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Un errore in clinica ha ucciso Nicole nessuna colpa del 118

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Un errore in clinica ha ucciso Nicole nessuna colpa del 118
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
28 Maggio
La Repubblica
“Un errore in clinica ha ucciso Nicole nessuna colpa del 118”
CATANIA .
Nessuna malformazione cardiaca.
Nessuna colpa del 118. La piccola Nicole Di Pietro è morta per «l’arresto irreversibile delle funzioni vitali
consecutivo a grave sofferenza acuta fetale». Una grave mancanza di ossigeno in utero sottovalutata dai
medici della clinica Gibiino di Catania dove la neonata era nata la notte del 12 febbraio. Lo scrivono i
consulenti incaricati dalla procura di Catania di stilare le conclusioni dell’autopsia: 96 pagine che scagionano
il 118.
Tania Egitto, la mamma della bambina, era andata in ospedale per un malore, ma i medici non si sarebbero
accorti della grave sofferenza fetale in atto e non avrebbero assistito adeguatamente la piccola nelle fasi di
rianimazione. (giusi spica)
La Repubblica Palermo
Neonata morta a Catania i periti scagionano il “118”
NESSUNA malformazione cardiaca. Nessuna colpa imputabile ai soccorsi del 118. La piccola Nicole Di
Pietro è morta per una «grave sofferenza acuta fetale». Una sofferenza in utero sottovalutata dai medici
della clinica privata Gibiino dove la neonata è venuta alla luce il 12 febbraio. Lo scrivono i periti della procura
di Catania. Scagionato il personale del 118, sotto accusa per non avere trovato un posto in terapia intensiva.
SPICA A PAGINA VIII
La morte di Nicole iperiti scagionano il personale del 118
La bambina è deceduta per una sofferenza fetale “Gravi responsabilità della clinica privata Gibiino”
GIUSI SPICA
Quando è nata, la sua vita era già appesa a un filo. Nessun vagito. Nessuna reazione che potesse far
sciogliere in gioia la tensione di mamma e papà in sala parto. Quella mancanza di ossigeno in utero non
riconosciuta o — peggio — sottovalutata aveva già compromesso le sue speranze di sopravvivere. Quel che
è certo è che la piccola Nicole Di Pietro, morta la notte del 12 febbraio dopo la nascita nella clinica Gibiino di
Catania, non aveva nessuna malformazione cardiaca. È morta semmai per «l’arresto irreversibile delle
funzioni vitali consecutiva alla grave sofferenza acuta fetale». Lo scrivono i tre consulenti della procura di
Catania, il medico legale Giuseppe Ragazzi, la ginecologa Claudia Giuffrida e la neonatologa Eloisa Gitto,
che ieri hanno depositato le conclusioni dell’esame istologico e autoptico.
Novantasei pagine in cui il 118, sotto accusa per non aver trovato un posto in Terapia intensiva neonatale a
Catania, è completamente scagionato: «Tutte le questioni inerenti alla organizzazione del Sues 118 (sulle
quali non è compito nostro entrare) non hanno nel caso in esame alcuna rilevanza causale e concausale».
Le responsabilità della morte della neonata — scrivono i consulenti della procura — sono tutte da ricercare
all’interno della clinica Gibiino. Sotto accusa c’è la ginecologa Maria Ausilia Palermo, la cui condotta,
scrivono, «non può essere condivisa». Tania Egitto, la mamma della bambina, era andata in ospedale in
serata per un malore, ma i medici non si sarebbero accorti o avrebbero sottovalutato la grave sofferenza
fetale in atto. Invece di intervenire subito con il taglio cesareo, hanno deciso di aspettare. La bambina è nata
con parto naturale dopo analgesia epidurale poco dopo l’una di notte.
I consulenti della procura censurano anche la condotta del neonatologo Antonio Di Pasquale e
dell’anestesista Giovanni Gibiino che hanno effettuato le prime manovre rianimatorie sulla piccola, così
come gli altri due anestesisti intervenuti in clinica solo successivamente, Adolfo Tomarchio e Sebastiano
Ventura, l’ostetrica Spanò e la dottoressa di guardia Sapienza. Tutto, insomma, quella sera sarebbe andato
storto. Ma i periti vanno oltre. E scrivono che la piccola Nicole si sarebbe potuta salvare. Anzi la prognosi
sarebbe stata favorevole «con alto grado di possibilità prossimo alla certezza», se solo quella sofferenza
fosse stata colta in tempo.
La consulenza tecnica medico— legale per l’accertamento autoptico getta ombre sulla ricostruzione finora
data. La sua morte è stata dichiarata sull’ambulanza privata che la stava trasportando in Terapia intensiva
da Catania a Ragusa. Sotto accusa erano finiti gli operatori del 118 per non aver trovato posto per la piccola
a Catania, e primari e neonatologi dei quattro ospedali catanesi che avevano rifiutato la bambina. «La morte
di Nicole — dice l’avvocato Michele Ragonese che assiste la famiglia Di Pietro — è l’esito di una molteplicità
di concause. Il danno ipossico fetale, imputabile alla ginecologa, è solo il punto di partenza. Poi c’è una
inadeguata assistenza alla nascita che ha contribuito all’aggravarsi del quadro clinico e alla morte,
imputabile al neonatologo e all’anestesista».
Ma nel mirino dei consulenti ci sono anche le gravi «incongruenze » nella cartella clinica della bambina.
Qualcosa, insomma, non torna. Come hanno sempre sostenuto i familiari della piccola. «Quello che abbiamo
sempre supposto, adesso è scritto nero su bianco. Persone che si fanno chiamare medici da subito indagati,
hanno fatto morire la mia bambina», scrive la mamma Tania Laura Egitto su Facebook. Dopo la morte di
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Nicole, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin aveva inviato gli ispettori e messo sotto accusa il sistema
pubblico siciliano, minacciando il commissariamento. E l’assessore alla Salute Lucia Borselino aveva
sospeso l’autorizzazione ai parti nella clinica catanese. «La perizia — dice — è una tappa importante per
accertare la verità».
25 Maggio
Il Sole 24 Ore Sanità
La responsabilità del professionista sanitario dopo la legge Balduzzi
Mariacarla Giorgetti
professore ordinario di Diritto processuale civile e di Diritto fallimentare nell’Università degli Studi di Bergamo
In tema di responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie il decreto legge 13 settembre
2012, n. 158 (coordinato con la legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 e pubblicato in Gazzetta
Ufficiale 10 novembre 2012, n. 263), meglio noto come Decreto Balduzzi, assurge senz’altro a “pietra
miliare” della disciplina.
Particolare rilievo riveste il comma 1 dell’articolo 3 del menzionato decreto, laddove viene espressamente
sancito che l’esercente la professione sanitaria, nello svolgere la propria attività secondo le linee guida e le
buone pratiche accreditate, non risponde penalmente per colpa lieve rimanendo tuttavia fermo l’obbligo di
cui all’articolo 2043 del codice civile.
Imprescindibile comprendere se tale previsione abbia o meno una portata innovativa dal punto di vista della
qualificazione della responsabilità civile dell’esercente le professioni sanitarie.
Il richiamo all’articolo 2043 del codice civile, infatti, permette di ricondurre tale responsabilità all’alveo della
responsabilità di tipo extracontrattuale, con conseguenze rilevanti tanto in tema di prescrizione quanto,
soprattutto, con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova.
Di tutta evidenza, del resto, la differenza intercorrente tra tale ultima prospettazione e l’impostazione di
senso nettamente opposto, maturata sempre nell’ambiente giuridico, che ravvede piuttosto una
responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie nel genus contrattuale, quindi basata sull’articolo 1218
del codice civile, con correlativa prescrizione quinquennale anziché decennale e, soprattutto, con inversione
dell’onere della prova che, secondo tale diverso approccio ermeneutico, non graverebbe più sul terapeuta
stesso bensì sul paziente, ponendo fine a un fenomeno tanto diffuso quanto dannoso, quello della medicina
difensiva (nella sua ambivalente accezione positiva e negativa), motivo di forte distorsione del rapporto tra
esercente le professioni sanitarie e utente finale, un fenomeno certamente inficiante l’interesse di
quest’ultimo nonché ingenerante un continuo proliferare di attività e costi totalmente futili in un’ottica
meramente precauzionale.
Operata questa necessaria premessa, non può che convenirsi sul fatto che la portata innovativa della Legge
Balduzzi, nonché più in generale i fenomeni a essa sottesi e che ne costituiscono il substrato evolutivo
nonché il precipuo intento solutivo, non siano stati colti appieno dalla giurisprudenza e dalla dottrina, le quali
parrebbero a tutt’oggi rimanere ancorate a un modello di responsabilità di certo non attanagliantesi al dato
letterale nonché alla ratio stessa dell’intervento riformatore, ovverosia la responsabilità di tipo contrattuale da
ultimo citata, originata dalla nota teoria del cosiddetto “contatto sociale” recata in plurimi arresti della
Suprema Corte di cassazione susseguitisi a far data dall’ormai lontano limitare del secondo millennio.
Tale interpretazione non ritiene sussistere un vero e proprio contratto tra l’esercente le professioni sanitarie
e l’utente della struttura all’interno della quale quest’ultimo si trovi a operare, quanto piuttosto una sorta di
“contatto sociale” dal quale conseguirebbe incontrovertibilmente un “do#ve#re di protezione” del primo nei
confronti del secondo.
Se si segue tale impostazione, l’esercente le professioni sanitarie, onde andare esente da responsabilità in
caso di intervento non riuscito, sarebbe tenuto a dimostrare di aver assolto con adeguatezza tecnica,
diligenza e prudenza la propria obbligazione, andando incontro alla cosiddetta “probatio diabolica”, gravando
sul paziente il solo onere di allegare l’inadempimento, dimostrando la presenza di un danno o maggior
danno, nonché il nesso di causalità tra il trattamento e il verificarsi del danno medesimo, oltre ovviamente
alla dimostrazione del carattere routinario della prestazione unita all’assenza di specifiche difficoltà.
Di fatto, nella responsabilità contrattuale, l’onere probatorio del danneggiato si alleggerisce, mentre l’onere
del convenuto si appesantisce.
L’esercente le professioni sanitarie si ritroverebbe, dunque, nella certamente non agevole posizione di
dimostrare la professionalità della propria condotta, spesso richiedendosi prove materialmente indisponibili.
Necessario corollario di quanto sopra è il contegno dell’esercente le professioni sanitarie il quale, a fronte del
proliferare delle cause nei suoi confronti nonché della contestuale riduzione degli spazi di difesa a sua
disposizione, è portato ad adottare condotte professionali che non mirano (come invece dovrebbero)
all’esclusivo interesse del soggetto sottoposto alle sue cure, ma appaiono palesemente votate a scongiurare
qualsivoglia rischio, magari anche a discapito delle migliori tecniche offerte in quel dato momento storico
dalla scienza in favore di altre e più desuete che comportino minori difficoltà di esecuzione.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Tale reazione degli esercenti le professioni sanitarie assume i connotati di una vera e propria
spersonalizzazione del rapporto con l’utente finale, trasparendo semmai la chiara volontà di non sbilanciarsi
così da non incorrere in rischi immotivatamente ritenuti eccessivi.
La Legge Balduzzi, già a partire dai suoi lavori preparatori, si proponeva quale obiettivo proprio il
superamento di tali problematiche.
Ma, come s’è detto pocanzi, non di tale avviso risulta essere la Corte di legittimità, nonostante
l’inequivocabile riferimento in essa contenuto all’articolo 2043 del codice civile, la quale non ritiene ci sia
stata agli effetti una concreta modifica del diritto vigente, dovendosi ulteriormente considerare contrattuale la
responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie.
La giurisprudenza a oggi preminente ritiene, infatti, che la legge Balduzzi, nel riferirsi all’articolo 2043 del
codice civile, non abbia inteso configurare la responsabilità civile dell’esercente le professioni sanitarie
necessariamente quale extracontrattuale, intendendo tutt’al più escludere, in tale preciso ambito del ben più
articolato e complesso mondo giuridico, l’irrilevanza della colpa lieve in sede penale.
A differenza dell’atteggiamento restìo della Suprema Corte di cassazione rispetto alle innovazioni proposte
dalla Legge Balduzzi, il Tribunale di Torino dapprima e il Tribunale di Milano successivamente, hanno colto i
princìpi di cambiamento proposti dalla normativa in esame.
L’articolo 2043 del codice civile sarebbe ora la norma da ricondurre alla responsabilità civile dell’esercente le
professioni sanitarie, soluzione che peraltro apparirebbe del tutto in linea con la ratio stessa della Legge
Balduzzi, nata tra l’altro proprio al fine di rispondere a quel sentore diffusosi oltre ogni limite nella prassi,
ovvero di combattere la medicina difensiva.
Fenomeno, come accennato, legato a doppio filo con altra necessità, quella di contenimento degli oneri
risarcitori, realizzabile soltanto attraverso lo sgravio dell’onere probatorio nei confronti del medico.
Del resto, se la responsabilità civile dell’esercente le professioni sanitarie fosse ora riconducibile all’articolo
2043 del codice civile, l’onere probatorio ricadrebbe per lo più integralmente sull’utente finale, sgravandosi il
primo dalla ben più penetrante probatio diabolica.
In particolare, in totale controtendenza rispetto alla Suprema Corte, il Tribunale di Milano giudica troppo
semplicistica la soluzione in base alla quale l’inserimento dell’articolo 2043 del codice civile nella normativa
in esame devesi considerare quale mero frutto di una svista del Legislatore, non potendosi considerare
inesistente tale riferimento o relegato a “legge penale” o “norma eccezionale”.
Non si considera corretta l’applicazione dell’articolo 2043 del codice civile solo nel caso di
proscioglimento/assoluzione in sede penale, poiché ciò creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento.
Non v’è chi non veda, infatti, che se da un lato l’ipotetico esercente le professioni sanitarie giudicato soltanto
in sede civile sarebbe chiamato a rispondere, sulla scorta di tale impostazione giurisprudenziale e dottrinale,
di responsabilità civile contrattuale ex articolo 1218 del codice civile, mentre l’altrettanto ipotetico collega
assolto o prosciolto in sede penale risulterebbe responsabile sulla base dell’articolo 2043 del codice civile
(responsabilità extracontrattuale).
Il Tribunale di Milano omaggia, poi, la disciplina con un’ulteriore differenziazione: l’articolo 2043 del codice
civile sarebbe applicabile nel solo caso di insussistenza di un effettivo contratto tra esercente le professioni
sanitarie e utente finale.
Nel caso in cui, invece, tale contratto fosse esistente, la Legge Balduzzi non avrebbe alcun riflesso sulla
responsabilità civile dell’esercente le professioni sanitarie, continuando ad applicarsi l’articolo 1218 del
codice civile in termini di responsabilità contrattuale.
Ciò che scompare, pertanto, è il solo riferimento giurisprudenziale al “contatto sociale”.
