacinque bambini da una piantagione lager della Colombia. I trafficanti di droga avevano comprato i ragazzi alle loro famiglie. La missione aveva lo scopo di liberarli e distruggere sia la piantagione sia la raffineria in cui venivano impiegati. Abbiamo finito prima del previsto e senza subire perdite. Bashir era immensamente soddisfatto. La seconda quando ci hanno mandato in Nepal. Dovevamo entrare in un carcere di massima sicurezza e prelevare un detenuto. Era fondamentale fare presto, perché lo stavano torturando. Siamo partiti quarantacinque minuti dopo aver ricevuto le specifiche della missione. Ventitré ore dopo, la missione era conclusa. Chang Jung era allo stremo. Non è riuscito neppure a chiederci chi fossimo; è morto prima che sorgesse il sole. Di tutti i decani del Tempio, Sebastiano di Lamarck è quello che ho visto più volte in vita mia, perché supervisiona gli addestramenti delle reclute, nella base che il Tempio possiede a Paimpont, nel nord della Francia. È un uomo imponente. Ha la parte sinistra del volto sfregiata da un’enorme cicatrice, ciò che resta di una ferita alla quale non era scontato sopravvivere. Dev’essere sul suo volto da molti anni, perché è invecchiata con lui. Ci saluta e ci esorta a entrare. Archibugi si considera incluso nell’invito, mentre il monaco grasso si dilegua. Nell’ufficio del Sovrano Ordine di Malta ci sono due persone. Ricomincia il valzer dei saluti e mi do il tempo di richiamare i loro volti alla memoria. L’uomo sulla quarantina, con i capelli biondo cenere e i denti da coniglio, si chiama Larousse. Dirige una divisione di ricerca all’interno del CERN. Ufficialmente è finanziata da un ente benefico sostenuto da facoltosi filantropi, ma di fatto sono i Templari a pagare. Evidentemente è qui per altri motivi, perché prende congedo non appena arriviamo. L’altro uomo si chiama Gustavo Lapoche. È una vecchia conoscenza, un pezzo grosso negli uffici che l’Ordine di Malta conserva nella sede dell’ONU. Ha una faccia tonda, le labbra sempre umide e le mani sempre sudate. Sorride molto, ma mai con gli occhi. Fa gli onori di casa e ci invita ad accomodarci sui divani, al centro della stanza. Io mi siedo per ultima, sulla poltrona che mi indica Bashir. Lapoche prende un grosso faldone nero con un’etichetta bianca e lo appoggia al centro del tavolino. Mi sforzo di non abbassare lo sguardo. Posso conoscere solo le informazioni che i miei superiori mi permettono di sapere. «La questione è delicata» esordisce il decano. «Come sapete, Edoardo Cinquedraghi è morto all’inizio del mese». Non ho mai incontrato Edoardo Cinquedraghi, ma conosco il suo nome. È, o meglio era, il capo della Tavola Rotonda. L’erede in carica di Artù Pendragon. E visto che per ogni re che muore ce n’è uno che viene incoronato, immagino che ci sia qualche successore pronto a prenderne il posto. «L’attivazione potrebbe coinvolgere suo figlio Tommaso» osserva Bashir, «in fondo è il discendente diretto». Le sue parole sembrano un’obiezione. Ho la sensazione che sappia qualcosa e abbia già avuto modo di pensarci parecchio. «È toccato a suo nipote» chiarisce Lamarck, «il secondogenito di Tommaso». «Con tutto il rispetto, decano, è appena accaduto. Forse…» «Abbiamo fatto avvicinare il ragazzo da tre agenti» spiega Lamarck, «lo abbiamo tenuto in osservazione nelle ultime settimane. Ha perso peso ed è cresciuto in altezza». «Ha quasi diciassette anni» obietta Bashir, «sarebbe strano se non crescesse». «I suoi riflessi si sono potenziati» continua il decano, «lo ha dimostrato nelle prove sportive con la squadra del liceo». Bashir sta per replicare, ma il decano lo precede: «Edoardo mi confidò che sarebbe toccato a suo nipote. Marco ha accolto l’eredità dei Pendragon. Non ci sono dubbi. Io non ne ho». Quest’ultima affermazione ha l’effetto voluto. Bashir si arrende. «Neanche David Angus ha dubbi. Lo ha ammesso a scuola. Direttamente al terzo anno» chiarisce Archibugi, lanciando le parole come una raffica di sassate. «I discendenti dei cavalieri possono attivarsi solo se entrano in contatto con il re in carica. E ovviamente Angus lo sa». Non è la prima volta che sento parlare di questa circostanza mistica, dell’attivazione. Ha a che fare con la tradizione della Tavola Rotonda. Ma non capisco come possa riguardare una missione. Come possa riguardare me. «Purtroppo Edoardo era in contrasto con i suoi e si era allontanato da noi. Negli ultimi quarant’anni nessuno dei discendenti dei cavalieri si è unito al Tempio. La perdita per la nostra causa è immane, ma sarebbe una catastrofe se questo nuovo re e i cavalieri che si attiveranno intorno a lui dovessero girare le spalle al nostro sodalizio. Nessun discendente di Artù ha mai rifiutato il Tempio. Dal giorno della nostra alleanza, hanno servito e protetto al nostro fianco. Tutti». «Decano, allora perché non fare la proposta direttamente al ragazzo?» si intromette Bashir. Si sta ancora affannando per scongiurare una conclusione che, nonostante i contorni confusi, comincia a inquietarmi. «Non possiamo» scandisce il decano, «ignora quale sia il suo retaggio. È così per tutti, finché non vengono ordinati. Solo un cavaliere ne può creare un altro. E il Tempio può reclutare solo cavalieri ordinati. È questo l’accordo che abbiamo con loro». Parla come se enunciasse un principio di valore assoluto. «Per entrare nel Tempio, Marco Cinquedraghi deve diplomarsi, essere iniziato al segreto del suo Ordine e diventare un cavaliere». «Allora aspettiamo quel momento!» obietta di nuovo Bashir. «Aspettiamo che sia ordinato. Metterlo a parte del segreto significa scavalcare le gerarchie del suo Ordine. I rapporti con la Tavola Rotonda sono tesi e…» «È fondamentale che l’attivazione si inneschi» si intromette Archibugi. Poi afferra il faldone e lo riappoggia sul tavolo con un gesto brusco. «Bisogna fare in fretta. Il potere scema con il tempo. La capacità di attivare il resto dei discendenti toccherà l’apice entro un anno, poi andrà esaurendosi. Ci sono centotrentacinque possibili cavalieri, e cinque di questi sono a dir poco preziosi. Perché discendono da famiglie legate alla tradizione dei Custodi. Bisogna fare in modo che accada». Poi sposta i suoi occhi su di me. Il solito sguardo rapace, ma con qualcosa in più. Il dubbio. Capisco che si aspettano qualcosa da me. E capisco che Archibugi non mi ritiene all’altezza. Reggo il suo sguardo finché non sento il decano fare il mio nome. «Samira, avrai capito che dobbiamo controllare da vicino l’attivazione. Dobbiamo sapere quello che succederà da settembre in poi. Ci serve un agente che lo faccia. Dall’interno. El Faid è convinto che tu sei la persona giusta». Credo si tratti di uno scherzo. Non riesco a capire. Mi aspetto che Bashir dica qualcosa, ma tace. «Devo spiarli?» tento. «È più complicato di così» mi corregge il decano, «devi farteli amici». Quindi prende il faldone e lo spinge inesorabile verso di me. Lo fa scivolare sul tavolo. Me lo offre. Capisco che posso guardarlo, che devo farlo. Sull’etichetta immacolata c’è scritto ALBION. 15 agosto Mi chiamerò Darlin Blakpool e sarò una studentessa che si immatricola quest’anno all’Albion College. In apparenza si tratta di una scuola tra le montagne svizzere, molto esclusiva e del tutto normale, se non fosse che si entra solo se fai parte di un gruppo ristretto di famiglie. In realtà è la moderna incarnazione di un’istituzione antica, fondata dai cavalieri della Tavola Rotonda per allevare insieme i propri figli. Darlin, quella vera, è di Hastings. Ha un carattere aperto e molti amici, nonostante soffra di un’infatuazione adolescenziale per le favole gotiche. È più alta di me. I suoi occhi sono scuri, i capelli sono lisci e neri, li porta lunghissimi da sempre. Ho passato qualche settimana a Hastings, studiando il territorio, e ho lavorato sull’accento. Se la fortuna mi assiste, dovrebbe bastare. Per l’aspetto fisico la questione è stata risolta con qualche accorgimento. Indosserò scarpe con la suola rinforzata, hanno stirato chimicamente i miei capelli, li hanno scuriti e hanno applicato delle extension infinite. Quanto agli occhi, indosserò lenti a contatto colorate. Ci sono abituata, perché i miei occhi rosa non passano inosservati. Darlin sarebbe dovuta entrare all’Albion, la sua famiglia discende dai cavalieri, ma nessuno di loro lo sa. A differenza di altre congreghe legate all’ereditarietà e al sangue, i cavalieri condividono la verità solo con un numero ristretto di membri. Bisogna prima ricevere l’iniziazione, e per farlo occorre diplomarsi. E sembra che non sia una passeggiata, soprattutto per chi entra con la borsa di studio. Le cose non sono sempre state così. Ma lo sono adesso. Quando hanno accettato l’offerta del Tempio e hanno venduto il diritto di iscriversi all’Albion, i Blakpool non sapevano a che cosa stavano davvero rinunciando. Ma per come va il mondo, forse non avrebbe fatto differenza. Il Tempio li ha pagati e Darlin riceverà un’istruzione ugualmente prestigiosa. A settembre partirà davvero per un collegio svizzero. Ma non sarà l’Albion. All’Albion ci andrò io. È la prima volta che mi sento svilita da un incarico. La prima volta che non ne afferro l’utilità. Io sono un membro addestrato di una setta antica di quasi mille anni e mi chiedono di passare quattro mesi della mia vita seduta su un banco di scuola a far la punta alle matite. Vogliono che tenga d’occhio dei ragazzini. Devo farmeli amici e fare in modo che facciano amicizia tra di loro. E poi li dovrò portare a Montecassino, entro la fine dell’anno. Dio solo sa come. È l’incarico più stupido, inutile e mortificante della mia carriera. Il Tempio non si rassegna, e dopo quarant’anni di defezioni spera che questa nuova, eletta generazione accolga l’antica ispirazione dell’ordine cavalleresco. Mentre ad Archibugi e a quelli come lui, cacciatori di memorabilia e manufatti leggendari, interessano solo i custodita. I custodita sono l’essenza del mito. Oggetti mistici legati ai cavalieri di cui si ignorano del tutto l’aspetto e l’ubicazione. Sotto sotto spero che sia solo una leggenda. Nel caso, vorrei proprio vedere la faccia di Archibugi. Ma per ora faccio quello che dicono. Non è nella mia natura ribellarmi. Io non protesto. Le loro decisioni sono le mie. Però mai come oggi sento il bisogno di distogliere la mente, e fortunatamente so come fare. L’Androne, scavato nel cuore della montagna, è la stanza sotterranea dove mi sono allenata per anni. Un immenso ambiente dove l’eco risponde perfino ai sospiri. È la grotta che parla con le nostre voci e geme con noi, mentre ci spezziamo di fatica sui percorsi a ostacoli messi a punto nei secoli da chi ci ha preceduti. È un giorno di festa e non mi sorprende trovare l’Androne deserto. Meglio. Mi basterà rischiare la vita e mi sentirò di nuovo me stessa. Il Ponte Magico è il tracciato più duro e pericoloso fra i molti che io e miei compagni abbiamo ripetuto allo sfinimento. Mi ha fatto sputare sangue fin dal primo giorno. Oggi il mio corpo lo conosce a memoria. Mi arrampico con la fune e mi lancio sulle parallele. Tre volteggi. Il mondo intero gira intorno a me. Ora sono a terra e corro verso la sbarra: duecento metri su un percorso sospeso, più stretto della pianta dei miei piedi. Giungo alla fine con la sensazione di aver volato. Eccomi davanti al muro. Ignoro gli appigli più semplici ma non perdo tempo. In un batter d’ali sono in cima. La fune mi aspetta. La afferro con entrambe le mani. Sono a metà dell’oscillazione che mi porterà in volo dalla parte opposta dell’Androne. La corda scivola tra le dita. Un brivido di paura mi ferma il cuore. Lo zittisco e sono dall’altra parte, i piedi saldi. Ora mi calo con la fune. È il momento dei fossi. È un ritmo noto alle mie gambe. Si conoscono da anni. Arrivo dall’altra parte. Affronto i muri. Sono otto, in sequenza. Anche qui le mie gambe vanno a memoria. Sanno quando alzarsi e non li sfiorano. Finisco il percorso per la terza volta. L’illusione non dura. Così non va bene. I pensieri sono ancora lì. Correre non basta per lasciarseli alle spalle. Sto per lanciarmi nell’ennesima ripetizione quando una voce nota mi chiama. È El Faid. Mi sorprende vederlo. Da quando è stato nominato ambasciatore della Montagna presso i Templari è quasi sempre a Montecassino. Non sapevo neppure che fosse alla Cittadella. «Brava. Un’esecuzione notevole». «Posso fare di meglio». I complimenti mi mettono sempre a disagio. È come quando qualcuno ti vuole vendere qualcosa e non ha il coraggio di dirti il prezzo. «Dovresti tornare a casa. Riposarti. Stasera devi divertirti come tutti». Le sue parole mi riportano alla mente che oggi è un giorno di festa. Hamid, capitano del nostro rione, si sposa con Rania. «E poi domani parti per la Svizzera. Una ragione in più per risparmiare le forze». Sto per dirgli che, per ciò che devo fare in Svizzera, le forze mi avanzeranno, ma taccio e annuisco. Però qualcosa non va. Non lo convinco. Si insospettisce. «Devi fare del tuo meglio». «Lo farò». «Abbiamo bisogno dei cavalieri». «Certo». «Sono una risorsa inestimabile». «Il Tempio ne è convinto». «Se non li riportiamo tra noi, corriamo un grave rischio». Non ce la faccio e ribatto: «Ce la siamo cavata anche senza di loro». Un lampo di sorpresa balena nel suo sguardo. Mi affretto a ritrattare, ma lui mi interrompe: «Samira, se il Tempio è la mente della nostra organizzazione, i cavalieri ne sono l’anima. Sono nati per servire e proteggere, lo fanno da molto prima che il Tempio stesso nascesse! Hanno indicato la via a tutti noi». «Potrebbero aver cambiato idea». «I cavalieri hanno nel loro sangue poteri grandi e meravigliosi. Doni simili non possono cadere nelle mani sbagliate». Annuisco, giuro che darò il massimo e, finalmente, me ne vado. È un sollievo che non posso esprimere a parole. 