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Paziente depresso e relazione terapeutica

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Paziente depresso e relazione terapeutica
Cognitivismo Clinico (2012) 9, 1, 26-40
PAZIENTE DEPRESSO E RELAZIONE TERAPEUTICA
Giovanni Fassone*, Floriana Lo Reto**
* psichiatra e psicoterapeuta, socio didatta SITCC
** psicologa e psicoterapeuta, socio ordinario SITCC
Corrispondenza: [email protected]
Sesto Centro di Psicoterapia Cognitiva, Via Leone IV, 38 - 00192 Roma
Riassunto
Attraverso la descrizione di sei casi clinici si affronterà il tema della relazione terapeutica con i pazienti
depressi i quali spesso sono etichettati come tali, a scapito della complessità della loro condizione non solo
clinica ma anche personale ed esistenziale. Nel tentativo di rendere un quadro d’insieme delle possibili
implicazioni relazionali e dei relativi ostacoli che il paziente depresso manifesta nel corso del trattamento si
è suddivisa la popolazione di pazienti depressi in 4 macrocategorie: la prima riguarda le forme depressive
maggiori, unipolari e bipolari e le forme depressive più lievi come le distimie; la seconda è rappresentata
dai quadri depressivi secondari ad altro disturbo in asse I, la terza riguarda i quadri depressivi associati ad
alcuni disturbi di personalità (cluster B e C in particolare) mentre la quarta include le condizioni depressive
legate a particolari condizioni esistenziali, come effetto di eventi di vita negativi. Queste 4 macrocategorie,
cliniche in senso lato, possono dare un’idea della variabilità delle situazioni depressive e delle problematiche
che il paziente con depressione mostra o mette in atto nella costruzione e nel mantenimento della relazione
terapeutica.
Avvalendosi degli esempi clinici si vuol sottolineare il ruolo cruciale di una buona capacità di
comprensione e gestione delle dinamiche relazionali e intersoggettive che sempre si attivano nel corso
della terapia.
Parole chiave: depressione, relazione terapeutica, comorbilità, suicidio.
DEPRESSED PATIENT AND THERAPEUTIC RELATIONSHIP
Abstract
Through the description of six clinical cases the theme of therapeutic relationship with depressed
patients will be discussed. Too often depressed patient are labeled as such, regardless to their complex
personal and existential condition. This paper will tentatively describe obstacles and possible relational
implications in the treatment of “depressed patients”, that will be categorized into 4 groups: unipolar and
bipolar depression; depression due to other Axis I disorder; depression in comorbidity with personality
disorders; depression that occurs along with particular life events or condition.
Key words: depression, therapeutic relationship, comorbidity, suicide
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Paziente depresso e relazione terapeutica
“The depressed person was in terrible and unceasing emotional pain,
and the impossibility of sharing or articulating this pain
was itself a component of the pain
and a contributing factor in its essential horror”
David Foster Wallace “The depressed person”, 1998
Introduzione
La citazione di David Foster Wallace, scrittore americano contemporaneo, morto suicida nel
2008, è lì a ricordarci quale sia uno degli aspetti centrali della sofferenza del paziente depresso.
Ma è stata scelta anche per un altro motivo. Il brano, insieme ad altri dello stesso autore, è stato
selezionato da una paziente che nell’inviarlo al terapeuta in un momento di grave stallo della
terapia, ha sottolineato le seguenti parole: “the impossibility of sharing or articulating this pain
was itself a component of the pain and a contributing factor in its essential horror”. L’intenzione
della paziente era quella di dare voce alla propria esperienza depressiva, non tanto in relazione
agli aspetti sintomatici, quanto piuttosto rispetto ai vissuti che la paziente ha sperimentato e
sperimenta nella relazione con l’altro allorché si trova a descrivere il suo mondo. La solitudine,
la percezione della impossibile condivisione, l’orrore di sé rappresentano insieme ad altri vissuti,
alcuni degli aspetti più significativi della esperienza depressiva e – al contempo – uno degli
ostacoli più ardui che il terapeuta si trova ad affrontare nel trattamento del paziente depresso.
Già.
Ma di quale paziente depresso parliamo?
Un primo aspetto da considerare quando si affronta il tema della relazione del paziente
depresso è legato alla tipologia di paziente con la quale ci si confronta. È infatti innegabile che
dietro la definizione “paziente depresso” si celino condizioni molto diverse tra loro, soggetti
che differiscono moltissimo a livello clinico, rispetto ai tratti di personalità e – non ultimo – su
un piano esistenziale, in relazione agli eventi di vita e alle risorse che il paziente è in grado di
mobilitare. Senza alcuna pretesa di esaustività, si può tuttavia provare a tracciare una breve
descrizione di questa casistica, in modo da introdurre già da questa prima parte iniziale il tema
che sarà sviluppato nel corso del lavoro. È evidente difatti che di fronte a pazienti affetti da
diverse condizioni depressive è necessario formulare come prima cosa un corretto inquadramento
del caso e poi una riflessione sulle dinamiche relazionali che i pazienti in ciascuna condizione
possono mettere in atto nel corso della terapia, nelle sue diverse fasi.
È di tutta evidenza che una condizione depressiva più o meno pronunciata sul piano
sintomatologico possa manifestarsi in quasi tutti i quadri clinici. Ai fini della nostra discussione
è utile suddividere la popolazione di pazienti depressi in 4 macrocategorie. La prima riguarda
le cosiddette forme depressive maggiori, unipolari e bipolari, che siano o meno in trattamento
farmacologico. A queste condizioni si aggiungono forme depressive più lievi, anche se con
andamento cronico, come le cosiddette distimie; una seconda categoria è rappresentata dai quadri
depressivi secondari ad altro disturbo in asse I, per esempio la depressione secondaria a disturbo
da attacchi di panico o al disturbo ossessivo-compulsivo; una terza riguarda i quadri depressivi
associati ad alcuni disturbi di personalità (cluster B e C in particolare) mentre la quarta include
le condizioni depressive legate a particolari condizioni esistenziali, come effetto di eventi di
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
vita negativi, soprattutto se protratti nel tempo in termini di implicazioni e conseguenze per il
paziente. È chiaro che ci possa essere una reciproca influenza tra quadro clinico o nosografico
propriamente detto (per esempio una depressione maggiore unipolare) ed eventi di vita, ma ai
fini della nostra discussione si richiede di fare uno sforzo particolare nel distinguere gli aspetti
primari del disturbo da quelli secondari o successivi, proprio perché nella dinamica relazionale,
questa distinzione a nostro parere assume una rilevanza sempre maggiore nell’impostazione e
soprattutto nella prosecuzione della terapia.
Queste 4 macrocategorie, cliniche in senso lato, possono dare un’idea della variabilità delle
situazioni depressive e delle problematiche che il paziente con depressione mostra o mette
in atto nella costruzione e nel mantenimento della relazione terapeutica. Come accennato in
precedenza, è molto difficile se non fuorviante generalizzare e standardizzare questa variabilità
entro categorie definite, rispetto alle quali rappresentare in modo più o meno prevedibile gli
schemi relazionali che il paziente di questo o quel gruppo adotterà nel corso della terapia. Quello
che ci pare ragionevole fare è di fornire un quadro d’insieme che sia sufficientemente coerente
ma che non appiattisca la realtà clinica in categorie eccessivamente rigide, poco fruibili per la
cura delle persone. Un aiuto in tal senso ci giunge come sempre dalla clinica, ed è per questo
che cercheremo di fornire alcuni esempi clinici un po’ più approfonditi nel tentativo di rendere
un quadro d’insieme delle possibili implicazioni relazionali e dei relativi ostacoli che il paziente
depresso manifesta nel corso del trattamento, cercando di formulare degli esempi che siano in
qualche misura rappresentativi di ciascun gruppo, senza la pretesa di voler essere in nessun modo
esaustivi.
