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P. Levi, I sommersi e i salvati

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P. Levi, I sommersi e i salvati
I sommersi e i salvati
Con I sommersi e i salvati Primo Levi porta a compimento, quarant’anni dopo Se questo è
un uomo, la testimonianza e le riflessioni che animarono quel suo primo libro. Il volume, la
cui stesura ha richiesto dieci anni, esce da Einaudi nella primavera del 1986; verrà
rapidamente tradotto in tutto il mondo e riconosciuto come un’altissima opera sulla natura
del male e sulla natura dell’uomo. Nelle sue pagine convergono le molte inquietudini che
impegnarono la mente di Levi nell’ultimo periodo della sua vita: lo sbiadirsi della memoria
di Auschwitz, che pare coincidere con la cancellazione della propria identità; la mancanza
di cognizioni e di memoria storica nei giovani studenti incontrati nelle scuole, i quali
accolgono la sua testimonianza con scetticismo semplificatore, come una vicenda
appartenente a tempi remoti; l’avvento degli storici negazionisti e revisionisti, che mettono
in dubbio l’esistenza o le specificità dello sterminio ebraico e dei Lager; infine,
l’insofferenza per la retorica che irrigidisce nei rispettivi ruoli le figure delle vittime e dei
carnefici.
I sommersi e i salvati è diviso in otto capitoli, più una Prefazione e una Conclusione. Il
primo capitolo è dedicato alla Memoria dell’offesa, e alle sue distorsioni e lacune. Ma il
fulcro del libro è costituito dai capitoli II e III, intitolati rispettivamente La zona grigia e La
vergogna. Argomenta Levi che lo spazio tra la categoria delle vittime e degli aguzzini non
è vuoto, bensì «costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad
un tempo) che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana». È un
tema ingrato, questo delle forme di collusione o di acquiescenza tra vittime e oppressori:
i Kapos, i Prominenten, i Sonderkommandos e tutte le altre grottesche figure del privilegio
nel Lager e nei ghetti ebraici, ma anche i rari gesti di spaventata pietà da parte della
popolazione civile tedesca. Levi indaga e descrive lasciando in sospeso il giudizio, ma
scavando col suo bisturi verbale dentro la carne viva dei fatti. La sua indagine porta alla
luce un sentimento paradossale: la «vergogna del sopravvivente», il senso di colpa del
«salvato», il quale è portato a credere di essere rimasto vivo al posto di un altro, più
debole, più sfortunato e più onesto di lui, al quale egli ha dunque sottratto qualcosa.
I sommersi e i salvati è tramato di questi concetti spinosi e cupi, ai quali si può aggiungere
la nozione di «violenza inutile» cui è dedicato il quinto capitolo. È un libro stilisticamente
compatto come una sfera e perfettamente controllato nel tono, eppure è visibilmente
perturbato dalla situazione psicologica e cognitiva alla quale deve la sua forma: è il libro di
un antropologo che include se stesso nel campo dell’indagine; è il libro di una persona che
vorrebbe dialogare con gli indifferenti, i tiepidi, gli ex carnefici, ma ne prova insieme timore
e ribrezzo (si veda il capitolo conclusivo, Lettere di tedeschi); è il libro di una persona che
si sforza di ragionare, per comprenderli, con la mente dei propri aguzzini, e questo
mostruoso gioco di ruolo gli procura una sofferenza insopportabile. I sommersi e i
salvatideve la sua grandezza a questo, all’essere un esercizio disumano di obiettività, un
viaggio tra i morti che si trasforma in un viaggio nella propria morte.
«"È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da
dire". In otto, densi capitoli Primo Levi torna sull'esperienza dei Lager nazisti per leggerla
non come un fatto conchiuso, un evento imprevedibile e circoscritto, insomma un incidente
della Storia, ma come una vicenda esemplare attraverso cui è possibile capire fin dove
può giungere l'uomo nel ruolo del carnefice e in quello della vittima.