15 agosto – sera La serata è fresca ma nessuno se ne accorge. Nell’aria aleggia un preciso odore di fumo, mi è familiare come se provenisse dalla pelle di un genitore. Per qualcuno smettere sarebbe una cosa saggia. Altri avrebbero dovuto farlo già da un po’. Hamid si è appena sposato. Sembra scoppiare di felicità, ma credo che sia, non meno degli altri, sotto l’effetto delle miscele di hashish. Anche Rania è al settimo cielo. Ma nel suo caso la ragione è chiara: ha messo le mani sul capitano del rione. Le si prospetta una vita comoda e prestigiosa, il connubio ideale per chi, come lei, è ambizioso almeno quanto pigro. Io me ne sto in disparte. Mi sembra di assistere a una farsa. È lampante che il matrimonio non accresce il benessere. Non conosco una sola coppia sposata che possa smentirmi. Non ci vuole una veggente dell’occhio di Ry’n per pronosticare lo scenario di qui a un anno. Rania avrà fatto un figlio -il primo di una lunga serie- e si sarà tolta per sempre dall’impiccio di andare in missione. Hamid, al contrario, scalpiterà per partire, un po’ perché non ne potrà più di sua moglie, un po’ perché certa gente vive bene solo con il cuore in subbuglio. Quelli come lui, come Bashir, come me hanno bisogno di incarichi, hanno bisogno di azione. Questa considerazione ne porta un’altra, molto amara: per i prossimi quattro mesi dovrò rassegnarmi. L’emozione più forte che mi aspetta sarà essere chiamata alla lavagna per tradurre Seneca. Prima di vestirmi per la farsa ho voluto farmi del male. Ho riletto alcuni profili del dossier del Tempio. Le parole di El Faid sul potere immane di questi bambocci suonano quasi ironiche. L’unico potere che riconosco a Marco Cinquedraghi è che basta guardarlo e già lo odi. Ha una di quelle facce che devi prendere a schiaffi, anche senza ragione, perché hai la certezza che, prima o poi, te ne darà motivo. Lancaster Chevalier Du Lac è l’erede di Lancillotto del Lago. È l’amico che tutti vorrebbero avere. A giudicare dal suo aspetto, deve essere affetto da una forma grave di narcisismo. Credo che passi la vita davanti allo specchio. Deacon Donald Emrys è Merlino. Nientemeno. Ma l’unica cosa straordinaria che emerge dal dossier è la sua mediocrità. È un individuo senza talenti che tutti prendono di mira e che mai una volta ha dimostrato di avere un minimo di orgoglio. Helena Gomez è il secondo ramo Pendragon. Le faccio un favore definendola insulsa, anche se il suo rendimento scolastico è molto alto. Deve avere almeno un po’ di cervello. Le servirà. Poi c’è Greystone. Erek Greystone. Non c’è una sola foto in cui non sorrida. O ha una paralisi facciale, o è uno stupido. Non so perché, ma opterei per la seconda. Sono persa in queste amarissime riflessioni mentre la festa impazza. Non mi accorgo di Bashir se non nel momento in cui me lo trovo davanti. Stasera è molto bello. Il vestito di lino con la fusciacca dorata gli dona. Lo fa sembrare felice. L’ho lasciato poco fa che saltellava sulla pista con Farah, la sorella di Rania. Mi chiedo se avremo presto un secondo matrimonio. La cosa mi fa sorridere. «Perché ridi?» «Una sciocchezza. Ti diverti?» «Ci provo. Non sono tranquillo». Si riferisce alla mia missione. Lo so. Ne abbiamo parlato. Mi sento in dovere di confortarlo. «Quattro mesi passano presto». «Non passeranno mai». Non so se mi sorprende più l’affermazione o il tono. Si siede sul muretto di sasso, anche così è più alto di me. Prende a scrutarmi con uno sguardo strano, sofferente. Comincio a pensare che abbia esagerato col fumo e glielo chiedo. Lui si incupisce e mi rigira la domanda: «E tu hai fumato?». «No». «Fuori dalla Stanza ti è proibito, lo sai». «Lo so». Così come so che il divieto vige solo per me e unicamente perché è lui ad avermelo imposto. «Devi essere in controllo. Hai una missione da portare a termine». «Andiamo, Bashir, non corro alcun rischio». «Tu sei sempre stata con me» precisa, «non vorrei che stare da sola, in mezzo a quella gente, ti mettesse strane idee in testa». Non ho la più pallida idea di quali strane idee stia parlando. Ma ugualmente lo rassicuro: «Ti renderò fiero di me. Porterò a termine l’incarico». «E tornerai a casa». C’è qualcosa di urgente nel suo tono. Come se precisarlo fosse fondamentale. Lo rassicuro anche su quello. «Tornerò a casa». Le mie parole si dissolvono come nuvole di fumo. Si alza senza dire una parola e si allontana, lasciandomi sola. 31 agosto È un incubo e aspetto solo di svegliarmi. Sono nella camera che mi hanno assegnato, nel settore del castello chiamato “ala est”. Stesi sul copriletto davanti a me ci sono un paio di calzettoni bianchi, una gonna in tartan blu, una camicia azzurra, un gilè color piombo e un blazer blu scuro. L’ultima volta che mi sono vestita così mi infiltravo a Shanghai per sventare un giro di prostituzione minorile. Lì aveva un senso. Il pensiero che sarà la mia divisa per i prossimi quattro mesi ha il potere di rinnovare la mia rabbia. La porta si apre. Nel vano compare una ragazzina dall’aria spaurita. «Scusa, pensavo non ci fosse nessuno». Ha una voce sottile e una cadenza francese del tutto adeguate alla cosina minuta alla quale appartengono. «Sei la mia compagna di stanza?» chiede, abbracciando una dotazione simile a quella che hanno rifilato a me. «Sembra di sì». «Piacere, sono Simone Beauregarde» e mi viene incontro tendendo la mano. È goffa, e questa caratteristica si nota ancora di più perché fa di tutto per sembrare disinvolta. Ho pietà di lei e le stringo la mano. «Sono Darlin Blakpool». Poi abbasso lo sguardo sui vestiti che continua ad abbracciare. «Ti hanno già dato la divisa». «Sì, è stato un ragazzo gentilissimo, al piano di sotto. Quello con i capelli strani. Ha detto che è roba usata. Cioè che era degli altri. Quelli del castello» ammicca con una segretezza irritante. È qui da poche ore e già è pervasa dalla soggezione, come se non li potesse neppure nominare. «Okay. Vado di sotto, così porti dentro la valigia e ti sistemi». E, senza neppure ascoltare quello che bofonchia, esco dalla stanza. Ecco un margine di peggioramento che non avevo considerato: un’inutile compagna di stanza francese, o belga, affetta da timidezza patologica. Percorro il corridoio. Siamo al primo piano dell’area riservata agli studenti borsisti. La carta da parati, un floreale ossessivo sui toni del blu, avrebbe bisogno di una sistemata. Sarebbero da mettere a posto anche i listelli di legno che coprono le pareti per circa un metro d’altezza. Ci sono molte porte che si affacciano sul corridoio. Sono le stanze degli studenti. Maschi e femmine dormono allo stesso piano. I bagni, al centro, sono un ideale confine tra le due aree. Proprio mentre passo davanti a quelli dei ragazzi, uno schiamazzo selvaggio mi fa quasi trasalire. Volano degli insulti. Ma poi tutti scoppiano a ridere. Qualunque cosa stiano facendo, si stanno divertendo. Beati loro. Una scala stretta e ripida mi porta a pianterreno. La stanza comune, una specie di clubhouse arredata da qualcuno che soffre di disturbo da personalità multipla, è piuttosto trafficata. C’è chi si abbraccia e si saluta, altri che fanno accoglienza agli studenti nuovi e distribuiscono le divise di seconda mano. Mi soffermo ancora su Deacon Emrys. È altissimo, magrissimo e ha una massa di capelli informe. La sua chioma sembra la parrucca di uno che vuole farti uno scherzo. È lui che dirige le operazioni. Come una torre di controllo. Proprio ora sta scortando un ragazzino spagnolo, Ramón Santos, al piano di sopra. Anche a me è toccato il tour guidato dell’ala est: cucina, sala studio, sala comune, bagni. E mi è toccata la sfilza di raccomandazioni sulle cose che devo e su quelle che proprio non posso permettermi di fare. Emrys è un soggetto apprensivo. E ha la vocazione del messia. Ho la sensazione che voglia farsi carico della salvezza di tutti. Il che significa che ritiene l’Albion un posto pericoloso. Emrys e Ramón sono scomparsi sulla scalinata quando la porta dell’ala est si apre. Una donna dall’aria sofisticata e dall’espressione crudele fa il suo ingresso. Il suono dei suoi tacchi taglia il silenzio che è piombato nella stanza. Senza guardare in faccia nessuno, si dirige alla bacheca di sughero delle assegnazioni. Inchioda una nota con un colpo secco e ripercorre la sala comune fino all’uscita. La porta si chiude alle sue spalle. Sono la prima a precipitarmi sulla nota. Samuel Deville – servizio Running, ore 19:00 . Stazione di Saint Michel de la Croix. Per M.A. Cinquedraghi e H. Gomez. Questo è un bel colpo di fortuna. Il primo e il secondo ramo Pendragon viaggiano sullo stesso treno! Potrebbero incontrarsi. Devo fare in modo che accada. La stazione di Saint Michel è piccola. La Gomez mi sembra una che non staccherebbe il naso da un libro neppure durante un terremoto, ma faccio affidamento su Cinquedraghi. Se si trova solo con una ragazza, scommetto che proverà a fare amicizia! È pur sempre un italiano. Tutto sta nel far arrivare l’autista in ritardo. Stacco il foglietto e cerco con lo sguardo Deville. Ma proprio in quel momento Deacon torna dal suo giro con Ramón. Capisco che posso sfruttare ancor meglio la cosa, che posso propiziare il primo contatto tra il Re e il Mago. Mi metto il biglietto in tasca e lo raggiungo. «Ciao, hai detto di chiamarti Deacon, vero?» «Sì! Tu invece hai detto che ti chiami…» Ha l’aria di non averne idea. «Darlin» gli dico, togliendolo dall’imbarazzo. «È passata una signora e ha detto che devi andare in stazione a prendere due studenti». «Ah, ottimo. Chi?» «Una si chiama Gomez». «Oh! Helena!» dice il suo nome con una gioia quasi infantile. «Vedrai, ti piacerà! E l’altro?» «Un certo Cinquedraghi». «Mai sentito nominare» dichiara, «sarà una matricola». «Uno nuovo». «E a che ora arrivano?» «Alle venti». Guarda l’orologio, un arnese enorme e antiquato. «C’è tempo». Mi ringrazia e si precipita verso l’ennesimo nuovo arrivato. Una ragazza dalla faccia tonda, più grassa di quanto dovrebbe. È Michelle Charette. Mi sono addormentata sul suo file ogni volta che l’ho preso in mano. Bene, ho fatto la mia parte. Il primo e il secondo ramo sono bloccati in stazione e faranno amicizia, poi il Mago incontrerà il Re. Come bilancio per il primo giorno non è affatto male. Ho la sensazione che questa giornata abbia già dato il meglio di sé e ho la certezza che non accadrà nient’altro di eccitante. Decido di tornare in camera. Sono in corridoio, all’altezza dei bagni, quando la porta si apre di scatto e quasi mi colpisce. Un cretino con un asciugamano in vita completa l’opera venendomi addosso. Ha il buonsenso di scusarsi. «Ti sei fatta male?» «Macché». Mi sistemo le maniche della felpa e do un’occhiata al suo viso. Ha i capelli fradici, stupide efelidi da bambino e gli occhi azzurri. In lui sento qualcosa di familiare. Poi sorride e lo riconosco. È quello con la paralisi facciale. Me lo conferma un attimo dopo. «Sono Erek Greystone, di Cardiff». Fa il gesto di porgermi la mano ma si accorge appena in tempo che è la stessa con cui regge l’asciugamano. Un secondo di ritardo e sarebbe rimasto nudo in corridoio. Lo realizza, si imbarazza, si mette a ridere, si scusa. Rimedia in qualche modo e di nuovo mi offre la mano, assicurando l’asciugamano con l’altra. «Io sono Darlin Blakpool. Di Hastings» recito, e mi decido a stringere la sua mano. Quasi trasalisco. È caldissima. «Non è vero». Ha il sorriso di qualcuno che sta per stanarti. «Non ti chiami così». Un’ombra di panico mi assale. Greystone è un reader! Lascio la presa e recito il mio mantra di protezione per bloccare gli attacchi telepatici degli esper che possono leggere la mente, ma smetto nell’istante in cui si mette a ridere. «Prima o poi ti trovo un nome» dichiara, «uno che ti stia bene». La porta del bagno si apre e compaiono un paio di ragazzi mezzi nudi che reclamano il sapone. Greystone scappa in corridoio e i cretini gli corrono dietro. Sono di nuovo sola. Ripenso alle sue parole e tiro un sospiro di sollievo. Non è un reader, non legge la mente, è solo un idiota che prova a essere interessante. Fisso la mia mano. È ancora calda del suo calore. Ritorno nella mia stanza. Rapporto #1 – Agente Alpha. Bravo Alpha Soggetto: Marco Cinquedraghi Il risultato della sorveglianza su Marco Cinquedraghi ha fornito indicazioni che confermano una possibile attivazione del suo patrimonio genetico modificato. Frequenta con profitto le lezioni di arte del combattimento del professor Lucien Charles Du Lac. I suoi risultati sono notevoli, superiori a quelli che si sarebbero potuti prevedere. Sta al pari con gli studenti del suo anno, pur avendo iniziato ad allenarsi due anni dopo. La cosa è stata notata e sta destando molta curiosità. È ragionevole ipotizzare che abbia un metabolismo più alto della media, anche a riposo. Il suo inserimento tra i colleghi residenti al castello è avvenuto con successo. Ha stretto amicizia con il suo compagno di stanza Lancaster Chevalier Du Lac. Ma il rendimento scolastico rimane basso. La sua preparazione non era adeguata al livello del suo corso. Per consentirne il recupero in alcune materie gli sono stati affiancati cinque tutor. Tutti ragazzi dell’ala est. Non ha legato con nessuno di loro. Nonostante le lezioni di recupero forniscano un’occasione propizia all’attivazione, nessuno dei tutor di Cinquedraghi ne mostra segni rilevabili. Soggetto: Deacon Donald Emrys Sebbene gli indizi siano da accertare, ho ragione di riferire che il patrimonio genetico modificato del soggetto sia stato risvegliato. Deacon Emrys ha ricevuto un’esercitazione di