1) Forme
depressive maggiori unipolari o bipolari
Agata: è una donna di 52 anni, intelligente e vivace su un piano sociale e relazionale, che
viene in terapia dopo una buona esperienza di trattamento farmacologico e psicoterapeutico
con un collega cognitivista, con il quale ha avuto una buona relazione di cura durata 4 anni.
Agata è una paziente con una depressione maggiore unipolare ricorrente, con episodi che si
susseguono ogni 12-18 mesi, di una certa gravità, nel corso dei quali non riesce a lavorare, a
prendersi cura della sua persona e della sua vita per un periodo di almeno 2-3 mesi. Sebbene
la prima richiesta fosse quella di una valutazione farmacologica, contestualmente la paziente
formula anche una richiesta di psicoterapia, avendo interrotto la precedente per un problema
relazionale con il collega. In particolare, la paziente riferirà di non essersi sentita accolta e
adeguatamente compresa e sostenuta in un ambito della propria vita di relazione: la possibilità
di mantenere e sostenere una doppia relazione, quella con il marito, a cui è molto affezionata ma
con il quale non ha rapporti sessuali, e quella con un altro uomo, a cui è legata da alcuni anni
da una fortissima attrazione fisica ed una forte complicità. La rottura della precedente relazione
terapeutica, si era sostanzialmente consumata su questo punto, e cioè sul fatto che il collega,
non senza una buona dose di buon senso, aveva cercato di dissuadere la paziente dal proseguire
questo ménage, a suo parere troppo complicato su un piano personale ed oneroso rispetto alle
risorse di cui la paziente poteva disporre, anche in relazione alla sua condizione di paziente
depressa unipolare ricorrente. Dunque, quello che agli occhi del precedente terapeuta sembrava
un intervento – inscritto in una buona cornice relazionale – senz’altro protettivo e conservativo
rispetto al quadro clinico depressivo, è stato invece vissuto dalla paziente come un rifiuto. In
particolare questo rifiuto riguardava a suo dire una parte essenziale e molto vitale del suo modo
di essere e di stare al mondo.
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Paziente depresso e relazione terapeutica
L’esempio appena discusso permette di evidenziare bene le continue transizioni tra piani
diversi della terapia: dal piano strettamente clinico a quello – per così dire - più esistenziale
della paziente. Nel “censurare” quest’aspetto, il collega pur non assumendo in nessun modo
una posizione moralistica o giudicante, aveva di fatto negato alla paziente il diritto a esistere di
questa parte che invece rappresentava per la paziente stessa un aspetto fondamentale e fortemente
vitalizzante a cui non voleva in nessun modo rinunciare. In altre parole, il terapeuta senza volerlo
ha invalidato l’importanza di una esperienza emotiva su un tema di vita di grande rilevanza per
la paziente.
Ai fini delle implicazioni relazionali nel trattamento del paziente depresso, ci pare importante
evidenziare una linea di demarcazione piuttosto netta e significativa: quella che divide le
cosiddette forme depressive con una componente biologica, che necessitano almeno in alcune
fasi di un trattamento farmacologico adeguatamente valutato e monitorato nel tempo, da quelle
forme in cui la componente depressiva “biologica” non sembra giocare un ruolo decisivo
nell’influenzare il decorso del disturbo e quindi della psicoterapia. Perché è importante questa
linea di demarcazione? Per un motivo molto semplice. Ci sono forme depressive unipolari, e
ancor più nello spettro bipolare, in cui la variazione dell’umore in senso depressivo avviene
in modo molto imprevedibile, non di rado repentino. Il paziente che ne soffre riferisce spesso
di un rapido cambiamento del suo modo di sentirsi, di vedere le cose e le sue relazioni, che si
realizza nel giro di pochi giorni, a volte non più di una settimana appena. In alcuni casi non rari,
il paziente descrive come un click nel cervello, “come un interruttore che spegne la mente” e ne
azzera la vitalità, dalla sera alla mattina del giorno dopo. Il tutto può apparentemente avvenire
senza un motivo, senza un evento scatenante degno di nota e senza un preavviso che possa
essere utilizzato anche solo per mettere in pre-allarme paziente e terapeuta. È facile comprendere
come questa condizione, frequente in questa categoria di pazienti, introduca un primo grande
problema nella costruzione da parte del paziente di una solida alleanza terapeutica. Il fatto che
la propria vita mentale possa essere annichilita nel giro di pochi giorni e che si possa passare
da una condizione di relativo benessere ad una condizione depressiva che si aggrava nel giro di
una o due settimane, rappresenta un ostacolo non indifferente alla costruzione di senso rispetto
al lavoro terapeutico.
Il paziente trae da ciò il rinforzo al proprio convincimento tipicamente depressivo che tutto
è inutile, che nulla abbia senso e che non ci sia nulla di sensato da fare per modificare queste
sue convinzioni. Per lo psicoterapeuta questa è una delle sfide più ardue e faticose da affrontare.
Appare infatti molto difficile smentire il paziente, sempre che non gli si voglia negare il senso
dell’esperienza depressiva così come è stata descritta in precedenza. Al contempo è assai
complicato intervenire su un paziente la cui condizione è quella di una devitalizzazione della
propria esistenza, in cui il senso stesso della propria vita e della propria quotidianità è messo
radicalmente in discussione. Il terapeuta, soprattutto se giovane e relativamente inesperto, può
facilmente sperimentare un senso di impotenza e di frustrazione che spaventa il paziente se non
altro perché gli conferma le proprie convinzioni/percezioni di sé, degli altri, del mondo come
entità prive di senso e di valore. In questi momenti il paziente può essere tentato di abbandonare
la psicoterapia, assumendo una posizione di ritiro tanto sofferente dall’indurlo a rinunciare a
chiedere aiuto o – nei casi più gravi – elaborare progetti suicidari come extrema ratio per alleviare
o cancellare una condizione di sofferenza e di perdita di significato che non è più tollerabile. In
questa categoria di pazienti il drop-out dal trattamento psicoterapico si realizza più di frequente
in queste fasi delicate in cui il senso della terapia è messo a dura prova dalle oscillazioni del
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
tono dell’umore che tendono a travolgere come un’onda di tsunami le costruzioni di significato
faticosamente elaborate nelle sedute e nei mesi precedenti.