Se, dunque, di contratto possa parlarsi, la responsabilità continuerà a essere contrattuale, se invece tale
contratto non può dirsi configurabile la responsabilità verrà qualificata come extracontrattuale, con tutti i già
esposti nonché evidenti corollari (in pieno favor per l’esercente le professioni sanitarie) in termini di onere
probatorio e tempi di prescrizione.
Quanto alla posizione della struttura sanitaria, il Tribunale di Milano e la Suprema Corte sono conformi e
ritengono che una sua eventuale responsabilità debba qualificarsi come contrattuale ai sensi dell’articolo
1218 del codice civile, sulla base del combinato disposto con l’articolo 1228 del codice civile (responsabilità
per il fatto degli ausiliari).
Diretta conseguenza di tale ultima considerazione svolta, l’utente finale che agisca contro la struttura
ospedaliera ritenendo di essere stato leso nei suoi diritti, godrà, in sede giudiziale, di un onere probatorio
alquanto favorevole. Sarà, infatti, onere del debitore convenuto (la struttura sanitaria) fornire la prova di aver
adeguatamente adempiuto le sue prestazioni.
In sintesi, secondo la giurisprudenza di legittimità (Suprema Corte di cassazione) la Legge Balduzzi non ha
alcuna portata innovativa dal punto di vista della responsabilità civile dell’esercente le professioni sanitarie
mentre per la giurisprudenza di merito (Tribunale di Torino e Tribunale di Milano) la Legge Balduzzi sarebbe
fautrice di un rilevante cambiamento, tanto da tramutare la responsabilità civile del medico da contrattuale in
extracontrattuale, con la precisazione che ciò avviene soltanto nel caso in cui tra esercente le professioni
sanitarie e utente finale non sia stato concluso alcun contratto.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
La Legge Balduzzi non incide, per converso, né sulla responsabilità civile dell’esercente le professioni
sanitarie che abbia effettivamente stipulato un contratto con l’utente finale (responsabilità che rimane, per
l’appunto, contrattuale ex articolo 1218 del codice civile) né sulla responsabilità civile della struttura sanitaria,
che continuerà a rispondere del danno sulla base del combinato disposto degli articoli 1218 e 1228 del
codice civile.
Di talché, se sono convenuti in giudizio sia l’esercente le professioni sanitarie che non abbia stipulato alcun
contratto, sia la struttura sanitaria nell’ambito della quale lo stesso operi, i due soggetti risponderanno del
danno procurato sulla base di due diversi tipi di responsabilità: per il primo extracontrattuale, per la seconda
contrattuale (con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e differente termine di prescrizione
del diritto al risarcimento del danno, come si è più volte esplicitato).
StudioCataldi.it
Cassazione: la mancanza del consenso informato non ha rilevanza penale per l'intervento non
riuscito
In sede penale non si può condannare un medico per un intervento con esito infausto solo perché non ha
assolto l'obbligo di richiedere al paziente il consenso informato.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21537/15.
Secondo la Suprema Corte "In materia di responsabilità medica la mancanza o l’invalidità del consenso non
ha alcuna rilevanza penale dovendosi ritenere che il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta
differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente".
L'obbligo di acquisire il consenso informato, infatti, "non integra una regola cautelare la cui inosservanza
influisce sulla colpevolezza".
C'è una sola ipotesi in cui la mancanza del consenso può avere rilievo nel processo penale, spiegano gli
Ermellini: è il caso in cui la mancata acquisizione del consenso informato si sia tradotta nella l'impossibilità
per il medico "di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un’anamnesi completa".
Nel caso di specie il medico è stato comunque condannato perché sono emersi profili di colpa e i giudici di
merito hanno correttamente stigmatizzato la scelta improvvisa effettuata durante l'intervento di procedere
secondo una tecnica diversa da quella concordata senza che si fosse prima eseguito un esame diagnostico
mirato, cosa che ha determinato l'esito infausto dell'operazione.
Per altri dettagli si rimanda alla lettura del testo integrale della sentenza.
16 Maggio
Doctor 33
Medici di guardia, su obbligo di uscita decisiva perizia del medico legale
«Sulla visita domiciliare del medico di continuità ormai c'è una giurisprudenza con due tipi di sentenze: nel
primo il medico se il paziente chiama "doveva" uscire, nell'altro "poteva non" . La sentenza della Cassazione
10130 del 10 marzo scorso è rivoluzionaria perché per la prima volta il giudice, al di là del merito, aggiunge
un tassello: per pronunciarsi sull'operato del medico si deve disporre di elementi che solo un esperto di
professione come il consulente tecnico d'ufficio può offrire. Dunque si riporta al medico il margine
decisionale sul caso. E lo si ritiene indispensabile». Tommasa Maio segretario Fimmg continuità
assistenziale non è esperta di giurisprudenza ma per lavoro legge tutte le principali sentenze che tirano in
ballo i "medici di guardia". L'ultima riguarda un fatto nel Fermano: un paziente con sintomi riconducibili a
polmonite chiama il medico di guardia che per telefono gli dà indicazioni per il trattamento. Il paziente si
aggrava, trova un'altra via di cura, guarisce e denuncia il medico secondo articolo 328 del codice penale per
rifiuto d'atti d'ufficio; in 1° grado il Tribunale di Fermo lo assolve ma in appello ad Ancona la sentenza è di
senso contrario. Tuttavia, il giudice di 2° grado non ha attivato una perizia, e in terzo grado la Cassazione,
assolvendo il medico, lo bacchetta: proprio per la carenza di documentazione "non si rinvengono nella
decisione della Corte d'Appello i passaggi argomentativi che ribaltano la decisione del giudice di 1° grado".
«Per la Suprema Corte, per ribaltare una sentenza ci vuole il medico», dice Maio. «Leggiamo difatti che la
perizia medico-legale avrebbe reso disponibile "quell'elemento di valutazione aggiuntivo, integrato dalle
indicazioni fornite da un esperto della professione medica, atto eventualmente a consentire un difforme
apprezzamento rispetto a quello operato dal giudice di primo grado"». La letteratura scientifica offre dei
margini al medico per stabilire cosa fare? «L'Accordo nazionale del 2005 fa espresso riferimento a linee
guida, e nella legge Balduzzi l'attenersi a linee guida solleva il medico da responsabilità - dice Maio - tuttavia
le indicazioni in uso non sono sistematizzate ed adottate allo stesso modo in tutta Italia. Peraltro, noi medici
di continuità assistenziale saremmo avvantaggiati dal conoscere i nostri pazienti e dall'usare una cartella
clinica comune con il medico di assistenza primaria: questo soprattutto ridurrebbe i margini d'errore. Ecco
perché chiediamo il ruolo unico, stufi di essere ghettizzati e, in Fimmg, lottiamo per una nuova convenzione,
al punto da scioperare tutti insieme, giovani e vecchi, medici di giorno e della notte, non per motivi economici
ma per salvare il Servizio sanitario». Mauro Miserendino
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Doctor 33
Taglio cesareo eseguibile anche da un solo medico, coadiuvato da uno strumentista
Ove l'arrivo del primario ritardi, l'aiuto deve senz'altro procedere oltre e non già rinviare l'intervento urgente,
in attesa del medesimo, il quale può risultare attardato da una qualsivoglia evenienza (es., dal traffico
intenso, da un infortunio, ecc.) che gli impedisca di giungere con la necessaria tempestività presso la
struttura sanitaria. Ne consegue che, informato il primario, era dovere dell'aiuto far predisporre la sala
chirurgica, far preparare la paziente e atteso il ritardo maturato dal predetto nonchè stante l'urgenza,
avrebbe dovuto procedere senza indugio ad operare, assumendosene tutte le responsabilità.
(Avv. Ennio Grassini - www.dirittosanitario.net)
14 Maggio
La Repubblica
Muore dopo il ritocco estetico agli occhi
Milano, l’infermiera 46anne si era sottoposta a un intervento alle palpebre: vittima di uno shock anafilattico
La procura apre un’inchiesta per omicidio colposo: era noto che soffrisse di numerose allergie
ALESSANDRA CORICA FRANCO VANNI
MILANO .
Shock anafilattico. È la più probabile causa di morte di una donna di 46 anni, entrata in sala operatoria per
un piccolo intervento di chirurgia estetica alle palpebre e morta dopo sei giorni di coma. La paziente —
allergica a diverse sostanze — potrebbe avere avuto una reazione durante l’operazione, forse all’anestesia o
ai disinfettanti. Ma bisognerà aspettare l’esito dell’autopsia per capire cosa sia successo. Rosa Angela
Lavorgna, infermiera di Villanova Sillaro in provincia di Lodi, è morta martedì sera all’ospedale
Fatebenefratelli. Sul caso, la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta. Il procuratore aggiunto Nunzia Gatto,
a capo del dipartinento Ambiente e salute, ha affidato il caso alla pm Alessia Miele. Il fascicolo d’indagine,
per omicidio colposo, è al momento aperto a carico di ignoti.
La donna si era sottoposta a un intervento di blefaroplastica superiore, vale a dire la riduzione chirurgica
della pelle in eccesso sulle palpebre. Un’operazione che generalmente non dura più di mezz’ora e che viene
eseguita in anestesia locale, con l’eventuale somministrazione di sedativi. L’infermiera aveva scelto di
operarsi al Centro medico Montenapoleone, piccola struttura privata a Milano in zona San Babila, a due
passi dal Quadrilatero della moda. Una clinica nota per interventi estetici di “bassa soglia”, senza ricovero.
Durante l’operazione, programmata per il pomeriggio del 6 maggio, il battito cardiaco della paziente è
diminuito fino a fermarsi. Alle 17.30 dalla clinica è partita la chiamata al 118. All’arrivo dei soccorritori, i
medici del centro Montenapoleone erano impegnati nelle manovre di rianimazione. Il cuore ha ricominciato a
battere, ma la donna non ha ripreso conoscenza: è entrata in coma e non si è più svegliata. É in queste
condizioni che è stata portata in ambulanza all’ospedale pubblico Fatebenefratelli, dove è stata ricoverata in
Rianimazione. Martedì i medici hanno verificato la scomparsa dell’attività celebrale. Dopo gli accertamenti di
sei ore previsti per legge è stata dichiarata la morte.
Rosa Angela Lavorgna lascia il marito, titolare di un autolavaggio, e un figlio di quindici anni. La donna per
vent’anni è stata infermiera all’ospedale Maggiore di Lodi, prima nel reparto di urologia, poi in chirurgia
vascolare e otorinolaringoiatria. A ricordarla, oltre alla famiglia e ai colleghi, è tutta la cittadinanza di
Villanova Sillaro a partire dal sindaco Moreno Oldani, di cui la famiglia è amica. Il corpo è a disposizione
dell’autorità giudiziaria, che dovrà fissare la data dell’autopsia.
Corriere della Sera Milano
Muore dopo la chirurgia estetica Choc nella clinica del Quadrilatero
L’infermiera, 46 anni, si era sottoposta a un intervento alle palpebre Arresto cardiaco durante la seduta, il
decesso dopo sette giorni in ospedale Il ringiovanimento dello sguardo è l’intervento di chirurgia estetica più
praticato in Italia dopo la liposuzione (l’eliminazione del grasso in eccesso). Ma in un ambulatorio privato nel
cuore di Milano, il Centro medico Montenapoleone di corso Matteotti 1, è costato la vita a una donna di 46
anni, Rosa Angela Lavorgna, un’infermiera di Lodi. L’ipotesi al momento più probabile è lo shock anafilattico,
una grave reazione allergica a rapida comparsa che può essere stata scatenata dal farmaco-tranquillante
usato per l’anestesia.
La donna si è sottoposta alla blefaroplastica, come tecnicamente viene chiamato l’intervento alle palpebre,
mercoledì scorso, il 6 maggio. Rosa Angela Lavorgna entra in sala operatoria dopo le cinque di pomeriggio.
Quasi subito, intorno alle 5.30, il suo cuore smette di battere. Lo staff del Centro medico Montenapoleone
tenta subito di rianimarla, in attesa dell’arrivo dei soccorsi. I medici del 118 riescono a fare ripartire il cuore,
ma l’infermiera di Lodi, sposata con il titolare di un autolavaggio e madre di un ragazzo 15enne, è ormai
incosciente. Coma post-anossico. Vuol dire che il sangue non arriva al cervello per troppo tempo, con una
carenza di ossigeno che può portare a danni irreversibili. La Terapia intensiva più vicina è quella
dell’ospedale Fatebenefratelli, dove la paziente viene immediatamente trasportata. Ma la speranza iniziale
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
dei medici di riuscire a salvarla si affievolisce ora dopo ora. Martedì mattina, sette giorni dopo l’operazione di
ringiovanimento del viso, la donna muore.
Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta della Procura seguita dal pm Alessia Miele. Le indagini sono svolte
dalla polizia. E ieri sono stati ascoltati i vertici della clinica. In Rete il Centro medico Montenapoleone si
promuove come «una struttura di riferimento per la medicina e chirurgia estetica, la medicina preventiva e
anti-aging e la dermatologia. Il Centro dispone di un’équipe di medici di eccellenza con fama internazionale
che si avvalgono di tecniche chirurgiche e non in continuo aggiornamento».
Ma davvero questo ambulatorio privato, tra piazza San Babila e via Montenapoleone, ha una qualità
indiscussa, degna della location di prestigio in cui si trova? La sua filosofia di business è improntata alla
massima serietà oppure la tendenza è di fare interventi di chirurgia estetica a ripetizione per guadagnare il
più possibile? E, poi: l’anestesia in caso di blefaroplastica di solito è solo locale, ma spesso viene abbinata a
una sedazione per tranquillizzare il paziente. In sala operatoria con Rosa Angela Lavorgna c’era solo il
chirurgo o anche l’anestesista, come in teoria dovrebbe essere per garantire la massima sicurezza? Tutti
interrogativi a cui cercherà di dare una risposta la Procura.
Nei prossimi giorni sarà eseguita l’autopsia: e solo allora i contorni della vicenda potranno essere chiariti. Si
rincorrono mille ipotesi. Ma gli inquirenti non escludono che la morte di Rosa Angela Lavorgna possa essere
stata scatenata proprio da una reazione allergica a un medicinale utilizzato per l’anestesia. Se è così si apre
un’altra questione: la paziente è stata sottoposta a tutti gli esami necessari?
Per il momento c’è solo la disperazione della famiglia e il dolore dei colleghi. Rosa Angela Lavorgna, di casa
a Villanova Sillaro, un piccolo paese nel Lodigiano, lavorava da vent’anni come infermiera nel reparto di
Urologia di Lodi. E ieri all’ingresso dell’ospedale sono comparsi manifesti di cordoglio.
Dieci anni fa, sempre a Milano, c’era stato un altro scandalo per un intervento di blefaroplastica: nel 2004
una donna di 62 anni, Chiara Pozzi Giacosa, era rimasta cieca per un’infezione seguita all’operazione. Per
questo aveva denunciato il chirurgo, il medico che l’aveva curata e l’esclusiva clinica milanese, la
Madonnina, dove era stata operata.