informatica enunciata in Plankalkül ed è stato in grado di risolverla. Non ci sono ragioni per supporre che abbia studiato questo prototipo di linguaggio di programmazione, messo a punto solo in via sperimentale. L’ipotesi su cui sto lavorando è che si tratti di una conoscenza innata. Se il soggetto può accedere a ricordi non suoi, sarebbe una prova dell’attivazione. Il soggetto è piuttosto pensieroso e, riferiscono gli amici, non dello spirito consueto. Sospetto che siano intervenuti altri elementi a preoccuparlo. Mi accerterò della loro natura nei prossimi giorni. Ulteriori osservazioni Fermo restando il rapporto, non ci sono altre prove di possibili attivazioni, né nel gruppo dei Custodi né tra il resto degli studenti dell’Albion. Conclusioni Le interazioni tra i cinque eredi dei Custodi avvengono nell’ambito delle rispettive cerchie sociali e sono in gran parte continuazione di rapporti precedenti. Osserviamo che il Re si tiene lontano dai soggetti che dovrebbero costituire la sua cerchia più stretta e fedele. All’ala est viene nominato in termini critici e generalmente poco lusinghieri. Non riscuote alcuna simpatia. Credo si possa ragionevolmente dedurre che l’attivazione non ha prodotto un rinnovarsi delle relazioni del gruppo originale. Rileggo velocemente le ultime righe e mi rassegno a modificarle. Credo si possa ragionevolmente dedurre che l’attivazione non ha ancora prodotto un rinnovarsi delle relazioni del gruppo originale. Non so perché, ma non voglio togliere la speranza al decano Sebastiano. La verità è che, se il buongiorno si vede dal mattino, questa è l’alba di una giornata disastrosa. La mia idea per far socializzare Cinquedraghi e la Gomez si è dimostrata un fallimento. Non ho capito in che modo, ma lui l’ha spaventata. Quanto al fare in modo che Emrys andasse a prenderli alla stazione, ha solo peggiorato le cose. Cinquedraghi lo ha trattato male e Deacon, che è molto meno docile di quello che sembra, se l’è legata al dito. Non vedo come i conflitti e le tensioni potrebbero essere superati. L’ambiente non aiuta, perché è come se tra il castello e l’ala est ci fosse un invisibile fossato. Noi siamo paria e loro sono il nemico. Non ci sono relazioni tra i due gruppi, non un solo episodio che smentisca questo dato di fatto. Cinquedraghi non si avvicinerà agli studenti dell’ala est, perché farlo sarebbe considerato un passo indietro nella sua scalata alla popolarità difficilmente rimediabile. E nessuno dei borsisti rivedrà la propria opinione su Cinquedraghi, perché è uno studente del castello e perché, a dirla tutta, dubito che lo meriti. Mi aspettavo molto poco, ma è riuscito a dimostrare di valere perfino meno. È arrogante, viziato, presuntuoso, probabilmente stupido. Ci dev’essere qualcosa che non funziona nel sortilegio di Merlino se uno del genere è il nuovo Artù. Di certo, se il Tempio non riuscisse a reclutarlo, la perdita sarebbe meno grave di quello che il decano ed El Faid paventano. Ora mi preparo. Stasera mi aspetta la prima caccia dell’Albion. E vediamo che succede. 22 settembre Non riesco a credere a quello che ho appena visto. E io ho visto molte cose brutte. Eppure questa, in qualche modo, le supera. Spezzare un braccio a qualcuno, a freddo, senza una reale provocazione, sapendo perfettamente quello che si sta facendo, cercando solo il dolore, è una cosa che mi agghiaccia. Marco Cinquedraghi è perfino peggio di quel che credevo. È peggio di un animale. Nascosta nel bosco, ho assistito al suo incontro con Emrys senza prevedere il modo in cui sarebbe degenerato. Cinquedraghi era arrabbiato ed Emrys ha provato in tutti i modi a far rientrare la questione, si è scusato per aver scherzato su di lui, ha cercato la mediazione, poco ci mancava che strisciasse, che lo supplicasse di perdonarlo. E nonostante il motivo del diverbio fosse irrilevante, Cinquedraghi è stato implacabile. Lo ha malmenato con la spada di legno, e quando Emrys ha raccolto un briciolo di dignità e gli ha dato del vigliacco, ha gettato la spada e ha ricominciato a picchiarlo. Poi gli ha spezzato il polso. Credo sia una frattura grave. Vorrei accertarmene, per questo sto seguendo a distanza lui e Helena che rientrano al campo. Helena poco fa mi ha stupita. Era presente anche lei, assieme a Chevalier. Si è avventata su Cinquedraghi come una furia per difendere Deacon. Ha dimostrato più coraggio di quanto ero disposta a riconoscerle. Se Cinquedraghi avesse osato picchiare anche lei, sarei uscita dal mio nascondiglio e gliel’avrei fatta pagare. Mentre Helena insultava Cinquedraghi, Chevalier ha prestato soccorso a Deacon. Si è sincerato del suo stato e lo ha aiutato a rialzarsi. Poi gli ha consigliato di raggiungere il campo e si è raccomandato con Helena di accompagnarlo. Ha agito con un’impassibilità quasi straniante. O il gesto di Marco non lo ha scosso, oppure è molto bravo a dissimulare i suoi pensieri. Seguo Helena e Deacon, sparendo nelle ombre come ho fatto per quasi tutta la mia vita, penetrandole con i miei occhi che, grazie alla Spezia, vedono al buio. Ascolto quello che dicono. Helena parla di certi incubi ricorrenti. Deacon soffre le pene dell’inferno ma prova a nasconderlo. Siamo ormai in vista del campo. Mi accorgo prima di loro che Greystone ci sta venendo incontro. Anche da questa distanza riconosco il lampo allegro del suo sguardo. Tanto per cambiare, è di buon umore. Dio solo sa perché. Rimango invisibile e aspetto il suo arrivo. Gli altri gli riferiscono l’accaduto. La cosa ha l’effetto, straordinario, di cancellargli il sorriso dalla faccia. E non solo. Mi sorprendo di sentire la sua voce mutata. Vibra di apprensione mentre chiede da quanto tempo è successo. È una domanda stupida. Se ne accorge anche Emrys. Ma Erek insiste e gli chiede di essere più preciso. Comincio a capire che per lui la cosa può davvero fare la differenza. Greystone allontana la Gomez con una scusa così stupida che solo lei può cascarci. Poi afferra le mani di Deacon. Bisbigliano e io non distinguo le parole. Mi avvicino e proprio in quel momento un lampo si sprigiona tra di loro. Un bagliore, dall’anima nera, che sfavilla, poi vira sul viola e schiarisce. Non riesco a staccare lo sguardo. Non capisco cosa stia accadendo, ma è chiaro che è Greystone a controllare la luce. Le scintille danzano nell’aria, poi vorticano con grazia, come fiocchi di neve trafitti d’argento. Mi vengono le lacrime agli occhi. È la cosa più bella che abbia mai visto. Poi tutto si spegne. Deacon non trattiene la sua meraviglia. Muove il polso. Capiamo entrambi che Erek glielo ha aggiustato, e allo stesso tempo nessuno di noi due riesce a immaginare come abbia potuto fare. Arriva Helena con un paio di barellieri. Deacon finge di essere in preda a dolori atroci. I barellieri lo caricano. Si allontanano tutti. Tutti tranne Greystone. Lo vedo scivolare a terra, la schiena contro l’albero. Sembra in affanno, il petto si alza e si abbassa come fosse in iperventilazione. Sporge la testa oltre il tronco, quasi per assicurarsi che gli altri siano spariti. Si avventa sulla cintura con una foga tale che i gesti si intrappolano, cerca qualcosa e lo trova. Per quel che posso vedere è una fiaschetta grande come un pugno. Accosta le labbra e le distoglie disgustato. Ci riprova e stavolta riesce a ingollare un piccolo sorso, ma poi torna a stringere gli occhi. Nasconde il volto nell’incavo del gomito. Sta immobile in questa posizione per qualche secondo, poi reclina indietro la testa, di scatto, e ingoia tutto il contenuto della fiaschetta. Si accascia scosso dai tremiti, ma poi, in qualche modo, si rialza. È in piedi, ma non è saldo sulle gambe. Qualunque cosa abbia fatto a Deacon, ne è uscito più malconcio del suo amico. Trascinando i passi, si addentra nel bosco. Lo seguo, senza esitare. Qualcosa mi dice che non è finita. 11 ottobre Ho preparato un quaderno con note sistematiche sulla scuola. Lo porto sempre con me sperando che qualcuno lo noti. Che si incuriosisca. Che mi dia l’occasione, con le domande giuste, di seminare il mio sentiero di sassolini bianchi. Ma sono giorni che niente si muove. Ho provato a lanciare un’esca la sera della caccia, quando sono rientrata all’ala est dopo aver visto Erek tagliarsi le braccia e sanguinare sulla terra. Qualunque significato abbia questa procedura, ovvero bere la pozione che portava con sé e fare i salassi, l’ha applicata con metodo. Non è la prima volta che lo fa. Il potere di guarire le ferite non risulta nel suo dossier, ma immagino che il Tempio conosca la tara della famiglia Greystone. Sono guaritori. Erek lo ha rivelato a Deacon. Per ascoltare la loro conversazione mi è bastato origliare alla porta. È un miracolo che non lo abbia già scoperto qualcun altro. La sera stessa, aspettando che Erek ritornasse dal bosco, mi sono avvicinata a Helena e Deacon e ho chiesto loro cosa pensino della scuola e della modalità di ammissione. Hanno avuto reazioni molto diverse. Deacon si è incuriosito. Helena meno. Mi sono fatta un’idea bizzarra. Penso che qualcosa in fondo alla mente di Deacon non veda l’ora di rispolverare la verità, mentre qualcosa nella mente di Helena non voglia saperne di sapere. Devo ammettere che la questione del secondo ramo è piuttosto oscura. Qualunque sia ora il suo cognome, Helena è una Pendragon, ma non so in che modo sia connessa con il Re. Non so quale sia il suo ruolo. Mi sforzo di pensarci poco e di concentrarmi sulla missione. Penso a come sbloccare la situazione mentre subisco il rituale sociale della libera uscita. Sono al pub di Saint Michel, che, come ogni sabato, è pieno di studenti dell’Albion. Sono al tavolo con quella palla al piede di Simone Beauregarde, la tipa più apprensiva e impressionabile che abbia mai incontrato, e due ragazze di seconda, la Charette, sempre troppo grassa, e la Wood, così carica di piercing sulle orecchie da sembrare un venditore di ferraglie. Proprio la Wood è, purtroppo, in vena di chiacchiere, e poiché Helena se n’è rimasta a casa, le sue vittime designate siamo noi. In apparenza al pub tutti i ragazzi dell’Albion stanno insieme, ma è solo un’impressione. La distanza continua a essere ribadita. Si percepisce prima di tutto nella disposizione dei tavoli: i ragazzi dell’ala est occupano quelli in fondo alla stanza, nell’angolo più scomodo. Anche qui siamo relegati al ghetto. E poi la distanza è ribadita nelle precedenze e nei diritti. Quelli del castello ci trattano come se fossimo dei sottoposti. Proprio in questo momento vedo Patrick O’Connor, del secondo, che si ferma e cede il passo a Bastian Button. E poco più in là, al bancone del bar, quel gigante di Kurt Owein, del quarto anno, che si piazza davanti a Erek, che era arrivato prima. Owein lo fa come se niente fosse e Greystone non si scuote. Vedo solo la sua nuca, ma sarei pronta a scommettere che sta sorridendo; ormai ho capito che non può evitare di farlo. Forse lo farà anche in punto di morte, e, poco ma sicuro, riuscirà a morire in un modo molto stupido. Comunque aspetta che Owein si tolga dai piedi, poi chiede le sue birre. Continuo a osservare la nuca di Greystone. Qualcosa mi dice che lui è la chiave per arrivare agli altri. Tutti si fidano. Se riesco ad averlo dalla mia, prima o poi avrò in pugno anche gli altri. Si volta e scopre che lo fisso. Distolgo lo sguardo e mi fingo interessatissima a ciò che sta dicendo la Wood. Quando la Charette ride le vado dietro. Poi la vedo alzare la mano e accennare un saluto. Qualcuno è arrivato alle mie spalle. «Vi divertite, ragazze?» È Erek. Ci ha raggiunte. Simone si affretta a fargli posto non appena lui manifesta l’intenzione di sedersi. Mi sforzo di pensare che sia una buona idea. Se devo farmelo amico, lo devo come minimo frequentare. Il pensiero non mi esalta, ma per ora non ho alternative. Cominciano a parlare, ma io resto in silenzio. La presenza di un ragazzo ha alzato il livello di stupidità delle mie amiche. Le risatine sono più di quante io ne possa sopportare. Quanto a lui, è a suo agio, come sempre. Tenta di farmi entrare nella conversazione ma non riesco ad assecondarlo. Mi sembra tutto ridicolo. Il tempo scorre lento e finalmente è ora per tutti di tornare a casa. Lasciamo il tavolo e ci dirigiamo verso l’uscita. Io mi tengo in disparte e chiudo la fila. Quando arrivo alla porta mi accorgo che Erek mi sta aspettando e mi tiene l’uscio aperto. Esco e lui mi si affianca. Passiamo accanto a Cinquedraghi, che chissà perché ha rinunciato ai riflettori e ai bagordi del sabato e se ne sta solo come un cane sul pianerottolo d’ingresso. Lui ed Erek si salutano. Come possa Erek trattarlo in modo così amichevole dopo quello che Cinquedraghi ha fatto a Deacon è una cosa che non manca di stupirmi. Spero che Erek non tiri fuori le sue orribili sigarette, ma non sono così fortunata. Certo, è un po’ surreale che proprio io mi metta a predicare contro il fumo, ma devo averlo guardato male, perché si scusa: «È una prescrizione medica». «Certo, come no». «Te lo giuro. Ma, se ti dà fastidio, non lo faccio». «Non voglio averti sulla coscienza». «Grazie» e si accende la sigaretta. Ricomincia a parlare di niente. Fingo di ascoltarlo e mi accorgo che il resto del gruppo ci precede di parecchi metri. Sembriamo appartati. Sto ancora riflettendo se sia o no un bene quando noto che Cinquedraghi è sempre sul pianerottolo. Ha un’aria abbattuta. Finge di non guardarci, ma è ovvio che lo sta facendo. Ci fissa con insistenza. Il suo sguardo passa da Deacon a Erek. Ma sembra che cerchi qualcun altro. La possibilità che provi un minimo interesse per noi mi spinge ad agire. Frugo nella borsetta e trovo il mio quaderno. Lo lascio cadere a terra. Giusto per