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Scarica la relazione - Scuola di dottorato in Scienze Umanistiche
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Scuola di Dottorato in Scienze Umane
Indirizzo: Lingue e culture comparate
XXIV ciclo
Dottoranda: Angela Albanese
Tutor: prof. Franco Nasi
RELAZIONE 1° ANNO
Traduzioni e trasposizioni teatrali di testi letterari:
La Gatta Cenerentola di Giambattista Basile
Il presente progetto di ricerca si inserisce nel campo della traduzione letteraria. Lo studio è
rivolto nello specifico all’opera in dialetto napoletano di Giambattista Basile, Lo Cunto de li cunti
overo lo trattenemiento de’ peccerille, e all’analisi di alcune sue filiere traduttive interlinguistiche
ed endolinguistiche. Si approfondirà infine una recente trasmutazione intersemiotica de La Gatta
Cenerentola, una delle cinquanta favole del Cunto, messa in scena da Roberto De Simone.
Come si desume già dal titolo seppur provvisorio del progetto, l’indagine si muove, più o
meno parallelamente, lungo due direzioni, l’ambito del racconto fiabesco, essendo il Cunto
propriamente una raccolta di fiabe, e quello della traduzione letteraria.
1. La fiaba.
Fermo restando che lo studio del genere fiaba implica una rassegna seria e dettagliata della
corposa letteratura critica esistente, e che questa prima fase della ricerca è stata ed è ancora quasi
interamente rivolta alla verifica bibliografica delle questioni in campo, possiamo già affermare che
il Cunto non è solo una raccolta di fiabe, ma è la prima raccolta di fiabe in Europa, quella che si
presenta – secondo Rak – come il prototipo del genere fiabesco, “la prima opera europea in cui
viene elaborato un modello narrativo di tipo generativo: che dà luogo a persone e intrecci, opere
letterarie e pratiche narrative, generi letterari e teatrali e in genere della rappresentazione che
attraversano tutta la Modernità e poi il Contemporaneo" (RAK 2005: 15).
Il Cunto, dunque, come testo esemplare che mette in piedi un modello e testo multiplo che
raccoglie ed assembla nelle sue storie materiali diversi: dalle fiabe di tradizione orale al mito, dal
folklore ai racconti di viaggio, dalla letteratura classica (Metamorfosi, Asino d’Oro) al teatro.
E proprio da quel Cunto traggono origine molte fra le favole a noi più note, Cenerentola
compresa, che tuttavia rileggiamo con più familiarità e con un senso di rassicurante consuetudine
nella versione di Perrault e dei fratelli Grimm, e che riconosciamo senza esitazioni nel moderno
adattamento cinematografico disneyano.
Eppure, giusto per fermarsi alla fiaba di Cenerentola che sarà oggetto prevalente di studio
nel corso del triennio, basta leggerne la versione basiliana e confrontarla con le sue successive
riscritture sette-ottocentesche, o anche rivederne la versione cinematografica per capire che non si
tratta esattamente della stessa storia. Perrault e i Grimm omettono, per esempio, un particolare
dell’incipit di Basile, e non è un particolare di poco conto: la storia si apre con un omicidio, quello
della prima matrigna, e l’assassina è proprio Cenerentola. Nella versione di Basile la protagonista
Zezolla viene istigata dalla sua maestra di cucito ad uccidere la malvagia matrigna, con la promessa
che, se convincerà suo padre a prendere poi lei in sposa, le saranno riservate tutte le cure e l’affetto
fino ad allora negati. Zezolla, convinta dell’esito positivo del piano, lo esegue, e nella maniera più
truce: approfittando della distrazione della matrigna, mentre questa è ripiegata in un cassone da
biancheria a cercare un cencio di veste per la figliastra, le chiude violentemente il coperchio del
cassone sulla testa rompendole l’osso del collo.
In nessuna fiaba per bambini rimane traccia di questo assassinio. In Perrault, per esempio,
versione idealizzata della favola di Basile, Cenerentola è il simbolo della perfetta bontà, “bambina
ideale, arrendevole e passiva” (GASPARINI 1999: 19) che agisce o dietro precetto della fata
impietosita regolarmente dalle sue lacrime, oppure per incantesimo, ma si perde in tutto questo
l’originario dipanarsi del raccapricciante progetto condotto sin dall’inizio da Cenerentola in prima
persona, ancorché con l’aiuto dell’elemento magico. E’ questo un passaggio importante, rimarcato
con decisione anche da Canepa, quando conferma il carattere tenace e volitivo della protagonista e
parla della sua vicenda in questi termini:
“the story of an astute, conniving, and even murderous heroine who takes
full charge of her own destiny by using her wits to manipulate the people
and situations that surround her”. (CANEPA 2003: 39-40)
Per ragioni di sintesi e rimandando a successivi approfondimenti, posso in questa sede solo
anticipare che l’omicidio, scomparso dalle versioni delle fiabe successive a Basile e negli
adattamenti cinematografici, ritorna come richiamo, allusione, nella versione teatrale di De Simone.