Simona Ravizza
Corriere della Sera Milano
Il richiamo di Campagna: «Nessuna operazione è una banale passeggiata Mai sottovalutare i rischi»
«Nessun intervento chirurgico è una passeggiata».
Franco Campagna, 65 anni, fa il chirurgo plastico da 40 ed è il più anziano del Policlinico: «Nessuna
operazione, anche se apparentemente banale, va sottovalutata».
Quali i rischi della blefaroplastica?
«L’intervento, che mira alla correzione della pesantezza delle palpebre, può scatenare infezioni che portano
alla cecità, emorragie e shock anafilattico».
La reazione allergica è una delle ipotesi in campo per la morte di Rosa Angela Lavorgna. Ma da che
cosa può dipendere?
«L’intervento viene svolto in anestesia locale. Può durare dai 45 minuti all’ora e un quarto: spesso, dunque,
la paziente viene anche sedata, con farmaci endovena. Sono tutti medicinali che possono scatenare uno
shock anafilattico, come del resto l’anestesia stessa del dentista. Certo, durante gli interventi estetici la
presenza di un anestesista è una garanzia».
Ma l’anestesista di solito è presente?
«Raramente».
Anni fa proprio a Milano aveva fatto scandalo un intervento di blefaroplastica che aveva portato alla
cecità. Come può succedere?
«Quando si eliminano le borse sotto gli occhi viene raggiunta la parte profonda dell’orbita dove può rimanere
un vaso che sanguina, difficilmente visibile all’esterno. Ci può essere anche la compressione del nervo ottico
con la perdita totale della vista».
Altri rischi?
«Un altro problema è la possibilità di crisi vaso-motorie causate da un brusco calo di pressione. L’occhio è
un organo particolarmente delicato e uno scombussolamento emotivo può provocare una diminuzione della
pressione con aumento del ritmo cardiaco».
Quali garanzie deve chiedere chi vuole sottoporsi a un intervento di chirurgia estetica?
«Il fatto che l’intervento venga svolto in regime ambulatoriale, ossia senza un ricovero e con dimissioni in
giornata, non deve trarre in inganno: la presenza di una sala operatoria vera e propria — sterile e con tutti i
farmaci e le attrezzature di primo intervento — è fondamentale. Ci vogliono il respiratore e i medicinali come
l’adrenalina e il cortisone. Ma se il rischio sale, per esempio in presenza di allergie già conosciute, è meglio
operarsi direttamente in una struttura più attrezzata».
Il suo messaggio?
«Ribadisco: un intervento può essere semplice ma ciò non vuol dire che è senza rischi. Scegliere bene la
struttura è fondamentale». S. Rav.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Doctor 33
Mediazione nella responsabilità medica: legittima la Ctu anche in assenza di una delle parti
Prima dell'introduzione di un giudizio di responsabilità medico-sanitaria, la parte attrice ha attivato un
procedimento di mediazione obbligatoria al quale la struttura sanitaria, pur avendo ricevuto la convocazione,
non si è presentata. Il mediatore dell'organismo, su richiesta della paziente, ha nominato un medico legale, il
quale ha depositato una relazione contenente una affermazione di responsabilità medica in relazione ad un
intervento di cataratta durante il quale si era verificata una "piccola deiscenza", cioè la rottura della capsula
posteriore dell'occhio. Nel corso del giudizio civile successivamente intentato, il giudice ha ritenuto che non
sussistono valide ragioni di diritto per escludere la possibilità che, anche in assenza (per mancanza di
adesione e partecipazione) della parte convocata, possa essere disposta una consulenza richiesta dal solo
istante presente e, alla luce della stessa relazione medica, ha formulato egli stesso una proposta transattiva.
Ha evidenziato, infatti, l'assenza di trascrizioni nella cartella di indicazioni e descrizioni delle ragioni e delle
modalità dell'evento, nonché il fatto che le difese dei medici si siano limitate alla sola reiterata osservazione
che si tratti di una complicanza, il che non può di per sé essere risolutivo di ogni interrogativo circa l'assenza
di errori ed imperizia sia nella sua verificazione che nei provvedimenti necessari ed utili per porvi rimedio.
[Avv. Ennio Grassini - www.dirittosanitario.net]
11 Maggio
IlSole24Ore Sanità
Non c'è rifiuto di atti d'ufficio se la guardia medica ritiene superfluo fare la visita domiciliare
di Giuseppe Amato
Non risponde del delitto di rifiuto di atti d'ufficio il medico che, durante il turno di guardia medica, anziché
recarsi di persona a visitare il paziente che denunci i sintomi di una malattia, ritenga sufficiente prescrivere
una terapia farmacologica.
Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 10130 del 2015 .
La vicenda processuale - All'imputato era stato contestato, nella qualità di sanitario in servizio di guardia
medica, di essersi rifiutato di effettuare una visita domiciliare nei confronti di un paziente, nonostante i
sintomi deponessero per una manifestazione di una polmonite lombare media, e di essersi limitato a
prescrivere, per telefono, le terapie farmacologiche del caso.
In primo grado, si era pervenuti a una pronuncia di assoluzione, ribaltata in grado di appello: la Corte di
secondo grado, valorizzando diversamente la testimonianza della moglie del paziente, riteneva che il quadro
sintomatologico avrebbe preteso un più adeguato approfondimento, da eseguire mediante esame clinico
diretto che solo la visita domiciliare richiesta poteva assicurare.
La Cassazione ha annullato senza rinvio la decisione ritenendo immotivato il capovolgimento della sentenza
di primo grado, effettuato senza avere svolto neppure un approfondimento medico legale, ma soprattutto
senza che la censura sulla determinazione discrezionale del medico, implicante comunque valutazioni di
natura tecnica, fosse stata adeguatamente supportata dal punto di vista probatorio.
Forse l'annullamento con rinvio sarebbe stata la decisione più corretta, con l'onere per il giudice del rinvio di
sottoporre la vicenda a una rinnovata disamina in grado di supportare meglio, nel caso, la censura sul
comportamento del sanitario.
Ragioni di economia processuale hanno consigliato di privilegiare la strada dell'annullamento senza rinvio.
E tale soluzione convince ove si consideri che il processo, a tacer d'altro, risultava instaurato già per una
fattispecie incriminatrice inconferente al tema: risulta dalla motivazione la contestazione del reato di
omissione di atti d'ufficio (ossia, la fattispecie prevista dall'articolo 328, comma 2, del Cp ) anziché, più
correttamente, quella di rifiuto di atti d'ufficio di cui alcomma 1 dell'articolo 328 del Cp .È stato giusto, allora,
chiudere questa pagina giudiziaria.
La valutazione discrezionale - La sentenza della Cassazione, al di là della specificità del caso concreto,offre
il destro perché consente di fare il punto su una problematica interpretativa, in tema di rifiuto di atti d'ufficio,
oltremodo delicata: quella riguardante la configurabilità del reato previsto dall'articolo 328, comma 1, del Cp ,
che presuppone pur sempre che il rifiuto riguardi un atto dovuto, allorquando si verta in materie
caratterizzate da ampi margini di valutazione discrezionale - soprattutto, di discrezionalità tecnica - in capo al
soggetto (il medico) richiesto del compimento dell'atto stesso.
In proposito, la Corte non rinnega la precedente consolidata giurisprudenza, contribuendo anzi a chiarirla
ulteriormente laddove richiama l'attenzione del giudice di merito sulla doverosa attenzione che si deve avere
quando si procede a sindacare la determinazione del medico.
Rifiuto di atti d'ufficio e attività medica - Il tema è quindi quello delle condizioni e dei limiti che consentono di
fondare la sussistenza del reato di rifiuto di atti d'ufficio a carico di un sanitario che ricusi il compimento di un
atto medico.
La delicatezza della questione si pone in ragione del fatto che il sindacato del giudice penale ha a oggetto,
come si è accennato, decisione alla cui base sono valutazioni di natura tecnica.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
In tali situazioni, può non essere semplice, per il giudice penale, procedere al “sindacato” della condotta del
soggetto che abbia “rifiutato” di compiere un atto del proprio ufficio, per il rischio di sconfi-namento nel
“merito” della discrezionalità tecnica riservata all'agente (per quanto interessa: nel merito della scelta
terapeutica attribuita all'apprezzamento tecnico del medico).
In proposito, rimanendo alla materia sanitaria, è innegabile che non può farsi discendere il reato, sempre e
automaticamente, dal fatto obiettivo del rifiuto dell'intervento, non potendosi negare che al sanitario compete
(o può competere) un ambito di valutazio-ne discrezionale in ordine alla fattibilità, all'opportunità o alla
eseguibilità dell'intervento richiestogli.
Né può confondersi il piano della valutazione del rifiuto ex articolo 328 del Cp con quello della valutazione
della eventuale colpa professionale (errore diagnostico o altro) che sia stata la causa dell'omissione di
intervento, giacché, anzi, proprio l'accertata sussistenza di un errore di giudizio sulla sussistenza delle
circostanze che rendo-no o no l'atto indifferibile, implica il venir meno del dolo richiesto dalla fattispecie
incriminatrice.
In tale evenienza, piuttosto, il comportamento colposo del medico potrà essere censurato invocando la
disciplina sanzionatorio dell'omicidio o delle lesioni personali colposi, con riferimento ai danni che il paziente
abbia subito per l'erroneo approccio terapeutico, ossia per l'omissione o il ritardo, colposamente determinati,
nella diagnosi e/o nelle cure.
In realtà, per la sanzionabilità del rifiuto, ex articolo 328, comma 1, del Cp , occorre che questo risulti
illegittimo, antidoveroso e assistito dal dolo, e solo come tale sindacabile dal giudice pena-le, senza
tracimare in valutazioni proprie della colpa professionale sanitaria, che esulano dalla struttura psicologica
(dolosa) del reato (si veda, efficacemente, Cassazione, sezione III, 6 dicembre 1995, Sonderegger; nonché,
più di recente, Cassazione, sezione VI, 27 settembre 2012, X.).
La rilevanza penale del rifiuto - La rilevanza penale ex articolo 328, comma 1, del Cp del rifiuto è quindi
subordinata a rigorose condizioni oggettive e soggettive.
Sotto il profilo oggettivo, occorre la verifica positiva della doverosità e indifferibilità della condotta rifiutata.
Ciò che si verifica quando le condizioni del paziente siano tali, per come rappresentate al medico, da
imporre un sollecito e indilazionabile intervento per l'esistente pericolo di conseguenze dannose alla salute
della persona, ovvero quando il sollecito e indilazionabile intervento sia comunque imposto dalla disciplina
organizzativa di settore oppure dalla specificità del funzioni svolte dal sanitario.
Mentre, sotto il profilo soggettivo, per la rilevanza penale della condotta omissiva, occorre l'accertamento
della consapevolezza da parte del sanitario di rifiutare un atto doveroso e indilazionabile e di violare, per
effetto del rifiuto, i doveri di intervento impostigli, vuoi dalle emergenze fattuali della vicenda concreta, tali
appunto da imporre l'intervento sollecito e indilazionabile, al fine di evitare anche la sola possibilità di
conseguenze dannose dirette sul bene della salute fisica o psichica dell'utente, vuoi comunque da una
regola comportamentale impe-rativa derivante dalla legge o dalle specificità delle mansioni svolte.
Non va dimenticato, a tale riguardo, che per la configurabilità del dolo del reato di cui all'articolo 328, comma
1, del codice penale, occorre nell'agente non solo la consapevolezza e la volontà di rifiutare un atto dovuto,
ma anche la consapevole volontà, che così operando, egli agisce indebitamente e cioè in violazione dei
doveri impostigli (Cassazione, sezione VI, 15 aprile 2003, Zurzolo e altro).
Il sindacato del giudice - La valutazione della doverosità dell'intervento rifiutato, ai fini dell'eventuale
configurabilità del reato va effettuata in concreto, senza trascurare la peculiarità del singo-lo caso, in base
alle indicazioni ricavabili dalla normativa relativa alla materia cui l'atto attiene ovvero, quando manchi un
fondamento normativo direttamente disciplinante l'obbligo di intervento, in base a quelle fornite dalla scienza
e dall'esperienza della professione medica, indicanti inequivocamente la necessità indilazionabile
dell'intervento del sanitario, vuoi per ragioni connesse all'urgenza sostanziale desumibile dalle condizioni del
paziente vuoi per ragioni connesse alle specifiche funzioni svolte dal sanitario.
È nel rispetto di queste condizioni ed entro questo ambito valutativo che potrà ritenersi sussistente, per
l'operatore sanitario, un margine di discre zionalità in ordine al rinvio o al non compimento dell'atto dovuto,
incensurabile in sede penale e tale da escludere la rilevanza penale della condotta.
Il dovere d'intervento imposto dall'urgenza sostanziale - Il sindacato giudiziale è particolarmente delicato
allorquando si discuta di un dovere di intervento imposto dalle condizioni di indifferibile urgenza sostanziale,
implicando una attenta disamina delle specificità del caso concreto.
Il giudice deve controllare l'esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario e concludere che
esso trasmoda in arbitrio, con conseguente configurabilità del reato, (solo) se tale esercizio non risulti
sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli medici per esso richiamabili
(sezione VI, 6 luglio 2011, Romano; sezione VI, 30 ottobre 2012, Tomas).
Non vi è ovviamente alcun automatismo valutativo. Emblematica, in proposito, è, per esempio, la vicenda
processuale che ha portato la Corte di legittimità ad annullare la condanna pronunciata in sede di merito nei
confronti di un medico cui era stato contestato di avere omesso di ricoverare nel reparto di chirurgia
dell'ospedale, come richiestogli via telefonica dal medico di turno di altro ospedale, una paziente in preda a
forti dolori addominali per colica biliare in atto. Secondo la Corte, infatti, la natura della patologia
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
diagnosticata dal medico e comunicata telefonicamente all'imputato non presentava connotazioni che
impedissero un idoneo trattamento presso l'ospedale ove la paziente era in atto ricoverata e imponessero il
trasporto notturno presso il reparto di chirurgia di un'altra struttura, tanto più in mancanza dell'effettuazione
da parte del responsabile della prima struttura sanitaria di ulteriori elementari accertamenti utili a dare un
quadro realistico della situazione in atto, al di là della soggettiva allarmata opinione del medico che ebbe a
visitare la paziente.
Una conferma ulteriore dell'assenza delle condizioni di indifferibilità dell'intervento doveva ricavarsi, secondo
la Corte, anche dal fatto che l'intervento chirurgico, a cui venne poi sottoposta la paziente, era avvenuto a
distanza di ben dodici giorni, così da confermare l'assenza della urgente necessità che la paziente fosse
dirottata su un altro ospedale (sezione VI, 15 ottobre 2009, Dittoni).
Il dovere d'intervento imposto dalla legge - Il sindacato giudiziario è più semplice per le ipotesi del medico di
guardia e del medico di pronta reperibilità, dove a supporto del dovere di intervento vi sono specifiche
indicazioni normative.
