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Letture Anni 60 - Università degli Studi di Verona
cari vecchi anni ’60 cronaca, pagine d’autore e musica Con la partecipazione di: Daniela Brunelli - voce recitante Francesco Casale - batteria Agostino Contò - voce recitante Tiziano Gelmetti - voce recitante Claudio Moro - chitarra Francesco Palmas - chitarra e canto Walter Peraro - voce recitante Riccardo Poli - voce recitante Claudio Sebasto - tastiere e canto Enrico Terragnoli - chitarra Marta Visconti - voce recitante Ingresso libero 8 - 9 luglio 2008 ore 21.00 Chiostro di San Francesco Via San Francesco, 20 - Verona In caso di maltempo la manifestazione si svolgerà presso il Polo didattico “G. Zanotto” In collaborazione con: Università degli Studi di Verona Ufficio Comunicazione Integrata di Ateneo Consiglio degli Studenti Biblioteca Centralizzata Arturo Frinzi Foto: Pete Reed Università di Verona - Ufficio Comunicazione Grafica: a cura di Mario Allegri Letture, Lettori e Canzoni ’60 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Italo Calvino, La “belle époque” inaspettata, da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 70-71 e 73-74. Canzoni: Gino Paoli, Sassi; ID., Il cielo in una stanza. ’61 Lettura (Agostino Contò): Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 67- 102 (scelta di alcune strofe). Canzone: Giorgio Gaber, La ballata del Cerutti. ’62 Lettura (Agostino Contò): Italo Calvino: I beatniks e il “sistema” da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 75-78. Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Discorso alla luna di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962). Recitazione con accompagnamento musicale (Marta Visconti / Daniela Brunelli) di Bob Dylan, A hard rain’s gonna fall (Una dura pioggia cadrà: trad. di Fernanda Pivano). Canzone: Adriano Celentano, Pregherò (Stand by me). ’63 Lettura (Tiziano Gelmetti): Martin Luther King, Io ho un sogno (discorso a Washington, 28 agosto 1963). Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Betty Friedan, Un problema inespresso da La mistica della femminilità, Edizioni di Comunità, 1978. Canzoni: Bob Dylan, Blowin’ in the wind – Compilation Beatles [nello spazio di una canzone, accennarne max tre] – Bruno Lauzi, Il poeta. ’64 Lettura (Agostino Contò): Herbert Marcuse, La società senza opposizione, da L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1967. Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Goffredo Parise, Due, tre cose sul Vietnam, da Guerre politiche: Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Adelphi, 2007. Canzoni: Fabrizio De André, La guerra di Piero – Gianni Morandi, C’era un ragazzo. Recitazione con accompagnamento musicale (Tiziano Gelmetti) di Amsterdam di Jacques Brel, accompagnato da musica. ’65 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Goffredo Parise, Cara Cina, Longanesi, 1966. Canzoni: Patty Pravo, Ragazzo triste – Gianni Pettenati, Bandiera gialla. ’66 Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli) di tre articoli da quotidiani su Gli angeli del fango (alluvione di Firenze). Lettura (Agostino Contò): Andrea Zanzotto, Al mondo [poesia]. Canzoni: I Nomadi, Come potete giudicar – The Rokes, È la pioggia che va – Adriano Celentano, Il ragazzo della via Gluck. ’67 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1976, pp. 9- 13, 35-42. Canzoni: Sergio Endrigo, Il treno che viene dal sud – Gianni Morandi, Un mondo d’amore – Francesco Guccini e I Nomadi, Dio è morto. ’68 Lettura (Agostino Contò): Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, pp. 141143. Lettura (Tiziano Gelmetti): Pier Paolo Pasolini, Perché ci si droga?, in “Il Tempo”, 28 dicembre 1968. Canzoni: Enzo Jannacci, Vengo anch’io – Paolo Conte, Azzurro. ’69 Presentazione degli avvenimenti dell’anno e conclusione del curatore Mario Allegri. Canzoni: Gualtiero Bertelli, Nina – Paolo Pietrangeli, Valle Giulia – Pooh, Piccola Katy. Musica di chiusura: Bob Dylan, Ballad of Easy Rider (1969). 