L’esempio clinico di Agata, che nella sua storia clinica ha molte volte sperimentato il click
nel cervello che la spegne e la devitalizza, permette tuttavia di fare un’altra riflessione relativa
agli ostacoli che il paziente “depresso” può frapporre fra sé e la costruzione e il mantenimento
di una buona relazione terapeutica. Questa riflessione riguarda non solo i pazienti con forme
depressive maggiori, ma anche pazienti con forme depressive secondarie ad altri disturbi in asse
I. Come per il caso di Agata, non bisogna mai perdere di vista gli aspetti personali, esistenziali del
paziente anche quando questi appaiono relativamente marginali rispetto al primato della clinica,
dei sintomi e del trattamento per i medesimi. Un approccio cognitivo-comportamentale moderno,
pur non rinunciando ai principi fondanti che lo ispirano, non può a nostro parere prescindere da
una attenzione alle dinamiche personali e relazionali che si sviluppano nella terapia a partire dal
paziente. Appare, infatti, di fondamentale importanza la capacità di cogliere – al di là degli aspetti
più squisitamente clinici o di organizzazione cognitiva – anche gli aspetti unici e irripetibili che
ciascun paziente rappresenta in terapia in modo diretto o più frequentemente indiretto o implicito
e che sono alla base della sua maggiore o minore capacità di costruire un legame significativo. Il
caso seguente può fornire un valido esempio.
Paola, 47 anni, lavora come funzionario presso un ente pubblico; vive da sola e non ha
relazioni sentimentali importanti e stabili da 13 anni. Richiede aiuto per il ‘crollo psico-fisico’
avuto negli ultimi mesi, che l’ha portata a prendere qualche giorno di malattia al lavoro perché
non riusciva più a concentrarsi. La crisi segue un periodo di incomprensioni e conflitti con il
capo. Le tensioni sul lavoro si fanno così forti che le prestazioni professionali calano e Paola
non lo accetta. Lamenta disturbi del sonno, riduzione dell’appetito, astenia, perdita di interessi,
rimuginio, ritiro sociale, bassa autostima, disperazione, senso di inutilità. Sul piano clinico si
rileva un disturbo depressivo maggiore con ansia marcata, e le viene prescritto: Efexor, Xanax e
Dalmadorm in aggiunta a tre mesi di sospensione dell’attività lavorativa.
Durante i primi incontri Paola ribadisce di non essere mai stata così depressa e che sente
di non potercela fare ad uscire da questo stato di sofferenza atroce. Chiede continuamente
rassicurazioni aspettando consigli e soluzioni al problema da parte del terapeuta, ma svalutando
allo stesso tempo sia il terapeuta che la psicoterapia (la richiesta paradossale è: aiutami, ma
non mi puoi aiutare): “… la prego, mi dica che ce la posso fare ad uscire da questo orrendo
tunnel, mi sento persa... Non so come lei, oltretutto anche giovane, possa aiutarmi a riprendere
a vivere; nessuno mi può aiutare, sono solo io la soluzione del problema...”. Paola si descrive
come una persona che fino al momento della crisi era stata molto autonoma e in grado di
affrontare bene le varie situazioni di vita (perdita dei genitori quando era giovane, vari problemi
fisici debilitanti, la solitudine); ritrovarsi a chiedere aiuto perché non in grado di farcela da sola
era difficile e fonte di vergogna “… me la sono cavata sempre da sola nella vita, ritrovarmi qui
a chiedere aiuto mi fa sentire sconfitta e mi vergogno di farmi vedere in questo stato”.
Le rappresentazioni iniziali che Paola ha del terapeuta e della terapia rendono difficile la
costruzione di una buona alleanza terapeutica. Sfiducia e scetticismo della paziente coesistono
con l’idea del terapeuta ‘mago’ che dà consigli e soluzioni; tutto ciò ostacola la realizzazione
di quel piano di collaborazione tra paziente e terapeuta essenziale per la terapia. Qualche
elemento di storia della paziente ci può aiutare a capire meglio.
A 13 anni Paola, primogenita di due figli, perde il padre in un incidente stradale e si ritrova
ad accudire la madre e il fratello. Trascorre tutta l’adolescenza tra gli impegni scolastici e
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casalinghi, poiché la madre non era più in grado di prendersi cura dei figli. Considerando le
esperienze di precoce maturità che Paola ha vissuto, potremmo ipotizzare che queste la portano
a sperimentare il ruolo di “paziente”, ovvero di persona bisognosa di cura e sostegno, come
un qualcosa di degradante per la sua autostima. Da un lato la terapeuta è considerata come
incapace di aiutarla ad apprendere qualcosa di nuovo su se stessa, dall’altro ha un disperato
bisogno di qualcuno che rivesta il ruolo del mentore che gli fornisce quella guida che non ha
ricevuto nell’adolescenza.
Dopo il primo mese di terapia farmacologica i sintomi più acuti iniziano a regredire e la
paziente si mostra più collaborativa. Il percorso procede verso un netto miglioramento e in
quattro mesi la crisi sembra rientrata. Un difficile momento di impasse si ha dopo un anno
(gli incontri si erano diradati) quando la paziente ha di nuovo problemi sul lavoro e inizia
a lamentare difficoltà di concentrazione. Questo campanello di allarme scatena una reazione
emotiva intensa, tanto da far temere alla paziente una nuova crisi. Nel volgere di pochi giorni,
Paola sta di nuovo molto male e si interroga su quanto fatto fino a quel momento, mettendo
in discussione tutto il percorso di cura ed in particolare la terapeuta. Si ripropongono i temi
relazionali paradossali dei primi tempi della terapia “aiutami, ma non mi puoi aiutare”. La
paziente mette nuovamente e ripetutamente alla prova la terapeuta con dei test relazionali volti a
saggiare inconsapevolmente la disponibilità della terapeuta ad accogliere la sua sofferenza e ad
aiutarla e – soprattutto – la sua capacità “di reggere” al peso di quella che sembra una nuova
ricaduta depressiva. Si profila il rischio di una rottura dell’alleanza terapeutica, così come si
era verificato nei primi tempi del trattamento. La terapeuta, tuttavia, forte dell’esperienza fatta
nella prima parte della terapia, supera i test relazionali sulla base della convinzione di poter
lavorare efficacemente sulle credenze patogene della paziente e sulla fiducia nel trattamento.
L’esperienza già vissuta permette ad entrambe – paziente e terapeuta – di superare in minor
tempo e con meno fatica, il rischio di una frattura dell’alleanza e la sua successiva ricostruzione.
2) Quadri depressivi secondari ad altro disturbo in asse I
Gli esempi clinici seguenti evidenziano come sia possibile e a volte necessario imprimere
un salto di qualità al lavoro con il paziente depresso, che come in questi casi, manifesta un
quadro clinico di comorbilità in asse I, unitamente a una storia di sviluppo gravata da esperienze
traumatiche, compatibili con uno stile di attaccamento di tipo disorganizzato. In questi casi
l’ostacolo alla relazione da parte del paziente non è solo rappresentato dalle tematiche tipiche
del paziente depresso (mancanza di senso, inutilità, sfiducia) ma dalla impossibilità di concepire
una relazione in cui possa sentirsi al sicuro, accolto anche e soprattutto nel momento di maggiore
vulnerabilità.
Roberto: è un signore di 58 anni, sposato con tre figli ormai grandi, sofferente da molti
anni di disturbo di panico con agorafobia, disturbi depressivi con andamento intermittente non
meglio specificati e trattati negli anni con antidepressivi e benzodiazepine, con risultati alterni
sia sulla sintomatologia depressiva che su quella primaria del disturbo di panico. Il paziente
mostrava anche una notevole quota di rabbia, che in terapia si manifestava nei confronti del
terapeuta in forma di critica sugli interventi, desiderio di contrapporsi al ruolo del terapeuta
percepito come soverchiante e competitivo, nella sostanziale incapacità di affidarsi anche solo
in parte ad una figura da cui potesse avere cura e conforto.