Leggiamo la didascalia del copione:
La matrigna abbassa la testa fino a sparire dietro la cassa. Il coperchio retto
dalle mani di Cenerentola vacilla, come se esitasse a scendere pesantemente
sulla testa della donna china a cercare tra la biancheria. Il rullo di timpani
cresce d’intensità fino ad arrestarsi di colpo. A tale punto la matrigna ritrae
il capo un attimo prima che il coperchio, sfuggito dalle mani della ragazza,
cada con un sordo tonfo. Nel silenzio che segue le due donne si guardano
immobili. (DE SIMONE 1977: 19)
Dunque l’omicidio originario stavolta non è compiuto, anche se ci è mancato poco. In
questo passaggio il riferimento intertestuale è chiaro. La differenza fra la favola di Basile e la
traduzione di De Simone sta nel “dettaglio” della esecuzione materiale del gesto, ma l’originaria
“volontà” criminale di Cenerentola viene tradotta e mirabilmente portata in scena dal regista con la
felice intuizione del sottinteso rimando ad un crimine che non accade ma che potrebbe accadere,
come è già è accaduto nell’ipotesto basiliano. Tant’è che la battuta della matrigna immediatamente
successiva alla didascalia è:
Disgraziata! … Assassina!
Tu me vulive chiudere ‘a capa rint’ ’o cascione […]
Me vulive acccidere
’ncasànnome ’o cupierchio d’ ’a cascia ’ncapo!1 (ibidem)
Esiste una evidente “relazione traduttiva” (DUSI 2003: 9) fra il testo originale e la sua
trasposizione teatrale. Mi sembra a tal riguardo che Dusi chiarisca perfettamente questo rapporto
quando afferma che “l’idea di fedeltà si stempera infatti, almeno in parte, quando si riconosce che si
tratta di tenere assieme più di una equivalenza, a seconda del livello del testo di partenza che si
vuole cercare di «rendere» nel nuovo testo. Più che di «resa», tuttavia, parleremo di riproposta di
un effetto equivalente attraverso il nuovo testo” (ivi: 72).
1
“Disgraziata! … Assassina!
Tu mi volevi chiudere la testa nel cassone […]
Mi volevi uccidere incastrandomi il coperchio della cassa in testa!”.
Questa e altre innumerevoli vicende di cui la raccolta di Basile è disseminata, ci permettono
di poter dire già in questa fase iniziale della ricerca che il Cunto de li Cunti non è opera destinata ai
bambini, nonostante le intenzioni del titolo che recita “trattenemiento de’ piccerille”; è invece opera
destinata al pubblico adulto della corte, passatempo da leggere, recitare e commentare nelle piccole
corti di Napoli (non dimentichiamo che Basile era uomo di corte), nell’occasione rituale del
dopopranzo quando, sgombrate le tavole, si dava inizio ai giochi, ai canti, ai racconti e a
divertimenti di tal genere. E che non sia un’opera propriamente indirizzata ad un pubblico di
bambini lo dimostra anche la sua complessa architettura interna, costruita com’è su un uso insistito
delle metafore, anche sessuali, e in cui la metafora – come ben ha intuito Calvino – non è “mero
ornamento che infiora la struttura portante degli intrecci e delle funzioni narrative” ma si pone come
“vera sostanza del testo” (CALVINO 1996: 193). Tale complessità è stata rilevata, fra gli altri,
ancora da Nancy Canepa: mettendo in dubbio già nel titolo del suo saggio la destinazione del Cunto
ad un pubblico infantile (“Entertainment for Little Ones”? Basile’s Lo Cunto de li Cunti and the
Childhood of the Literary Fairy Tale), la studiosa fornisce un’articolata argomentazione a sostegno
della sua riflessione, per arrivare infine a questa conclusione:
“But Basile’s work […] is, in the end, decidedly not for little ones. Even a
cursory review of a few of the distinguishing aspects of Lo cunto bears out
its status as an artful and willfully labyrinthine text”. (CANEPA 2003: 39)
La ricostruzione della problematicità delle differenti versioni di uno stesso racconto, talvolta
edulcorate rispetto alla trama originaria, come nell’incipit appena accennato di Cenerentola, può far
già intuire un interesse metodologico di chi scrive, che non si esaurisce in un’analisi morfologica e
strutturalistica della fiaba intesa come ricerca degli “universali” quanto, piuttosto, si pone come
tentativo di approfondimento diacronico del motivo fiabesco di Cenerentola: l’intento è di rilevare il
modo in cui questa fiaba sia cambiata rispetto all’originaria versione di Basile, sia attraverso le
traduzioni interlinguistiche sia attraverso la sua “rimediazione” (BOLTER, GRUSIN 2002) da un
codice all’altro, come nel caso del passaggio dal testo alla scena.