Infatti, con riguardo al medico di guardia, l'articolo 13 del Dpr 25 gennaio 1991 n. 41 prevede a carico di
questi l'obbligo di rimanere a disposizione, durante il turno, «per effettuare gli interventi domiciliari o a livello
territoriali che gli saranno richiesti» e di «effettuare al più presto gli interventi che gli sia no richiesti
direttamente dall'utente». La necessità e l'urgenza dell'intervento dovranno essere apprezzate dal sanitario
richiesto, come si desume indirettamente dal comma 4, lettera e) dello stesso articolo 13, che prescrive
l'annotazione dell'ora in cui l'intervento è stato effettuato ovvero della motivazione del mancato intervento,
presupponendo perciò che esso possa anche non aver luogo per determinazione del sanitario.
Tale determinazione può e deve essere sindacata dal giudice alla luce degli elementi di fatto a sua
disposizione, onde accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata oppure se la
stessa costituisca un mero pretesto per giustificare l'inadempimento del dovere. Questa valutazione in ordine
alla esistenza del connotato dell'urgenza, e, cioè, dell'indifferibilità dell'atto richiesto e dall'agente rifiutato,
deve essere ovviamente eseguita ex ante, sulla base delle cognizioni accessibili all'agente al momento della
richiesta e della rappresentazione della situazione di fatto da parte del richiedente, dovendosi escludere il
dolo del reato nel caso in cui tale rappresentazione sia stata difettosa e il suo difetto abbia influito sulla
valutazione operata dal soggetto richiesto dell'atto; e dovendosi, per converso, ritenere il reato allorquando
al sanitario, che abbia ricusato di intervenire, sia stata rappresentata obiettivamente una situazione di grave
sintomatologia imponente l'intervento, pur se poi le condizioni del paziente non siano risultate gravi in
concreto.
Mentre, con riferimento al servizio di reperibilità, la disciplina trova il suo fondamento nell'articolo 25 del Dpr
n. 348 del 1983 , che impone la concreta e permanente reperibilità del sanitario e l'immediato, inderogabile
intervento di questi nel reparto entro i termini concordati e prefissati, una volta che dalla sede ospedaliera ne
sia stata sollecitata la presenza.
Su questi presupposti, concretandosi l'atto dovuto nell'obbligo di assicurare comunque l'intervento nel luogo
di cura, il sanitario non può sottrarsi alla chiamata deducendo che, secondo il proprio giudizio tecnico, non
sussisterebbero i presupposti dell'invocata emergenza.
L'obbligo di recarsi in ospedale a visitare il paziente, in questo caso, si configura in termini formali, senza
possibilità di sindacato a distanza da parte del sanitario chiamato. Con la conseguenza che l'apprezzamento
tecnico non sindacabile riguarda solo il post rispetto all'intervento in loco: ossia, la determinazione del
medico, dopo la visita effettuata, sul tipo di intervento da praticare.
E con l'ulteriore conseguenza che il rifiuto indebito di intervento va apprezzato e valutato avendo riguardo al
momento in cui al sanitario è rappresentata la richiesta di intervento, essendo irrilevante il concreto esito
dell'omissione (sezione VI, 22 gennaio 2004, Galli): questo esito, potrà semmai fondare un ulteriore profilo di
responsabilità laddove l'omissione abbia contribuito alla verificazione di un danno per il paziente, impedendo
di salvarlo ovvero provocando al medesimo conseguenze patologiche suppletive.
Una decisione corretta - Alla luce di quanto esposto, la decisione è convincente, giacché, con riguardo al
medico di guardia, si è sopra richiamata la disciplina di settore che attribuisce al sanitario il potere di
motivatamente non eseguire la visita domiciliare, onde, il sindacato del giudice può condurre alla condanna
solo se si accerti o la pretestuosità della motivazione o la ricorrenza di condizioni obiettive e obiettivamente
rappresentate al medico che gli avrebbero imposto di intervenire per la riferita sussistenza di una
sintomatologia grave non affrontabile solo con la prescrizione di farmaci.
Secondo la Corte, mancava nella decisione di condanna qualsiasi approfondimento sul tema, non potendosi
per l'effetto giustificare la conclusione di censura della scelta del medico di non effettuare la visita
domiciliare.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
7 Maggio
Il Sole 24 Ore
Tribunale di Roma. La sentenza delinea i confini della responsabilità contrattuale di dottori e
strutture
Medici, il danno va specificato
Il paziente deve individuare l’inadempimento e l’addebito
Il paziente (presunto danneggiato) che agisca in giudizio facendo valere una responsabilità civile medicosanitaria a fini risarcitori deve allegare la mancata guarigione o l’aggravamento della patologia di ingresso e i
profili di inadempimento del medico e/o della struttura nosocomiale.
I medici, d’altro canto, sono gravati dell’onere della prova che l’inadempimento non vi è stato affatto o se vi è
stato, non è dipeso da causa ad essi imputabile ovvero non è stato causa del danno.
Dal punto di vista del nesso eziologico, ove il giudice non sia in grado di accertare in modo certo e pieno, in
base al principio del libero convincimento, la derivazione del danno dalla condotta del medico e/o della
struttura di cura, occorrerà verificare se in mancanza della condotta sanitaria censurabile (ovvero in
presenza di una condotta più appropriata ed omessa) i risultati (in termini di normalità applicata alla singola e
complessiva fattispecie) sarebbero stati diversi e migliori per il paziente secondo il principio del “più
probabile che non”.
Sono queste le conclusioni cui perviene l’ampia e articolata sentenza del Tribunale di Roma (giudice
estensore Moriconi) depositata il 30 aprile. Nel caso concreto all’esame del giudice capitolino gli eredi del
paziente avevano chiamato in giudizio due strutture ospedaliere presso le quali era stato ricoverato un loro
congiunto poi deceduto a causa di una serie di lamentate negligenze.
Con la sentenza il tribunale capitolino rigetta la domanda contro uno dei nosocomi ritenuti responsabili e con
separata ordinanza nomina il consulente tecnico d’ufficio per l’approfondimento istruttorio nei confronti
dell’altro ospedale convenuto. Il rigetto consegue a una allegazione priva di specificità, non riuscendo a
soddisfare il necessario onere del presunto danneggiato di indicare non genericamente quale sia
l’inadempimento qualificato che si addebita al medico e/o alla struttura nosocomiale.
Il tribunale romano, partendo da una puntuale ricostruzione dei princìpi formulati dalla Cassazione, nel cui
solco si muove la decisione (si veda Cassazione, Sezioni unite, 577/2008), pone in rilievo come dalla ormai
acclarata ricostruzione della responsabilità in termini contrattuali - dalla quale deriva che il paziente ha
l’onere (solo) di allegare il contratto e il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto
a provare né la colpa del medico né quella della struttura – non possa conseguire l’ammissibilità di azioni
esplorative.
Infine, i giudici precisano nella sentenza che, nonostante il paziente, alla stregua della giurisprudenza
attuale, non abbia altri e particolari oneri probatori ciò non consente certo di precludere al giudice di
accertare la verità iuxta alligata et probata partium nonché utilizzando strumenti (come la consulenza tecnica
d’ufficio) che non appartengono alla esclusiva disponibilità delle parti. E ancor meno che ne vengano private
le parti che sono gravate da quegli oneri di prova e che formulino richieste istruttorie (anche di Ctu).
La Sentenza
http://www.sanita24.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_SANITA/Online/_Ogget
ti_Correlati/Documenti/2015/05/08/sentenzaroma.pdf
Marco Marinaro
Doctor33
Esercizio abusivo della professione medica da parte dell'infermiere
La Corte d'appello di Torino ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale della stessa città aveva
condannato alla pena di giustizia un infermiere di uno studio infermieristico associato operante in una casa
di riposo imputato per aver somministrato alcuni farmaci ai pazienti senza la prescrizione medica
obbligatoria esercitando dunque la professione medica. La Corte di cassazione nel rigettare il ricorso ha
evidenziato che il reato di abusivo esercizio di una professione ha infatti natura di reato istantaneo sicché,
per la sua consumazione, è sufficiente il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione.
[Avv. Ennio Grassini- www.dirittosanitario.net]
Quotidiano Sanità
Cassazione. Confermata condanna per infermiere che aveva somministrato farmaci senza
prescrizione del medico
Era stato accertato che in almeno nove occasioni aveva somministrato farmaci soggetti a prescrizione
medica nelle strutture sanitarie dove lavorava. Ma la Corte sembra “aprire” alla possibilità di prescrizioni
“orali” del medico.
LA SENTENZA - http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7275250.pdf
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Viene contestato a un infermiere la somministrazione di farmaci senza prescrizione medica in una casa di
riposo. Il reato contestato è l’esercizio abusivo della professione (medica) ex articolo 348 codice penale (cp).
Come è noto il codice penale punisce “chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è
richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato” con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da
103 a 516 euro.
L’oggetto giuridico del reato mira a tutelare che determinate attività, in relazione alla loro peculiarità, “siano
svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo
stato” (D’Ambrosio, 1986).
L’articolo 348 cp è però una “norma penale in bianco” ovvero rimanda alle normative di settore di abilitazione
all’esercizio professionale. La materia della prescrizione farmacologica è, da sempre, monopolio esclusivo
della professione medica, fatta salva l’ormai ampia categoria dei farmaci O.T.C. – over the counter, “da
banco” - per i quali non è prevista la prescrizione.
Ricordiamo che è sufficiente anche una singola prestazione “abusiva” per integrare il reato e non è
necessario il fine di lucro.
I giudici di merito – sia di Tribunale che di Corte di appello – hanno accertato che “in almeno nove occasioni,
a diversi pazienti ricoverati nelle strutture sanitarie ove egli prestava l'attività di infermiere, ha somministrato
farmaci per i quali era necessaria la prescrizione medica, essendo privo della qualifica professionale
richiesta ed in assenza di prescrizione di un sanitario”. Tra l’altro, è stato notato non vi erano presenti
verbalizzazioni di prescrizione non solo nel “diario clinico” e nel “piano terapeutico del paziente”, ma
nemmeno le verbalizzazioni di dubbia legittimità come le “prescrizioni al bisogno”.
La Cassazione (Corte di Cassazione, IV sezione penale, sentenza 17 aprile 2015, n. 16265) conferma tutto
l’impianto accusatorio e la relativa sentenza e riporta quanto argomentato proprio nei precedenti gradi di
giudizio, tra cui le dichiarazione di un medico e di un’infermiera della struttura i quali sostenevano che la
prescrizione di tale tipologia di farmaci “poteva essere certamente impartita dal sanitario oralmente per
telefono e, nondimeno, della prescrizione orale del medico avrebbe dovuto necessariamente essere lasciata
traccia scritta sul quaderno infermieristico, nella specie del tutto mancante”.
Quindi era necessaria una prescrizione tautologicamente “scritta” oppure, in sua mancanza, una
prescrizione verbale o telefonica riportandone traccia nella documentazione infermieristica.
Sul punto, argomentando più in materia di sicurezza e di prevenzione degli errori che non in punto di
legittimità, il Ministero della salute è intervento nel 2008 con una Raccomandazione ministeriale, la numero
7, dove si precisava che nelle prescrizioni farmacologiche andava evitata la frase “al bisogno”, “ma, qualora
riportata, deve essere specificata la posologia, la dose massima giornaliera e l’eventuale intervallo di tempo
fra le somministrazioni”. Norme simili sulla prescrizione telefonica.
Successivamente nella Raccomandazione ministeriale n. 14 del novembre 2012 il ministero individua come
cause di errore nella somministrazione proprio la prescrizione verbale e telefonica che comunque rimane di
largo uso nelle strutture per sopperire alla carenza della presenza medica nelle ventiquattro ore tenendo
conto che, in alcune strutture, come le Residenze la presenza continuativa del medico non è proprio
contemplata.
Dato che le Raccomandazioni ministeriali sono, a pieno titolo, da considerarsi “buone pratiche” per la
sicurezza delle cure diventa interessante capire cosa possa succedere in caso di contenzioso e, se la
mancata osservanza, possa essere giudicata negativamente per l’esenzione dalla responsabilità penale
prevista dalla legge Balduzzi.
In punto di diritto, invece, la Cassazione sembra aprire a una legittimità per la “prescrizione non scritta”
rimanendo ovviamente in sospeso tutti i problemi probatori che non vengono certo risolti dalla
verbalizzazione infermieristica della prescrizione medica.
La somministrazione dei farmaci per i quali è richiesta la prescrizione medica integra dunque il reato di
esercizio abusivo della professione medica. Il principio di diritto, consolidato e scontato, è questo.
In una prospettiva de jure condendo, però non possiamo fare a meno di notare come in questo periodo di
dibattito sulle “competenze avanzate e specialistiche”, sulla reale portata del “comma 566” della legge di
Stabilità 2015, sulla ridefinizione dei rapporti tra medici e infermieri, il punto dell’obbligatoria prescrizione
farmacologica per una categoria di farmaci estesissima debba essere ripensato per non fare versare
nell’illegalità quotidiana chi opera soprattutto – ma non soltanto – nelle strutture residenziali o nei piccoli
ospedali.
Forme diversificate e multiformi di una qualche prescrizione “non medica” di farmaci non possono essere
eluse da chi ha a cuore il corretto e regolare svolgimento dell’esercizio professionale.
Certo non aiuta l’attuale formulazione del codice di deontologia medica (Fnomceo, 2014) che con una norma
più giuridica che realmente deontologica specifica che la prescrizione “è una diretta, specifica, esclusiva e
non delegabile competenza del medico”.
Importante sottolineatura può essere quella relativa alla “prescrizione” di farmaci da banco e quindi non
soggetti alla prescrizione medica. Già alcune norme prevedono le prescrizioni anticipate per il tramite di
“protocolli”. La materia merita di essere approfondita e dibattuta.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
E’ sicuramente il momento che le professioni – come auspicato anche da molti interventi proprio su
Quotidiano Sanità – tornino a dialogare per favorire una normazione più adeguata ai tempi e non lasciare
all’azione di supplenza della magistratura il compito di intervenire su questioni che scontano l’inerzia del
legislatore. Luca Benci - Giurista
6 Maggio
Quotidiano Sanità
Responsabilità patrimoniale. Autonomia decisionale medici riconosciuta da Consulta
Gentile Direttore,
la minacciata responsabilità patrimoniale del medico per prescrizione di prestazioni diagnostiche e/o
terapeutiche presuntivamente "inappropriate", termine quanto mai generico e fumoso, mette gravemente a
rischio la serenità del medico che è e continua ad essere il professionista che, nella sua solitudine anche
quando opera in équipe, decide cosa fare sul paziente.
Non va dimenticato che quando si sta male si va alla ricerca del medico giusto, serio e responsabile, cui
affidarsi e che possa prendere la decisione più corretta in serenità. Proprio questa decisione, che
rappresenta emblematicamente l'essenza stessa della professione medica da 25 secoli, è sotto attacco,
attenzione, con rischio di tutti, soprattutto dei più deboli economicamente.