Nella sua storia riferiva di altri due interventi psicoterapici, rivelatisi fallimentari sul piano
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della efficacia e di una corretta gestione della relazione terapeutica da parte dei colleghi. Il
paziente riferiva inoltre una storia di eventi traumatici, rappresentati da numerosi episodi di
violenza e umiliazione da parte del padre (il padre picchiava il figlio se tornava sudato a casa o
in ritardo dopo aver giocato con i suoi amichetti oppure per punizione lo legava ad una gamba
del letto lasciandocelo anche per diverso tempo) e, da parte della madre, un atteggiamento di
ansiosa impassibilità e inaccessibilità affettiva. In questo caso, in cui la depressione derivava da
intensi vissuti di solitudine ed abbandono unitamente all’esperienza emotiva ripetuta del trauma
e della umiliazione, la chiave di volta della terapia è stata rappresentata da due episodi distinti,
verificatisi a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro. Nel primo, il paziente ha avuto modo di
sottoporre il terapeuta ad un classico test relazionale allorché ottenuto un certo apprezzabile
miglioramento clinico manifestava l’intenzione di lasciare la terapia, concordandone un po’
frettolosamente la chiusura.
La sensazione netta del terapeuta era che il paziente avesse certamente ottenuto un
miglioramento clinico, ma che questo avesse nel frattempo lasciato del tutto inalterato il
modello operativo interno di attaccamento (disorganizzato, compensato da una strategia
controllante punitiva). Il paziente non aveva avuto modo di fare attraverso la terapia un lavoro
specificamente orientato sulle sue tematiche profonde di abbandono e solitudine. Non senza
una fase di negoziazione, il terapeuta decide quindi di proporre la prosecuzione della terapia,
rappresentando al paziente queste sue considerazioni e affrontando una fase di ridefinizione
degli obiettivi, che venivano dunque orientati da un piano strettamente clinico (la sintomatologia
di panico) a quello delle dinamiche relazionali. Questa scelta del terapeuta, a cui il paziente
ha aderito non senza qualche difficoltà, ha permesso con il tempo di approdare ad un livello
di maggiore capacità autoriflessiva, di entrare più in profondità rispetto alla natura delle
esperienze di attaccamento.
Ciò ha permesso con il tempo di creare le condizioni di sicurezza e fiducia, affinché il paziente
potesse superare la paura dell’umiliazione e dell’abbandono in situazioni di vulnerabilità,
permettendogli di rievocare e condividere con il terapeuta nuovi ricordi significativi, che
permettono al paziente di ridefinire la figura del padre, non solo come aguzzino, ma anche
come una persona capace di tenerezza e di autentico interesse nei suoi confronti. Il paziente
ricorda – piangendo ‒ un episodio in cui il padre teneramente e pazientemente insegnava al
figlio a suonare uno strumento musicale. D’altro canto, l’esperienza della solitudine e della
inaccessibilità materna, persistente e invariante nel corso degli anni al punto da configurare
una condizione di neglect fisico ed emotivo, viene rievocata dal paziente in numerosi episodi
che permettono al terapeuta di restituire senso alla esperienza di solitudine e di ridefinire le
origini del suo disturbo, sia in relazione alla cosiddetta ‘depressione̕ sia rispetto agli attacchi
di panico.
In questo caso, l’ostacolo più grande alla costruzione e al mantenimento della relazione terapeutica
era rappresentato dall’idea che la fonte di cura non potesse essere altro che un persecutore da
cui difendersi, e – in una seconda fase – dalla radicata quanto inconsapevole convinzione che
la dolorosa esperienza di neglect non fosse in alcun modo condivisibile o comprensibile da
nessuno. In questo contesto relazionale, la validazione di queste emozioni attraverso l’esperienza
emotiva correttiva ha rappresentato il punto di svolta del trattamento e il primo passo verso
una radicale modificazione del rapporto terapeutico ed una successiva fase di conclusione della
terapia.
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Paziente depresso e relazione terapeutica
Anna, 30 anni, lavora come architetto presso uno studio privato. È fidanzata da 10 anni
e da poco ha acquistato una casa con il compagno per poi sposarsi. Decide di intraprendere
una psicoterapia perché la psichiatra alla quale si è rivolta per degli strani pensieri associati
ad esaurimento le consiglia un ‘doppio percorso’. I problemi che porta Anna sono molteplici:
pensieri ossessivi sulla propria identità sessuale (sarò omosessuale?), preoccupazioni intense
per la salute, estrema insoddisfazione e delusione per la sua carriera lavorativa, una visione
negativa della vita unitamente ad un profondo stato di tristezza con perdita di interessi, insonnia,
ritiro sociale, riduzione dell’appetito, difficoltà di concentrazione. Si descrive come una persona
precisa, molto responsabile, rigida e a volte testarda, che spesso si mette in competizione sul
piano estetico con le donne e sul piano del successo professionale con gli uomini. Clinicamente
Anna soddisfa i criteri per un disturbo ossessivo-compulsivo e per un disturbo depressivo
secondario. La psichiatra nel frattempo le prescrive Cipralex. Anna esprime apertamente il
suo scetticismo rispetto ai possibili effetti benefici del farmaco e della psicoterapia “non credo
che con un farmaco o che con lei io possa risolvere i miei problemi, ma sono qui perché non
ho più scelta; sto troppo male e rischio che il mio fidanzato si stufi di me se continuo così…”
e porta a sostegno delle sue idee anche il fallimento dei 10 incontri fatti con una sessuologa
“… La psichiatra mi ha dato quel nominativo e sono andata, ma io non sono preoccupata per
il fatto di non avere l’orgasmo, io ho il dubbio e la paura che mi possano piacere le donne…”.
Anna dice alla terapeuta che stare davanti a lei la fa sentire sconfitta e fallita, così come si
sente quando lavora o rimugina sul fatto che sta svolgendo un’attività che non corrisponde a
ciò che desiderava, paragonando il suo insuccesso al successo della terapeuta “penso che lei
sia riuscita nel suo intento: studiare tanto per poi fare un lavoro che le piace e la fa guadagnare
bene, io non ce l’ho fatta, ho sbagliato facoltà, e ora mi ritrovo a stare tutto il giorno in uno
studio privato per guadagnare uno stipendio da fame. Quei pochi soldi che guadagno non mi
permettono di essere autonoma economicamente, devo continuare a dipendere dai miei genitori
a 30 anni!!...”
La paziente si rappresenta la terapeuta come una professionista di successo, che è riuscita a
realizzare i suoi sogni e che quindi può essere indipendente. L’attivazione continua del sistema
agonistico rende difficile la costruzione e il mantenimento dell’alleanza terapeutica poiché la
paziente, nel confrontarsi con la terapeuta, si sente spesso una fallita e vittima.