Le domande cui Levi risponde con l'equilibrio e la lucida fermezza che siamo soliti
riconoscere ai classici, investono frontalmente il nostro oggi e si propongono alle nuove
generazioni, per le quali la parabola nazista si va fecendo sempre più lontana e più
sfumata. Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario, e quali le tecniche
per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e
oppressi? Chi sono gli esseri che abitano la "zona grigia" della colloborazione? Come si
costruisce un mostro? Era possibile capire dall'interno la logica della macchina dello
sterminio? Era possibile ribellarsi ad essa? E ancora: come funziona la memoria di
un'esperienza estrema? Che cosa sapevano, o volevano sapere, i tedeschi?
Levi non si limita a chiarire gli aspetti del fenomeno Lager che fino ad oggi restavano
oscuri. Il suo è anche un libro "militante" che si batte contro ogni falsificazione e negazione
della realtà, contro l'inquinamento del senso etico e l'assuefazione a quella degradazione
dell'umano che riempie le cronache di questi decenni. I sommersi e i salvatirappresenta un
contributo importante alla fondazione di una nuova, vigile coscienza critica».
[Quarta di copertina della prima edizione Einaudi 1986, collana «Gli struzzi»]
Sonderkommando
« Perché fai un lavoro così esecrabile, perché vivi, a quale scopo vivi, che cosa ti aspetti, dove
vuoi arrivare con una vita così. Qui sta il punto cruciale del nostro Kommando, che non ho affatto
intenzione di difendere nella sua totalità. A questo punto devo dire la verità, che alcuni di questo
gruppo si sono talmente lasciati andare con il passare del tempo che ce ne vergognamo. Hanno
semplicemente dimenticato che cosa stessero facendo e col tempo si sono abituati a tal punto,
[da] farci disperare per il fatto che uomini così normali, comuni, semplici, modesti, volenti o no, si
siano a tal punto assuefatti a tutto, da non provare più alcuna emozione per quanto accadeva.
Ogni giorno assistono alla morte di decine di migliaia di uomini e [non provano] niente. [...] Non si
aveva mai a che fare con uomini vivi. Questo aveva un forte [effetto] psicologico nel limitare
l'impressione della tragedia [...] »
(Salmen Lewental, sopravvissuto del sonderkommando di Auschwitz)
« se siete vive, leggerete non poche opere che saranno state scritte a proposito del
Sonderkommando. Ma io vi prego di non giudicarmi mai negativamente. Se tra noi c'erano buoni e
cattivi, io sicuramente non sono stato tra questi ultimi. Senza paura del rischio e del pericolo, ho
fatto in questo periodo tutto quello che era in mio potere per mitigare il destino degli infelici »
(Haim Herman, manoscritto sepolto e ritrovato dopo il conflitto nei pressi dei forni crematori di
Auschwitz)
Nonostante le molte critiche alcuni membri cercarono di resistere, altri preferirono
suicidarsi, altri – e forse furono la maggioranza – persero ogni inibizione morale, reagendo
con l'apatia all'orrore, ben sapendo che di lì a poco avrebbero seguito lo stesso destino di
coloro che stavano collaborando ad uccidere pagando così, con la vita, il prezzo dei loro
"peccati". Rudolf Höss, primo e storico comandante del campo di concentramento di
Auschwitz, così descrisse, seppur con chiaro intento denigratorio, una scena che in
qualche maniera cerca di descrivere i livelli di degrado umano che venivano raggiunti:
« [...] nell'estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno del Sonderkommando si
arrestò, rimase per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi
al kapò che cosa fosse successo: disse che l'ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della
moglie. Continuai ancora ad osservarlo per un certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui nessun
atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi cadaveri, come aveva fatto fino ad allora.
Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare in mezzo agli altri, come se
nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovraumana di celare le proprie emozioni, o era
diventato talmente insensibile da non saper più reagire? »
(Rudolf Höss, tratto da Comandante ad Auschwitz – ulteriori passi tratti dal libro)
A conoscenza della verità che si celava dietro l'eufemistico termine soluzione finale della
questione ebraica, il sistematico sterminio del popolo ebraico, i sonderkommando vennero
a loro volta periodicamente eliminati per mantenere il segreto circa il destino di milioni di
persone deportate da tutta l'Europa controllata dai nazisti. Nel campo di concentramento
di Auschwitz, ad esempio, si susseguirono negli anni 12 diversi sonderkommando eliminati
di volta in volta al termine delle diverse aktion – termine con il quale i tedeschi definivano
lo sterminio dei diversi gruppi nazionali. Ogni sonderkommando "viveva" tre mesi, per poi
essere sostituito da un nuovo sonderkommando.
Al termine del conflitto rimasero in vita solo poche decine di appartenenti
ai sonderkommando, tra i quali, come detto, l'italiano Shlomo Venezia. Testimonianze
dirette di membri dei Sonderkommando sono presenti nel documentario Shoah di Claude
Lanzmann.
I sommersi e i salvati
Questo libro tocca i nodi più profondi della responsabilità morale dell'uomo nei confronti
dell'inumana esperienza di Auschwitz. In esso Levi affronta tematiche quali la memoria, il
potere, la collaborazione, e le elabora alla luce della sua esperienza personale.
La memoria dell'offesa (capitolo primo):
"La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace". Con quest'affermazione
l'autore apre la parte relativa alle responsabilità del terribile evento-Auschwitz. A suo
parere l'offesa subita da lui e da molte migliaia di uomini è insanabile, ma ciò non vuol dire
che i responsabili comprendano la gravità delle loro azioni. Le "scuse" più frequenti,
invece, seppure espresse con formulazioni diverse, sostanzialmente vengono tutte a
significare: l'ho fatto perché sono stato costretto o comandato, o per l'educazione
impartitami, o per l'ambiente in cui sono cresciuto, insomma, merito il perdono perché io
stesso sono stato a mia volta "vittima". Si tratta non solo di menzogne, ma di un
autoinganno che consente al colpevole di lavarsi dei propri crimini. A favorire tale verità di
comodo interviene poi anche il tempo, perché più si allontanano gli eventi, più risulta
semplice negare il passato. La pressione che uno stato totalitario può esercitare
sull'individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: "la propaganda, lo
sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni, il terrore". Tutto ciò non può
comunque giustificare e ancor meno cancellare le colpe commesse: è infatti palese
l’esagerazione e quindi la manipolazione (volontaria o inconscia) del ricordo come
dimostrano i casi di numerosi uomini educati prima che il Reich divenisse totalitario e che
tuttavia, in virtù di scelte opportunistiche e di comodo, hanno ugualmente deciso di
aderire. C’è comunque da dire che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall’obiettività
dei fatti stessi grazie a documenti, testimonianze o contesti storicamente acquisiti al
contrario di quella delle motivazioni che hanno addotto a determinate azioni, arrivando
persino alla soppressione del ricordo stesso: proprio per questo l'intera storia del Terzo
Reich "può essere riletta come una storia contro la memoria…, falsificazione della realtà,
negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà stessa".
Allo stesso tempo l’autore riconosce anche in chi ha subito ingiustizie e offese la tendenza
a sorvolare sugli episodi più dolorosi, puntando l’attenzione su tregue, intermezzi insoliti o
momenti di respiro, certamente non col bisogno di discolparsi: a scopo di difesa, la realtà
può essere distorta non solo col ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica, rifiutando una
verità insopportabile e costruendosene un’altra.
La zona grigia (capitolo secondo):
"L’ingresso in lager era un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si
sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun
modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il noi perdeva i suoi confini, i contendenti
non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli,
una fra ciascuno e ciascuno.[...].Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle
prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da
parte di coloro in cui si ravvisava di trovare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare
subito la capacità di resistere."
