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Parliamo di musica

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Parliamo di musica
Parliamo di musica
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Introduzione
Fuggire dalle mura
Ho un amico che ascolta sempre musica indiana e trova
molto noiosa Yesterday dei Beatles. A lui pare proprio
che non succeda nulla, nonostante tutti quegli accordi che vanno tanto in giro per poi tornare a un riferimento di base. Son cose che piacciono all’Orecchio Occidentale, dice lui.
La scala ascendente di Yesterday ci commuove perché le note che salgono ci comunicano una tensione (e
se scendono ci mettono tristezza). A lui tutto ciò non
dice niente, per lui questa tensione non va da nessuna
parte. Ciò che a noi suona familiare a lui fa un effetto
strano: le scale dei Beatles sono orpelli di una popolazione “civilizzata” che non capisce, o meglio non capisce più, essendosi abituato ai raga indiani.
La storia della musica come la studiamo noi (quando la studiamo, visto che nei nostri licei è la grande
assente) è quella della musica occidentale. Nessuno
ci racconta di altri mondi, di altre musiche. Oppure
ci parlano del canto gregoriano, che utilizza i modi,
come di un sistema sorpassato quando in realtà esiste
ancora, se non fosse che noi perlopiù non lo usiamo.
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Questa visione della musica limita le nostre possibilità di ascolto.
La musica è un po’ come la democrazia: noi occidentali l’abbiamo raggiunta attraverso diverse fasi,
ma non è l’unico sistema di convivenza possibile. Ci
sono posti dove la democrazia non c’è perché non è
il momento, non ci sono le condizioni, non se ne sente la necessità. E, in ogni caso, oggi mi permetterei di
dare per storicamente dimostrato il fatto che la democrazia NON è l’unico dei mondi possibili.
La musica esiste in natura: ciò che non esiste è la “grammatica della musica”. Qual è il confine tra musica e rumore? Chi lo decide?
In teoria, tutto è musica. Prendiamo gli uccelli: il
canto di molti di loro ci sembra musicale perché si avvicina al nostro sistema tonale, al nostro Orecchio Occidentale. Però anche gli uccellini che pigolano suoni
distanti dal nostro gusto stanno producendo musica,
stanno “cantando”.
Ci sono uccelli più musicali e altri meno?
Magari proprio quelli che si distanziano maggiormente dai nostri parametri di bellezza stanno eseguendo un richiamo d’amore dolcissimo, o un lamento di
dolore.
Noi abbiamo elaborato mille modi di inscenare un
corteggiamento o celebrare un lutto.
Loro invece usano il mondo dei suoni in maniera
netta per sottolineare un evento.
Recentemente si sono fatti degli esperimenti all’asilo
con alcuni bambini facendo loro ascoltare un pezzo di
John Cage e Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi, e i
bambini hanno scelto John Cage...
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Ora, John Cage, compositore americano piuttosto
controcorrente, propone una musica piena di rumori,
di cose buffe o strane (una volta fece suonare svariate
radio contemporaneamente) e ai bambini tutto questo
è parso molto vario. Vivaldi invece grammaticalmente
è molto ordinato, pulito, piacevole, ma i bambini si annoiavano, un po’ come il mio amico amante dell’India.
Il rischio è che, diventando grandi, finiamo per dare
importanza solo ad alcuni aspetti della musica: solo
alla grammatica, alla logica e alla tonalità. Oppure unicamente all’ordine, e ciò che non è ordinato ci sembra strano.
O ancora: mettiamo su un piedistallo il timbro, vale
a dire che ci piace il suono di una certa voce o di un
certo strumento. Per non parlare del ritmo, in assenza
del quale molti di noi non sanno gustare nulla. Oppure dell’altezza: “Oh, quanto mi danno noia gli acuti”,
“Uh, quanto mi garbano i bassi”.
Invece la musica ha mille modi per farsi ascoltare.
Un pezzo fondamentale della musica classica, La Sagra
della Primavera di Igor’ Stravinskij, è ricco di “effettacci” che di fatto sono fuori grammatica e dunque considerati poco eleganti, soprattutto per l’epoca in cui fu
eseguito per la prima volta, a Parigi nel 1913. (E volarono dei fischi, suoni in quel caso facilmente decodificabili: dissenso puro, sdegno.)
Tuttavia, senza queste deviazioni di percorso la musica non sarebbe andata avanti. E il jazz è sfacciatamente pieno di meravigliosi errori grammaticali.