fornirgli un’occasione per avvicinarci. Ma il quaderno rimane sul selciato e noi raggiungiamo il pulmino. Erek mi apre lo sportello. Forse dubita che sia in grado di farlo da sola. Mentre ci allontaniamo, abbasso il finestrino e mi sporgo. Vedo Cinquedraghi che raccoglie il mio diario. Vediamo quanto tempo ci metterà a restituirmelo… 12 ottobre Lo “smarrimento” del diario può essermi utile. Posso dire a tutti che l’ho perso e ricominciare a parlare delle mie ricerche sulla scuola. La prima persona che incrocio nella stanza comune è Helena Gomez. «Darlin! Ti prego, scambiamoci il servizio e ti sarò debitrice per l’eternità». Sembra atterrita. Do un’occhiata alle assegnazioni e ne comprendo il motivo. Ha il servizio in veranda. L’ultima volta che lo ha fatto, ha rovesciato una brocca di caffè sui pantaloni di Cinquedraghi. Una gran bella mossa, ma capisco che la spaventi tornare sul luogo del delitto. Colgo l’occasione per parlarle del quaderno. Mi invento su due piedi che devo andare a Saint Michel per cercarlo, perché l’ho perso. Dalla sua espressione è chiaro che i miei appunti sulla scuola non rientrano tra le cose importanti per lei. Ma le dispiace. A lei dispiace per chiunque non sia al massimo della felicità. Un po’ come Greystone. Devo averlo evocato, perché sento la sua voce alle mie spalle. «Problemi, ragazze?» «Darlin ha perso un quaderno, ieri sera. Torna in paese» lo informa Helena. «E come ci arrivi?» «A piedi». «C’è una bicicletta» suggerisce Erek. Helena è perplessa. Sembra che non mi ritenga abbastanza alta per montare su una bici. Erek è dello stesso parere, perché si offre di caricarmi sulla canna. Ci metto un attimo, ma poi capisco. Vuole venire con me. Ieri sera non siamo diventati amici, forse questa è l’occasione giusta. Alla fine acconsento e lo precedo nello stanzino dove, in una fila di attaccapanni, teniamo sciarpe e cappotti. È un pomeriggio nuvoloso e piuttosto freddo, ma Greystone non mette né sciarpa né guanti, e non si allaccia neppure la giacca. Quando glielo faccio notare lui si stringe nelle spalle. «Io non ho mai freddo» dichiara. Ripenso a quanto mi è sembrata calda la sua mano la sera del mio arrivo. Poco dopo salgo sulla canna della bici rimediata al capanno. È cigolante e malmessa, ma Greystone parte senza esitazione. Trova subito un ritmo piuttosto sostenuto. Dalla sua pelle viene un odore che mi piace ma tento di mantenere una certa distanza tra la mia schiena e il suo petto. Non voglio che fraintenda. Ci avventuriamo nel viottolo di ghiaia, sul prato all’inglese che circonda il castello. In breve ci lasciamo l’Albion alle spalle. La strada verso Saint Michel è in salita, ma Erek non dà segno di patire la cosa. Tiene lo sforzo sotto controllo e non c’è che un lieve affanno nella sua voce mentre mi parla. Si ostina a farlo, accontentandosi del mio minimo contributo alla conversazione. Di tanto in tanto mi chiede se sono comoda, se sto bene. Il mio benessere lo preoccupa. In questo è uguale a Helena. «Allora, come ti trovi all’Albion?» mi chiede, dopo un attimo di silenzio. «Bene» mento. «Non ci credo» obietta, con il tono di chi la sa lunga, «i primi tempi sono un inferno per tutti. Ma tranquilla, le cose cambiano». «In peggio?» Ride. «In meglio. Scopri che ci sono tanti motivi per tener duro». Finalmente uno spunto interessante, penso, mentre sistemo una ciocca di capelli che il vento mi ha portato davanti agli occhi. «Quali sono i tuoi motivi per restare, Greystone?» «Le persone. Ne ho incontrate di meravigliose. Voglio stare con loro il più a lungo possibile». «Chi sono i tuoi preferiti?» «Deacon» ammette, «e Guyllard. Siamo insieme dal primo giorno. E poi Helena e Michelle e Lizzy». «E tra i ragazzi del castello?» «Chevalier è in gamba» riconosce. Poi si zittisce. Non so con quanta consapevolezza abbia nominato tre Custodi su quattro. Manca solo il più importante. Il Re. Prima che possa chiedergli che cosa pensa di Cinquedraghi, la conversazione ha un altro risvolto molto propizio. «Che cosa c’era scritto sul tuo quaderno?» mi chiede. «Appunti sulla scuola» dico, rimanendo sul vago. E finalmente la curiosità fa il resto. «Che genere di appunti?» «Le cose all’Albion vanno in modo strano. Credo ci sia qualcosa da scoprire». Segue un attimo di silenzio, poi la sua voce mi sorprende: «Anche io a volte ci penso». «Essere ammessi per diritto ereditario è strano» gli vado dietro. «E il tuo quaderno ti aiutava a capire?» «Raccoglievo indizi. Come per una ricerca» gli spiego. «Lo sapevi che il castello ha avuto tre sedi?» «No». «E sai quanto è antica la scuola?» «No». «E sai perché gli iniziatori, i nostri antenati, strinsero l’accordo che ancora oggi ci garantisce l’accesso all’Albion?» «No. Perché?» «Non lo so, ma voglio scoprirlo» faccio una pausa. Non vedo il suo viso. Non ho idea di che cosa stia pensando o come abbia accolto le mie parole. Nel frattempo, arriviamo in vista della piazza circolare di Saint Michel. Si ferma e mi fa scendere. Ora posso guardarlo in faccia. Anche lui mi scruta. Poi rompe il silenzio: «Non abbiamo molto in comune con quelli del castello». «Ma in passato non era così. E la verità è da qualche parte, in attesa delle domande giuste». «Forse hai ragione» riconosce. «E sai che ti dico? Spero proprio di trovarlo, quel quaderno. Sono curioso di leggerlo». Tento di sorridere in un modo non troppo smaccato. «Promesso». Mentre scende dalla bici e la assicura con il lucchetto, mi compiaccio di me stessa. Ho conquistato l’uomo chiave. Ora Erek Greystone è dalla mia parte. Rapporto #2 – Agente Alpha, bravo Alpha Marco Cinquedraghi L’osservazione del soggetto attesta un accrescimento della corporatura e della potenza fisica. Si conferma molto dotato nelle discipline sportive. Permangono le difficoltà nei test settimanali. Le sue relazioni non sono mutate. Continua a muoversi all’interno della propria cerchia sociale. Se si esclude Chevalier, nessuno dei Custodi interagisce con il Re. Deacon Emrys Il soggetto si è attivato. La questione non è più suscettibile di dubbio. Oltre alla traduzione numerica e all’accesso alle memorie genetiche latenti, Deacon Emrys ha sviluppato un ulteriore attributo della sua genia: la telecinesi. Attualmente si manifesta come abilità di livello zero. Ha spostato involontariamente oggetti nello spazio, e quando lo ha fatto volontariamente non è riuscito a controllarsi. Ha mantenuto segreta la cosa. Dopo l’episodio della rissa con Cinquedraghi, si è tenuto a distanza dal Re. Attualmente mi è difficile immaginare una ragione per cui si dovrebbero riavvicinare. Helena Gomez Ha avuto un violento episodio di claustrofobia, disturbo sistematico nei membri della sua famiglia. Non è chiara la dinamica, ma è rimasta intrappolata in uno stanzino all’interno delle scuderie. Si è ferita nel tentativo di uscire. Sembra che l’incidente sia stato causato da una studentessa del secondo anno, Yanka Frederick, e che Cinquedraghi non sia estraneo alla cosa. Questo conferma che primo e secondo ramo Pendragon non sono in buoni rapporti. Conclusioni C’è una sola attivazione dimostrata, quella di Emrys (i poteri di Greystone sono preesistenti e legati al suo lignaggio), ma non c’è stato alcun avvicinamento tra i soggetti. Le interazioni sono nulle o conflittuali. Credo di poter affermare che la Tavola Rotonda non è risorta in questa generazione. Rileggo la conclusione e stavolta non la rivedo. Va bene così. Perché è proprio così che la penso. Marco Cinquedraghi è un essere umano indecente. Ha chiuso Helena in uno stanzino e l’ha lasciata lì una giornata intera. È quasi peggio che spezzare il polso a Deacon. Non c’è da stupirsi che nessuno di loro riconosca in lui un capo o una guida. Per il resto, la popolarità di cui gode a scuola si spiega proprio con le sue spacconate. I prepotenti sono sulla bocca di tutti, ma nessuno morirebbe per loro. Marco Cinquedraghi non è un leader e non lo diventerà. Da un lato questo mi conforta. Se il decano capisce che non ci sono speranze, potrebbe decidere di sospendere la missione. L’idea di tornare alla Montagna è quasi un sollievo. La situazione qui è insopportabile e le persone anche. Passo più tempo di quanto vorrei con Greystone. Mi vuole aiutare a riscrivere il quaderno. Quindi gli ho detto che devo recuperare un file importante dall’archivio dell’Albion: l’elenco degli aventi diritto. Naturalmente non c’è nessun file, ma sfrutterò a mio vantaggio la sua disponibilità. 19 ottobre Faccio finta di starmene in disparte a lavorare sul computer, sono sola nella sala studio. Ho teso la mia trappola e, come al solito, è Greystone il primo ad abboccare. Crede che non lo veda mentre mi fissa, o meglio mi spia. Quando anche Helena si avvicina pongo fine alla farsa. Entrambi mi raggiungono e lui sposta una sedia così vicino alla mia che penso finirà per sedersi in braccio a me. La cosa mi innervosisce, come mi innervosiscono queste extension ingombranti e gli stupidi cerchietti di pizzo che sono costretta a indossare. Ma tento di portare la loro attenzione sulla lista degli aventi diritto. Affermo di averla trascritta dall’archivio, ed Erek, guarda caso, ci trova da ridere. «Non hai fatto una copia digitale?» Non posso giustificarmi, quindi non lo faccio, ma mi dà fastidio che mi tratti come una stupida. Mi chiede se ci sia lo stesso elenco da qualche altra parte. «L’elenco è anche nell’archivio cartaceo dell’ultimo piano» gli rivelo, «quello che chiamano Memoriale, ma è inespugnabile: è un caveau modulare ignifugo rivestito di acciaio inossidabile; la porta è una lastra blindata da sedici chiavistelli in conglomerato armato e fibrorinforzati». Mi sono tolta lo sfizio di fargli capire che so più cose di quante immaginano, e un attimo dopo me la prendo con me stessa: se esagero, rischio di far saltare la mia copertura. Temo di averli insospettiti. Poi li guardo in faccia e capisco che non c’è alcun rischio. Helena ha quel tipo di bontà estrema, quasi irritante, che la porterebbe a giustificare il proprio carnefice, mentre Greystone è estraneo agli inganni e non li mette in conto. Dirotto il discorso sul bombardamento contemporaneo subito dall’Albion e dall’abbazia di Montecassino, nel 1944. Mi preme insinuare il sospetto che ci sia un legame e che la chiave dei segreti dell’Albion sia in Italia. Non mi è venuto in mente niente di meglio per convincerli a partire per Montecassino. La conversazione viene interrotta da Deacon. È accaldato, sostiene di essere stato a correre. Ma io so che non è così. So per certo che negli ultimi sette giorni si è incontrato, di nascosto, con Cinquedraghi. Hanno stretto una specie di accordo, scambiano lezioni di matematica con lezioni di difesa personale. Non stanno ottenendo risultati incoraggianti. La cosa però è sorprendente, perché non sono amici e nessuno dei due dovrebbe avere particolare interesse ad aiutare l’altro. Probabilmente è una sorta di riflesso condizionato, dovuto alla loro relazione originale. Sono stati il Re e il Mago. Sono stati la mente e il cuore della Tavola Rotonda. Se anche non sapessi niente di questi incontri segreti, comincerei a sospettarlo. Deacon ce l’ha scritto in faccia. Si impappina, si intrappola nei gesti e nomina Cinquedraghi in modo compulsivo; riesce a inserirlo anche in un discorso sui nazisti. È evidentemente atterrito dall’idea che qualcuno scopra che sta aiutando il nemico. Quasi ho pietà di lui e prendo in mano la situazione. «Potete smetterla di divagare e tornare a concentrarvi?» L’intenzione retorica della domanda è molto chiara e li zittisce, ne approfitto e chiarisco: «La prima cosa da fare è entrare nell’archivio». Il consenso di Erek è immediato. «Conta su di me, mio capitano». «La seconda è cercare, in ogni luogo possibile, indizi per capire come funziona l’Albion» continuo, e Deacon candida Helena per le ricerche in biblioteca. «Terzo, bisogna andare a Montecassino». Il silenzio che scende per un attimo mi spaventa. Mi viene il sospetto di aver accelerato i tempi, di essermi bruciata, di aver fatto la proposta prima che siano davvero curiosi di scoprire la verità. «Non è così inevitabile» afferma Helena, confermando per un attimo i miei timori, ma fortunatamente è l’unica a pensarla così. «Però è una buona idea» se ne esce Erek, «le vacanze di Natale sarebbero un’occasione perfetta». «Ci sto» esclama Deacon, «andiamo a Montecassino a Natale!» Quasi non ci credo. È fin troppo facile. Io sono brava, ma non così tanto. Gioca a mio favore la loro curiosità, la loro fame di verità. Deve avere ragioni profonde, delle quali non sono del tutto coscienti. Forse non sono loro a volere le risposte, forse sono i cavalieri addormentati nelle loro memorie più antiche che si stanno risvegliando. E proprio questo pensiero per un attimo mi emoziona, a tradimento. 