Ma la Corte Costituzionale (il Giudice delle Leggi), i cui pronunciamenti come è noto, ancorché emessi in
occasione di casi specifici, fissano principi generali decontestualizzati, ha più volte ribadito l'autonomia
terapeutica del medico rispetto allo stesso legislatore. Con le sentenze 282/ 2002 e 338/2003 ha sancito
l'illegittimità costituzionale di norme regionali che dettavano limiti all'espletamento di determinati trattamenti
terapeutici: "In materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l'autonomia e la responsabilità
del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali".
Successivamente, con la sentenza 151/2009, la Corte ha inequivocabilmente ribadito riconoscimento e
protezione costituzionale al principio dell'autonomia terapeutica del medico "non è di norma il legislatore a
poter stabilire direttamente o specificamente quali siano le pratiche ammesse, con quali limiti e a quali
condizioni. Poiché la pratica dell'arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono
in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dall'autonomia e dalla responsabilità
del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato
delle conoscenze a sua disposizione".
Dunque limitazioni all'autonomia decisionale del medico, massima garanzia e tutela del malato, trovano in
quanto sancito dalla Consulta un evidente ostacolo giuridico, che, se necessario, potrà e dovrà essere usato
nelle sedi opportune. Ma, e mi dispiace annotarlo, in Italia questo ed altri principi fondamentali ed universali
della professione medica, continuano negli ultimi anni ad essere troppo debolmente rappresentati dalla
FNOMCeO, che più ne avrebbe titolo e dovere.
Quei principi infatti, valori che vanno protetti, custoditi, studiati e soprattutto indicati con autorevolezza ai
giovani medici-chirurghi, vengono spesso confusi con la naturale evoluzione organizzativa delle strutture
sanitarie e con il rispetto dovuto all'altrettanto naturale crescita professionale e deontologica delle figure una
volta solo ausiliarie delle attività medico-chirurgiche, oggi sempre più complesse e sofisticate e sempre più
dense di responsabilità non solo tecnico-cliniche, umane e sociali ma anche civili e penali. E bisognose di
solidi principi. Dr. Antonio Ciofani Dir. Resp. Struttura Complessa di Nefrologia e Dialisi - Ospedale Spirito
Santo, Pescara - Consigliere Nazionale Anaao-Assomed
5 Maggio
Il Sole 24 Ore Sanità - Settimanale
Diagnosi tardiva, paga l’Asl
Mancata chance di decisione - La sentenza ribadisce il diritto a nascere sani
Nicola di Lernia
Deve essere riconosciuta la responsabilità della struttura sanitaria e del medico in essa operante a fronte
della nascita di un bambino affetto da grave malattia genetica, allorché l’esito dell’esame consigliato - nella
specie, villocentesi - sia stato comunicato solo un mese dopo l’esecuzione del prelievo, allorquando la
gestante aveva superato il novantesimo giorno di gravidanza.
Questo ritardo rappresenta infatti una lesione del diritto di autodeterminazione della madre in ordine alla
decisione di interrompere la gravidanza; diritto che attiene anche all’assenza della corretta informazione. Il
neonato è infatti nato con una grave patologia, la mucolipidosi di tipo due, una malattia ereditaria che arresta
la crescita e riduce le aspettative di vita del bambino.
Questa è la motivazione con cui la Corte di Cassazione Civile, sezione III, con sentenza n. 6440/2015 del 31
marzo, ha confermato quella della Corte d’appello di Genova che aveva condannato la struttura sanitaria
(l’ospedale Gaslini) e la ginecologa al risarcimento dei danni in favore dei genitori della neonata, per la
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
complessiva somma di 119.332 euro, oltre alla rivalutazione e agli interessi. Nel caso specifico, non è stato
contestato da parte della struttura che la donna, se fosse stata correttamente informata, non avrebbe deciso
di ricorrere al diritto di aborto. Conseguentemente la prova sul punto è stata considerata raggiunta. In primo
grado, il Tribunale di Genova rigettava le domande formulate dai genitori della bambina, rilevando il difetto di
prova del nesso causale tra l’evento e l’errata diagnosi, che aveva escluso la presenza di tale malattia
genetica. Decisione ribaltata in Appello a seguito di nuova consulenza medico-legale, con conseguente
riconoscimento di un risarcimento a titolo di invalidità permanente nella misura del 30%. Gli errori identificati
sono stati due: un primo errore diagnostico compiuto in sede di analisi microscopica attraverso la
separazione, con operazione manuale, delle cellule fetali da quelle materne, che ha richiesto un successivo
controllo microscopico. Il secondo punto attiene al fatto che la villocentesi, raccomandata con referto, è stata
praticata alla paziente in una certa data, mentre l’esito dell’esame del laboratorio venne comunicato solo un
mese dopo l’esecuzione del prelievo, allorquando la gestante aveva superato il novantesimo giorno di
gravidanza. La causalità deterministica di cui si discute, attiene dunque a un doppio inadempimento
conseguente alla prestazione di garanzia per la salute della madre e del nascituro. Ai fini della riduzione del
danno - affermano i giudici - non importa neppure che il nascituro fosse già menomato, in quanto tale
preesistenza aggrava gli effetti dell’inadempimento, proprio perché tale soggetto, incolpevole, non concorre
alla produzione dell’evento di danno, anzi la sua permanente invalidazione determina nel tempo sofferenze
gravissime e progressive, al punto che solo la mancata ulteriore impugnazione delle parti lese ha precluso
alla Corte di cassazione di concedere l’ulteriore integrazione del ristoro integrale dei danni già concesso in
fase d’Appello. Si tratta di una nuova pronuncia che rientra tra i contrastanti precedenti giurisprudenziali in
tema di risarcimento del «danno da nascita indesiderata», in attesa di conoscere sul punto l’opinione delle
Sezioni Unite alle quali la terza sezione civile della Cassazione ha sottoposto la questione con ordinanza n.
3569 del 23 febbraio che tenterà di ricomporre le divisioni della giurisprudenza.
A proposito di contrasti giurisprudenziali in materia, ricordiamo brevemente l’orientamento (Cfr. Cass. n.
6735/2002, n. 14488/2004, n. 13/2010 e n. 15386/2011) secondo cui «è più probabile che non che la
gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto», al quale si contrappone
invece quello secondo cui l’aborto non sia decisione automatica. Sul punto si sottolinea la sentenza n.
16754/2012 secondo cui in mancanza di una preventiva «espressa e inequivoca dichiarazione della volontà
di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica» la prova della scelta di abortire non può
desumersi dalla sola richiesta di sottoporsi a screening neonatali.
Segnaliamo inoltre il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del
danno: l’orientamento prevalente esclude vi sia un «diritto a non nascere» o a «non nascere se non sano»
con la conseguenza che, «verificatasi la nascita, il minore non può far valere come proprio danno l’essere
affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella
condizione di fare ricorso all’aborto» (Cass. n. 14488/2004; n. 16123/2006 e n. 10741/2009); mentre il
secondo orientamento, al contrario, afferma che dovrebbe ammettersi che «il diritto al risarcimento possa
essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale si duole in realtà non della nascita dello stato di
infermità che sarebbe mancato se non fosse nato (Cass. n. 9700/2011), ma dei costi e problemi che la
nascita malformata comporta, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre,
ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe scelto di abortire» (Cass. n. 16754/2012).
4 Maggio
Affari & Finanza
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
2 Maggio
Corriere della Sera Salute
Non mi curo e il medico non lo sa.
Un paziente su tre— ma se si tratta di “pelle” uno su due — rinuncia alla cura, ha un comportamento
“altalenante” e, per di più, molto spesso non lo dice neanche al medico, pur essendo consapevole del fatto
che rischia di andare incontro a un peggioramento delle proprie condizioni di salute e quindi della qualità di
vita.
La scarsa aderenza alle terapie tra chi soffre di patologie autoimmuni croniche — come artrite reumatoide,
spondilite anchilosante, morbo di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi e artrite psoriasica — rappresenta oggi una
sfida tanto per la salute dei pazienti quanto per la sostenibilità dei sistemi sanitari. Non è infatti difficile capire
che ogni pillola buttata corrisponde a una perdita netta per il Servizio sanitario.
Il progetto “Mosaico” (chiamato così perché “a mosaico” ha incrociato i dati provenienti sia da pazienti che
da medici per tre diverse tipologie di malattie croniche), attraverso una ricerca condotta da Doxa Pharma e
promossa dall’Associazione nazionale malati reumatici (Anmar), dall’Associazione nazionale per le malattie
infiammatorie croniche dell’intestino (Amici) e dall’Associazione Nazionale Amici per la Pelle (Anap), grazie
al contributo di AbbVie, ha cercato di “misurare” il fenomeno .
Tra chi soffre di psoriasi, circa il 50 per cento dichiara di non seguire le indicazioni del medico, percentuale
che passa al 44 per cento tra chi ha malattie infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn e colite
ulcerosa) e al 35 per cento tra chi è affetto da patologie osteoarticolari .
Ma i medici si rendono conto di questo fenomeno di abbandono? Solo in parte, perché tendono a
sottovalutarlo. Secondo gli specialisti intervistati (243, mentre i malati interpellati sono stati 1017) è un
paziente su quattro a essere discontinuo nel seguire le prescrizioni, con percentuali, che - sempre secondo i
medici - vanno da circa il 20% tra chi soffre di patologie osteoarticolari o gastroenterologiche, fino al 3o% per
i pazienti affetti da psoriasi.
Nella maggior parte dei casi la decisione di dire addio alle cure è dettata dagli effetti collaterali dei farmaci,
ma, paradossalmente, il miglioramento dei sintomi è al secondo posto tra le cause di abbandono e prevale
nei pazienti affetti da psoriasi, probabilmente confortati da un miglioramento ”visibile”.
Anche Il tipo di trattamento ha un peso notevole nel determinare l’aderenza alla terapia.
Chi ricorre ai farmaci biologici dimostra, infatti, di attenersi di più alle raccomandazioni del medico, in termini
di quantità, modalità e periodo di assunzione dei farmaci, rispetto ai pazienti cui sono prescritti farmaci
tradizionali. La percentuale dei pazienti “inadempienti” nel caso dei biologici sta infatti, secondo di medici, in
un intervallo compreso tra il 10 e 17 per cento e percentuali non di molto dissimili denunciano i malati.
La discrepanza nell’aderenza alle cure con le due diverse tipologie di farmaci, dicono i responsabili delle
associazioni coinvolte nell’indagine, è semplice: chi arriva ai farmaci biologici si rende conto di essere
“all’ultima spiaggia” e si impegna maggiormente.
Come chiosa Salvo Leone, di Amici (Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino): «Dopo il biologico per
noi c’è solo il bisturi. Meglio sopportare i fastidi delle cure». Ma anche se la disponibilità a seguire le cure
con i farmaci biologici è migliore, ancora molto c’è da fare. E non solo sul fronte della comunicazione:
farmaci in grado di dare risultati percepibili fin dall’inizio della terapia, che rendono più probabile l’aderenza
alle cure, come pure medicinali più facili da utilizzare.
Daniela Natali
Corriere della Sera Salute
Come si può creare una vera alleanza tra specialisti e pazienti.
Ma quali sono i motivi che possono favorire una migliore aderenza alla cure? La ricerca di Doxa Pharma
evidenzia come la decisione di seguire scrupolosamente le indicazioni dello specialista sia innanzitutto il
risultato del rapporto che si instaura tra medico e paziente. Il medico, in primo luogo, deve condividere le
informazioni e le opzioni di cura con il malato, spiegandosi chiaramente, ma, cosa altrettanto importante,
deve saper ascoltare il malato.
Quanto il rapporto col medico, pesano le caratteristiche dei farmaci, la frequenza e le modalità di
somministrazione, la presenza di effetti collaterali. Le persone con patologie osteoarticolari e con artrite
psoriasica accusano gli effetti collaterali maggiori, mentre il primato del numero di somministrazioni
giornaliere di farmaci spetta a chi ha patologie infiammatorie intestinali.
La situazione migliora tra chi, in cura con farmaci biologici, deve fronteggiare un minor numero di
somministrazioni quotidiane. Ma la maggiore aderenza alle terapie nel caso dei farmaci biologici non si
spiega solo con questo. Sempre stando ai dati emersi dalla ricerca, medici e personale sanitario dedicano
maggior tempo e attenzione al rapporto con i pazienti quando si trovano a dover fornire spiegazioni su un
tipo di trattamento innovativo rispetto a uno tradizionale. «Certo è — commenta Ugo Viora, di Anap,
l’Associazione Nazionale Amici per la Pelle — che se i medici avessero a disposizione per le prime visite
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
invece degli abituali 3o minuti anche solo 45 minuti, ci sarebbe il tempo per chiarire meglio le varie
situazioni, evitando sprechi che incidono poi sui costi del sistema sanitario ben più di 15 minuti in più a visita.
Si tratta di risparmi miopi che si traducono anche in più giorni di lavoro persi dai malati e in più ricoveri ». I
rappresentanti delle associazioni promotrici del progetto Mosaico spiegano: «Da una parte, queste malattie
spesso interferiscono con la sfera relazionale e intima del paziente, incidono sulla dimensione familiare e
lavorativa e possono limitare l’autonomia della persona. Dall’altra, non è facile accettare l’idea di essere in
cura per tutta la vita e seguire terapie, che prevedono nella maggior parte dei casi l’assunzione quotidiana,
in orari definiti, di numerose pillole o la pratica di iniezioni. Siamo tutti d’accordo sul ruolo fondamentale
dell’informazione nell’aderenza alle terapie, ma informare non è compito solo dei medici. Anche le
Associazioni possono fare la loro parte». D. N.
Corriere della Sera Salute
Non rispettare le prescrizioni pesa sui conti.
Studi condotti dall'Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, hanno rilevato che nei Paesi sviluppati
l'aderenza ai trattamenti tra chi soffre di patologie croniche si attesta in media intorno al 50 per cento
(percentuale che scende drasticamente nei Paesi in via di sviluppo). Si stima inoltre che il grado medio di
aderenza passi dal 63% al momento della prima prescrizione al 43% in occasione della seconda. Indicativo
anche i dato sull’impatto economico della mancata compliance : i costi sociali annui per la non aderenza alle
cure in Europa sono di 125 miliardi di euro. Negli Stati Uniti i costi riconducibili alle spese mediche evitabili
con una corretta adesione alle terapia prescritte sono pari a 310 miliardi di dollari ogni anno; il 14 per cento
della spesa sanitaria totale.
Ad essere più a rischio rispetto alla compliance, gli anziani, anche perché spesso con più patologie.
Quotidiano Sanità
Cassazione. La responsabilità professionale dipende dalle mansioni e attività svolte. E non solo da
ruolo e qualifica dell’operatore coinvolto
Questo il principio che ha ispirato due sentenze che hanno ritenuto comunque responsabili un autista di
ambulanza che non ha aiutato l’infermiera a movimentare un paziente in lettiga e un medico “frequentatore
volontario” per aver mancato di richiedere specifici accertamenti diagnostici a una paziente ricoverata
La Corte di cassazione estende la “posizione di garanzia” anche oltre i confini tradizionali.