1960 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Italo Calvino, La “belle époque” inaspettata, da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 70-71 e 73-74. Quindici anni fa prevedevamo tutto, tranne una cosa: che il mondo sarebbe entrato in una fase di “belle epoque”. Adesso ci siamo dentro in pieno. C’è il boom economico, un’aria di cuccagna, ognuno bada ai suoi interessi. Quella intransigente tensione ideale che ieri animava propositi e azioni (buone o cattive che fossero) di uomini di governo e intellettuali, ora ha ceduto il posto a un modo di parlare e agire più possibilista e utilitario. Tutti, apertamente o sotto sotto, sono convinti che questa cuccagna durerà chissà quanto, anzi (e questo è tipico di ogni “belle epoque”) che non finirà mai. C’è sì la guerra fredda che non è finita, e continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente che è al riparo li guarda come grandinate estive in un giorno di sole. C’è sì lo squilibrio tra i paesi privilegiati e quelli arretrati che s’accresce; ma l’immagine della folla stracciata e affamata fuor dalla porta del festino fa proprio parte dell’iconografia classica della “belle epoque”. Questo è ciò che è veramente cambiato in noi: non le idee o i “valori” che non c’è ragione di cambiare (la vita è già tanto breve; se uno si mette a cambiare le sue idee frantuma quel poco di continuità e di significato che la sua esistenza può avere; meglio pensare sempre in una direzione, e se è sbagliata ci saranno ben degli altri prima o poi che penseranno più giusto e renderanno “utile” il tuo errore); è che prima vedevamo la vita come qualcosa di teso e guerreggiato e spinoso in cui dovevamo esercitare la nostra scelta del bene o del male, la nostra saldezza di nervi e ragionevolezza e ironia demistificatrice, e adesso invece la vediamo come uno spettacolo nelle grandi linee prevedibile e rassicurante, di cui vorremmo godere tutti i particolari, qualcosa di comodo e ben fornito e stabile in cui sfogare la nostra fretta e ansia e rabbia. Il tempo, prima, ci pareva procedesse di grande urgenza, e noi in mezzo ad esso ci sentivamo calmi, non pensavamo mai alla nostra morte individuale, ansiosi solo di quanta parte della storia del mondo avrebbe fittamente riempito lo spazio delle nostre esistenze. Adesso che il tempo fuori di noi ci pare batta pulsazioni più rade e lente, è una fretta e scontentezza individuale che ci prende, e il pensiero degli anni della giovinezza passati d’improvviso e di tutto quel che potevamo fare e non abbiamo fatto e non faremo. (...) La “belle epoque”, quell’altra, durò (pressapoco) dal 1870 al 1914: quasi un cinquantennio. E non sapevano che li aspettava Serajevo (...). Il peggio è sempre possibile. Non abbiamo nessun mezzo per prevedere se questo stato d’incerto equilibrio e prosperità e ottimismo durerà ancora poche ore, o qualche mese, o alcuni lustri, o cinquant’anni e più. Serajevo potrebb’essere tutti i momenti, anche domani. Non sappiamo quale immagine avrà se quella della guerra atomica (ma forse le cose troppo previste e paventate non succedono) o un’altra. Forse prenderà la forma di qualcuno dei vecchi mostri mai estinti, forse forme nuove, che non sapremo riconoscere. Quello che sappiamo è che la nostra condizione di cittadini della “belle epoque” dobbiamo viverla come fosse temporanea, sia pur muovendoci in essa con perfetto agio e naturalezza. Il mondo dello sterminio e della minaccia nel quale siamo cresciuti a età virile è ancora possibile, può ricominciare in qualsiasi momento, e in qualsiasi momento possiamo riprendervi il nostro ruolo di vittime o di carnefici, per il quale siamo da tempo perfettamente preparati. Noi siamo sempre gli stessi e niente è in fondo cambiato intorno a noi di ciò che conta: né le strutture, né le idee, né le coscienze. Certo oggi ci sentiamo particolarmente legati ai segni esteriori del piacere della vita individuale; ma già quando questi segni intorno a noi erano esigui, li consideravamo un “valore” ci rifiutavamo di disprezzarli come vanità. Cosi come oggi, nell’euforia di questa immeritata cuccagna, sappiamo che non possediamo veramente nulla, che tutto è un castello di carte e può crollare al primo soffio. Qualcosa soltanto non può esserci tolta: la facoltà di fissarci volta per volta un discrimine tra l’agire bene e l’agire male, di meravigliarci alle nuove immagini del mondo, di proiettare su noi stessi la pietà e l’ironia del futuro. Gino Paoli - Sassi Sassi che il mare ha consumato sono le mie parole d’amore per te Io non t’ho saputo amare non ti ho saputo dare quel che volevi da me Ogni parola che ci diciamo è stata detta mille volte Ogni attimo che noi viviamo è stato vissuto mille volte Sassi che il mare ha consumato sono le mie parole d’amore per te Sassi che il mare ha consumato sono le mie parole d’amore per te Io non t’ho saputo amare non ti ho saputo dare quel che volevi da me Ogni parola che ci diciamo è stata detta mille volte Ogni attimo che noi viviamo è stato vissuto mille volte Sassi che il mare ha consumato sono le mie parole d’amore per te sono le mie parole d’amore per te Gino Paoli - Il cielo in una stanza Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti quando sei qui vicino a me questo soffitto viola no, non esiste più. Io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui abbandonati come se non ci fosse più niente, più niente al mondo. Suona un’armonica mi sembra un organo che vibra per te e per me su nell’immensità del cielo. Per te, per me: nel cielo. 