In questo capitolo Levi sviluppa il tema fondamentale dell'ambiguità umana provocata
fatalmente dall'oppressione. Obiettivo primario del governo hitleriano, come dimostra
l’insensata foga di uccidere, negli ultimi mesi della guerra, il più prigionieri ebrei possibili
anche di fronte alle truppe alleate che inesorabilmente avanzavano (anziché dirottare le
forze nel cercare di salvare il salvabile) era quello di estinguere la razza impura degli
ebrei, contrapposta a quella ariana. Ma questa distruzione non è stata esercitata
esclusivamente a livello fisico: le intolleranze, le aggressioni e successivamente le leggi
razziali emanate che costituivano obblighi sempre più assurdi e umilianti, hanno mirato a
una distruzione psicologica. Dunque all’interno del lager questa forma di violenza non può
che essere amplificata a dismisura, costringendo in condizioni limite i prigionieri, che
inevitabilmente sono portati a sottostare alla logica del luogo in cui si trovano, dove per
sopravvivere è necessario scendere a compromessi anche con la propria umanità: la
"zona grigia" è la classe "ibrida" dei prigionieri-funzionari, un'area indefinibile, che insieme
separa e congiunge i capi ed i servi. Si tratta appunto di quei prigionieri privilegiati, che si
sottraggono, agli occhi dell'autore, alla semplificazione, tipica dell'uomo, tra "buoni" e
"cattivi", tra amici e nemici. Coloro che costituiscono la "zona grigia" confondono quindi il
nostro bisogno di giudicare. Ma anche tra queste persone ambigue e pronte al
compromesso è necessario compiere una distinzione. Vi era chi agiva esclusivamente in
vista della propria salvezza, ma anche chi subiva il contagio degli oppressori e tendeva
inconsciamente ad identificarsi con loro. Nell'enorme maggioranza dei casi, tuttavia, il
comportamento di questi individui è stato frutto di costrizione.
Un caso limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos, una Squadra
Speciale addetta alla gestione dei crematori. Queste erano costituite in massima parte da
ebrei, a tal punto arrivavano la perfidia e l'odio tedeschi. Si doveva ancora una volta
dimostrare che gli ebrei, "sotto-razza", si piegano ad ogni umiliazione, perfino a
distruggere se stessi.
La vergogna (capitolo terzo):
"Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per la
loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo". All'interno dell'intima
riflessione sulla sua condizione, Primo Levi inserisce il tema della vergogna. Questo
sentimento riguarda tutti coloro che non sono stati "sommersi", come lui, ma che hanno
subito una sofferenza ugualmente grande. I "salvati", una volta riconquistata la libertà,
sono individui consapevoli di essere stati "menomati", uomini privati di un passato e di un
futuro, alienati, fino al punto da essere indotti al suicidio (del quale sarà anche lui vittima),
pensiero che non era intervenuto durante la prigionia se non in sporadici casi per tre motivi
avanzati: la condizione bestiale che non lasciava spazio a pensieri ragionati,
paradossalmente i troppi impegni della giornata e infine il prevaricare della punizione
inflitta attraverso la reclusione sul senso di colpa che riaffiora quindi nel momento della
liberazione . L'autore infatti rileva come, nella maggior parte dei casi, l'ora della liberazione
non sia stata in realtà lieta, come tutti saremmo portati a credere, ma sia stata l'ora della
vergogna, l'inevitabile senso di colpa emerso dalla consapevolezza di non aver fatto nulla,
o non abbastanza, contro il sistema da cui i prigionieri sono stati assorbiti. Ad accrescere
questa sensazione di turbamento contribuisce la colpa di omissione di
soccorso. "Mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza", afferma suo malgrado Levi.
E' forse anche questo senso di vergogna, afferma l'autore nelle ultime righe del capitolo,
ad averlo indotto a scrivere in memoria degli altri, dei "sommersi", appunto.