24 ottobre Oggi per poco Cinquedraghi non ci lascia la pelle. Si è misurato con Chevalier in un turno di giostra e il suo avversario l’ha disarcionato. La lancia, che doveva andare in mille pezzi, non si è rotta; è entrata tra il braccio e lo scudo e lo ha colpito in pieno stomaco. Ha perso conoscenza. I primi soccorsi sono stati tempestivi ma confusi. Ho l’impressione che nessuno all’Albion abbia una preparazione medica. Di certo non la donna, di nome Mary Sue Swan, che si ostinano a chiamare infermiera. Forse ironicamente. Hanno portato Cinquedraghi nella baracca che serve da infermeria, vicino alla palestra. Ma era chiaro che non avevano la minima idea di cosa fare. Quando ho visto Erek sgattaiolare dentro la baracca assieme a Emrys e alla Gomez ho capito quello che stava per fare. Poco dopo Cinquedraghi era in piedi, per la gioia di Rebecca BarkleySmith, di Lance Chevalier e del professor Du Lac, mentre Greystone se ne è uscito con una faccia così livida e occhi così infossati da sembrare un malato terminale. Sia la Gomez che Emrys gli sono andati dietro. Erek stava male, ma non aveva a portata di mano la sua medicina. Ragion per cui si sono fermati all’ala est, dove ne ha bevuta quanta poteva, prima di nascondersi alle grotte. Quando sono arrivati era sfinito, Deacon l’ha trascinato dentro di peso con l’aiuto di Helena. Alle grotte, Erek si è potuto tagliare in santa pace. È impressionante con quale sicurezza lo faccia. Si taglia la pelle con una disinvoltura inquietante, come se non fosse sua. Ho la sensazione che morirebbe con la stessa disinvoltura, come se la vita a cui rinuncia non fosse l’unica che ha. Emrys lo ha aiutato a tamponare le ferite e la Gomez, pur avendo orrore del sangue, non ha smesso di darsi da fare. Erek se la passa male. Sta peggio di come stava quando ha curato la frattura di Deacon, stavolta ha perso molto più sangue. Non si regge in piedi, è anche svenuto un paio di volte, facendo piombare Helena nel panico. Quando ha perso i sensi per la terza volta per poco non uscivo dal mio nascondiglio e dicevo agli altri due di correre a prendere la medicina. È chiaro che non ne ha bevuta abbastanza. Fortunatamente ci sono arrivati da soli, e la Gomez, che corre veloce, è tornata all’ala est. Ma al suo ritorno non aveva solo la medicina. Cinquedraghi era con lei. Deacon si è arrabbiato, ma a Erek non sembrava importare. Gli ha raccontato ogni cosa. Dice che si fida. Ora anche Cinquedraghi conosce il segreto di Erek e sa che si è sacrificato. Non mi ha stupito che lo ringraziasse, mi ha stupito il tono della sua voce, perché sembrava sincero. Lo credevo un opportunista, ma non ne sono più tanto sicura. Quando Erek si è addormentato, Deacon è rimasto accanto a lui. Cinquedraghi invece ha raggiunto la Gomez, sulla riva del lago. Sono rimasti a parlare, seduti uno accanto all’altra. Lo hanno fatto sottovoce e non so cosa si sono detti, ma lui era strano. Circospetto, misurato. Quasi cauto. Ho come la sensazione che gli importi dell’opinione di Helena. Il che sarebbe sorprendente, perché a lui non importa di nessuno. Più tardi hanno raggiunto gli altri due. Erek continuava a dormire e anche Deacon era crollato. Helena ha detto a Marco di tornare al castello e lui le ha assicurato che l’avrebbe fatto, ma non subito. Lei si è addormentata e lui non ha mantenuto la parola. È rimasto con gli altri. Ed è rimasto a fissarla finché gli occhi non gli si sono chiusi. Ora tutti dormono. Tutti tranne me, che finalmente esco dal mio nascondiglio. Regna un silenzio strano, scandito dal gentile sciabordio del lago. Devo tornare all’ala est, ma prima li raggiungo. So che è rischioso, ma lo voglio vedere da vicino. Dopo quello che ha passato, voglio vedere come sta. Mi chino accanto a lui. Piego il ginocchio finché sfiora la pietra. Erek è ancora pallido, quasi emaciato. Non riesco a capire come potrà rimettersi in sesto entro domani. Ha i capelli sulla fronte. Avvicino la mano per scostarli e sfioro la sua pelle. È così fredda che mi ritraggo di scatto. È stato come toccare una lastra di ghiaccio. Sono così allarmata che gli afferro il polso. Mi sembra di non avvertire un solo battito. Ora ho paura. Ho davvero paura che sia morto. Mi chino su di lui. Sul suo torace. È gelido. Accosto l’orecchio al cuore. E finalmente respiro: sotto quella lastra di marmo che è diventata il suo petto c’è ancora il cuore che pulsa. Rimango ad ascoltarlo per esserne sicura, e quando non posso più avere dubbi, rimango comunque ferma su di lui. Perché c’è qualcosa di bellissimo nel modo in cui un colpo si succede all’altro, qualcosa di magico in quella persona che può ridare la vita agli altri e che sceglie di farlo anche se gli costa quell’inferno. Per la prima volta da quando sono all’Albion provo qualcosa di simile alla vera felicità. E non so neppure perché. 31 ottobre Siamo a Ginevra per la libera uscita della festa della Fondazione. Devo dire che è stata una serata movimentata. Nella prima parte hanno tenuto banco le scommesse sulla presenza di Cinquedraghi al Toxin, nella seconda, chi ha vinto ha brindato a spese di chi ha perso… e alla salute di Cinquedraghi. Già, perché alla fine è riuscito a raggiungerci e ora siamo tutti in un pub per finire in bellezza. Cinquedraghi dice che è venuto per stare con noi. Ma è chiaro che è qui perché lo ha promesso a lei. C’è del tenero. Assurdo, inspiegabile, ma così evidente da non lasciarmi più dubbi. A Cinquedraghi piace la Gomez. E, a giudicare da come lo guarda, anche a lei piace lui. Non so neppure se farne menzione con il Tempio. Ci manca solo che mi metta a riferire delle cotte degli studenti dell’Albion. Questo incarico è davvero uno strazio. Anche se devo ammettere che stasera mi diverto. Forse comincio a farci l’abitudine. Forse mi sono così calata nella parte che credo davvero di essere Darlin Blakpool. «La smetti di guardarlo?» È Lizzy che riprende Helena, responsabile di aver lanciato l’ennesimo sorriso in direzione di Cinquedraghi. «Non lo sto facendo. E parla piano!» È arrossita. D’altronde sta negando l’evidenza. «Ti rendi ridicola» insiste Lizzy, «se continui così, si fa strane idee e ti mette nei casini». «Guarda che non è come pensi!» «Se proprio vuoi un ragazzo, sceglilo dei nostri» suggerisce Michelle. Le rivolgo un’occhiata perplessa. Parla di scegliere un ragazzo come si sceglie un pollo in macelleria. «Non voglio un ragazzo» ribadisce Helena. «Oh, io invece lo vorrei» sospira Michelle. Sto per dirle che avrebbe più possibilità se si mettesse a dieta, ma mi trattengo. Devo farmi degli amici. I commenti acidi vanno ridotti al minimo indispensabile. Lizzy la guarda in modo spietato. «Pensavo ti fosse passata la cotta per Maclood». «Non mi passerà mai» sospira. Poi prende una patatina dal cestino al centro del tavolo e la mangia. «Guarda che se lui lo sapesse, forse…» tenta Helena. «No. Mi vergogno troppo» si difende l’altra, «e poi certe cose si capiscono. So di non piacergli». A me scappa un sorriso. La conversazione è troppo ridicola e decido di andare a prendere una boccata d’aria. Incrocio Erek. Sta tornando dal bancone con una bracciata di birre. Ci fermiamo uno davanti all’altra. «Stasera te la stai proprio godendo» dichiara. Non è una domanda, ha l’espressione furba di quello a cui non la puoi raccontare. E così mi arrendo e lo ammetto: «È una delle migliori serate da quando sono all’Albion». «Ne sono proprio felice». Lo supero e mi dirigo verso l’uscita. Comincio a fare l’abitudine alle cose che dice, al tono che usa. È l’unica persona che conosco che quando dice sono contento per te oppure spero che tu stia bene sembra davvero sincero. Senza riserve. Quando sono fuori respiro una boccata d’aria. La notte è fredda e sono senza giacca. Ma non mi importa. Mi sento leggera. Felice. Almeno finché non sento la voce di Bashir. Ma non credo che sia davvero lui finché non mi volto e lo vedo, sul marciapiede. «Bashir? Ma che ci fai qui?» Lui è più sorpreso di me. «Pensavo te ne fossi accorta». «Di cosa?» «Vi ho pedinati per tutta la sera. Come hai fatto a non vedermi?» È così sorpreso che mi sento avvampare. Sono un agente addestrato. Sono uno spettro. E uno dei miei mi ha pedinata per tutta la sera senza che me ne accorgessi? Non so come giustificarmi. Mi sembra un insulto tentare, quindi mi scuso: «Non so come è potuto accadere». «Neppure io» mi guarda dall’alto in basso. Proprio il tipo di occhiata che mi fa a pezzi. «Non mi hai neppure chiesto perché ti seguivo». «Se devo saperlo, me lo dirai». La risposta gli piace, fortunatamente. L’espressione si ammorbidisce un po’. «Mi manda il Tempio. Abbiamo discusso i rapporti. Abbiamo nuove istruzioni». La cosa mi sorprende. Da quando la missione è iniziata, ho passato le informazioni ma non ho avuto disposizioni. «Il Tempio è fiducioso. Sulla base di quello che hai riferito, pensano che l’attivazione abbia riguardato tutti i Custodi». «Io non ho mai riferito di una sicura attivazione e…» «Samira» scandisce quel nome, e per un attimo mi chiedo con chi stia parlando, «il Tempio non ha dubbi. Tu non devi averne». Mi sforzerò di non averne. Annuisco e lui prosegue: «Tuttavia, dai rapporti è evidente che il gruppo deve maturare. Li dovrai obbligare a farlo». Sono perplessa. «Non credo di capire». «Non hanno condiviso abbastanza. Non sono ancora legati. Nessuno sa della telecinesi di Sahr, il Mago» chiarisce Bashir. «Dovrai obbligarlo a rivelare il suo potere agli altri». «È una persona diffidente. Non ha detto niente neppure a Erek, e loro sono davvero molto…» «Allora mettili in pericolo». Esito, ma poi non posso evitare di ripetere: «Metterli in pericolo?» «Sì, crea una situazione critica ma risolvibile con i poteri del Mago». «E se qualcuno si facesse male?» «C’è sempre Al-malj, il Guaritore. Li curerà lui». Sto per obiettare che non può farlo, perché poi deve curarsi a sua volta e perdere litri di sangue e soffrire… Ma lo sguardo di Bashir mi chiarisce senza ombra di dubbio che questo argomento non avrebbe alcuna importanza. Allora annuisco e mi rassegno. «Farò in modo che il legame si stringa. Che Emrys riveli i suoi segreti. Li metterò in pericolo». «E poi li condurrai a Montecassino» ribadisce. «Lo farò». Mi sembra sollevato. Mi rivolge finalmente uno sguardo gentile. «Non vedo l’ora che finisca». «Anche io». «Montecassino sarà l’ultimo atto. Poi torneremo a casa. Insieme». «Sì» lo rassicuro. «Non ti deluderò». Perché questa rimane la cosa più importante per me. Non deluderlo. Gli devo tutto ciò che sono. È un congedo e mi aspetto che se ne vada. Ma prima di farlo mi appoggia una mano sul braccio e lo stringe appena. Poi mi lascia e si allontana. Sono sorpresa. È il gesto più confidenziale che mi abbia mai rivolto. Mi concentro su questa sensazione e spero di farmela bastare per affrontare ciò che mi aspetta. 24 novembre Ho deciso di portarli nell’archivio. Li chiuderò dentro e vedremo cosa succede. Non ho dovuto insistere molto: Erek non vede l’ora di fare qualcosa di folle e stupido. Anche convincere Emrys è stato facile, e si è accodato pure Maclood. Può darsi che sia un cavaliere attivato. Helena invece non verrà. Sua madre è morta e lei è tornata a Santiago per il funerale. Cinquedraghi è dei nostri, per motivi suoi. Sa che ci andiamo per recuperare alcune informazioni che avevo trascritto sul quaderno che ho “smarrito”, sa anche che potrebbe evitarci il rischio, restituendomelo. Ma credo che non lo farà. Gli serviamo e tiene nascosto il diario per poterci usare. Il suo comportamento mi disgusta. Il suo opportunismo è indegno. Non merita la fiducia che gli altri gli hanno concesso. Sto per entrare nello spogliatoio maschile attraverso il lucernario. Cinquedraghi dovrà piantonare la porta e consentirmi di recuperare la chiave dell’archivio che Archer conserva nell’armadietto. Quando mi affaccio dalla finestra lunga e stretta lo vedo fermo ad aspettarmi. Tende le braccia per aiutarmi ma non ne ho bisogno. Mi tolgo lo sfizio di sorprenderlo saltando giù da quell’altezza. La sua espressione è impagabile. Bofonchia qualche incomprensibile intercalare nella sua lingua prima di chiedermi: «Lavoravi in un circo?» Non gli rispondo e gli domando quale sia l’armadietto di Archer, poi lo spedisco a fare quello che deve, ovvero il piantone. Se ne va lamentandosi e, prima che la porta dello spogliatoio si richiuda alle sue spalle, apro l’armadietto di Archer. Faccio il calco della chiave su un blocco di terra di fonderia. Poi su un secondo blocco faccio il calco della chiave di sicurezza. Richiudo tutto e mi appresto a uscire dalla stanza. La voce di Bastian Button e i suoi passi che si muovono verso di me mi sorprendono. Salto fino ad afferrare la sommità dell’armadietto, mi sollevo e mi incastro nella volta del soffitto. Trattengo il fiato. Ma l’anta di un mobiletto mi tradisce. Un clangore metallico esplode nella stanza. Un attimo dopo Button e Cinquedraghi sono sotto di me. Solo allora mi accorgo di un imperdonabile errore: lo zaino è aperto. Il blocco di terra di fonderia è in bilico; se mi sposto di un soffio, finisce per cadere in testa a Button. Fortunatamente Bastian se ne va. E quando, poco dopo, mi ritrovo con Cinquedraghi, lui mi guarda come se avesse visto un fantasma. «Ma come hai fatto?» «Come hai fatto tu a non rispettare la consegna» gli rispondo. «La consegna?» la cosa lo fa ridere. Nessun capo degno di questo nome scherzerebbe sulle proprie mancanze. «La tua parte del piano» chiarisco. Ma non appena glielo faccio presente, me ne pento. Non sta a me scuotere la sua coscienza. Io devo solo andarmene, e farlo in fretta. Con l’aiuto degli attaccapanni, raggiungo il lucernario ed esco. Mentre mi allontano, non mi sento in colpa. È la prima volta che mi capita da giorni e giorni. Probabilmente Cinquedraghi merita quello che sto per fargli. Forse merita perfino di peggio. 