Dopo circa cinque mesi Anna mostra un miglioramento della sintomatologia ossessivocompulsiva e una stabilizzazione del tono dell’umore, da attribuirsi agli effetti dei farmaci,
al lavoro cognitivo-comportamentale sul DOC e alla costruzione di una buona relazione
terapeutica. Anna infatti inizia ad accogliere le osservazioni e riflessioni della terapeuta, ad
aprirsi e a parlare anche di aspetti di sè inizialmente non condivisi. Le parole della paziente
sono esplicative di questo cambiamento: “... inizialmente non credevo di potermi sentire meglio
parlando dei miei problemi con un estraneo, ora invece aspetto il nostro incontro per potermi
confrontare con lei, ascoltare le sue parole per poi ragionarci insieme. Prima era mia madre
l’unica confidente, ma mi sto rendendo conto della differenza, lei dottoressa non mi dice cosa
devo o non devo fare, ma mi aiuta a capire e questo mi fa sentire più libera di dire tutto quello
che mi passa per la testa e come mi sento…”. Questo cambiamento di prospettiva aiuta la
terapeuta, in accordo con Anna, a spostare l’attenzione su argomenti fino a quel momento rimasti
volutamente nell’ombra: a breve Anna avrebbe affrontato un importante cambiamento di vita
(l’imminente matrimonio e il desiderio di avere un figlio), senza essere ancora riuscita a trovare
un lavoro stabile e sicuro, così come invece avevano fatto i suoi genitori prima di “mettere su
famiglia”. È su questi temi che la terapia ha proseguito per i sei mesi successivi.
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
3) Disturbi depressivi associati a disturbi di personalità
Questa categoria, molto eterogenea, è rappresentata dai pazienti che hanno dei vissuti
profondamente depressivi, quando non degli episodi veri e propri, all’interno di un quadro clinico
compatibile con un disturbo di personalità, in particolare del cluster B e C. Per definizione, questi
i vissuti depressivi e gli episodi che ne derivano, si inscrivono in un quadro più complesso
in cui la rete delle relazioni, il livello dell’adattamento psicosociale, la capacità di sviluppare
o migliorare funzioni metacognitive, sono l’oggetto complesso e articolato dell’intervento
terapeutico. In queste situazioni l’ostacolo alla costruzione di una relazione terapeutica non è
il prodotto di una condizione depressiva primaria, ma è soprattutto il frutto delle caratteristiche
di personalità del paziente, della gravità del quadro clinico, del livello di funzionamento e di
adattamento sociale e – non ultimo – delle risorse che il paziente è in grado di rendere disponibili
per la terapia.
Eleonora è una paziente molto grave, con un disturbo borderline di personalità, pregresso
di abuso di cocaina e di alcol, episodi depressivi ricorrenti e comportamenti parasuicidari e
suicidari, che l’hanno portata nella sua vita a mettere in atto tre gravi tentativi di suicidio
(in realtà dei suicidi mancati). Per avere un’idea, l’ultimo di questi episodi, si verifica dopo
una massiccia inalazione cocaina, a cui ha fatto seguito una insufficienza respiratoria su base
vasculopatica secondaria all’effetto vasocostrittivo della cocaina, coma, polmonite ab ingestis
e la comparsa di crisi epilettiche su base ipossica. La paziente è stata 3 settimane in coma e 2
mesi in rianimazione e successivamente ricoverata in SPDC e poi in clinica per altri 3 mesi. Nel
caso di Eleonora come di altri analoghi, l’ostacolo più grande alla relazione, si manifesta nei
momenti in cui si ritrova “disperata e depressa” nel breve volgere di 3-4 giorni. È la comparsa
di un senso di vuoto che potremmo definire cosmico, la perdita totale dei confini che annulla,
letteralmente, il senso di tutto. Il deserto delle relazioni che la circonda fa il resto e contribuisce
in modo decisivo a rendere intollerabile la sua condizione depressiva e accentua i vissuti di
vuoto e perdita dei confini di sé. Quello che resta è solo un senso di angoscia pervasiva e
indifferenziata, che rende impossibile anche la mera comunicazione della sofferenza, compreso
dunque il mantenimento del dialogo con il terapeuta.
È in questo contesto generale che maturano anche gli episodi depressivi secondari, che il
terapeuta/psichiatra si trova a dover affrontare, in una situazione relazionale in cui la paziente
perde il contatto da sé e quindi anche con il terapeuta. L’ostacolo, uno dei tanti in questo caso, alla
costruzione e al mantenimento di una relazione terapeutica salda anche nei momenti di difficoltà
è rappresentato dalle rappresentazioni di sé frammentate e disorganizzate, che si traducono
in comportamenti e relazioni caotiche e disordinate, il cui leit motiv inconsapevole può essere
riassunto così “dentro e intorno a me deserto e desolazione”. Anche la terapia in questi momenti
fa parte del paesaggio desertificato e desolato, e per un lungo periodo il terapeuta si dibatte
tra l’inefficace contenimento dei comportamenti di abuso e delle spese folli, il tentativo di dare
un senso di continuità alla terapia continuamente minacciata, e la costruzione di una relazione
dotata di senso e significato agli occhi della paziente. In un caso del genere, obiettivamente ai
limiti della trattabilità, se la terapia va avanti lo si deve probabilmente ad una molteplicità di
fattori, alcuni dei quali del tutto indipendenti dall’agire terapeutico. Un episodio che però vale
la pena di citare, e che ha sicuramente influenzato sia la paziente che – soprattutto – il terapeuta
è il seguente. È il momento in cui il terapeuta si reca in visita alla paziente mentre è ricoverata in
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Paziente depresso e relazione terapeutica
rianimazione, una volta dichiarata fuori pericolo di vita. Il terapeuta entra in reparto, si avvicina
al letto e la paziente che era addormentata, viene delicatamente svegliata da una infermiera. La
paziente non sapeva che il terapeuta sarebbe venuto a trovarla. Nel vederlo lo riconosce dopo un
breve attimo di esitazione (era coperto con gli indumenti protettivi che si usano per entrare nei
reparti di rianimazione) e subito manifesta una immediata reazione di commozione, che tenta
di esprimere a parole senza riuscirci. La paziente è intubata. Allora sorride, piange, si agita un
poco cercando di liberare la mano dalle bendaggi e dalle flebo per stabilire il contatto con la
mano del terapeuta, cercando di spiegargli a gesti – semmai ve ne fosse bisogno – che non può
parlare indicando il respiratore. Il terapeuta le si rivolge ‒ non senza commozione ‒ dicendole
di essere contento di ritrovarla viva, e dopo qualche breve scambio, si congeda.
Nel panorama desolato del mondo di relazioni della paziente, fatto di spacciatori, cocainomani
e approfittatori, l’episodio descritto rappresenta una novità assoluta e inaspettata per la paziente.
Per il terapeuta, d’altro canto, è stato descritto come uno dei momenti più intensi e toccanti della
propria vita professionale, e ha rappresentato un potente rinforzo della sua figura di curante,
permettendogli di rinnovare su una base nuova e più vincolante, il patto di cura con la paziente.
Simone ha 37 anni, lavora come capo contabile presso una società francese ed è single.