Uscire dalla grammatica, sfidare le norme che di
volta in volta la Storia o l’Accademia hanno imposto
alla musica è ciò che ha dato impulso a tutte le nuove
correnti musicali, da Stravinskij a Charlie Parker. La
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violazione, la bagatella, la fuga notturna dalle mura
del collegio è l’unica possibilità, perché è inutile fingere che quella grammatica non ci influenzi. Dovremmo prendere un bambino e farlo crescere nel silenzio
di una foresta e poi vedere che musica produrrebbe.
Quando, negli anni Venti, l’erudito compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos eseguì le sue musiche in patria di ritorno da Parigi dove era rimasto folgorato da
Stravinskij e Claude Debussy, fu insultato e accusato
di importare spazzatura musicale. Oggi è considerato
un genio, il maggior compositore brasiliano.
Astor Piazzolla è stato accusato quasi di vilipendio,
avendo tentato di pensare e scrivere del tango non per
i piedi e i corpi avvinghiati nella danza ma per la testa.
Oggi è il più famoso compositore argentino di tutti i tempi.
In altre parole: all’apparire della novità, si sono sempre
avute reazioni molto forti. Forse l’unico a scatenare l’ultima reazione forte è stato proprio John Cage, quando
propose i suoi 4 minuti e 33 secondi di silenzio e disse
che era musica. E che anche i suoni prodotti dal pubblico in teatro durante quell’interminabile frazione di
tempo erano musica. Parrebbe aver esagerato un tantino... Però ha detto una verità: tutto può essere musica. Non esiste in natura un sistema per distinguere il
suono dal rumore. Niente regole sui rami degli alberi,
ma l’uomo dagli alberi è sceso anni fa e ne ha decise
tante, di regolette e canoni, ed è da quelli che a volte
serve fuggire per trovare il centro del proprio mondo.
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Imparare la musica
C’è un modo abbastanza facile per riconoscere un insegnante in gamba: è quello che propone un programma
su misura per tuo figlio. Non gli fa studiare le stesse
cose di un altro bambino, oppure, peggio, quello che
ha studiato lui da piccolo...
Altrimenti, perché si tengono le lezioni individuali?
Gli insegnanti trascurano il fatto che si può imparare insieme all’allievo, ascoltando i suoi desideri, le
sue passioni del momento: se il ragazzo ha curiosità
per un brano, perché non approfondirlo? Molte volte si restringe il campo degli studi alle materie d’esame: sbagliatissimo.
Bisogna assecondare l’entusiasmo dell’allievo. Qualsiasi porta di entrata è valida per iniziare un percorso
nella musica. Entriamo, prima di tutto, poi vediamo
che cosa succede. «Nessuno nasce imparato», diceva
la buona signora, e ognuno entra nel mondo in modo
diverso.
Semmai si dovrebbe aiutare il bambino a riconoscere i propri pregiudizi, perché anche un bambino
di nove anni ne ha.
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Io sono stato fortunato. Sono nato a Milano, ho trascorso l’infanzia ad Alba e a sei anni andavo a lezione
da un tizio che, nel retro di un negozio di strumenti musicali, dava lezioni collettive. Quella mia prima
esperienza è stata importante: nel retro della bottega
ho cominciato picchiando su un tamburo insieme agli
altri bambini finché il tizio, dopo tre mesi, suggerì ai
miei genitori di portarmi da un vero maestro e fece il
nome della signora Bartocci, diplomata in pianoforte.
Lei mi fece lezione per sei anni, finché ci trasferimmo a Firenze e mi iscrissi al Conservatorio. Ma si può
anche andare avanti due anni a battere su un tamburo, mica si deve diventare tutti musicisti.
La musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Ti insegnano a disegnare e non a
cantare, ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative ma non ad ascoltare la musica, ti insegnano a godere del suono della poesia e non del suono di un clarinetto, ti insegnano la storia della cultura del tuo e di
altri paesi e non ti parlano mai dell’apporto dato dai
musicisti. Giuro che non capisco perché.