Prima di inoltrarci nella definizione della posizione di garanzia vediamo succintamente due recentissime
sentenze del giudice di legittimità.
Nel primo caso a un autista soccorritore” – figura non riconosciuta a livello nazionale - veniva contestato di
non avere prestato collaborazione a un infermiera nella movimentazione di un paziente su una lettiga
causandone la morte in relazione al “malaccorto imbragamento e alla circostanza che la barella, in
violazione, delle prescrizioni del costruttore, era stata movimentata da una sola persona - l’infermiera
giustappunto - invece che almeno da due operatori.
La difesa dell’autista si è concentrata sul non riconoscimento della figura di “autista soccorritore” in quanto la
contrattazione collettiva prevede solo l’autista con mere funzioni di guida del veicolo. La Corte (sezione IV,
sentenza 2 aprile 2015, n. 14007) ne ha riconosciuto comunque la responsabilità a prescindere dal “formale
inquadramento” in quanto è emerso “dall'istruttoria svolgere il compito di autista soccorritore, avendo al fine
superato con profitto un apposito corso e percependo un incremento retributivo proprio in ragione delle
mansioni effettivamente ricoperte, peraltro, secondo il dire dello stesso medico che nell'occorso dirigeva
l'unità di pronto intervento, con piena capacità”. E’ quindi “l'effettivo svolgimento delle mansioni” a contare
senza che “assuma rilievo l’attribuzione allo Stato del potere di legiferare sui profili professionali”. All’autista
soccorritore viene dunque riconosciuta la “posizione di garanzia” e, nel caso di specie, l’obbligo di
movimentare insieme all’infermiere la barella.
Nel secondo caso viene affrontato il caso di un “medico frequentatore volontario” il quale di “servizio” in un
ospedale, a fronte di una donna sottoposta “ad intervento chirurgico di isterectomia radicale”, “non aveva
predisposto accertamenti diagnostici idonei a verificare se la paziente fosse affetta da trombosi venosa
profonda, secondaria ad operazione chirurgica, benché fossero presenti sintomi e fattori di rischio indicativi
di tale possibilità”. Per la Cassazione (IV sezione, sentenza 8 aprile 2015, n. 14142) “tale condotta omissiva,
aveva impedito, una tempestiva diagnosi e l'adozione di idonea terapia la quale avrebbe, con altra
probabilità, consentito di evitare l'evento letale”.
Anche in questo caso è stata riconosciuta la “posizione di garanzia” basandosi sulle reali mansioni del
medico che “sebbene frequentatore volontario della struttura sanitaria, aveva posto in essere condotte
proprie di un medico strutturato” e, non poteva definirsi, quindi, come, un “mero accompagnatore della
paziente da un reparto all'altro per fare un clistere (un clistere..?), mero trascrittore della cartella clinica degli
esiti della visita effettuata da altri.” Era stato infatti dimostrato che aveva “rimosso i punti di sutura alla
paziente e per togliere i punti l'ha necessariamente sottoposta a visita raccogliendo i temi di sofferenza
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
(dolore alla gamba sinistra gonfiata e disagio) che la paziente gli ha certamente manifestato”. Nonostante
questo non ha disposto gli esami necessari con “conseguente adozione di idonea terapia”.
Quindi riconoscimento della “posizione di garanzia” indipendentemente dal riconoscimento formale del ruolo
in entrambi i casi (autista soccorritore e medico frequentatore volontario).
Come è noto la posizione di garanzia deriva dal comportamento omissivo previsto dal secondo comma
dell’articolo 40 del codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale
a cagionarlo”.
Ai fini della individuazione degli obblighi giuridici di impedire un evento sono state elaborate, nel tempo, tre
concezioni:
a) la concezione formalistica;
b) la concezione sostanzialistica;
c) la concezione mista formale-sostanziale.
Secondo la concezione formalistica il riconoscimento della responsabilità omissiva esige l’espressa
previsione dell’obbligo di agire da parte di “fonti giuridiche formali” che sono individuate dalla legge, dal
contratto e dalla consuetudine. Solo quindi ciò che è scritto in tali fonti determina l’obbligo giuridico di agire.
Secondo la concezione sostanzialistica invece la responsabilità per omesso impedimento è insita
nell’esigenza solidaristica della tutela rafforzata di beni giuridici rilevanti per incapacità dei titolari di
proteggere tali beni. Secondo questa concezione si realizzano “di fatto” degli speciali vincoli di tutela tra il
soggetto e il suo garante. Tipico esempio viene determinato dalla presa in carico di un soggetto debole (es.
un paziente).
La concezione mista, formale-sostanziale si pone come sintesi tra le due concezione sopra esposte ed è
stata, fino a oggi, prevalente nella dottrina e nella giurisprudenza italiana.
In sintesi l’obbligo di garanzia può essere definito come “l’obbligo giuridico che grava su specifiche categorie
di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati
alla loro tutela per l’incapacità die titolari di adeguatamente proteggerli”. In questi casi si equipara il non
impedire al causare al fine di riequilibrare una situazione di svantaggio.
Tralasciamo, in questa sede, la suddivisione dell’inquadramento della posizione di garanzia nelle posizione
di protezione e di controllo e ci concentriamo sul riconoscimento di fatto delle mansioni svolte.
L’autista soccorritore è una figura esistente di fatto e non di diritto e non su tutto il territorio nazionale. I
tentativi regionali di regolamentarne la formazione e le attività si sono scontrati con la dichiarazione di
illegittimità costituzionale (vedi la legge della regione Basilicata 37/2009 e la conseguente sentenza della
Corte n. 300/2010) per i motivi legati al conflitto Stato-Regioni che sono diventati usuali dopo la riforma del
titolo V della Costituzione.
La mansioni di fatto determinano la “presa in carico” (terminologia professionale) e la conseguente
“posizione di garanzia” (terminologia giuridica).
Stesso orientamento nella sentenza sul “medico frequentatore volontario” figura non regolamentata e
ammessa consuetudinariamente nei reparti previa autorizzazione e stipula di una polizza di responsabilità
professionale. Anche in questo caso la presa in carico determina la posizione di garanzia e il riconoscimento
di responsabilità indipendentemente da fonti giuridiche formali di riferimento. In questi casi, in genere, è
chiaro che il medico “frequentatore volontario” non debba essere, sulla carta, un professionista incardinato
nella struttura e nelle sue decisioni. Alcune importanti realtà organizzative hanno regolamentato l’accesso e
le funzioni di questa figura.
L’azienda ospedaliera di Padova, ad esempio, specifica:
“I frequentatori volontari sono osservatori, a fini di studio, formazione o ricerca, delle attività svolte nelle
strutture aziendali di riferimento. I frequentatori non possono in alcun modo svolgere attività in sostituzione
del personale dipendente. Non possono esercitare direttamente in autonomia mansioni o funzioni che
rientrino nelle competenze tecnico professionali del personale dipendente o convenzionato, né essere
impiegato in attività che comportino autonomia decisionale”, altri specificano che il medico frequentatore non
“rilascia certificazione alcuna” (Università di Milano), altri ancora (Azienda per i servizi sanitari di Trento)
equiparano ai frequentatori alcuni doveri che sono però del dipendente: obbligo di firma, di orario, di
certificazione medica per assenza per malattia, altri infine (Università di Bari) pongono una serie di divieti:
non possono eseguire atti operatori, atti invasivi, non possono firmare indagini diagnostiche, non possono
firmare cartelle cliniche, non possono svolgere turni di guardia.
Nonostante questo corollario di regolamenti quasi del tutto univoci la Corte di cassazione guarda alle
mansioni di fatto svolte: su queste si basa la posizione di garanzia.
Questo orientamento porta al superamento di molte disquisizioni sul carattere letterale di alcune norme e
definizioni. In un recente articolo su Qs Daniele Rodriguez opera una sottile e approfondita analisi sulla
comparsa del termine “cura” nel “comma 566” della legge di Stabilità 2015 enfatizzandone il significato in
quanto contenuto in una fonte formale. Lo stesso Rodriguez aveva però avuto modo di ricordare che la cura
è “una competenza intrinsecamente connaturata alla professione medica, nonché a qualunque professione
sanitaria”.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
E’ proprio su quest’ultimo punto che si incentra la più recente giurisprudenza sulla posizione di garanzia che
la Corte di cassazione riconosce sempre più frequentemente, proprio in virtù della “concezione
sostanzialistica” che abbiamo sopra riportato, che, prescindendo da specifiche norme di riferimento, punta
alla sostanza delle attività, come dimostra la vicenda del medico “frequentatore volontario” e, ancora di più,
dell’autista soccorritore, figura che, abbiamo avuto modo di ricordare, non è prevista dall’ordinamento
giuridico e comunque verrebbe inquadrata nel ruolo tecnico e non sanitario del personale del servizio
sanitario nazionale.
Sentenza Cassazione su medico frequentatore volontario
http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=9597651.pdf
Sentenza Cassazione su autista soccorritore
http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=5656901.pdf
Luca Benci Giurista
1 Maggio
AdnKronos
Sanità: sentenza, per errore medico base paga anche l'Asl
Per l'errore del medico di base paga anche l'Asl di riferimento. E' la conclusione di una recente sentenza
della Corte di Cassazione, secondo cui "la Asl è responsabile civilmente, ai sensi dell'articolo 1228 c.c., del
fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l'assistenza medico generica, abbia commesso in
esecuzione della prestazione curativa ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal Ssn in
base ai livelli stabiliti secondo la legge".
La pronuncia - commenta l'Aduc in una nota - è "estremamente importante perché riconosce la
responsabilità diretta del medico generico e, per il suo tramite, dell'Asl, e lo fa in virtù della stessa legge
istitutiva del Sistema sanitario nazionale e dei Lea. Queste normative creano un'obbligazione ex lege dell'Asl
e, quindi, un diritto dell'utente, che ne è creditore".
I ricorrenti, ricorda l'Aduc, hanno agito nei confronti dell'Asl e del medico generico "perché questo, chiamato
la mattina per sintomi di ischemia cerebrale, si è recato in visita soltanto il pomeriggio e ha disposto cure
inadeguate in base ai sintomi. Il paziente è rimasto paralizzato. In primo grado il Tribunale ha condannato il
medico in ragione del comportamento colposo e l'Asl in solido. Entrambi hanno impugnato la sentenza e la
Corte d'Appello ha accolto il gravame dell'Asl, rigettando quindi la domanda risarcitoria dei danneggiati nei
suoi confronti, poiché questa avrebbe assunto soltanto un obbligo di organizzazione, e non anche
obbligazioni dirette nei confronti del paziente, ma anche per l'assenza di rapporto di subordinazione del
medico, sul quale l'Asl non avrebbe potuto esercitare alcun potere di vigilanza e controllo. E' stata
confermata, invece, la condanna del medico".
Gli eredi del paziente che aveva subito il danno, hanno fatto un nuovo ricorso. La Corte di Cassazione
osserva, riferisce l'Aduc, che la legge istitutiva del Ssn (n. 833 del 1978) ha stabilito che vi siano "livelli di
prestazioni che debbono essere, comunque, garantiti a tutti i cittadini" e, tra questi, vi è l'assistenza medicogenerica, che individua come specifico compito attribuito alle Usl.
Tale servizio costituisce un diritto dei cittadini e questa configurazione non è mutata con l’introduzione delle
Asl, che sono dotate di maggiore autonomia: l'assistenza medico-generica è rimasta tra le competenze
principali e spetta loro provvedere a garantire i livelli uniformi di assistenza nel proprio ambito territoriale. Il
vincolo dei medici generici all'Asl, espresso nella convenzione, si evince anche dal rapporto economico fra i
due soggetti: questi percepiscono remunerazione non da parte dell'utente, ma esclusivamente dalla Asl
(finanziate, di fatto, dalla fiscalità generale).
Si configura, pertanto - evidenzia l'associazione sulla base della sentenza - un'obbligazione ex lege per l'Asl
di prestare l'assistenza medico-generica nei confronti dell'utente. Questa viene adempiuta mediante l'attività
del medico, convenzionato col Ssn.
CASI
28 Maggio
La Repubblica Bari
San Paolo,morì dopo l’intervento “Quei tre medici vanno processati”
Un quarto chirurgo ha chiesto l’abbreviato per il caso Scardicchio
GABRIELLA DE MATTEIS
IL CASO, con ogni probabilità, approderà in un processo. Il pubblico ministero Lidia Giorgio ha invocato il
giudizio per tre medici dell’ospedale San Paolo (un altro ha chiesto l’abbreviato) accusati di omicidio colposo
per la morte di Onofrio Scardicchio, 69 anni, dirigente del settore Turismo della Regione Puglia, deceduto tre
anni fa dopo un intervento di colecisti.
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
L’inchiesta, approdata in udienza preliminare, è nata dalla denuncia di Maria Ferrara, moglie di Scardicchio
(ex segretario provinciale del Psdi e consigliere comunale, vicesindaco e assessore al Bilancio del Comune
di Modugno dal 1975 al 1992). L’uomo il 23 novembre del 2012 era stato sottoposto a intervento chirurgico
di colecistectomia con la tecnica della laparoscopia. Un’operazione non complicata, ma nelle 48 ore
successive Scardicchio ha cominciato a stare male. «Per tutto il tempo, io e i miei familiari abbiamo
continuamente cercato, chiesto, pregato, medici e infermieri di assisterlo, ma ci hanno detto di non
preoccuparci. Solo quando mio marito, allo stremo delle forze, ha telefonato al chirurgo che l’aveva operato,
è stato finalmente sottoposto a esami ematici urgenti – denuncia la donna – e dopo verifica dei risultati è
stato finalmente sottoposto a una tac». L’esame ha evidenziato la presenza di una emorragia. Un secondo
intervento al quale il paziente è stato sottoposto non è servito a scongiurare la tragedia. «L’emorragia oramai
era in avanzato stato», aggiunge la moglie. Che in questi mesi ha continuato a chiedere giustizia.
Ora quattro medici rischiano il processo. Nell’udienza preliminare dinanzi al gup Alessandra Piliego, il pm ha
ribadito la richiesta di rinvio a giudizio. La famiglia Scardicchio, rappresentata dagli avvocati Filiberto
Palumbo e Rosita Petrelli, si è costituta parte civile e ha chiesto e ottenuto la citazione dell’ospedale San
Paolo come responsabile civile.
25 Maggio
Quotidiano Sanità
Esclusiva. Paziente morto al San Camillo dopo il trapianto di fegato. Intervista a Nanni Costa (CNT):
“L’errore sul gruppo sanguigno c’è stato. Ma non è stato questo a causare il decesso”
A due giorni dalla nota della Regione Lazio sul decesso di un paziente dopo due trapianti di fegato, di cui il
primo con un organo appartenente a un soggetto con gruppo sanguigno diverso, il direttore del Centro
nazionale trapianti chiarisce le cause dell’accaduto. Ma in ogni caso, dice, la morte del paziente non è
dovuta alle differenze di gruppo sanguigno
Sono passati due giorni dalla nota della Regione Lazio con la quale si confermava il decesso di un paziente
del San Camillo di Roma al quale era stato trapiantato un fegato appartenente a un donatore con un gruppo
sanguigno teoricamente incompatibile.