24 novembre – sera Ho dato seguito alle disposizioni ricevute da Bashir a Ginevra, la sera del 31 ottobre. Li ho messi in pericolo. Mentre mi dirigo verso il punto d’incontro, accompagnata dal suono della sirena antincendio che ancora latra nella notte, mi sforzo di sentirmi soddisfatta. Tutto sta andando come previsto. Ho ottenuto esattamente quello che volevo. I poteri di Deacon sono ora sotto gli occhi di Erek e Marco, e questo cementerà l’unione. Poco fa, loro tre si sono introdotti nell’archivio. Io e Maclood avremmo dovuto coprire i due lati del corridoio, ma io ho lasciato quasi subito la mia postazione e, protetta dall’oscurità, ho raggiunto l’uscio. Oltre l’asse di legno, ho sentito le loro voci. Avevo fatto un calco di entrambe le chiavi che sigillano la porta dell’archivio e con la seconda li ho chiusi dentro. Poi ho raggiunto la mia postazione e ho attivato l’allarme antincendio con un telecomando remoto. La sirena, com’era prevedibile, ha scatenato il panico. Gli studenti hanno lasciato i dormitori. Qualcuno di loro ha superato il cordone di sicurezza sud e Maclood ha dato l’allarme. Non lo facevo così altruista da restare a proteggere la posizione quando tutto faceva pensare che fosse scoppiato un incendio. Emrys non ha resistito. Dal corridoio ho visto la porta staccarsi dai cardini e finire contro la parete opposta. È stata divelta da un campo di forza telecinetico più potente di quello che mi aspettavo data la prima valutazione delle sue capacità. Probabilmente ha un potenziale più alto di quanto il Tempio immagini. Non appena li ho visti correre, proprio verso di me, mi sono defilata. Solo quando ho avuto la certezza che anche Guy aveva abbandonato l’edificio ho deciso di recarmi al punto d’incontro. Quando una missione finisce c’è un momento di pace in cui assapori la bellezza delle cose che si ricompongono, che si aggiustano. Ma stasera questo attimo prezioso tarda ad arrivare. La cosa mi rende inquieta e, quando li vedo, sotto le fronde dei pini centenari, sono riluttante a raggiungerli. Noto che Guy se ne è andato e, benché non sia molto vicina, distinguo l’espressione di Erek. Non sorride. Sembra teso. Qualcosa mi dice che è preoccupato per me. Questa certezza ha una dolcezza che mi angoscia, mi spaventa. Perché stare a cuore a qualcuno è più bello di quanto posso sopportare. Sono atterrita dall’idea che questa sensazione mi possa mancare. Visto che sono l’ultima ad arrivare e poiché Greystone è in pena, ho bisogno di una scusa. Lo realizzo appena in tempo e decido di procurarmi un colpo lieve alla testa. Abbatto sulla mia nuca un sasso grande come la mia mano. Il dolore mi sembra giusto. Me lo merito. Oddio, sto diventando una stupida sentimentale. Come previsto, Greystone mi esamina con apprensione e, stabilito che non sono in fin di vita, riprende a sorridere. Gli altri no. Percepisco tutto il loro nervosismo. Forse vorrebbero parlare di quello che è successo. Gli facilito il compito chiedendo come diavolo hanno fatto a uscire. «Okay. Tanto è chiaro che qui i segreti non durano» se ne esce Deacon, «ho aperto io la porta. Riesco a spostare le cose, con il pensiero». Il fatto che abbia scelto di confidarmi il suo segreto mi spiazza. Mi sento terribilmente a disagio, perché capisco che ho la sua fiducia. E lui non è Erek, che si fida di tutti! Deacon è guardingo e diffidente. Il fatto che mi ritenga sua amica al punto di condividere un tale segreto mi agita. Porto subito il discorso su altre questioni. Chiedo della lista. Lo faccio in modo brutale. E mentre Erek risponde, Cinquedraghi si arrabbia. «Ehi, ragazzina, dacci tregua! La lista non c’era. Ci hai mandato là per niente». Che bastardo! Ha pure il coraggio di prendersela con me, di accusarmi, quando sa perfettamente che poteva evitare ogni cosa restituendomi ciò che era mio. Il suo atteggiamento mi fa così rabbia che non mi trattengo. «Basterebbe scoprire che fine ha fatto il mio quaderno» scandisco. E lo faccio incalzando quella serpe di Cinquedraghi, fissandolo, quasi a fargli capire che a me non la può fare, che so di cosa è stato capace! Lui, come tutte le persone colpevoli, va in confusione. Vorrebbe evitare il mio sguardo ma non glielo permetto. Ed ecco che succede l’impossibile. Deacon capisce ogni cosa. Lo capisce come se Marco ce l’avesse scritto in faccia, come se glielo avesse detto. E poi lo accusa. «Ce l’hai tu! Sapevi che ci serviva e non ce l’hai dato!» Non ha il benché minimo dubbio, lo aggredisce con una sicurezza che non può essere figlia dell’intuito. Mi viene il sospetto che Deacon abbia accesso ai suoi pensieri. In fondo la telepatia ricettiva è ricorrente negli Emrys, e quasi tutti i Cinquedraghi attivati hanno sviluppato la voce e riescono quindi a entrare nella mente dei ricettori. I toni si accendono e l’urgenza del momento mi obbliga a concentrarmi su quello che succede. Erek è turbato, Deacon sempre più arrabbiato, e mi aspetto che tra un secondo Cinquedraghi cominci a negare e ad arrampicarsi sugli specchi. Ma le sorprese di stasera non sono finite: Cinquedraghi ammette di avere il quaderno. Confessa la sua colpa. Mi sorprende che lo abbia fatto, mi sconcerta il tono che ha usato, mi confonde che abbia deciso di farseli nemici, perché è chiaro che tiene a loro. Sa che li sta perdendo. Ma ha preferito liberarsi di questo peso. Ovviamente chiedere scusa non basta. Deacon è fuori di sé e ora anche Erek è sconvolto. Finiamo per andarcene, e io, accodata agli altri, non posso fare a meno di girarmi. L’ultima immagine di Marco mi colpisce come un pugno. È crollato sulle ginocchia, la testa china, lo sguardo al suolo. Provo pena per lui. Non tutti i segreti devono venire a galla. Non tutte le bugie devono essere svelate. Perché le menzogne sono come acqua che si insinua nelle crepe; sono innocue finché splende il sole, ma alla prima gelata possono sbriciolare anche le rocce più dure. Non so quanto solido fosse il loro legame. So solo che ho fatto più danno di quanto avrei voluto, che li ho allontanati dal mio obiettivo. Ora dovrò sistemare le cose. 11 dicembre Helena è tornata da Santiago, ma non ha agito come speravo. Si è conformata alla nuova situazione. Si è allontanata da Cinquedraghi. Non si parlano e hanno smesso di studiare insieme. Nel mio ultimo rapporto al Tempio ho ribadito che siamo a uno stallo e che non so come uscire da questa situazione. Stando così le cose, non c’è alcuna speranza che Chevalier e Cinquedraghi si uniscano agli altri nella spedizione a Montecassino. Devo tentare qualcosa. Non faccio che pensarci, mentre il professor Kay è sparito dietro un quotidiano, in attesa che terminiamo il nostro test. È una giornata scura. Uggiosa. La malinconia mi è entrata fin nelle ossa. Simone, che oltre a essere la mia compagna di stanza è anche la mia compagna di banco, continua a scrivere, cancellare, sospirare… non necessariamente in quest’ordine. Sembra quasi che la sua vita dipenda da questo test di greco. Alzo lo sguardo sulle grandi finestre. Il cielo si è fatto di un grigio corposo, pesante. Pioverà tutto il giorno. Quando suona la campanella esco in corridoio. Sul volto di Helena, che cammina di fianco a Deacon, leggo un’ombra del mio stesso sconforto. Non possono essere i test a preoccuparla. È dispiaciuta per la situazione. Li affianco, e il caso vuole che incrociamo proprio Cinquedraghi, che è in compagnia di Bastian Button. È una scena penosa. Marco cerca lo sguardo di Deacon e l’altro lo distoglie, oltraggiato, mentre Helena si fissa la punta dei piedi, perché non sa da che parte stare. Quando siamo ai quadri non controllo i miei voti. Non hanno alcuna importanza. Ma noto Maxwell Archer. Pallido come sempre, si tampona la fronte con un fazzoletto marrone. Non capisco perché sia accaldato. Forse è l’emozione dei test del sabato. Nella vita di un individuo tanto grigio questo deve essere un momento carico di pathos. Non mi sfugge il sorriso malevolo che rivolge a Marco quando si trovano a faccia a faccia. «Non è andata troppo bene, vero, Cinquedraghi?» L’altro non risponde, ma Archer se ne va comunque soddisfatto. È un essere bieco, livoroso. Ed è vendicativo. Non so quale torto gli abbia fatto Cinquedraghi, ma è evidente che lo odia. Più che il motivo, mi interessa il fatto in sé: tra i due non corre buon sangue. Rifletto su quest’aspetto e quando Archer lascia i quadri mi metto sulle sue tracce. Mi impongo di pensare in fretta e, quando vedo che sta per prendere l’ascensore per i dormitori del quinto anno, tento il tutto per tutto. «Archer?» Si volta stupito, abbassa il suo sguardo vitreo su di me, si aggiusta gli occhiali. «Chi sei?» «Darlin Blakpool, del primo anno». Dubito che non mi abbia mai vista. Ma evidentemente vuole mantenere le distanze. «E cosa vuoi, ragazza del primo anno?» la voce è meccanica, infastidita. «Volevo solo dirti che quello che fai nell’archivio, riordinare tutti i file, è una cosa bellissima e di grande utilità per la scuola, e volevo esprimerti la mia solidarietà. Non dovevano farti quello scherzo. Proprio non dovevano». Un lampo gli attraversa lo sguardo. «Quale scherzo?» «Entrare nell’archivio solo per farti un dispetto, distruggere la porta… È stato un gesto meschino» assumo un’aria contrita, «non te lo meritavi». «Tu sai chi è stato?» Mi fingo sorpresa della domanda e mi guardo intorno, ma lui mi incalza: «Lo sai o no?» «Ragazzi dell’ala est» ammetto, con una certa riluttanza, «e non solo». «Dimmi i nomi». «Non posso» mi fingo allarmata, «mi ucciderebbero». «Facciamo che ti uccido io se non me lo dici». La fermezza del suo sguardo è quasi irreale. Sta scrutando, con le pupille fisse, un punto imprecisato tra il mio viso e la mia spalla. So distinguere le minacce vere da quelle senza fondamento, ma Archer mi disorienta. «Okay, mi arrendo. Ma tu non dirlo a nessuno» lo supplico. Annuisce con un gesto meccanico. È chiaro che non manterrà la promessa. «Ho sentito Greystone ed Emrys che parlavano con Cinquedraghi la sera in cui è successo. E dicevano che erano stati fortunati che nessuno li avesse scoperti». Un sorriso si allarga sul suo viso. O meglio, una smorfia. Quasi sinistra. Se ne va senza ringraziare e senza salutare. Mentre esco dal castello, mi ripeto che andava fatto. Li ho messi in pericolo, un’altra volta, soltanto per dar loro l’occasione di andare uno in aiuto dell’altro. Archer spiffererà tutto e li chiameranno in presidenza. Si copriranno a vicenda, perché sono tutti colpevoli. La menzogna crea legami molto forti. È il clientelismo della bugia. È l’omertà. Poi sarà la parola di Archer contro la loro. Non saranno né puniti né espulsi. Mancano le prove a loro carico. E se Archer fa il mio nome, negherò ogni cosa. Ovviamente gli altri mi crederanno. Quando entro all’ala est molti studenti stanno in cucina per il pranzo. Erek mi vede. «Vieni! Mangiamo insieme!» Non ho un buon motivo per rifiutare e lo seguo in cucina. Se solo sapesse quello che ho fatto, dubito che mi vorrebbe ancora tra i piedi. Due ragazzi del terzo anno stanno scolando la pasta, Erek recupera una sedia impagliata e riesce a sistemarla accanto alla sua. «Siediti, tra un attimo arrivo con il pranzo». Lo vedo raggiungere gli altri, li aiuta a distribuire nei piatti gli spaghetti e ci piazza sopra una cucchiaiata di sugo. Si continua a mangiare italiano. Merito -o colpa- di Guyllard, che riceve vagonate di pasta dai suoi parenti italiani. Erek prepara i nostri piatti per ultimi. Quando mi raggiunge gli altri sono già seduti. Attorno al tavolo siamo in sedici, siamo così stretti che ci sgomitiamo. Mancano sei studenti. I tre ragazzi del quarto anno, uno del primo, Deacon e Helena. «Dov’è Deacon?» chiedo a Erek. «Non me ne parlare» sospira, «sta davvero a terra» comincia ad arrotolare gli spaghetti. «Forse dovrebbe parlare con Marco» suggerisco, studiando un tono casuale. «Lo credo anche io. Dovremmo parlarci tutti» ammette. Poi mi guarda. «Ti ha ridato il diario?» «Sì. Ma ora ho scoperto molte più cose, grazie alla tesina». Erek si illumina. «Già. Che fortuna trovare la ricerca di uno studente dell’Albion proprio nella biblioteca di Saint Michel». Si allunga e prende la brocca dell’acqua. Versa prima a me e poi per sé. «Quando mi capitano queste coincidenze ho come la sensazione che ci sia di mezzo il destino». Capisco perfettamente che cosa intende. È la facilità delle cose ineluttabili. Non voglio togliergli l’illusione, ma questa volta non è il destino. Sono solo io. E lo sto facendo alle sue spalle. Come fosse un’ape impazzita intrappolata nel mio cranio, mi rimbomba nel cervello quello che ho detto ad Archer, ma non ci devo pensare. Il senso di colpa non me lo posso proprio permettere. «Comunque nella tesina che abbiamo trovato si parla di un segreto. Non sappiamo qual è, ma sappiamo che ci stanno tenendo nascosto qualcosa» mi dice a bassa voce. Non che ce ne sia bisogno, tutti parlano d’altro, nessuno si cura di noi. Gli chiedo se ha letto le guide dell’abbazia di Montecassino. La sua prima risposta è un sorriso perfino più soddisfatto del solito. «Ho fatto di meglio» dichiara, «mi sono scaricato le mappe dal web! Potrei girarci a occhi chiusi». «E hai letto il libro che ti ho dato?» «Meraviglie esoteriche dei Templari? Come no! E, non ci crederai, ma viene citato un manufatto cassinese!» «Ah, sì?» do il massimo di me stessa per fingermi sorpresa. «Una coppa. Sul fondo si legge “I segreti sono custoditi sotto i leali cavalieri che fecero il patto”». «Qualche idea su che cosa significhi?» «Eccome!» I suoi occhi mi trovano. Scintillano di una gioia che vorrei poter intrappolare e conservare per i giorni tristi. «Posso saperla?» Si abbassa. Si avvicina. Parla quasi al mio orecchio, ma regge il mio sguardo. «C’è un disco nella sala di san Benedetto, un grosso blocco di pietra intarsiato. Raffigura due cavalieri che montano lo stesso cavallo. Sono i leali cavalieri». «Pensi che ci sia qualcosa nella sala di san Benedetto?» «Penso che ci sia qualcosa sotto quel disco! Sono loro i leali cavalieri posti a custodia del segreto!» Ha ragione. Ha indovinato. Sono così fiera di lui che vorrei poterglielo dire. Ma lui riprende: «Muoio dalla voglia di arrivare in quell’abbazia». «Non dovrai aspettare molto» rispondo, «poco più di una settimana e partiamo». «Già, e mi sembra un sogno». «Un sogno?» «È da quando sono piccolo che aspetto di vivere un’avventura così, mappa alla mano» mi indica, «tu sei il mio Billy Bones!» «Chi?» «Billy Bones, il pirata in incognito che arriva alla locanda dell’ammiraglio Benbow». Sono confusa e lui perfino sorpreso. «Dai» mi incoraggia, «Long John Silver. Jim Hawkins. L’isola del tesoro». «Il libro?» «Certo». «Non l’ho mai letto». «Non è possibile». «Lo è» insisto. «Devi aver avuto un’infanzia molto triste» commenta. Non immagina quanto si sia avvicinato alla realtà. «Non puoi crescere bene senza la tua dose di pirati e mappe del tesoro. Ma rimedieremo. Un giorno te lo presto. Abbiamo tempo». Non dico nulla e torno agli spaghetti. La verità è che il nostro tempo è agli sgoccioli. Tra pochi giorni questa messinscena finirà. E io non tornerò all’Albion. Potremmo non vederci più. Mi accorgo che mi è passata la fame. Non so di preciso perché, ma questo pensiero mi ha chiuso lo stomaco. 