Non c’è governo che tenga, la musica e la sua storia
non interessano a nessuno dei nostri politici. Col risultato che ascoltiamo sempre meno. Ascoltiamo poco in
generale: badiamo molto al significato di quello che ci
viene detto, ma pochissimo al timbro e al tono che viene
usato. Più andiamo avanti e più, con computer e telefonini, preferiamo scriverci credendo di evitare malintesi... quando la solita mitica équipe di scienziati inglesi,
che forse esiste solo nella fantasia dei redattori di certi
quotidiani, chissà, ci ha fatto sapere che il contenuto
delle nostre frasi conta, in caso di comunicazione di14
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retta fra due persone, diciamo un 20 per cento: il resto
è linguaggio del corpo, odori, suoni, sguardi, accenti.
Ascoltare la musica significa riconoscere i suoni. Non
è mica poco. Riconoscere il ritmo. Il ritmo è la vita: il
battito cardiaco, il polso regolare. Sapersi muovere a
tempo con la musica non è un’esperienza secondaria.
Pensare che addirittura i sordi si fanno aiutare dalla
musica, spesso percependo le vibrazioni nella pancia.
Ora, da bambino, io prima ho visto la mamma, poi ho
scoperto che si chiama “mamma” e in seguito ho imparato a usare quel vocabolo tutte le volte che ne avevo
bisogno. Perché ho capito, consciamente o no, a quante cose può servire saper dire “mamma”.
La musica si insegna, in gran parte del mondo, partendo dal solfeggio.
In sintesi: prima io imparo come si scrive il Do, poi
imparo a riconoscerlo quando lo vedo scritto sul pentagramma, poi finalmente comincio a suonarlo e a goderne.
Ma se questo Do non me lo fai sentire, cosa me ne
dovrebbe fregare di sapere com’è scritto?
E perché lo devo riconoscere se tanto non ne conosco un utilizzo possibile?
Sarebbe come se per prima cosa imparassi l’alfabeto, poi la parola “mamma” scandita bene bene, poi finalmente – da dietro un albero – uscisse la mamma
vera e propria!
Un bambino nei primi anni della sua vita non scrive la propria lingua, la usa. E per scopi ben precisi.
Perché non cominciare suonando, e magari non da
soli ma con altri bambini? La musica è condivisione,
il suono nasce per comunicare.
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Il problema del corso di musica è tutto qui: cioè che
non ti fanno ascoltare, sentire la musica. Ti negano il
piacere della musica finché non hai imparato le sue
regole. Che, e mi ripeto, sono regole inventate e codificate in tempi recenti. Il sistema temperato, su cui si
basa il nostro Orecchio Occidentale, per fare un esempio, è stato creato sul clavicembalo tra il XVI e il XVII
secolo. In base a questo sistema il Do è un suono preciso, il Re è un suono preciso, e così il Mi, il Fa e via
dicendo.
È una convenzione, poiché in natura, tra il Do e il
Re, ci sono mille altre possibilità, mille sfumature che
molti strumenti musicali, tra cui il pianoforte, non possono riprodurre.
Nel sistema temperato, una volta accordato, il pianoforte diventa la legge. Il violinista chiede sempre il
La al pianista, il quale per accordare il piano ha usato una convenzione fatta di vibrazioni, e che si misurano con uno strumento d’acciaio chiamato diapason.
Questo strumento, se stimolato, produce una frequenza di hertz che dà origine a un suono. Ma non è sempre stato uguale: nel 1885 a Vienna un congresso di
specialisti decise che la frequenza doveva essere di
435 hertz. Poi è stata alzata a 440 e, nel corso del Novecento, è stata alzata ancora: oggi è di 442 hertz, ed è
la nota che chiamiamo “La”.
Dunque, un tempo, il La era un’altra nota, più bassa: addirittura, nella musica antica è usata una convenzione a 415, cioè più bassa ancora.
Fu il matematico Pitagora il primo a misurare le vibrazioni di una corda e a scoprire che quella corda vibrando conteneva in sé altre note, i cosiddetti “suoni
armonici”, e così capì che in natura c’era più varietà.
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Vale a dire che tutto poteva essere musica, tutto risuonava di note.
Successivamente si è deciso di darsi delle regole, diciamo così, non naturali, altrimenti non se ne usciva
più! Scoprendo, tramite la divisione della corda e per
motivi matematici, che per esempio il Do e il Sol funzionano bene insieme. In questo modo l’uomo ha “temperato”, cioè ha mitigato, ha dato una misura alla natura e ha creato le note che noi usiamo sul piano, sulla
chitarra, con la voce.
Così nascono le note: sono semplicemente una decisione dell’uomo di dare una forma alla natura.
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