Comunicare (capitolo quarto):
Anche sotto l'aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione,
l'esperienza dei reduci è peculiare. Levi rileva, infatti, come per italiani, jugoslavi e greci,
l'urto contro la barriera linguistica dei campi di concentramento sia avvenuto
drammaticamente, in primo luogo perché non era possibile ritrovare dall’atra parte il
desiderio di farsi capire: gli ordini venivano dati tranquillamente, poi ripetuti identici in tono
rabbioso, infine urlati a squarciagola, accompagnati da calci e pugni "come si farebbe a un
sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto." Il
sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Sul piano dell'immediato, non è possibile
comprendere gli ordini, nè decifrare le prescrizioni: a riprova di ciò i primi giorni di prigionia
non possono essere che ricordati come "un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di
furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un
continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava". In
ultima analisi non si può sopravvivere, perché nel Lager senza informazione non si vive.
Chi non capisce il tedesco, intendendo con tedesco quella sorta di lingua parallela propria
dei lager e solo vagamente somigliante a quello originario, rischia di "annegare nel mare
tempestoso del non-capire". Ed il non-parlare ha effetti devastanti sull'individuo,
perché "con la lingua ti si secca il pensiero" e si realizza la crudele volontà di rendere
l'uomo una bestia. Viene inoltre affrontato il tema della comunicazione con il mondo
esterno al lager, che veniva disperatamente cercato e che dava a molti una sorta di
speranza; si cercavano notizie dai prigionieri nuovi, si leggevano brandelli di vecchi
giornali trovati casualmente e, sebbene fosse vietata la corrispondenza, venne da alcuni
(tra i quali lo stesso Levi, che riconosce di dovere anche a questo la sua sopravvivenza)
trovato il modo per comunicare con i familiari.
Violenza inutile (capitolo quinto):
"Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura offensivo: esiste una
violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una
violenza, ma è tristemente utile: un mondo di immortali non sarebbe concepibile né
vivibile." L'autore apre così il capitolo relativo alle inutili ingiustizie subite dagli internati nei
campi di concentramento.
La sequenza di umiliazioni e offese gratuite inizia già dal metodo di deportazione: enormi
carri merci, tuttavia non abbastanza grandi per il numero di persone stipate in essi per
numerosi giorni senza cibo, acqua o un minimo di latrina.
Una delle più vane costrizioni con cui il prigioniero doveva fare i conti, una volta entrato
nelle fredde stanze dove avvenivano la privazione degli abiti, delle scarpe e di tutti gli
oggetti personali, era il taglio dei capelli e di tutti i peli. Al di là della necessità di maggiore
pulizia, dato il proliferare dei pidocchi, questa violenza risultava offensiva per la sua inutile
ridondanza. Un uomo nudo e scalzo è una preda inerme. La stessa sensazione debilitante
di impotenza era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio,
un dettaglio apparentemente inutile, ma che marginale non era per un uomo che si nutriva
ogni giorno di una sola e misera razione di zuppa. Non era una questione di risparmio, per
i tedeschi, ma un preciso intento di umiliazione. A tutto ciò c’è da aggiungere l’assurdità
dell’adattamento della vita concentrazionaria a una versione militare tedesca con regole
ferree quanto insulse (dalla divisa con i suoi 5 bottoni obbligatori alla marcia cadenzata da
musiche di banda, all’ordine del rifare i letti in un certo modo) e da segnalare è anche l’uso
dei prigionieri come cavie umane per esperimenti scientificamente inutili in un’epoca in cui
ci si chiedeva se sia giusto condurre esperimenti dolorosi su animali. Il discorso da farsi
sul tatuaggio è leggermente differente, poiché questo fu invenzione auschwitziana
autoctona. L'operazione, in sé, era poco dolorosa, ma lo era il suo significato
simbolico: "Questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si
imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non
avete più nome: questo è il vostro nuovo nome." La violenza del tatuaggio era gratuita,
fine a se stessa, pura offesa. Era anche un ritorno barbarico: il tatuaggio, infatti, è vietato
dalla legge mosaica. Violenza inutile era poi il lavoro non retribuito ed afflittivo. Non
bisogna poi dimenticare quello che fu l'esempio estremo di una violenza ad un tempo
stupida e simbolica: l'empio uso del corpo umano, gli esperimenti medici. E tale crudeltà si
estendeva anche al cadavere, alle spoglie umane dopo la morte.