Fra le motivazioni che lo inducono a iniziare un trattamento ci sono la difficoltà a stabilire e
mantenere relazioni sentimentali e amicali, una profonda tristezza per la sua solitudine e per
il sentirsi invisibile Sin dall’infanzia è presente un evitamento attivo delle relazioni sia sociali
che intime per il timore di essere disapprovato o rifiutato, ma anche per la paura di essere
esposto alla vergogna. C’è in Simone il forte desiderio di amore e accettazione ma il suo sentirsi
inadeguato, brutto, socialmente inetto e inferiore agli altri lo porta ad evitare le relazioni fino
a quando non si sente molto sicuro di essere accettato. È stata la sua unica amica a spingerlo a
chiedere aiuto ed è al suo primo trattamento terapeutico. Sul piano clinico si rileva un disturbo
di personalità evitante e un disturbo distimico.
La prima fase della terapia è caratterizzata dalla grande sfiducia che Simone nutre verso
la possibilità di essere aiutato “… ho difficoltà a relazionarmi da quando ero piccolo, è il mio
carattere e non ho speranze di poter cambiare questa cosa... penso che a nessuno interessino i
miei problemi…” e dalla difficoltà di mostrare l’intensità della sua disperazione per timore di
essere giudicato negativamente dal terapeuta e quindi abbandonato “… se dicessi a lei e alle
poche persone che frequento come mi sento nel profondo capireste come sono veramente e potrei
rimanere ancora più solo…”. Queste problematiche sono maggiormente comprensibili se si
considera che i primi anni di vita di Simone sono caratterizzati da ripetute e dolorose esperienze
di distacco dai genitori i quali, per motivi di lavoro, delegano totalmente l’accudimento del figlio
alla nonna materna che vive a 100 Km di distanza. Quando Simone ha 3 anni nasce il fratello e
la madre lascia il lavoro per accudire il neonato mentre lui rimane con la nonna fino ai suoi 6
anni. Tornato a vivere con i genitori non riesce ad inserirsi in quella famiglia alla quale sente di
non appartenere e si adatta a quel sistema familiare mettendosi in un angolo con l’intento di non
disturbare. Anche a scuola, con i coetanei, Simone ha molte difficoltà di socializzazione poichè
teme di essere preso in giro e di non essere all’altezza degli altri; con il trascorrere degli anni il
distacco difensivo per la paura dell’umiliazione e del rifiuto è così forte che Simone si isola a tal
punto da non avere nessun amico con il quale parlare. Con l’avanzare dell’età aumenta anche
il suo senso di invisibilità, incapacità e inutilità, rinforzato pure dai feedback genitoriali che lo
appellano come un inconcludente perchè non riesce a gettare le basi per raggiungere l’obiettivo
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
(secondo loro) più importante della vita: avere una moglie e dei figli. La madre è descritta come
anaffettiva ma molto controllante e il padre succube e “servo della madre”.
Nonostante la sofferenza e il bisogno di aiuto siano intensi, le convinzioni e i vissuti di
Simone rendono difficile la costruzione e il mantenimento dell’alleanza terapeutica. Il tema della
speranza e della fiducia è infatti centrale in ogni processo di cambiamento e, quando l’esperienza
di vita è stata tale per cui si hanno scarse o nulle aspettative sul fatto che gli altri possano
desiderare o essere in grado di aiutare, il processo attraverso cui sviluppare la speranza di cura
diventa il problema centrale della psicoterapia. In molti casi la gravità dell’amarezza e della
disperazione (tipica del paziente depresso) rende impossibile trovare conforto in un altro essere
umano e lascia gli altri frustrati nei loro sforzi di prendere contatto con lui o di essergli utili.
Spesso questi pazienti nascondono agli altri l’intensità della loro disperazione perché temono
che gli altri possano esserne allontanati e la nascondono anche a se stessi perché troppo doloroso
prenderne atto pienamente.
Durante i primi mesi di trattamento Simone inizia, con scarsa motivazione, anche una
farmacoterapia con antidepressivi che smette dopo cinque settimane affermando di non trarne
giovamento. La terapia è in quel periodo focalizzata sulla costruzione della fiducia, e sembra
che si stia facendo un buon lavoro quando, dopo circa sei mesi dall’inizio, Simone annulla
un appuntamento e non chiama per un mese. Apparentemente non c’erano stati problemi tra
terapeuta e paziente e Simone non aveva dato spiegazioni del suo allontanamento. La terapeuta
lo chiama per poterne parlare ma lui chiede di essere lasciato in pace e dice che si farà vivo
presto. L’incontro che segue all’interruzione è focalizzato su quanto accaduto. Emerge che
nella settimana precedente all’interruzione Simone era stato molto male per il fallimento di un
tentativo di apertura verso una ragazza, e questo lo aveva gettato in un grande sconforto “…
sto molto male, sono un fallito e poi sono anche tanto arrabbiato perché non riuscirò mai a
cambiare”. La terapeuta decide di esprimere a Simone i suoi sentimenti di impotenza e rabbia
provati dal momento dell’interruzione improvvisa “… durante questo mese di suo silenzio ho
sentito che non potevo aiutarla in alcun modo perché c’era un muro molto alto tra noi. Lei
in quel momento ha deciso di non condividere con me quanto le stava accadendo e io, oltre
alla preoccupazione, ho provato rabbia nei suoi confronti. Rabbia perché non stava rispettando
gli accordi presi, avevamo stabilito che nei momenti di difficoltà avrebbe dovuto chiamarmi,
e invece lei ha fatto l’esatto contrario. Simone spiega la sua reazione “… Quando sto così mi
chiudo perché nessuno deve vedere che schifo che sono, non voglio vedermi neanche io. Non
l’ho chiamata perché mi vergognavo ma anche perché tanto non avrebbe potuto fare nulla. In
quei momenti la terapia non mi è di aiuto perché sprofondo in un buco nero. Però la prego, non
mi abbandoni!!!…”
Questo passaggio evidenzia almeno due aspetti importanti per la relazione terapeutica. Prima
di tutto il fatto che un paziente con difficoltà a provare pienamente e a esprimere la tristezza
continuerà a sentire mancanza di sintonia con gli altri rispetto a tale sentimento; questo può a sua
volta creare una barriera nella relazione che lo lascia deprivato e arrabbiato. Come conseguenza
gli altri, compreso il terapeuta, potranno essere allontanati da tale atteggiamento e non riuscire
ad empatizzare con questa rabbia.
In secondo luogo quando un disturbo depressivo è associato a un disturbo di personalità è
quest’ultimo che gioca un ruolo primario nella costruzione e nel mantenimento della relazione
terapeutica. Simone infatti, con la sua personalità evitante, sentendosi in difetto si distacca in
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Paziente depresso e relazione terapeutica
modo difensivo dalla relazione terapeutica soprattutto per la paura dell’umiliazione e del rifiuto.
Senza un intervento terapeutico che prenda in considerazione le caratteristiche di personalità
del paziente, le sue risorse e il suo livello di funzionamento e di adattamento sociale si corre il
rischio di non riuscire a ‘ricucire’ fratture terapeutiche come quella appena descritta.