La morte in realtà avveniva solo dopo il secondo trapianto di fegato, effettuato, sempre al San Camillo, a
circa un mese di distanza dal primo. La colpa dell’accaduto è stata subito data a quell’errore di
identificazione del gruppo sanguigno ma forse le cose stanno in modo diverso.
Ce lo spiega Alessandro Nanni Costa direttore del Centro nazionale trapianti che abbiamo contattato nel
pomeriggio di domenica al ritorno da una maratona ciclistica di trapiantati d’organo, una delle iniziative del
Centro per sensibilizzare e promuovere la cultura delle donazioni e del trapianto e anche a dimostrazione
della qualità della vita di chi è stato sottoposto a un trapianto d’organo.
“Io ho partecipato come tanti altri – ci dice Nanni Costa – ma a condurre il gruppo erano tutti trapiantati in
ottima forma”.
Sì direttore, ma al San Camillo questa volta il trapianto è andato male e sembra che la colpa sia di un
errore effettuato nel laboratorio dello Spallanzani che ha sbagliato l’identificazione del gruppo
sanguigno del ricevente innescando una catena perversa di tragici equivoci che hanno fatto sì che al
San Camillo, dove il paziente attendeva il trapianto, sia stato recapitato un fegato di gruppo AB,
mentre il paziente in realtà era di gruppo A…
Sì l’errore c’è stato. E’ indubbio ma probabilmente non è stato questo la causa del decesso del paziente
Cioè?
Il paziente ha sì ricevuto un fegato proveniente da un donatore con gruppo sanguigno diverso ma abbiamo
certezza del fatto che quel fegato era stato accettato dall’organismo del ricevente senza problemi legati alle
possibili incompatibilità dovute ai due gruppi sanguigni diversi. Esso infatti ha funzionato per un lungo
periodo e la scelta di fare un secondo trapianto non è stata motivata dal sangue diverso ma dal fatto che
quel fegato, a un certo punto, ha iniziato a non funzionare più a dovere, a prescindere, lo ripeto,
dall’incongruenza del gruppo sanguigno tra donatore e ricevente.
Mi sta dicendo che se quel fegato avesse continuato a funzionare bene non sarebbe stato comunque
effettuato un altro trapianto per rimettere in linea i due gruppi sanguigni?
Assolutamente no. Anche perché se vi fossero stati problemi legati all’incompatibilità dei gruppi sanguigni
avremmo potuto sostituire il fegato dopo pochissimi giorni.
Ma i medici che hanno effettuato il trapianto quando si sono accorti che il fegato trapiantato era di un
altro gruppo sanguigno?
Già durante l’intervento, al momento della richiesta di alcune sacche di sangue quando in sala operatoria
sono arrivate sacche di gruppo A in linea con i rilievi del gruppo sanguigno del paziente effettuati durante
l’intervento. Ma a quel punto il trapianto andava comunque concluso a causa del grado di avanzamento
dell’intervento e anche perché sono ormai molti i riscontri nella letteratura scientifica e nella pratica clinica di
organi di gruppi sanguigni diversi tra donatore e ricevente, trapiantati in emergenza. Senza contare poi che
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
nel trapianto di rene tra viventi è ormai routinario, se le condizioni lo consentono, il trapianto di ABO
incompatibili. Tornando invece al caso dello Spallanzani abbiamo attivato d’urgenza una task force
composta dal professor Pinna di Bologna e dal dottor Cozzi di Padova che ha guidato il condizionamento
immunologico per rendere compatibile il primo fegato trapiantato con un ottimo risultato.
E quindi?
Quindi l’errore c’è stato e anche grave. Ma al di fuori del circuito trapiantologico.
Si spieghi meglio.
Il caso ha voluto che quel paziente effettuasse una serie di esami due anni fa ai fini di un possibile trapianto
presso il laboratorio dello Spallanzani e non presso un centro trasfusionale, tant’è che subito dopo
l’accaduto, e parliamo del giorno successivo al trapianto, il Cnt, d’intesa con il ministero della Salute, ha
inviato una lettera a tutti centri trapianto italiani per chiedere la verifica che l'identificazione del gruppo
sanguigno dei soggetti in lista d’attesa del trapianto fosse stata effettuata presso un centro trasfusionale
dando indicazioni di ripetere l’esame laddove ciò non fosse stato fatto. Va anche aggiunto che in ogni caso
da oltre un anno tutti gli esami dei gruppi sanguigni dello Spallanzani sono ormai effettuati da un centro
trasfusionale. E infine voglio ricordare che un primo audit su quanto accaduto al San Camillo è stato
effettuato insieme alla Regione Lazio, al San Camillo e al Cnt, il giorno dopo il primo trapianto.
Sì, ma quella scheda era sbagliata.
Lo so, del resto, e non è una scusante ma semplicemente una spiegazione di come sia stato possibile
quell’errore al laboratorio dello Spallanzani, va detto che il paziente presentava anticorpi anti B molto bassi,
evidentemente sfuggiti all’analisi e che hanno indotto ad una identificazione del gruppo sanguigno sbagliata.
Un fattore, quello della scarsa reazione degli anticorpi, che spiega anche il perché del fatto che dopo il primo
trapianto non vi siano state reazioni immunologiche significative all’organo di gruppo sanguigno diverso.
Questi sono i fatti a nostra conoscenza e ciò non toglie ovviamente il diritto/dovere dei familiari a volere
risposte chiare e certe su quanto accaduto.
Cesare Fassari
24 Maggio
Quotidiano Sanità
Roma. Errore in un trapianto di fegato al San Camillo. Muore paziente
Secondo le prime notizie trapelate sarebbe stato trapiantato un fegato appartenente a un donatore con un
gruppo sanguigno diverso da quello del ricevente. Dopo l’errore effettuato un altro trapianto, ma troppo tardi,
Regione avvia indagine interna e coinvolge il Cnt.
“In relazione alla notizia pubblicata su alcuni quotidiani relativi al decesso del paziente sottoposto a un
intervento di trapianto di fegato, lo scorso 8 marzo, e a un successivo ritrapianto di fegato, il 30 aprile presso
il Centro Trapianti del S. Camillo, il Centro regionale Trapianti e la Direzione dell’Azienda ospedaliera e
dell’IRCCS Spallanzani hanno attivato, nell’immediatezza dei fatti una indagine interna per verificare le
circostanze dell’accaduto e le azioni di miglioramento da attivare con particolare riferimento all’evento
avverso verificatosi durante il primo intervento chirurgico. Oggi stesso si terrà un audit interno al S. Camillo
per verificare le procedure adottate, la metodologia e la cronologia degli eventi e delle operazioni eseguite.
Tutte queste azioni dovranno confluire in una dettagliata relazione che dovrà essere inviata alla
Commissione regionale per il rischio clinico. Resta da precisare che sin dal 9 marzo scorso, del caso è stato
edotto il CNT (Centro nazionale trapianti) e la segnalazione è stata immessa nel flusso Simes (Sistema
Informativo per il Monitoraggio degli Errori in Sanità) del Ministero”.
Lo comunica in una nota la Regione Lazio.
18 Maggio
Corriere della Sera Milano
Bimba deceduta Rinviati a giudizio due medici «Terapia errata»
MONZA Una diagnosi di semplice gastroenterite, pur in presenza di una «grave compromissione dello stato
generale di salute» di una bambina di soli tre anni e mezzo. È di omicidio colposo l’accusa contestata a due
medici dell’ospedale di Desio, rinviati a giudizio per la morte della figlia di una coppia di immigrati albanesi
residenti in Brianza. La vicenda risale al gennaio 2013. I due camici bianchi, che dovranno presentarsi
davanti al giudice, sono il medico di guardia al pronto soccorso, e il pediatra di turno la notte in cui le
condizioni della bimba si aggravarono. La piccola era stata portata in ospedale dai genitori, che hanno altri
due figli. Le sue condizioni, secondo le accuse, erano molto preoccupanti: temperatura molto bassa, «grave
disidratazione, turbe del ritmo cardiaco e stato di sopore». Di fronte a questa situazione clinica, i due medici
avrebbero prescritto «terapie insufficienti». Il pediatra, in particolare, non avrebbe visitato la bimba,
limitandosi a «prescrivere per via telefonica la somministrazione di té, invece di un corretto approccio
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
diagnostico». Dopo una notte in ospedale di grave sofferenza («costantemente sveglia e lamentosa»), la
bambina morì a causa di una insufficienza cardiocircolatoria.
Federico Berni
La Provincia di Cremona
Morto durante l'anestesia, la madre: 'Riccardo aveva solo 20 anni'
CREMONA - Il tempo di Riccardo si è fermato il 23 luglio di due anni fa. «Era entrato ridendo e scherzando
in sala operatoria. Aveva vent’anni, aveva vent’anni», urla Annalisa, la mamma di Riccardo Sapienza, il
calciatore di vent’anni morto in sala operatoria, durante l’anestesia, prima di essere sottoposto a un
pneumotorace. Urla mamma Annalisa, alla prima udienza del processo a carico di Valerio Schinetti,
l’anestesista dell’ospedale di Manerbio che in base ad una convenzione di copertura dei turni estivi, quel
giorno era in servizio all’ospedale Maggiore di Cremona. In sala operatoria qualcosa andò storto. Per la
procura, si è trattato di un errore nella manovra di intubazione con quel tubo che per la difesa «non si è più
trovato, non è agli atti». Una udienza lampo, quella di ieri, subito rinviata dal giudice Christian Colombo al 22
giugno prossimo, a causa di un vizio di notifica all’imputato. Schinetti non è presente.
Il Secolo XIX
San Martino, muore per un sondino
Un malore improvviso, poco prima di entrare in sala operatoria. Inspiegabile, stando al quadro clinico che i
medici avevano davanti, prima della scoperta: a provocare la morte di Graziella Ferrieri, 49 anni, non è stata
infatti la patologia che l’aveva portata al ricovero, ma un intervento maldestro da parte del medico
anestesista. In particolare, un sondino che avrebbe dovuto raggiungere lo stomaco, ma invece era stato
inserito in modo totalmente sbagliato: l’attrezzo, viene apposto nella direzione sbagliata, in direzione della
testa, e le sfonda il cervello.
È questa la tesi del p ubblico ministero Sabrina Monteverde, che nei giorni scorsi ha chiuso l’inchiesta sulla
morte sospetta, avvenuta un anno fa, e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per una dottoressa in
servizio all’ospedale San Martino. È lei, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, ad aver eseguito la
manovra errata. L’accusa nei suoi confronti è di omicidio colposo, perchè «facendo penetrare il sondino
naso-gastrico nel parenchima encefalico attraverso la base cranica e non sottoponendo la paziente a
controllo radiografico al fine di verificare il corretto posizionamento del presidio , così non accorgendosi del
gravissimo errore tecnico, cagionava per colpa, consistita in negligenza,imprudenza e imperizia grave, la
morte della paziente».
La Repubblica Bari
Infezione dopo l’operazione cantante morì,11 indagati
IL gip Antonio Diella ha disposto nuovi accertamenti sul caso di Luigi Ferraro, il cantante neomelodico
cosentino di 30 anni, deceduto nel febbraio 2013 nella clinica Santa Maria di Bari dieci giorni dopo un
intervento di cardiochirurgia.
Accogliendo l’opposizione all’archiviazione depositata dai familiari della vittima, il giudice ha disposto un
incidente probatorio per cristallizzare l’esito degli accertamenti medico-legali e chiarire le cause del decesso
ed eventuali responsabilità.
Nel fascicolo sono indagati 11 medici: otto cardiochirurghi, due anestesisti e un cardiologo, che rispondono
di omicidio colposo. Il giovane sarebbe morto dopo un intervento di ricostruzione della valvola mitralica
eseguito nella clinica Santa Maria di Bari. A causa di una serie di complicanze, un’infezione post-operatoria
che gli avrebbe procurato febbre alta e calo progressivo della vista, il 30enne è stato sottoposto ad un
secondo intervento chirurgico ma è deceduto poco dopo. Il pm Lidia Giorgio aveva chiesto l’archiviazione,
non riscontrando negligenze nel comportamento dei medici.
17 Maggio
Il Mattino
Morì in ospedale. Trenta medici indagati
NOCERA INFERIORE. Fu ricoverato per un’emorragia gastrica, per poi essere sottoposto ad un delicato
intervento chirurgico. Purtroppo, i medici non riuscirono a strapparlo alla morte. Si arricchisce di un ulteriore
mese di indagini il caso legato alla morte di Giovanni Ambrosio, 70enne di Terzigno, deceduto nel gennaio
del 2011 all’ospedale Umberto I, a Nocera Inferiore. È questo il tempo stabilito dal gip, Giovanna Pacifico,
che dopo una lunga camera di consiglio ha deciso di prorogare il tempo delle indagini, rinviando di fatto gli
atti al pubblico ministero.
Le posizioni attenzionate sono 30: tutti medici dell’ospedale nocerino, provenienti da due reparti, quello di
chirurgia e rianimazione. Il caso clinico di Giovanni Ambrosio avrebbe preso forma nel dicembre 2010,
periodo nel quale sarebbe cominciato il suo crocevia tra due ospedali. L’anziano, infatti, fu inizialmente
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
ricoverato nella struttura di Boscotrecase, per poi essere trasferito d’urgenza a Nocera Inferiore in seguito ad
alcune complicazioni. Complicazioni che si sarebbero presentate sotto la forma di un’emorragia, con gravi
perdite di sangue. Giunto all’Umberto I, al settantenne fu diagnosticata un’emorragia gastrica, che portò i
sanitari alla decisione di sottoporre l’uomo ad un intervento chirurgico d’urgenza. Un intervento che sarebbe
stato preceduto - come da prassi - da tutta una serie di esami effettuati a causa di un quadro clinico
preoccupante.
13 Maggio
Corriere Fiorentino
Prato Bimba morta dopo il parto, indagati medici e infermieri
PRATO La Procura di Prato ha iscritto sul registro degli indagati cinque persone, accusate del il reato di
omicidio colposo in relazione alla morte di una neonata avvenuta domenica mattina all’ospedale Santo
Stefano. Il decesso della bambina, figlia di una coppia di italiani, sarebbe avvenuto qualche ora dopo il parto.
Il padre della neonata ha immediatamente sporto denuncia ai carabinieri, dove si è recato nella stessa
giornata di domenica. Gli indagati sono due infermieri, due medici e un’ostetrica. L’autopsia della piccola,
disposta dalla Procura pratese, è stata effettuata ieri pomeriggio dal medico legale; nei prossimi giorni sarà
possibile conoscere le risultanze utili alle indagini. Anche l’Asl numero 4 di Prato ha convocato la sua unità di
crisi e avviato un’indagine interna all’azienda. (Gi.Be.)