L'intellettuale ad Auschwitz (capitolo sesto):
In questo capitolo l'autore analizza l'esperienza dell'uomo colto alle prese con la realtà
concentrazionaria. A tal proposito si rifà esplicitamente all'opera di un filosofo ebreo morto
suicida: Hans Mayer, alias Jean Améry (Un intellettuale ad Auschwitz). Améry fu
prigioniero in diverse prigioni naziste, ma le sue osservazioni si limitano ad Auschwitz: "I
confini dello spirito, il non-immaginabile erano là."- Essere un intellettuale era in quel luogo
di morte un vantaggio o uno svantaggio?-, si domanda Levi. Sul lavoro, che era
prevalentemente manuale, in generale l'uomo colto stava in Lager molto peggio
dell'incolto. Gli mancavano la forza fisica e la familiarità con gli attrezzi e l'allenamento,
oltretutto, era tormentato più pesantemente da un acuto senso di umiliazione. Anche la
vita in baracca era più penosa, poiché era una guerra continua di tutti contro tutti: i colpi
dei tedeschi potevano essere passivamente accettati, ma quelli di un compagno, cui
raramente l'uomo civile sapeva reagire, erano inaspettati e inaccettabili. Anche Améry,
come Levi, afferma poi di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio e ne ha sofferto
ancora di più perché era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua.
La cultura non poteva dunque servire che in qualche rara occasione (come per esempio
nel caso del nostro autore, che fu salvato, oltre che dal caso, anche dal suo mestiere di
chimico); ciononostante, in quelle poche situazioni la cultura poteva dare un forte aiuto,
certo non dal punto di vista prettamente fisico, ma sicuramente moralmente: "Mi
permettevano –i ricordi- di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e
fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle
necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare.[...]. mi concedevano una vacanza
effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo, insomma, di ritrovare me
stesso."
Stereotipi (capitolo settimo):
Questa parte è interamente dedicata alla rimozione dei falsi stereotipi che circondano la
vicenda ebrea. "Bisogna guardarsi dal senno di poi -sostiene l'autore ricordando le
domande a lui rivolte riguardo all'esperienza auschwitziana-, bisogna guardarsi dall'errore
che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e
nell'oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nel tempo e
nello spazio". Insomma, ardua è la comprensione dell'evento per chi non l'ha visto e
vissuto.
"L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove
generazioni dell'Occidente, e sempre più estranea si fa a mano a mano che passano gli
anni."
Lettere di tedeschi (capitolo ottavo):
L'ultimo capitolo è riservato dall'autore ad alcune lettere da lui ricevute in seguito alla
traduzione tedesca di Se questo è un uomo.
Racconta la sua iniziale diffidenza nella proposta di una edizione rivolta ai responsabili
delle sue sofferenze, per paura che la sua opera venisse cambiata o ridotta, timore svanito
dopo uno scambio epistolare con l’editore, prosegue poi liquidando la lettera di due
coniugi di Amburgo che giudica "nazisti non fanatici ma opportunisti, pentitisi quando era
opportuno pentirsi, stupidi quanto basta per farmi credere alla loro versione semplificata
della storia moderna", infine con alcune altre lettere di giovani che hanno invece sollevato
domande e questioni in modo più mirato e meditato e di Hety S. di Wiesbaden che molto
lo aveva colpito con le sue idee.
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