1961 Lettura (Agostino Contò): Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 67- 102 (scelta di alcune strofe). Carla Dondi fu Ambrogio di anni diciassette primo impiego stenodattilo all’ombra del Duomo Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro sia svelta, sorrida e impari le lingue le lingue qui dentro le lingue oggigiorno capisce dove si trova? Transocean limited qui tutto il mondo ... è certo che sarà orgogliosa. Signorina, noi siamo abbonati alle Pulizie Generali, due volte la settimana, ma il Signor Pratèk è molto esigente - amore al lavoro è amore all’ambiente - cosi nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino sarà sua prima cura la mattina. Ufficio A Ufficio B Ufficio C Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno adesso che lavori ne hai diritto molto di più. S’è lavata nel bagno e poi nel letto s’è accarezzata tutta quella sera. Non le mancava niente, c’era tutta come la sera prima - pure con le mani e la bocca si cerca si tocca si strofina, ha una voglia di piangere di compatirsi ma senza fantasia come può immaginare di commuoversi? Tira il collo all’indietro ed ecco tutto. Negli uffici s’imparan molte cose ecco la vera scuola della vita alcune s’hanno da imparare in fretta perché vogliono dire saper vivere la prima entrare nella manica a Praték che ce l’ha stretta A Praték gli vanno bene i soldi e un impiegato mai, perché la fine del mese i soldi l’impiegato pochi o tanti li porta via, e lui li guarda coi suoi occhi acquosi, i soldi, e non gli pare giusto. A Pratèk gli van bene anche le donne e Lidia che era furba lo sapeva e l’ha passato mica male, il tempo, sullo sgabello della macchina con le sue cosce grasse. Ma la moglie coi soldi che è gelosa vigila sulla serenità delle fanciulle, Monsieur Pratèk - in fondo, io sono un filosofo non per niente è stato anche in galera rispetta gli istituti: Lidia parte entra Carla: può servire che si sappia: col dottor Pozzi basta un po’ di striscio, fargli mettere la firma in molti posti. Però non è sicuro che la Carla cresca come si deve o voglia o sappia farlo, come si cresce a quell’età e quali fatti passino o quali invece segnino un passaggio, chi lo sa? A venti o a ventiquattro quanti han scritto d’esser pronti e d’aver necessità di rifare all’indietro quella strada non agevole, fin dentro nelle viscere di chi li ha fatti nascere, a cercare momenti di rottura soluzioni di continuità che la storia non dà ma che ci sono stati certamente se sono come sono? Carla, sensibile scontrosa impreparata si perde e tira avanti, senza dire una volta mi piace o non lo voglio con pochi paradigmi non compresi tali, o inaccettati; desideri precisi da chiarirsi non le avanzano a fine mese a fine mese sangue maculato tra le gambe pallide la fa tremare sempre, e Praték quando la chiama nel suo ufficio per dettare. Per esempio, bisogna sentire come bestemmia Che parole volgari come un uomo solamente - a Carla nausea e niente voglia di domande oggi non mite Aldo quando la gatta è via i topi ballano. Giorgio Gaber - La ballata del Cerruti Io ho sentito molte ballate quella di Tom Dooley quella di Davy Crocket e sarebbe piaciuto anche a me scriverne una così invece invece niente ho fatto una ballata per uno che sta a Milano al Giambellino il Cerutti Cerutti Gino Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago vent’anni biondo mai una lira per non passare guai fiutava intorno che aria tira e non sgobbava mai il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago una sera in una strada scura occhio c’è una lambretta fingendo di non aver paura il Cerutti monta in fretta ma che rogna nera quella sera qualcuno vede e chiama veloce arriva la pantera e lo vede la madama il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago ora è triste e un poco manomesso si trova al terzo raggio è lì che attende il suo processo forse vien fuori a Maggio s’è beccato un bel tre mesi il Gino ma il giudice è stato buono gli ha fatto un lungo verborino è uscito col condono il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago è tornato al bar Cerutti Gino e gli amici nel futuro quando parleran del Gino diran che è un tipo duro 1962 Lettura (Agostino Contò): Italo Calvino: I beatniks e il “sistema” da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 75-78. I libri dei sociologi, dei moralisti, dei critici della civiltà contemporanea occupano da alcuni anni a questa parte un posto di rilievo nelle letture di noi tutti, e il vocabolario con cui interpretiamo la nostra vita quotidiana si è arricchito di espressioni divenute presto familiari come alienazione, industria culturale, persuasori occulti, uomini dell’organizzazione, folla solitaria, e cosi via. Il quadro che ne salta fuori non è roseo. Io che sono ostinatamente ottimista, penso che la civiltà umana ne ha passate anche di peggio, e per rassicurarmi cerco dei paralleli storici che facciano al nostro caso. Di veramente calzante, ho trovato solo questo, e non so se varrà a consolarvi: stiamo vivendo al tempo delle invasioni barbariche. È inutile che vi guardiate intorno cercando di identificare i barbari in qualche categoria di persone. I barbari questa volta non sono persone, sono cose. Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare; sono l’abbondanza dei beni che non ci dà l’agio del benessere ma l’ansia del consumo forzato; sono la febbre edilizia che sta imponendo un volto mostruoso a tutti i luoghi che ci erano cari; sono la finta pienezza delle nostre giornate in cui amicizie affetti amori appassiscono come piante senz’aria e in cui si spegne sul nascere ogni colloquio, con gli altri e con noi stessi. Ed è chiaro che l’elenco delle cose barbare e assoggettatrici non può culminare che con l’evocazione di quella che tutte le comprende, le simboleggia e le vanifica, la cosa barbara e assoggettatrice per eccellenza, la bomba che può porre fine alla storia umana. (...) Ecco turbe di giovani che, alla scoperta che l’impero dell’uomo sta cadendo in mano alle cose, rifiutano d’integrarsi, dichiarano guerra alla civiltà dei frigoriferi e dei televisori, dicono no a tutti i valori costituiti d’Occidente o d’Oriente, assumono come sola realtà la liberazione dell’inconscio e il rapimento cosmico, portano barbe incolte, vestono in fogge quasi fratesche, fondano le loro colonie nei quartieri a buon prezzo delle varie metropoli, si drogano e fanno o dicono di fare altre sciocchezze, ed evocano l’apocalisse del fungo atomico come il loro scenario naturale. (...) Il problema che la beat generation ha posto è come vivere fino in fondo la nostra natura umana in un mondo che sarà sempre più perfettamente artificiale. I beatniks sono venuti a cose fatte, accettano questo mondo costruito interamente dall’uomo come se fosse uno scenario naturale, ma non comprendono perché dovrebbero condividere i principi e le regole del gioco su cui si regge. La civiltà industriale, lussureggiante come una giungla, tende ad inglobare tutto e a far crescere tutto con il suo ritmo, anche i fermenti di ribellione. Credo che una parte predominante, nella formazione della mentalità beat, pitù ancora del pericolo atomico, l’abbia la tranquilla certezza nella prosperity della affluent society. Un’economia perfettamente organizzata elargisce i suoi frutti come un’indifferente natura. Non verrà forse il giorno in cui la produzione sarà mandata avanti da automi, il giorno in cui il lavoro manuale consisterà nello schiacciare un bottone una volta tanto? I beatniks sono i nuovi selvaggi d’una giungla meccanica ed estranea. Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Discorso alla luna di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962). Roma 11 ottobre 1962, al termine della giornata di apertura del Concilio Vaticano II “Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera… Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo… Noi chiudiamo una grande giornata di pace… Sì, di pace: ‘Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà’. Se domandassi, se potessi chiedere ora a ciascuno: voi da che parte venite? I figli di Roma, che sono qui specialmente rappresentati, risponderebbero: ah, noi siamo i figli più vicini, e voi siete il nostro vescovo. Ebbene, figlioli di Roma, voi sentite veramente di rappresentare la ‘Roma caput mundi’, la capitale del mondo, così come per disegno della Provvidenza è stata chiamata ad essere attraverso i secoli. La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore… Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così; guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza… E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino. Addio, figlioli. Alla benedizione aggiungo l’augurio della buona notte”. Recitazione con accompagnamento musicale (Marta Visconti / Daniela Brunelli): di Bob Dylan, A hard rain’s gonna fall (Una dura pioggia cadrà) trad. di Fernanda Pivano. E dove sei stato figlio dagli occhi azzurri dove sei stato dolce mio figlio ho inciampato nel fianco di dodici montagne nebbiose ho camminato e strisciato su sei strade contorte ho camminato nel mezzo di sette tristi foreste sono stato davanti dodici oceani morti sono stato diecimila miglia nella bocca di un