12 Maggio
La Repubblica Firenze
PRATO
Neonata muore in ospedale, la procura indaga
UNA neonata è morta nel reparto di Ostetricia dell’ospedale Santo Stefano di Prato, subito dopo il parto. I
genitori della piccola hanno sporto denuncia ai carabinieri, chiedendo che vengano appurate eventuali
responsabilità e la procura ha disposto il sequestro della cartella clinica. Domani verrà dato incarico per
l’autopsia. Il padre della bambina deceduta avrebbe chiesto ai carabinieri di appurare se vi siano state colpe
nel modo in cui hanno operato i medici che per estrarre il feto avrebbero usato una ventosa. La Asl ha riunito
la sua unità di crisi e acquisito tutta la documentazione clinica.
10 Maggio
CORRIERE DI ROMA NEWS
Morto in ospedale, condannata l’anestetista
Condannata l’anestesista in sala operatoria Maria Rita Mealli ad un anno e sei mesi di reclusione, con
sospensione condizionale della pena, assolto il primario di anestesia e rianimazione del San Filippo Neri
Rossella Reali; l’anestesista e l’ospedale dovranno inoltre risarcire i familiari di Mauro Ponticelli, il 29enne
morto il 4 dicembre del 2010 durante l’induzione dell’anestesia per l’asportazione del milza. Per la rabbia i
familiari del giovane appena appresa la notizia della morte di Mauro aggredirono medici e infermieri presenti
in sala operatoria con calci e pugni. A rendere noto l’esisto della vicenda è l’avvocato Gianluca Arrighi,
difensore del primario Reali assolta «per non aver commesso il fatto». La sentenza è stata decisa dal
giudice della decima sezione penale del tribunale di Roma, Clementina Forleo. Al termine di un dibattimento
durato ben 20 udienze. Ha inoltre condannato la dottoressa Maria Rita Mealli e l’ospedale San Filippo Neri al
risarcimento dei danni alle parti civili (i familiari del giovane Ponticelli) da liquidarsi in sede civile. Ha
comunque stabilito una provvisionale immediatamente esecutiva per complessivi duecentottantamila euro.
«Sin dall’inizio delle indagini abbiamo sempre sostenuto come nessun addebito – ha commentato Arrighi –
potesse essere mosso alla dottoressa Reali, medico anestesista scrupoloso e coscienzioso. È stato un
processo lungo e complesso ma alla fine il tribunale ha accolto le nostre argomentazioni. Siamo soddisfatti».
ILRESTODELCARLINO MARCHE
Muore dopo l’intervento: medici condannati
Mezzo milione di risarcimento ai familiari di una 61enne
di Paola Pagnanelli
Civitanova Marche, 9 maggio 2015 - TRE CONDANNE e una assoluzione sulla morte di Elena
Giambattistelli, insegnante in pensione di Civitanova. I tre medici condannati a cinque mesi di reclusione per
omicidio colposo dovranno risarcire con 500mila euro Claudio e Paolo Cocchiara, marito e figlio della donna.
Il fatto successe nel 2008. Il 25 giugno la donna, 61 anni, venne ricoverata a Villa Pini e operata all’intestino
per una diverticolite. Dimessa dalla clinica, iniziò ad accusare dolori e febbre. Tornò dunque a Villa Pini,
dove le diedero gli antibiotici. Dato che le sue condizioni peggioravano, venne trasferita all’ospedale dove
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
però, purtroppo, morì il primo luglio. Per questi fatti erano accusati di omicidio colposo Anselmo Garipoli,
civitanovese, primario della medicina generale della casa di cura, Andrea Della Bianca, di Potenza Picena, e
Domenico Logiudice, di Loreto, medici dello stesso reparto; poi l’anestesista dell’ospedale Elisabetta Bruni di
Montecosaro. La perizia rivelò che la pensionata era morta per una emorragia causata dalla lesione della
vena succlavia, prodotta inserendo un catetere; ma anche che la paziente aveva una insufficienza renale
acuta, che a Villa Pini sarebbe stata aggravata dall’antibiotico.
ALLA FINE del processo, ieri a Macerata, la procura ha chiesto la condanna a un anno e mezzo di
reclusione per tutti e quattro gli imputati. Invece il giudice Giovanni Manzoni ha ritenuto colpevoli solo
Garipoli, Della Biancia e Logiudice, difesi dall’avvocato Paolo Giustozzi: a loro è stata inflitta la pena di
cinque mesi di reclusione con la condizionale, inoltre dovranno risarcire i familiari della pensionata con
500mila euro. Assolta invece l’anestesista Bruni, difesa dall’avvocato Gabriele Cofanelli, che ha dimostrato
che la dottoressa aveva fatto il possibile la paziente. Ora l’avvocato Giustozzi potrà fare appello contro le
condanne. Intanto gli avvocati Giancarlo e Stefano Nascimbeni, parti civili per il marito e il figlio di Elena
Giambattistelli, potranno avviare una causa risarcitoria contro la clinica.
7 Maggio
Quotidiano Sanità
Sicilia. Muore dopo operazione a rene, inchiesta a Catania
La donna, 51 anni, era stata ricoverata per l'asportazione di un calcolo ad un rene. I parenti della paziente
hanno presentato una denuncia, la Procura ha disposto l'autopsia per accertare le cause della morte e il
sequestro di tutta la documentazione clinica.
Chiedono chiarezza i parenti della donna di 51 anni morta nel Policlinico di Catania dove era stata ricoverata
per l'asportazione di un calcolo ad un rene. Il decesso, spiega un dispaccio dell’Ansa, “è avvenuta nella notte
tra il 24 ed il 25 aprile scorsi ed è stata resa nota dall'Osservatorio per i Diritti del malato dell'associazione
Codici-Centro per i diritti del Cittadino, al quale si sono rivolti i familiari per chiedere chiarimenti sulla vicenda
e sulle cause del decesso della congiunta”.
Assistiti dai propri legali, Mario Campione e Manfredi Zammataro, i parenti della donna hanno presentato
una denuncia a seguito della quale la Procura ha disposto l'autopsia sul cadavere per accertare le cause
della morte ed il sequestro di tutta la documentazione clinica.
“Ci sono tanti punti da approfondire sulla vicenda - sostengono i legali Mario Campione e Manfredi
Zammataro, secondo quanto riportato dall’Ansa – ma soprattutto c'è da chiarire come è possibile che nel
2015 una donna di 51 anni possa morire dopo un banale intervento di calcoli al rene".
"Per il resto - concludono - attendiamo lo svolgimento delle indagini e l'esito degli accertamenti medico legali
che consentiranno di acquisire tutti gli elementi necessari per fornire un quadro completo di quanto accaduto
alla povera signora".
5 Maggio
La Repubblica Palermo
Palermitana operata a Padova morì per un’infezione indagine della procura
FRANCESCO PATANÈ
AVEVA scelto l’ospedale di Padova per rimuovere un tumore benigno nella zona cervicale. Maria Vita
Curatolo aveva deciso di partire da Palermo per farsi curare in una delle eccellenze della sanità italiana, ma
è morta per un’infezione contratta in una sala operatoria dell’ospedale veneto. Dopo due anni e mezzo il
marito e i due figli di 8 e 5 anni non sanno ancora di chi sia la responsabilità. La giovane mamma aveva 41
anni quando il 19 novembre 2012 è deceduta a Villa Sofia dopo due mesi di agonia causata da una
meningite postchirurgica da stafilococco epidermis. Maria Vita viveva con la famiglia a Palermo e nel
settembre del 2012 si era sottoposta ad un intervento chirurgico nel reparto di neurochirurgia del nosocomio
padovano. A seguito della morte i carabinieri hanno sequestrato le cartelle cliniche ed è stata aperta
un’inchiesta dalla procura di Palermo. L’autopsia disposta dal pm palermitano Ennio Petrigni ha confermato
che a causare il decesso è stata l’infezione contratta in ambiente sanitario. Il fascicolo è stato inviato alla
procura di Padova, città dell’ospedale dove sarebbe avvenuto il contagio. Il pm padovano Federica
Baccaglini a distanza di due anni non ha ancora sentito alcun medico e non ci sono iscritti nel registro degli
indagati. Secondo l’avvocato Stefano Pellegrino, legale della famiglia, ci sono difformità anche nei documenti
acquisiti dal- la procura. «Il foglio di dimissioni dall’ospedale di Padova rilasciato al mio cliente contiene
informazioni che non compaiono in quello inserito nelle cartelle cliniche consegnate agli inquirenti — spiega
il legale — Soprattutto manca il dato relativo al d-dimero, un valore che attesterebbe la presenza di
un’infezione al momento delle dimissioni da Padova».
Nell’agosto del 2012 alla donna viene diagnosticata una lesione espansiva extrassiale alle vertebre C1-C2
con un meningioma benigno. Una sorta di ernia cervicale che Maria Vita decide di farsi asportare
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
all’ospedale di Padova. L’intervento, tecnicamente riuscito, avviene il 3 settembre 2012. Ma è nel percorso
postoperatorio che inizia il suo calvario. Mal di testa, nausea e febbre. Ma il 10 settembre Maria Vita
Curatolo viene dimessa da Padova. Torna a Palermo ma non si riprende. Viene ricoverata a Villa Sofia, cade
in coma il 12 novembre e una settimana dopo muore.
Quotidiano Sanità
Calabria. Garante infanzia chiede documentazione su neonata morta
La documentazione, spiega l'Autorità regionale, è stata richiesta “al fine di vigilare sull'effettiva tutela e
realizzazione dei diritti immanenti di cui Maria Pia era titolare". Chiesti al commissario ad acta chiarimenti sui
posti di terapia intensiva neonatale realmente funzionanti in Regione e su eventuali carenze tecniche o
strutturali o di turnover.
Il Garante dell'infanzia e dell'adolescenza della Regione Calabria, Marilina Intrieri, ha scritto all'Azienda
sanitaria di Vibo Valentia chiedendo che gli venga trasmessa la cartella clinica della neonata morta il 28
aprile e di essere informata se sulla tipologia di problematica insorta al momento della nascita in Maria Pia
“sia stato preso contatto con l'unico centro attrezzato in Calabria, presso l'ospedale di Cosenza, per le
terapie adeguate da effettuarsi, entro le previste sei ore, come da protocolli".
La documentazione richiesta, spiega una nota, “è al fine di vigilare sull'effettiva tutela e realizzazione dei
diritti immanenti, di cui Maria Pia era titolare".
Il Garante dell'infanzia ha poi chiesto all'ufficio del commissario per il Piano di rientro in sanità di sapere
quanti siano i posti di terapia intensiva neonatale realmente funzionanti nei reparti di neonatologia delle
aziende ospedaliere calabresi, alla luce di molteplici segnalazioni. "Nelle sole province di Catanzaro e
Crotone, sui previsti dodici posti letto, risultano funzionanti - è scritto in una nota - solo quattro posti di
terapia intensiva, con evidente violazione dei diritti minorili fondamentali".
Intrieri ha chiesto anche se questa situazione sia da imputare a carenze tecniche o strutturali o di turnover
del personale medico e non medico. "In ogni caso - prosegue la nota - va garantito il diritto alla vita, alla
salute ed alle prestazioni sanitarie, diritti costituzionalmente garantiti che nessun Piano di rientro può
violare".
“Con riferimento alla morte di Maria Pia - spiega Intrieri - ho chiesto che mi venga trasmessa copia della
cartella clinica costituendo registrazione di notizie in grado di documentare ogni elemento medicalmente
rilevante sino alla dichiarazione di morte della bambina. Documento da intendersi atto di garanzia della
tutela del diritto alla salute e alla vita di ogni individuo nelle due specifiche connotazioni sanitaria e giuridica"
1 Maggio
La Repubblica Bologna
Protesi al seno la paziente morì medici a processo
CINQUE medici rinviati a giudizio dal gup Domenico Panza per la morte di Ornella Taraschi, fiorentina di 63
anni, deceduta il 19 giugno 2013 dopo interventi chirurgici per la sostituzione di protesi al seno, nella clinica
privata di Villalba. Le protesi erano state impiantate dieci anni prima e si era resa necessaria la loro
sostituzione. La donna era stata sottoposta a due interventi, uno il 28 maggio, l’altro il 18 giugno, secondo la
consulenza del pm troppo ravvicinati. Sotto accusa, inoltre, una presunta carenza nella profilassi antitrombosi. A processo nel giugno 2016 andranno due chirurghi, due anestesisti - uno è Paolo Guelfi, anche
direttore sanitario della struttura - e un medico di reparto. L’accusa è stata rappresentata dal Pm Claudio
Santangelo. «Siamo soddisfatti del rinvio a giudizio, che è un provvedimento che fa seguito e rende merito
ad un quadro accusatorio chiaro. La procura ha fatto un ottimo lavoro», ha commentato l’avvocato Giulio
Basagni, legale di parte civile con Gianluigi Lebro. «Per noi non c’è stata colpa medica, sono eventi che
possono accadere», dice invece il professor Gerardo Martinelli, consulente per l’avvocato Andrea Martinelli
che difende Guelfi.
Gazzetta del Mezzogiorno
Morì durante intervento
Medico in tribunale «Era grave, ma viva»
POTENZA – "Se avessi 'caricato' in terapia intensiva la cartella medica della paziente, forse questo
processo non si sarebbe svolto". Ha chiesto di concludere così la sua testimonianza, oggi nel tribunale di
Potenza, Giuseppe Pittella, direttore dell’unità operativa di Cardioanestesia e Rianimazione Cardiologica
dell’ospedale San Carlo, nell’ambito del processo per la morte di Elisa Presta, la paziente di 71 anni
deceduta nel 2013 durante un intervento per la sostituzione di una valvola aortica. Il medico, rispondendo
alle domande dei giudici, ha spiegato che la paziente è arrivata in condizioni "molto gravi" nella terapia
intensiva, ma ancora viva (rispetto alle ipotesi dell’accusa, secondo cui la donna sarebbe invece morta già in
sala operatoria).
Maggio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Per Pittella, lo stato della donna era grave, e il lasso di tempo tra l’arrivo nella terapia intensiva e il decesso
sarebbe stato brevissimo, e solo per una questione "burocratica" la cartella clinica sarebbe stata "caricata",
ovvero compilata e inserita nell’archivio dell’azienda ospedaliera, da altri: "Forse abbiamo sbagliato a non
caricarla noi – ha evidenziato il medico – ma si tratta di una mera questione di compilazione, e di pochi
minuti, e non pensavo poi di trovarmi davanti ai giudici a dover giustificare questo passaggio, ma questa è la
verità".
Il processo (con rito immediato) a carico di tre medici dell’ospedale San Carlo – il primario del reparto di
Cardiochirurgia, Nicola Marraudino, e i due cardiochirurghi Michele Cavone e Matteo Galatti – coinvolti
nell’inchiesta con l'accusa di omicidio colposo e falso, è cominciato lo scorso febbraio: la prossima udienza,
secondo il calendario fissato dal giudice Lucio Setola, si svolgerà il prossimo 26 maggio.
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