2. Le traduzioni
L’essere camaleontico della fiaba, la sua mutevolezza (RICHTER 1995: 9) è condizione
stessa della sua sopravvivenza, così come lo è ogni sua traduzione. La traduzione letteraria e il
genere fiabesco sono singolarmente apparentati dal comune destino della metamorfosi: se il
racconto fiabesco prevede la metamorfosi come elemento strutturale - la trasformazione che porta il
protagonista al cambiamento finale di status – oltre che come possibilità della sua sopravvivenza in
differenti generi letterari e forme mediatiche, così pure il traduttore letterario deve rassegnarsi a fare
i conti, contro ogni pretesa di “fedeltà”, con l’idea del cambiamento, della diversità che ogni
traduzione introduce e rappresenta rispetto al testo originale. E deve fare anche i conti con l’idea
che non solo ogni traduzione modifica e trasforma il testo originale, ma quella stessa traduzione
sarà modificata, superata da riscritture successive. Metamorfosi e provvisorietà sono termini di cui
questa ricerca non potrà non tener conto. Quel che ha scritto James Hillman a proposito del lavoro
della psiche, ossia “mirare al bersaglio e colpirlo significa metter punto” (HILLMAN 1983: 281),
riferendosi ad un tipo si ragionamento psicologico che vuole inchiodare in soluzioni
cartesianamente chiare e distinte la natura errante e circolare dell’anima, ritengo possa valere anche
per una riflessione sulla traduzione. Tradurre è un po’ come tirare al bersaglio e non colpire mai il
centro, ed in questo risiede il carattere provvisorio di ogni riscrittura, in questo credo risieda il
sentimento apparentemente ossimorico di “felice malinconia” che assale il traduttore (si vedano
NASI 2004, 2008 e NASI, SILVER 2009). Mirare al centro, ossia fuor di metafora ritenere che una
traduzione abbia reso in maniera perfetta e definitiva l’originale, una volta per tutte, secondo la
presunta ultima volontà dell’autore, vuol dire uccidere il testo, decontestualizzarlo acriticamente in
una dimensione atemporale in cui non ci sia più margine per le intenzioni sempre penultime
dell’opera. Scrive Blanchot che “l’originale non è mai immobile […] la traduzione è legata a
questo divenire, lo traduce e lo compie” (BLANCHOT 1982: 99).
L’analisi comparata delle traduzioni del Cunto, linguistica e culturale, non potrà
prescindere da un primo approfondimento narratologico, prestando attenzione, per esempio, alla
figura del narratore interno, per poi per poi pervenire ad un lavoro più consistente sullo stile delle
diverse traduzioni. Lo studio, che è sia linguistico che culturale, si basa al momento sulla scelta di
una trascrizione endolinguistica dall’antico dialetto napoletano al napoletano moderno, di cinque
traduzioni interlinguistiche e di una traduzione intersemiotica:
‐
TRADUZIONE ENDOLINGUISTICA
Giambattista Basile, Il Cunto de li Cunti nella riscrittura di Roberto De Simone, Torino,
Einaudi, 2002;
-
TRADUZIONE INTERSEMIOTICA
La Gatta Cenerentola, favola in musica in tre atti di Roberto De Simone, Torino, Einaudi,
1977:
con riferimento alla trasposizione teatrale della favola, lo studio teorico intrapreso nel corso del
primo anno è stato affiancato ad un principio di analisi testuale del copione. Proficuo è stato
inoltre il contatto con il regista dello spettacolo e traduttore Roberto De Simone, con il quale è
stata concordata una intervista da realizzarsi presumibilmente entro la fine del secondo anno.