21 dicembre Quando passo davanti alla veranda e vedo Deacon Emrys seduto al tavolo di Marco Cinquedraghi, sotto gli occhi di tutti gli studenti dell’Albion, penso di avere le allucinazioni. Sovvertono, con quell’unico gesto, anni di abitudini consolidate; le regole non scritte che tracciano i confini, invisibili ma insormontabili, tra il castello e l’ala est. Sfidano l’istituzione. Ma quello che mi sorprende di più è l’espressione dei loro volti. Non è una provocazione, è un onore per entrambi. Anche da lontano avverto la commozione per essersi ritrovati, l’orgoglio di mostrarsi e chiamarsi con il loro vero nome: amici. Non può essere stata l’attivazione a fare questo miracolo. Non possono essere prigionieri a tal punto del loro destino da compiere le stesse scelte a dispetto di quello che provano l’uno per l’altro. Se Deacon ha perdonato Cinquedraghi, ed è chiaro che lo ha fatto, deve avere un buon motivo. Lo scopro prima di quanto credo e senza grande sforzo. Quando vado a registrare il video per l’archivio Archer mi accoglie con uno sguardo pieno di rancore. «Ragazza del primo anno» mi indica, «cercavo proprio te». Sono sorpresa e lui chiarisce: «Voglio che ripeti quello che hai detto a me davanti ad Angus». «A che cosa ti riferisci?» «All’archivio, idiota. Cinquedraghi ha detto al vecchio di essere entrato da solo». Sono stupita ma lo nascondo. «Se glielo ha detto, è vero». «Anche Emrys ha negato, poco fa. Sembrava davvero sorpreso che Cinquedraghi si fosse preso la colpa». È stizzito. Disgustato. «Io non so nulla, Archer. E non voglio guai» accenno un sorriso. «Possiamo registrare? Ho un mare di cose da fare». Non se l’aspettava. Prima mi fissa incredulo e poi mi chiede: «Quindi ti rimangi tutto?» Non rispondo, e tanto basta per fargli capire che non lo aiuterò. «Peggio per te» dice, quindi mi minaccia: «Da oggi sei sulla mia lista nera, ragazza del primo anno». Non lo temo, ma le sue parole allertano il mio sesto senso, sempre vigile. Provo a non darlo a vedere. Mi metto davanti alla videocamera e dichiaro di essere una fiera e orgogliosa studentessa dell’Albion. Per un attimo quasi ci credo. Quando torno all’ala est mi sto ancora godendo la bella notizia. Cinquedraghi, una volta tanto, è stato all’altezza. Si è sacrificato per il gruppo assumendosi la responsabilità della sortita nell’archivio e Deacon lo ha perdonato, dimostrando quello che avevo intuito, ovvero che cercava solo una buona occasione per dargli un’altra possibilità. Appena entro, Maclood mi dà la notizia: Marco ha passato gli esami. Ero l’unica a non avere alcun dubbio. Probabilmente è stato aiutato. Quando l’hanno ammesso all’Albion non intendevano farlo uscire subito di scena. Tutti quelli che contano, ovvero i membri del Consiglio Allargato e del Maggior Consiglio, sanno che la presenza di Cinquedraghi è un’opportunità per tutti loro. Sto ancora parlando con Maclood dell’exploit di Cinquedraghi quando Lizzy ci affianca, ha un’aria accigliata. «Problemi?» chiede Guy. «Non si parte più. Niente Italia». «Perché?» «Deville. Ha la febbre a 39» chiarisce sconsolata. «E con questo?» domando io. «È l’unico con la patente!» sbotta Maclood, che, non diversamente da Lizzy, ritiene quel contrattempo un motivo sufficiente per non partire. Mi sento stupida per non averci pensato. Sarebbe potuto succedere e avrei dovuto preparare delle patenti false. Mollo Lizzy e Maclood su due piedi e mi metto subito al lavoro. Quando rientrano Greystone ed Emrys ho già pronti i documenti falsi. Mi mancano solo le loro foto. Non appena capisce quello che ho in mente, Deacon ricomincia a protestare. Erek invece no. Lui è con me, anche se infrango le regole. Vuole la sua parte di gloria, la sua avventura. Ancora non sa che lo aspetta molto di più. Fisso i suoi occhi azzurri attraverso l’obiettivo. Mi sorprende ancora una volta l’onestà del suo sguardo, la franchezza con cui si offre, rivelandosi senza raggiri né ipocrisie. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, allora non sono mai stata al cospetto di una creatura altrettanto limpida. 22 dicembre Abbiamo lasciato Firenze già da qualche ora. Non ci saremmo dovuti fermare, ma Helena ha insistito. Ora siamo in viaggio per Cassino. Erek guida al mio fianco, con una patente falsa. Doveva alternarsi con Emrys, ma è stato alla guida per quasi tutto il tempo. Non sembra stanco. È l’eccitazione di vivere finalmente la sua avventura da romanzo. Le rivelazioni del Tempio gli piaceranno. Gli spalancheranno un oceano di possibilità che non aveva mai immaginato. Il pensiero che qualcosa di bello lo attenda mi piace e mi consola. Credo che anche Deacon sarà contento. Su Helena non mi sbilancio. Non riesco a capirla fino in fondo. A volte è coraggiosa come un leone, altre la paura la annichilisce. Le sue fobie e i suoi incubi sono segnali di un inconscio tormentato, più complesso di quanto immaginavo. Chevalier e Cinquedraghi sono a Roma, ma ieri sera sono venuti a salutarci. Chevalier ha dato il suo numero di telefono a Greystone e una specie di biglietto da visita a Helena. Marco è stato gentile, anche se sembrava nervoso, poi si è appartato con Deacon. Per un attimo ho sperato che si unissero a noi da subito. Mi avrebbero semplificato la vita, ma ho capito da tempo di non essere una persona fortunata. Sono partiti per Roma, ma arriveranno a Cassino nel momento del bisogno. Fare in modo che accada sarà, ancora una volta, compito mio. Parcheggiamo davanti all’ostello di Cassino. I miei compagni di viaggio sono esausti e non vedono l’ora di appoggiare gli zaini e darsi una sistemata. Peccato che le cose non andranno così. «Come sarebbe a dire?! Cos’ha detto?!» Deacon si rigira come un’anguilla. La receptionist dell’ostello parla un inglese stentato, ma ribadisce, senza possibilità di equivoco, che la nostra prenotazione non risulta. E aggiunge che le dispiace, ma non c’è posto per noi. Deacon protesta ed esibisce la copia della prenotazione. La signorina la esamina con una calma impassibile, ma poi scuote la testa e ripete che è un errore. E che non c’è posto. Certo che non c’è. Ho annullato la prenotazione e poco dopo ne ho effettuata un’altra a nome di una comitiva di tedeschi che ha pagato in anticipo per quattro notti. Li aspettano per la tarda serata. Il Tempio si è occupato degli altri tre hotel della città. Deacon si ostina a esporre le sue ragioni a qualcuno di cui non capisce la lingua e che a malapena capisce lui. Erek pone fine a quel dialogo tra sordi trascinando fuori l’amico. «Dio santo, ma cosa si deve fare più che prenotare?» sbraita Deacon, agitando il suo foglio. «Oh, certo, scusate… Basterebbe, se solo fossimo in un paese civile!» «È un paese civile» sospira Helena, «ma fanno degli errori, come tutti. Lasciamo perdere e cerchiamo un altro posto» si guarda intorno. «Dove hai posteggiato il pulmino?» Erek indica a colpo sicuro il lato opposto della strada. Ma non riesce a dire neanche una parola. Il parcheggio è vuoto. Per un attimo lo stupore li ammutolisce. «Ce l’hanno rubato!» esclama Deacon. «Dovevamo immaginarlo che ci avrebbero derubati: siamo in Italia!» «No, no, ci deve essere un’altra spiegazione» afferma Erek, che prova a rimanere lucido, mentre Deacon parte per la tangente paventando tragici scenari dove siamo tutti espulsi dalla scuola perché abbiamo perso il pulmino. Erek indica un bar poco distante. Nella piccola distesa di tavoli alcune persone stanno bevendo l’aperitivo. «Loro! Forse hanno visto qualcosa». «E come glielo spieghiamo? Con un disegno?» protesta Deacon. «Erek ha ragione» si unisce Helena, «quei signori possono aver visto qualcosa! Ora vado e glielo chiedo» sospira. «Spero di farmi capire». Sono tentata di darle una mano, ma sono anche curiosa di vedere come se la cava. Ritorna prima di quanto credessi. «L’ha rimossa il carro attrezzi. Non si poteva stare lì! Consigliano di andare alla polizia. È in via delle Torri, non lontano da qui». Erek trova la cosa divertente. «Rimosso? In cinque minuti? È una società ideale!» «È una cosa seria» lo riprende Deacon, «non abbiamo un posto dove dormire. Ma forse è il male minore. Se anche lo avessimo, non sapremmo come arrivarci». «Niente panico, Dick» se ne esce Erek, «adesso tu e Helena andate alla polizia e provate a spiegare la situazione» sorride a Helena, «sei brava a farti capire. Andrai alla grande. Io e Darlin cerchiamo un albergo. E quando abbiamo finito, vi raggiungiamo alla polizia». Non è tanto l’idea a piacere, quanto la tentazione di seguire l’unico che mostra di avere uno straccio di piano. Tutti si fidano di Greystone. E lui si fida di tutti. Seguo Erek. So perfettamente che non troveremo un solo posto dove dormire. Vediamo quanto ci mettono a capire che devono chiedere aiuto a Cinquedraghi e, soprattutto, quanto ci metterà lui ad arrivare. 23 dicembre Siamo seduti sulle scale davanti alla stazione di polizia. Non so più dove nascondere le mani, tanto è freddo. Helena si fa forza, ma è provata. Deacon è nervoso. Forse dubita che Marco arrivi davvero. L’unico che tiene alto il morale è Erek. Ed è il solo senza giacca. La sua resistenza al freddo non è normale. Così come non è normale la temperatura del suo corpo. Basta che ti venga vicino per sentirne il calore. Credo che dipenda dal suo potere. D’altronde, nella fase di stasi, dopo che ha curato qualcuno, quando il suo corpo paga lo sforzo, diventa di ghiaccio. Questa escursione di temperatura deve essere effetto del suo metabolismo. Si accorge che lo fisso e mi balza accanto. «Su, tra un po’ è finita!» Prende a sfregarmi la schiena, come se mi volesse scaldare. Io mi stringo nelle braccia. Il mio silenzio lo insospettisce. «Dai, che così è anche meglio!» dice, abbassandosi per cercare il mio sguardo. «Che avventura sarebbe senza i contrattempi?» Non faccio in tempo a rispondere. Un’elegante berlina blu compare sulla strada. Ha i vetri oscurati. Rallenta mentre si avvicina. Non si è ancora fermata del tutto quando la portiera posteriore si apre ed esce Cinquedraghi. «Ragazzi, scusate! Ho fatto prima che potevo». È davanti a noi. Mi sembra perfino più alto. I suoi gesti tradiscono la premura e la preoccupazione. E la sua espressione li conferma. Se avesse potuto, sarebbe arrivato subito. Per la prima volta, guardandolo in faccia intuisco quello che è. O meglio, quello che potrebbe diventare. Perché si scusa con i suoi amici per non averli soccorsi prima. Si fa carico del loro destino, come se fosse una sua responsabilità. Il percorso è ancora lungo, ma per la prima volta ammetto la possibilità che questo ragazzo possa diventare un capo. Mi accorgo di Chevalier solo quando gli altri lo salutano. Marco lo ha oscurato. E non è cosa da poco. Marco, Lance e Deacon entrano al comando di polizia. Escono ancor prima di quello che credevo. Un agente alle loro spalle si produce in ossequi cerimoniosi, ma Marco lo tratta con freddezza e lo tiene a distanza. Non sento quello che dicono, ma i rapporti di forza sono molto chiari. La deferenza che l’ufficiale mostra nei confronti di Cinquedraghi è quella che gli ipocriti riservano agli uomini di potere. Ora Marco fa soggezione. Non sono solo l’altezza e quell’aura aristocratica che si percepisce nei suoi modi, è l’autorevolezza che sembra irradiarsi da lui, quel genere di fascino che convince gli uomini a combattere e morire. Contenti di farlo. Marco congeda l’ufficiale e si rivolge a Deacon: «È tutto risolto, ma ora il deposito è chiuso. Dobbiamo aspettare domani. Mi dispiace». «L’importante è riaverlo. E per stasera ci arrangiamo». «No. Venite da me». «Siamo in tanti» nota Deacon. «È una casa molto grande» insiste. «Di cosa stiamo parlando?» chiede Erek. «Ho un podere qui vicino» chiarisce Marco, poi sembra sorridere all’indirizzo di Deacon. «Non per vantarmi, ma è mio». «Fantastico!» se ne esce Erek. «Cosa aspettiamo?» Ci ritroviamo su due taxi, diretti al podere di Cinquedraghi. L’auto blu è stata rispedita a Roma. Marco deve aver avvertito del nostro arrivo, perché una donna ci viene incontro. Parla italiano con una forte inflessione regionale e fatico a starle dietro. Ma è molto efficiente e vuole compiacere Marco; per accorgermene non devo sapere quello che sta dicendo. In men che non si dica, ci ritroviamo sistemati in grandi stanze al primo piano. Non appena sono sola, utilizzo il mio comunicatore digitale e mi metto in contatto con il Tempio. Li avverto con un messaggio cifrato che ho portato a termine la penultima fase della missione: tutti i cavalieri sono a Cassino. Aspetto di sapere dove avverrà l’incontro tra loro e i Templari. So che devo dormire, perché domani non sarà una passeggiata. Devo essere riposata e lucida. Eppure non faccio che rigirarmi nel letto. Mi alzo. Cammino per la stanza. Torno a sdraiarmi. Non riesco a calmare il battito del