cimitero e una dura dura dura pioggia cadrà e cosa hai visto figlio dagli occhi azzurri cosa hai visto dolce mio figlio ho visto un neonato e bianchi lupi lo circondavano ho visto una strada di diamanti e nessuno vi camminava ho visto un ramo nero e il sangue ne gocciolava ho visto una stanza piena di uomini e i loro martelli sanguinavano ho visto una scala bianca tutta coperta di acqua ho visto diecimila che parlavano e le loro parole erano un balbettio ho visto fucili e spade affilate nelle mani di bambini e una dura dura dura pioggia cadrà e cosa hai sentito figlio dagli occhi azzurri cosa hai sentito dolce mio figlio ho sentito il fragore di un tuono e il suo rombo era un avvertimento ho sentito il fragore di un’onda che potrebbe sommergere tutto il mondo ho sentito cento tamburini e le loro mani erano in fiamme ho sentito diecimila bisbigliare e nessuno ascoltare ho sentito un uomo morire di fame ho sentito molti altri che ridevano ho sentito la canzone di un poeta che è morto nella strada ho sentito il suono di un pagliaccio che piangeva nel cortile e una dura dura dura pioggia cadrà e cosa hai incontrato figlio dagli occhi azzurri chi hai incontrato dolce mio figlio ho incontrato un bambino vicino a un cavallino morto ho incontrato un uomo bianco che camminava con un cane nero ho incontrato una giovane donna il suo corpo era in fiamme ho incontrato una bambina mi ha dato un arcobaleno ho incontrato un uomo che era ferito in amore ho incontrato un altro uomo che era ferito in odio e una dura dura dura pioggia cadrà e cosa farai adesso figlio dagli occhi azzurri cosa farai adesso dolce mio figlio tornerò là fuori prima che la pioggia cominci a cadere camminerò nel profondo della più profonda nera foresta dove molti sono gli uomini e vuote sono le loro mani dove pallottole di veleno contaminano le loro acque dove la casa nella valle è una sporca e fredda prigione e la faccia del boia è sempre bene nascosta dove la fame è brutta dove le anime sono dimenticate dove nero è il colore dove zero è il numero e lo dirò e lo ripeterò e lo penserò e lo respirerò e rifletterò dalle montagne così che tutte le anime lo vedano poi starò in piedi sull’oceano fino a quando comincerò ad affondare ma saprò la mia canzone bene prima di cominciare a cantare e una dura dura dura pioggia cadrà. Adriano Celentano - Pregherò (Stand by me) Crederai. Io lo so perchè Tu la fede non hai Ma se tu lo vorrai Crederai. Non devi odiare il sole Perchè tu non puoi vederlo, Ma c’è Ore splende su di noi, Su di noi. Dal castello del silenzio Egli vede anche te E già sento Che anche tu lo vedrai. Egli sa Che lo vedrai Solo con gli occhi mieri Ed il mondo La sua luce riavrà. Io t’amo, t’amo, t’amo, O-o-oh! Questo è il primo segno Che dà La tua fede nel Signor. Nel signor, nel Signor. Io t’amo, t’amo, t’amo, O-o-oh! Questo è il primo segno Che dà La tua fede nel Signor, Nel Signor. La fede è il più bel dono Che il Signore ci dà Per vedere lui E allor: Tu vedrai, Tu vedrai, Tu vedrai, Tu vedrai 1963 Lettura (Tiziano Gelmetti): Martin Luther King, Io ho un sogno (discorso a Washington, 28 agosto 1963). Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività. Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono: “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno che un giorno, in Alabama, con i suoi malvagi razzisti, con il suo governatore dalle cui labbra provengono parole di veto e annullamento, che un giorno, proprio qui in Alabama, i ragazzini neri e e le ragazzine negre sapranno unire le mani con i ragazzini bianchi e le ragazzine bianche come se fossero fratelli e sorelle. Ho davanti a me un sogno oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere. Risuoni quindi la libertà delle cime prodigiose del New Hampshire. Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia. Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà. E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”. Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Betty Friedan, Un problema inespresso da La mistica della femminilità. C’è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso, nella mente delle donne americane. È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione che la donna americana ha cominciato a provare intorno alla metà del ventesimo secolo. Per più di quindici anni non si è fatta parola di questo turbamento nelle rubriche, nei libri, negli articoli scritti sulle donne e per le donne da esperti che sostenevano che il compito di queste ultime era di cercare la realizzazione della loro personalità come mogli e madri. Dalla voce della tradizione e da quella degli ambienti freudiani le donne appresero che non potevano desiderare