4) Disturbi depressivi legati a particolari condizioni esistenziali
Infine, la quarta categoria di pazienti depressi è costituita da quelle forme di depressione
che sono il risultato di un percorso di vita particolarmente ostico, di una esistenza in cui per
una concatenazione di eventi, il paziente non è stato in grado o non ha potuto realizzare alcuni
obiettivi minimi ritenuti fondamentali. Sono quadri che si presentano in genere sulla soglia della
terza età, con caratteristiche cliniche spurie, un decorso altrettanto atipico, e problematiche
relazionali sui generis, ivi compreso il tema del suicidio, in questo caso da intendersi non come
massima espressione della disperazione depressiva, ma come un atto di ribellione e di rifiuto nei
confronti di un destino particolarmente avverso. Verrà a tale proposito descritto un caso che ben
rappresenta questa particolare condizione.
Laura è una donna di 69 anni, che viene inviata al terapeuta per una valutazione clinica, per
una diagnosi di “depressione”. Laura sta per andare in pensione dopo più di 40 anni di brillante
carriera nella pubblica amministrazione, ove ricopre un ruolo di grande responsabilità. È
laureata in legge, è una donna intelligente, con capacità superiori alla media, alle prese con
un difficile passaggio di vita. La madre, con la quale ha vissuto negli ultimi 30 anni, è morta da
circa due anni, e Laura che non si è sposata e non ha figli si ritrova a fare i conti con il tema
della solitudine, sulla soglia della vecchiaia e di un importante cambiamento di vita come la
pensione. È una donna stimata, apprezzata e dai molteplici interessi. A fronte di un aspetto
austero, a tratti ruvido, di donna del nord, che non si perde in inutili convenevoli e atteggiamenti
di circostanza, Laura esprime anche una fortissima e inaspettata carica vitale, testimoniata
dalla sua partecipazione attiva presso un’associazione di difesa dei diritti umani, dall’aver
partecipato alla fondazione di un importante partito politico italiano alla cui vita partecipa
attivamente, una passione per il poker e in seguito anche per il bridge che pratica con grande
diletto a livelli semi-professionali. Sul piano delle relazioni, Laura evidenzia un problema di
solitudine, non tanto in relazione ai rapporti sociali (Laura infatti ha amici e conoscenti con
cui ha relazioni di buona qualità), quanto piuttosto su un piano personale. A questo proposito
vale la pena riprendere il tema degli eventi di vita avversi come elemento centrale nella genesi
di alcuni disturbi cosiddetti depressivi ma che depressivi sono solo in apparenza. Laura perde il
padre in età giovanile, e benché volesse iscriversi a medicina, è costretta dagli eventi a ripiegare
– per così dire – su giurisprudenza per avere un più rapido accesso al mondo del lavoro. Non
ha fratelli e la madre, che non si risposa, vive con lei. Laura si laurea e inizia a lavorare,
continuando a vivere con la madre. Non abbandona il sogno di fare medicina, studia di notte
insieme ad un amico, e con lui si laurea in gran segreto in medicina all’età di 31 anni, dopo aver
trascorso i 6 anni precedenti a studiare rinunciando a qualsiasi svago o vacanza. Poco dopo
l’esame di stato, viene chiamata per prendere servizio presso un reparto ospedaliero. Poche
settimane prima di prendere servizio, le viene diagnosticato un carcinoma mammario. Questo
comporta un intervento chirurgico demolitivo, trattamento chemioterapici invasivi e un lungo
periodo di cure e convalescenza al termine della quale si ritrova viva ma gravemente menomata
nel fisico e nello spirito, “deturpata” come donna e privata all’improvviso di qualsiasi possibilità
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
di recupero dei propri progetti e delle proprie aspirazioni. Rinuncia a perseguire il progetto di
fare il medico, chiude per sempre questo capitolo della sua vita dicendosi che “evidentemente
non era destino” e che anzi in qualche modo “se l’era cercata”, sfidando le avversità e facendo
enormi sacrifici per soddisfare quello che ora sembra essere stato “solo il suo capriccio di fare
il medico”. Laura ritiene con ciò anche prematuramente conclusa la sua vita di relazione e non
si avvicinerà più ad un uomo per i successivi 35 anni.
Quando giunge all’osservazione, la paziente è in terapia con farmaci antidepressivi, soffre
di insonnia, e lamenta tristezza e demoralizzazione. La terapia farmacologica, si mostra di
nessuna efficacia, e le viene modificata almeno altre 3 volte, sempre con farmaci diversi, senza
un apprezzabile effetto se non sul sonno. Con l’andare del tempo il tema della solitudine e della
vecchiaia si affacciano con sempre maggiore insistenza, unitamente alle preoccupazioni di poter
rimanere vecchia, sola e invalida come lo era stata la madre negli ultimi 7 anni della sua vita,
con la differenza che Laura non avrebbe avuto nessuno ad occuparsi amorevolmente di lei. È in
questa occasione che Laura manifesta l’intenzione di prevenire tale evenienza togliendosi la vita
finchè era ancora autonoma e libera di poterlo fare. Nel frattempo le viene prolungato l’incarico
di lavoro con una consulenza che le permette di mantenere vivi i contatti lavorativi. Conosce nel
corso della terapia un uomo un po’ più giovane di lei con cui, sorprendentemente, intraprende
una relazione molto intensa e coinvolgente, anche da un punto di vista sessuale. Laura vive
questa esperienza come qualcosa a cui stenta a credere, che paradossalmente marca ancora
di più il senso di solitudine che l’ha accompagnata per tutta la vita. Descrive sentimenti molto
ambivalenti, di colpa e desiderio, il senso dell’ineluttabilità e al contempo della imprevedibilità
del destino, che le riserva una relazione affettiva molto intensa in una età in cui la maggior parte
delle persone si prepara ad attraversare l’ultima parte della propria vita accompagnati da affetti
consolidati da tempo.
La terapia aveva proceduto sino a quel momento nella direzione di un possibile recupero di
una dimensione intima e personale delle relazioni amicali e poi anche affettive, in una situazione
generale in cui alcuni amici erano nel frattempo venuti a mancare (dopo i 70 anni questa diventa
un’evenienza frequente che gioca un ruolo non secondario nella genesi dei disturbi depressivi
della terza età). La qualità della relazione è buona, così come è buono il livello di compliance
farmacologica e rispetto alle sedute, a cui Laura non manca mai, nonostante manifesti in più
occasioni l’inutilità degli sforzi profusi. Il terapeuta sente il persistere di una distanza, di un
solco che lo separa dalla possibilità di stabilire con Laura un maggiore livello di complicità e
collaborazione. Queste sensazioni vengono esplicitate e affrontate in terapia e Laura confida
di nutrire una sostanziale sfiducia nella possibilità di alleviare le sue angosce di solitudine,
nonostante manifesti in vario modo stima e apprezzamento per il lavoro fatto insieme.
La relazione con quest’ uomo si interrompe dopo circa 6 mesi e nonostante Laura viva questo
evento con sentimenti contrastanti di colpa e sollievo, nelle settimane successive manifesta
un dolore per la perdita che a stento riesce a contenere. Nel frattempo, una cugina di Laura,
l’ultima parente ancora in vita della sua famiglia muore all’improvviso. Laura non sembra poter
sostenere l’impatto di questa nuova perdita, ancor più significativa perché sancisce la fine di
tutti i legami affettivi e familiari che aveva. Nel frattempo, era anche andata definitivamente in
pensione.