mio cuore. Dalle gambe mi sale un’agitazione febbrile. Ho la sensazione di aver innescato qualcosa di ineluttabile che mi sta portando dove non avrei voluto. Sono anni che niente mi spaventa. Ma riconosco la paura. Me la ricordo. E adesso ho paura. Sta per finire tutto. Mi sto per liberare di un incarico che non volevo. Dovrei essere almeno sollevata, e invece sono oppressa, schiacciata da un peso che non avevo messo in conto. Non so dare un nome a questa emozione. Mi alzo e mi infilo le scarpe, senza neppure allacciarle. In un attimo sono nel corridoio buio e silenzioso. Gli altri sono lì, dietro quelle porte. Dormono, o provano a farlo. Il cuore mi batte più forte. Mi affretto verso l’uscita. Vago finché non trovo una porta di servizio. La imbocco e scopro che mette in comunicazione la cucina con il cortile. Non appena sono fuori, il freddo intenso mi ricorda che non ho la giacca. Mi riempio i polmoni e l’odore acre del fumo di una sigaretta si mischia al respiro della notte. «Darlin?!» «Erek?» cerco di cancellare lo stupore. «Cosa fai?» «Volevo fumare l’ultima sigaretta». «L’ultima della giornata». Non so perché, ma devo precisarlo. «Già. E tu? Lasciami indovinare» viene verso di me, «sei troppo eccitata per dormire, vero?» i suoi occhi scintillano. «Qualcosa di simile». «Ci divertiremo, Darlin» dichiara. Ha la solita assoluta convinzione, come se sapesse cose che agli altri non è dato conoscere. «Ho riguardato le mappe. Se c’è un livello sotterraneo, è cinque volte più grande dell’abbazia. Voglio dire: se tanto mi dà tanto, c’è un enorme segreto, sotto Montecassino». «Lo credo anch’io» rabbrividisco. Lui si toglie la giacca e l’appoggia sulle mie spalle prima ancora che possa protestare. «Tienila tu. È il minimo». Certo, per lui il minimo è patire al posto degli altri; magari morire al posto degli altri. «Sono in debito» mi dice, «tu sei la mia complice perfetta». Non è vero. Non abbiamo niente in comune. Gli sto appresso solo perché volevo portarlo qui. È stata tutta una farsa. «Erek» sospiro, «come te la cavi con il perdono?» Non capisce la domanda e mi fissa stranito. Quindi chiarisco: «Sei uno che perdona i torti? Che perdona le bugie?» «Non lo so. Dipende. Perché me lo chiedi?» Il cuore batte più forte. C’è così tanta fiducia nei suoi occhi… Vive in una condizione che non immaginavo esistesse. Lui è in pace con il mondo. All’idea di perderlo, quasi non ragiono più. «Ti devo dire una cosa, Erek. Una cosa importante». «Spara» e mi aspetta con un sorriso. Sto per parlare, sono a un niente dal vuotare il sacco quando qualcosa si muove nell’ombra. Uno spettro invisibile che si sposta nell’oscurità della vigna. Ma anche io sono uno spettro. E riconosco come cambia l’aria quando qualcuno dei miei si nasconde alla vista. Faccio un passo indietro. «Forse è meglio se ne parliamo domani». «No, parliamone ora. Sono curioso». «È una sciocchezza». Mi levo la sua giacca e la appoggio al muricciolo di pietra. Gli auguro la buonanotte e rientro in fretta. Ritorno nella camera che mi è stata assegnata, ma non accendo la luce. Mi illudo che basti questo per non essere trovata. Ma un fruscio fuori dalle finestre chiuse precede di un attimo una voce che conosco bene. È Bashir. Il cuore mi si ferma all’idea che stavo per raccontare tutto a Greystone. E che forse lui l’ha capito. Mi affretto ad aprirgli e con un balzo entra nella stanza. Non ci vediamo dalla sera in cui mi ha contattata a Ginevra. «Accendi la lampada da notte» sono le sue prime parole. Non mi saluta. Non mi chiede come sto. Mi dà solo un ordine, e io ubbidisco. «Che succede? Perché sei qui?» Mi risponde con una domanda: «Cosa ci facevi fuori con Al-malj?» «L’ho incontrato per caso» rispondo. È la verità, e reggo il suo sguardo senza tema di essere smascherata. Sono addestrata a mentire, ma se lo facessi con lui, sono certa che mi scoprirebbe. Crede alle mie parole e cambia tono. «Mi manda il Tempio» mi informa, «domani Helena Gomez entrerà nell’abbazia». Ne sono al corrente e annuisco. Bashir continua: «Visionerà una versione della Regola di san Benedetto e le direte di esaminare il disco dei Templari». «Così scoprirà la botola» lo anticipo. «Quando accadrà la devi avvicinare e la devi sedare». «Cosa?» «Abbiamo le sue schede mediche. L’anestetico sarà innocuo». «Devo sedarla?» ripeto. «Perché?» «Non tornerà dai suoi amici. La tratterremo al monastero». «Non riesco a capire». «È l’ultimo test sul campo. Il decano crede che sia la prova definitiva. Devono stare insieme, agire insieme e salvarla insieme». «Conosco Helena. Si spaventerà a morte». «Nessuno le torcerà un capello. Serve come esca per farli arrivare dove li aspetta la verità». Faccio per ribattere che questo è troppo, che gli altri andranno in paranoia. Ma lo sguardo di Bashir è un muro. È come se mi aspettasse al varco. Per la prima volta capisco che non sono solo i cavalieri a essere sotto esame. Ha detto che è un test sul campo. Ora mi è tutto chiaro: vale anche per me. L’idea che la fiducia di Bashir si sia incrinata mi fa morire di vergogna. Devo tutto alla persona che mi sta davanti. E sono disposta a ogni cosa per lui. «Va bene. Farò quel che devo». «Non mi aspetto niente di meno» dice, ma non sorride. Lo farà solo quando avrò mantenuto la promessa. Apre la finestra, scavalca il davanzale e svanisce nella notte. 24 dicembre Siamo quasi alla fine. Siamo nella stanza di san Benedetto. Helena è china sul sigillo. Mi dà le spalle e non sa che sono a pochi metri da lei e che la osservo. Com’era prevedibile, scopre la botola. Quando si gira, finalmente si accorge che ci sono anche io. «Oh, meno male che sei qui! Non posso crederci! C’è davvero un passaggio!» «Lo so». «Ora però dobbiamo richiuderlo, prima che ci scoprano». «Per questo, temo sia tardi». «Tardi?» Faccio quel che devo. Le inietto l’anestetico, ancor prima che si accorga che ho una siringa in mano. «Ma che fai?» «Niente di personale» le dico. Il suo sguardo sorpreso diventa stanco. Assente. Le gambe le cedono. Si aggrappa al mio braccio. La accompagno. Ha perso i sensi ancor prima di toccare terra. Rimango in ginocchio accanto a lei e non so perché le sistemo i capelli. Sono ancora china al suo fianco quando arrivano il decano Sebastiano, El-Faid e un monaco che non conosco. Quest’ultimo stabilisce che Helena è sedata e la solleva tra le braccia come se non pesasse niente. Il sonno di Helena è così profondo che sembra morta. Ha la testa riversa e i capelli si liberano dal laccio allentato. Mi viene di nuovo da sistemarglieli. La vedo sparire insieme al benedettino. El Faid mi fa un cenno di approvazione. «Ottimo lavoro». «Ora posso andare?» «Resta nei paraggi. Devi essere presente quando i cavalieri arriveranno». Sono stupita. Così stupita che non riesco a parlare. Guardo prima il decano poi El Faid, quindi rompo gli indugi e faccio qualcosa che mai nella mia vita avevo pensato di fare. «Preferirei di no». El Faid è spiazzato, ma poi ribadisce: «È necessario». «Aspetta, amico mio» interviene il decano Sebastiano, poi mi rivolge uno sguardo attento, «perché non vuoi venire?» «Credo sia meglio». «Perché?» incalza. Mi rassegno e rispondo. «Quando sapranno chi sono, non saranno felici di avermi intorno. È meglio che non li incontri più. Anche per evitare risentimenti verso il Tempio». Si stupisce e si rivolge a El Faid: «Pensavo fosse informata». C’è qualcosa che mi spaventa in quelle parole. El Faid scuote il capo. «Bashir voleva aspettare». Il decano è contrariato. Io me ne sto immobile. Aspetto che qualcuno mi congedi. Spero con tutta me stessa che lo facciano in fretta. Invece El Faid chiarisce: «Devi essere presente. Perché prima ti riavvicinerai a loro, meglio sarà». «Magari accadrà. Con il tempo» suggerisco. «Non c’è tempo» scandisce El Faid. «Tra due settimane ricominciano le lezioni». Non vedo come la cosa mi riguardi. Da stasera io non sono più Darlin Blakpool. Non sono più una di loro. Ma il decano lacera con le sue parole il consolante velo d’ignoranza dietro il quale mi nascondevo. «La missione non è finita. Torni all’Albion. Con loro». Un nuovo inizio Entrare in quella stanza è la cosa più difficile che mi sia toccata nella vita. Lo faccio senza respirare, evitando i loro sguardi. Il decano mi presenta con il mio vero nome. Marco è arrabbiato, Deacon interdetto ed Erek… lui è deluso. Per saperlo, non è necessario che lo guardi, e di tutte le loro reazioni è quella che mi fa stare peggio. «Che cretino sono stato». Sono solo quattro parole, e me le aspettavo, ma nell’istante in cui le dice, capisco di essere senza difese. A volte non basta immaginarsi il peggio per alleviare l’urto, perché ci sono cose da cui non ti puoi proteggere. Il decano riporta la questione sulle vere priorità e inizia a raccontare la storia. Dall’inizio. Non ascolto una parola. Non mi interessa nulla di Artù o Lancillotto, né di come Merlino abbia trovato il modo di modificare il loro codice genetico. Non mi interessa quale forza oscura trami per sottrarre i cavalieri alla giusta causa. Aspettavo questo momento, convinta che fosse la fine. Mi sbagliavo, sono davanti a un nuovo inizio. Mi hanno ricacciato nella mischia. E Bashir non lo ha impedito. Come potrò tornare all’Albion, ottenere ancora la loro fiducia, quando non ho fatto che ingannarli, fin dal primo istante? Come pretendono i Templari che io sia la guida di persone che non mi guarderanno mai più in faccia? XXXXXXXX Ho perso il conto dei giorni passati. Sono parcheggiata all’abbazia, senza uno scopo preciso. Oggi il decano mi ha congedata e mi ha detto di distrarmi. Non so neppure come si fa. Vago senza meta per le strade di Cassino. Non corro il rischio di incontrare nessuno dei miei compagni. Hanno lasciato il podere dei Cinquedraghi subito dopo Natale. Sono andati a Santiago de Compostela in treno, perché Helena non prende l’aereo. I suoi cavalieri si sono adeguati. Non faccio che pensare a loro. A come riconquistarli. Quando alzo lo sguardo sulla vetrina di un negozio di libri rari, ne trovo uno dedicato ai pirati. È un’edizione inglese dell’Isola del tesoro di Stevenson. È quello che Erek chiamerebbe “segno del destino”. Forse davvero esercitiamo il libero arbitrio all’interno di un cammino prestabilito. Il tempo si limita a chiarire i percorsi, come una torcia su un sentiero buio, ma questo non cambia la direzione. Essa è già stata tracciata. Che io lo voglia o no, le nostre strade si incroceranno ancora. L’isola del tesoro è lì a ricordarmelo. Entro nel negozio, annunciata da una cascata di campanellini, e chiedo alla commessa di farmi vedere il libro. Potrebbe essere un inizio. Un regalo. Un modo per scusarsi. Ma tentenno. Sono spaventata. Non so che futuro ci sia per noi. Non so se Samira sarà mai all’altezza della sua Darlin. Se la persona che sono potrà mai competere con la menzogna che ho costruito per piacergli. A dirla tutta, non so neppure perché lui mi interessi così tanto. Apro la prima pagina. All’esitante acquirente: Storie marine in marinaresco tono e tempeste e avventure e caldi e geli e bastimenti ed isole e crudeli piraterie ed interrato oro, ed ogni vecchia favola ridetta… «Samira?!» «Bashir» lotto con la voglia di nascondere il libro, come se il solo fatto di tenerlo in mano fosse una colpa. Lo restituisco alla commessa e raggiungo mio fratello. «Che stai facendo?» «Perdo tempo. Mi hanno dato il pomeriggio libero». Mi affretto verso l’uscita. Devo distogliere la sua attenzione da ciò che sto facendo. La manovra riesce. Lo precedo in strada. Cominciamo a camminare. I nostri passi sono lo stesso passo. Camminiamo uno accanto all’altra da così tanto tempo… «Ho parlato ancora con El Faid. Non sono riuscito a convincerlo». Sapevo che l’avrebbe fatto e sapevo che non sarebbe servito. Ma apprezzo il tentativo. «Sono tutti in fibrillazione per l’opportunità offerta da questa nuova attivazione» chiarisce rassegnato. «E c’è gente molto in alto che spera si rinnovi la tradizione dei Custodi e che questo possa portare a trovare i custodita. È passato troppo tempo dall’ultima volta». Non faccio commenti. Ce ne stiamo in silenzio per un po’. È lui che ricomincia a parlare: «Non ne verrà niente di buono». Lo prendo come un atto di sfiducia e un po’ mi risento. «Ho fatto bene finora. E farò ancora meglio. Gli darò quello che vogliono. Ci vorrà più del previsto. Ma finirà, prima o poi». «Vogliono che tu stia lì fino a giugno». Lo so, ma ogni volta che qualcuno lo ribadisce mi sento uno straccio. Tento di nasconderlo e dico: «Cinque mesi passano in fretta». Lui sorride. Sono le stesse parole che ho usato all’inizio dell’incarico. «Sai quanto sono durati, per me, gli ultimi quattro mesi?» mi chiede. «Quanto?» «Quattro secoli. Più o meno». La cosa mi fa sorridere, ma non faccio commenti. È ancora Bashir a parlare: «Voglio che me lo prometti ancora». «Cosa?» «Che tornerai a casa». Annuisco, quasi a prendere tempo, ma non aggiungo altro. Neppure lui parla più. Ci accompagna solo il rumore dei nostri passi, nel silenzio della sera. RINGRAZIAMENTI Grazie a Francesco Protano. Avere dimenticato di citarlo nei ringraziamenti sull’edizione di Albion è stato imperdonabile. Francesco ha proposto il manoscritto di Albion a tutti i colleghi in GeMS che sventuratamente gli capitavano a tiro. A prescindere da come è andata, questa è stata l’occasione per capire che Francesco è una persona altruista e generosa, di quelle che raramente ti capita di incontrare. Ringrazio Paul Houldcroft che da mesi si è imbarcato nella traduzione in inglese di Albion. Paul, fatti un favore e trova un passatempo più edificante. C’è una vita la fuori e, che tu lo veda o no, splende sempre il sole. Bianca