destino migliore di quello di gloriarsi della propria femminilità. Gli esperti insegnarono loro come accalappiare un uomo e tenerlo, come allattare i figli e insegnargli ad andare al gabinetto, come affrontare la rivalità tra fratelli e la ribellione dell’adolescenza; come comprare una lavastoviglie, fare il pane in casa, cucinare lumache alla francese e costruire una piscina con le loro mani; come vestire, acconciarsi, e comportarsi in modo più femminile e come rendere il matrimonio meno noioso; come impedire ai mariti di morir giovani e ai figli di diventare delinquenti. Impararono a compatire quelle donne nevrotiche, poco femminili e infelici che volevano fare le poetesse, le scienziate o essere presidentesse di qualche associazione. Appresero che le donne veramente femminili non desiderano perseguire una professione, ricevere un’istruzione superiore, esercitare i loro diritti politici: che cioè non desiderano quell’indipendenza e quelle prospettive per cui le femministe d’altri tempi avevano combattuto. (...) La casalinga del quartiere residenziale piacevole: era questa l’immagine ideale delle giovani americane, e l’invidia, così si diceva, delle donne di tutto il resto del mondo. La casalinga americana: colei che la scienza e gli elettrodomestici avevano liberato dalle fatiche domestiche, dai pericoli della gravidanza e dalle malattie della nonna. Era sana, bella, istruita, preoccupata solo del benessere del marito e dei figli, interessata solo alla casa. Come donna di casa e madre era rispettata quale compagna paritaria dell’uomo. Era libera di scegliere le automobili, i vestiti, gli elettrodomestici, i negozi; aveva tutto ciò che le donne avevano sempre desiderato. Nel quindicennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale questa mistica della realizzazione della personalità femminile divenne uno dei temi centrali della civiltà americana. Ma una mattina d’aprile del 1959 sentii una madre di quattro figli, che stava prendendo il caffè con altre quattro madri in un quartiere residenziale a quindici miglia da New York, menzionare in tono di tranquilla disperazione “il problema”. E le altre mostrarono di capire immediatamente che non stava parlando di un problema familiare. Capirono subito che avevano tutte lo stesso problema e cominciarono con esitazione a parlarne. (...) Queste donne hanno una fame che il cibo non può soddisfare. (...) Forse il problema che stiamo esaminando è legato alla routine domestica della donna di casa? Infatti quando cercano di esprimere con parole il loro problema, queste donne spesso finiscono col descrivere la loro vita quotidiana. (...) Ho cominciato a vedere nuove dimensioni nei vecchi problemi: le difficoltà delle mestruazioni, la frigidità sessuale, la leggerezza dei costumi, la paura della gravidanza, la depressione del parto, l’alta percentuale di collassi nervosi e di suicidi tra le donne dei venti ai quarant’anni, la crisi della menopausa, la cosiddetta passività e immaturità degli uomini americani, il divario tra la capacità intellettuale dimostrata dalle donne nell’infanzia e ciò che realizzano nella maturità, la mutata frequenza dell’orgasmo sessuale nelle donne americane, e i problemi che persistono nella psicoterapia e nell’educazione delle donne. Se la mia intuizione è giusta, il problema che agita oggi la mente di tante donne americane non si riferisce alla perdita della femminilità o ad un’eccessiva istruzione, o al peso del mènage familiare. La sua importanza è decisiva rispetto alla soluzione degli altri nuovi e vecchi problemi che hanno torturato le donne, e i mariti, e i figli, e turbano i medici e gli educatori. Potrebbe persino essere la chiave del nostro futuro come nazione e civiltà. Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa”. Bob Dylan - Blowin’ in the wind (Titolo del disco: The freewheelin’ Bob Dylan - 1963) How many roads must a man walk down Before you call him a man? Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand? Yes, ‘n’ how many times must the cannon balls fly Before they’re forever banned? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. How many times must a man look up Before he can see the sky? Yes, ‘n’ how many ears must one man have Before he can hear people cry? Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows That too many people have died? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. How many years can a mountain exist Before it’s washed to the sea? Yes, ‘n’ how many years can some people exist Before they’re allowed to be free? Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head, Pretending he just doesn’t see? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. Compilation Beatles – [nello spazio di una canzone, accennarne max tre] Bruno Lauzi - Il poeta Alla sera al caffè con gli amici si parlava di donne e motori si diceva “son gioie e dolori” lui piangeva e parlava di te Se si andava in provincia a ballare si cercava di aver le più belle lui, lui restava a contare le stelle sospirava e parlava di te Alle carte era un vero campione lo chiamavano “il ras del quartiere” ma una sera giocando a scopone perse un punto parlando di te Ed infine una notte si uccise per la gran confusione mentale fu un peccato perché era speciale proprio come parlava di te (parlato) Ora dicono, fosse un poeta e che sapesse parlare d’amore Cosa importa se in fondo uno muore e non può più parlare di te 1964 Lettura (Agostino Contò): Herbert Marcuse, lettura di La società senza opposizione, da L’uomo a una dimensione. La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo? (...) Se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione. E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e i bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza - individuale, nazionale e internazionale. Questa repressione, cosi differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata. (...) Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. (...) Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall’ interesse immediato al loro interesse reale. Essi possono far questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire dei beni” su scala sempre più ampia e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell’uomo. Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Goffredo Parise, Due, tre cose sul Vietnam. Nei bar di Vung Tao tutti i camerieri non superano i dieci anni. Una folla di lilliput frenetici, terrorizzati dalle urla dei padroni e al tempo stesso felici di lavorare come gli uomini. La loro paga consiste nel cibo e nelle mance. Ho osservato attentamente sia bambini che padroni. I padroni stanno curvi sul blocchetto dei conti e poiché il locale straripa di corpi umani, e dunque di consumazioni, scrivono freneticamente, il volto cattivo, teso verso cifre che si accavallano senza ordine nel loro cervello. Quando aprono bocca urlano come bestie. Alle loro urla rispondono le urla dei bambini camerieri: questi afferrano il conto, lo portano al cliente, riscuotono il denaro, tornano al banco, infilano il conto su una punta di ferro, con rabbia, gioia e orgoglio, corrono dietro il banco, versano bibite e le portano ai tavoli, fanno altri conti, sempre urlando, sempre sbagliando, spesso piangendo, disperandosi per i rimproveri dei padroni-pirati. I portieri hanno la stessa età e sono vestiti di larghe divise russe, con galloni, alamari e spalline d’oro. Non riescono a tenere gli occhi aperti, spesso non resistono in piedi, allora si accucciano, lentamente finiscono sdraiati per terra davanti alla porta, fagottini rossi e oro che dormono tra i via vai di gigantesche scarpe di mogano. È in uno di questi bar che ho trovato un soldato di diciannove anni, ferito quattro volte in zona d’operazioni. Aveva, la sua ragazza sulle ginocchia ed era tutto felice di parlare con me: era un vero “americano tranquillo”. Ho avuto con lui una breve conversazione con la quale mi pare giusto concludere questo articolo. Si parlava, naturalmente, delle donne vietnamite. Ne era entusiasta. “Sono fantastiche, dolci, tenere, appassionate, ma anche piene di personalità. Creda a me che le conosco da più di un anno; la prostituzione, i bar? Ma è logico, sono costrette a farlo, nelle condizioni in cui vivono, come potrebbero fare altrimenti? Spesso devono mantenere una ventina di persone, tra nipoti e nonni. Vede questa? È la mia fidanzata, gliela presento: si chiama Lan, che vuol direi Orchidea, Che nome poetico! Ieri ho chiesto al mio comandante il permesso di sposarla”. “E la lascia lavorare in un bar?” “Non fa nulla di male e del resto è lei che vuole continuare a fare questo lavoro” “È sicuro che lei lo ama?” “Sicurissimo. La guardi. Non vede che mi ama?” Così dicendo prese la ragazza per il mento e le girò il volto verso di me. La guardai. Era anche lei una bambina, non bella. I suoi occhi lunghi e infidi fingevano di sorridere mentre carezzava con gelido calcolo la guancia del suo ragazzone. Ci voleva ben altro che un americano di diciannove anni per capirlo. Risposi di sì, che lei lo amava certamente. Fabrizio De André - La guerra di Piero Dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall’ombra dei fossi ma son mille papaveri rossi lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente così dicevi ed era inverno e come gli altri verso l’inferno te ne vai triste come chi deve il vento ti