‐
TRADUZIONI INTERLINGUISTICHE
Giambattistista Basile, La Fiaba delle Fiabe ovvero Il trattenimento dei fanciulli, tradotta
dall’antico dialetto napoletano e corredata di note storiche da Benedetto Croce, Napoli,
Bibliopolis, 2001 (1° ed. 1925);
‐
Giambattista Basile, Il Racconto dei Racconti ovvero il passatempo per i più piccoli, con testo
napoletano e traduzione a fronte, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1986;
‐
Giambattista Basile, Il Racconto dei Racconti ovvero Il trattenimento dei piccoli, traduzione di
Ruggero Guarini, Milano, Adelphi, 1994;
‐
Giambattista Basile, Il Cunto de li Cunti nella riscrittura di Roberto De Simone, Torino,
Einaudi, 20022;
‐
Giambattista Basile’s The Tale of Tales, or Entertainment for Little Ones, translated by Nancy
L. Canepa, Detroit, Wayne State University Press, 2007.
La lettura del Cunto nelle diverse traduzioni ha impegnato l’intero secondo semestre di
questo primo anno e impegnerà verosimilmente anche i primi mesi del secondo. In una fase
successiva dovrebbe essere affrontato lo studio di tipo non strettamente linguistico ma socioculturale anche delle traduzioni della Cenerentola di Perrault e dei Grimm, oltre che della versione
2
Il testo di Roberto De Simone del 2002 riporta come testo a fronte una traduzione endolinguistica in napoletano
moderno, oltre alla traduzione in lingua italiana.
della favola in dialetto bolognese del Cunto, pubblicata nel 1742, ora in edizione critica e
traduzione italiana con testo a fronte a cura di Bruna Badini Gualducci3.
In merito alla questione più strettamente filologica relativa alla scelta del testo originale di
cui avvalermi come testo-fonte, ho ritenuto di non utilizzare l’edizione a cura di Mario Petrini del
1976, che pure si presenta come edizione critica del Cunto, anche in virtù dell’unanime giudizio
negativo dei revisori che con acribia filologica ne hanno puntualmente rilevato errori e
fraintendimenti. Valga per tutti il commento impietoso di Valente, secondo il quale “non sono pochi
gli esempi di improprietà e di approssimazione che si potevano evitare con un più attento uso dei
vocabolari e coi riscontri degli altri dialetti” (VALENTE 1979: 46).
Ho deciso di assumere come testo di riferimento l’edizione del 1986 con traduzione italiana
a fronte a cura di Michele Rak, che si presenta come «testo restaurato» della prima edizione a
stampa del 1634-36, sebbene anch’essa vada ad aggiungere, seppure in misura minore, refusi alla
prima edizione del 1634-36. L’edizione a cura di Michele Rak è stata riprodotta in formato digitale
nel corpus della LIZ.
Fra le diverse traduzioni interlinguistiche oggetto di studio, assume un maggiore peso
specifico quella crociana. Il maggiore interesse nei confronti della traduzione di Benedetto Croce
deriva sia dall’autorevolezza del traduttore e dal suo essere indiscusso passaggio nevralgico della
riflessione filosofica in Italia, sia dalla posizione assunta da Croce all’interno del dibattito teorico
sulla traduzione, posizione che lo vede schierarsi a favore del principio di intraducibilità delle opere
d’arte. Una delle questioni intorno a cui ruota questa ricerca è proprio quella che indaga i modi in
cui possa conciliarsi l’ipotesi crociana della impossibilità della traduzione con la sua attività pratica
di traduttore, e per di più di un’opera barocca, scritta in dialetto e piena zeppa di metafore.
Leggiamo un passo significativo dell’introduzione di Croce alla sua traduzione del Cunto:
“Il Basile, come si è detto, era un letterato aulico, e finanche uno studioso di
lingua e stile[…]; e in italiano mentalmente concepiva, e poi traduceva in
dialetto per vaghezza dell’insueto e per isfoggiare la ricchezza del sermone
partenopeo; onde il mettere in forma italiana la sua opera non è tanto darle
una nuova veste, quanto ridarle quella primitiva e connaturata, e (fatta la
doverosa eccezione per le eventuali deficienze del traduttore) in italiano
essa accresce e non perde virtù”4. (CROCE 2001: XXV)
Rimandando ad un indispensabile successivo approfondimento, basti per ora rilevare
che la convinzione di Croce di un originario concepimento del Cunto in lingua italiana e di una
sua traduzione in dialetto approntata da Basile per semplice “vaghezza dell’insueto”, apre per
lo meno a tre ordini di problemi:
‐
‐
‐
Il rapporto fra Croce e la letteratura dialettale;
l’impatto complessivo che l’estetica crociana ha sul problema della traduzione;
le riflessioni crociane sulla retorica oltre che la sua considerazione sostanzialmente
negativa del barocco.
Lo studio di tali problematiche potrebbe risultare terreno fertile per una rinnovata definizione delle
riflessioni crociane sulla traduzione.
3
T. e M. Manfredi,A. e T. Zanotti, La chiaqlira dla banzola, o, Per dir mìi fol tradutt dal parlar napulitan pr rimedi
innucent dla sonn e dla malincunì, testo critico, traduzione e note di Bruna Badini Gualducci, Modena, Mucchi, 1988;
4
Corsivo nostro.
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