Dopo circa 4 mesi Laura, senza alcun segno che potesse mettere il terapeuta e la psichiatra
curante in avviso, mette in atto un tentativo di suicidio, molto cruento, che non si conclude
solo perché la modalità adottata aveva spaventato Laura che aveva a un certo punto chiesto
aiuto. Viene soccorsa da un amico vicino di casa e poi dal terapeuta e da un collega chirurgo
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Paziente depresso e relazione terapeutica
che provvede a suturarle le profonde ferite. Laura sembra riprendersi dallo shock, riprende le
sedute, continua i farmaci, continua a mantenere vivi i suoi interessi (tornei di bridge, partite di
poker, qualche uscita con le amiche, l’attività presso l’associazione di difesa dei diritti civili).
Con l’arrivo dell’estate l’anno successivo si pone di nuovo il problema di come trascorrere
le settimane di agosto, dove e con chi andare. Laura tranquillizza tutti, amici e terapeuti,
prenotando un soggiorno in montagna, dove era già stata l’anno precedente. Acquista i biglietti,
colloca il cane e i due gatti che nel frattempo aveva preso con sé, saluta tutti con un caloroso
arrivederci.
Quello che non dice è che ha anche depositato un testamento, ritirato i soldi per le sue
esequie e dato disposizioni in merito molto precise, e che si è infine procurata dei sedativi. Si
toglie la vita per asfissia con un sacchetto di plastica legato al collo, dopo essersi stordita con
alcol e farmaci.
Questo caso, molto sui generis e non a caso scelto per questa breve rassegna, evidenzia
molto bene le problematiche che si possono incontrare in questa categoria di pazienti. Non
si può dire infatti che non siano stati profusi sforzi e risorse da parte di terapeuta, psichiatra
curante e paziente, per cercare di modificare un percorso di vita, che sembrava, in particolare
agli occhi della paziente, impossibile da modificare. Sono stati effettuati incontri a tre, sono
state conosciute le amiche e valutate tutte le risorse a disposizione, nel tentativo di alleviare
il peso della condizione esistenziale in cui questa paziente si è trovata. Non si può neanche
dire che la relazione terapeutica sia stata inficiata in modo evidente o che non fosse di buona
qualità. In un biglietto rinvenuto dalla polizia, Laura ringrazia il terapeuta per gli sforzi profusi
ed esprime parole di affettuoso commiato nei suoi confronti come nei confronti di alcune altre
figure a lei legate. Che dire dunque? Che cosa non ha funzionato? Ci sono stati degli ostacoli
che la paziente e il terapeuta non sono riusciti a superare rispetto alla relazione terapeutica?
Possiamo forse dire che la condizione di Laura appartenesse più che alla clinica, agli effetti della
imprevedibile capricciosità del destino, che in alcuni casi sembra prendersi beffa dell’uomo e di
tutti i suoi sforzi? È difficile rispondere, ma nel descrivere questo caso abbiamo voluto dare voce
ad una condizione che per la peculiarità del caso e la tragicità degli esiti, non trova facilmente
posto nelle casistiche discusse negli articoli scientifici. I motivi possono essere molteplici: un
senso di pudore da parte di chi ne è stato coinvolto in prima persona, un sentimento di colpa e
inadeguatezza per come sono andate le cose, il timore del giudizio dei colleghi, e non ultimo
– forse – un senso di rispetto per il paziente che non c’è più. Riteniamo tuttavia prevalenti su
queste considerazioni, quand’anche siano in parte vere, le riflessioni che possono scaturire dalla
condivisione delle difficoltà che si incontrano nel trattare pazienti con queste caratteristiche, il
senso di impotenza e solitudine che sperimenta il terapeuta chiamato a prendersi cura di casi
complessi e difficili come quello descritto.
Conclusioni
Le conclusioni che possiamo trarre sono a questo punto ridotte ad alcune brevi considerazioni.
I pazienti “depressi” spesso, e a volte con troppa facilità, sono etichettati come tali, a scapito
della complessità della loro condizione non solo clinica ma anche personale ed esistenziale. Un
approccio cognitivo-comportamentale moderno ed attuale, non può prescindere dal considerare
in modo attento ed approfondito, nonché “tecnicamente” aggiornato le implicazioni derivanti
dalla gestione delle dinamiche relazionali, anche quando si intende procedere con il più classico
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Giovanni Fassone e Floriana Lo Reto
degli approcci cognitivi standard. Questa osservazione forse è più importante per il terapeuta in
formazione e nei primi anni della sua attività, quando l’ansia rispetto alle proprie competenze
e la paura di non essere capace, tendono a farlo ripiegare su schemi di intervento codificati e
manualizzati. In questo caso, il protocollo di intervento manualizzato o codificato conferisce un
senso di padronanza e di competenza al terapeuta, che ha quindi l’impressione, talvolta anche
giusta, di saper gestire meglio il corso della terapia.
Lungi dal voler svalutare in questa sede il ruolo e l’importanza rispetto alla conoscenza e
alla applicazione di modelli di intervento evidence-based, validati ed efficaci, si vuole tuttavia
sottolineare la fondamentale importanza di una buona capacità di comprensione e gestione delle
dinamiche relazionali e intersoggettive che sempre si attivano nel corso della terapia. Come
abbiamo visto nei diversi casi presentati, sebbene sia possibile tracciare un profilo delle dinamiche
che più frequentemente si attivano nella relazione con il paziente depresso, non è affatto facile
descrivere una casistica esaustiva degli eventi relazionali che con i diversi pazienti e nel corso
delle varie terapie si attivano tra terapeuta e paziente. In tal senso un ruolo fondamentale è svolto
dall’esperienza che si matura nel tempo e dalla conoscenza da parte del terapeuta delle proprie
dinamiche interne, o per dirla in modo più cognitivo, della propria organizzazione cognitiva,
affinata magari da un’esperienza di terapia personale. Nel frattempo però, potrebbe non
essere inutile approfondire lo studio di molti e importanti contributi allo studio della relazione
terapeutica che provengono da ambiti teorici affini al cognitivismo. Anche molti autori e scuole
di pensiero ed orientamento ‘cognitivista’ ormai da tempo sottolineano (Di Maggio e Semerari
2003; Liotti 1994; Liotti e Monticelli 2008; Safran e Muran 2000; Semerari 2000, 1991; Weiss
1993) che per raggiungere l’obiettivo del sollievo dei sintomi bisogna passare attraverso uno
studio approfondito della relazione terapeutica, delle sue dinamiche e motivazioni interpersonali
nel paziente come nel terapeuta, per approdare al cambiamento e tendere asintoticamente alla
guarigione.
Bibliografia
Dimaggio G, Semerari A (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza, Roma.
Liotti G (1994). La dimensione interpersonale della coscienza. Nuova Italia Scientifica, Roma.
Liotti G, Monticelli F (2008). I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Il manuale AIMIT. Raffaello
Cortina Editore, Milano.
Safran JD, Muran JC (2000). Negotiating the therapeutic alliance: A relational treatment guide. Guilford
Press, New York. Tr. it. Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica. Laterza, Roma 2003.
Semerari A (2000). Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Laterza, Roma.
Semerari A (1991). I processi cognitivi nella relazione terapeutica. Carocci, Roma.
Weiss J (1993). How psychotherapy works: Process and technique. Guilford Press, New York. Tr. it. Come
funziona la psicoterapia. Bollati Boringhieri, Torino 1999.
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