sputa in faccia la neve fermati Piero, fermati adesso lascia che il vento ti passi un po’ addosso dei morti in battaglia ti porti la voce chi diede la vita ebbe in cambio una croce ma tu no lo udisti e il tempo passava con le stagioni a passo di giava ed arrivasti a varcar la frontiera in un bel giorno di primavera e mentre marciavi con l’anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue e se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere vedere gli occhi di un uomo che muore e mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede e ha paura ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chiedere perdono per ogni peccato cadesti interra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato un ritorno Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio Ninetta bella dritto all’inferno avrei preferito andarci in inverno e mentre il grano ti stava a sentire dentro alle mani stringevi un fucile dentro alla bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall’ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi. Gianni Morandi - C’era un ragazzo C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones girava il mondo, veniva da gli Stati Uniti d’America. Non era bello ma accanto a sé aveva mille donne se cantava «Help» e «Ticket to ride» o «Lady Jane» o «Yesterday». Cantava «Viva la libertà» ma ricevette una lettera, la sua chitarra mi regalò fu richiamato in America. Stop! coi Rolling Stones! Stop! coi Beatles. Stop! Gli han detto vai nel Vietnam e spara ai Vietcong... Ta ta ta ta ta... C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones girava il mondo, ma poi finì a far la guerra nel Vietnam. Capelli lunghi non porta più, non suona la chitarra ma uno strumento che sempre dà la stessa nota ratatata. Non ha più amici, non ha più fans, vede la gente cadere giù: nel suo paese non tornerà adesso è morto nel Vietnam. Stop! coi Rolling Stones! Stop! coi Beatles. Stop! Nel petto un cuore più non ha ma due medaglie o tre... Ta ta ta ta ta... Recitazione con accompagnamento musicale (Tiziano Gelmetti): di Amsterdam di Jacques Brel, accompagnato da musica. Quando approdi a Amsterdam Getti l’ancora fra I sogni d’incanti, Nei canti dei marinai Che nel porto d’Amsterdam Puoi trovare assopiti Come fossero dei Gran pavesi ammainati. Se vai ad Amsterdam Puoi vederli morire Di ricordi annegati All’oblò di un bicchiere O salpare alla vita Cercando i confini Nei misteri nebbiosi Di amplessi marini Nei bistrot d’Amsterdam Stanno lì a divorare Fritture grondanti Gli uomini del mare E a mostrare dei denti Da sbranafortuna, Da sgranocchiadiamanti E da Azzanna-la-luna. Ed in mezzo a fiumane Di pesci e patate Vanno su le manone Per le altre portate, Poi sbaraccan la mensa E cominci la festa Ma in piedi, rollando E ruttando tempesta. I marò di Amsterdam Quando s’apron le danze Si struscian le panze Alle panze di dame E riscattano con Fisarmoniche grame Tante notti di veglia Di freddo e di fame E si storcon la testa Per rider più forte Finché colpita a morte La musica s’arresta Allora bestemmiando, A fatica dritti, Se ne vanno ondeggiando Come vecchi relitti. Per le vie d’Amsterdam Ci sono dei marinai Che si bevono mari Di birra e di guai E che, trinca e tracanna E continua a brindare, Non la smettono mai Di bere alle signore Che negli alberghi a ore Dan loro la virtù, E quando han ben bevuto Da non poterne più Si piantano naso al cielo A patte spalancate E pisciano come io piango Sulle donne infedeli. Se vai ad Amsterdam, Nel porto d’Amsterdam… 1965 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Goffredo Parise, Cara Cina. Una cosa [della Cina] che mi ha particolarmente colpito è l’odio di tutti i cinesi per gli americani. Mi ha colpito perché non è soltanto un odio ideologico e politico ma mi è parso un odio in cui convivono terrore, invidia, amore e molti altri moti dell’animo: insomma non un sentimento chiaro e forte, ma un complesso oscuro e debole. Ho cercato di analizzarlo come un complesso e sono arrivato alla conclusione che i cinesi odiano gli americani prima di tutto perché hanno paura di essere invasi, sfruttati, imbrogliati e maltrattati come è accaduto da più di cinquecento anni a questa parte, se non dagli americani, da noi europei; poi perché a catechizzati come sono con sistemi non ideologici ma teologici, sul marxismo di Mao, sono profondamente convinti di avere una missione da compiere nel mondo e dunque vedono negli americani (e non nei sovietici) dei concorrenti che invadono il campo: concorrenti perché come loro, il popolo americano è altrettanto convinto della propria missione. Infine li odiano perché li amano come sempre avviene quando l’odio ha radici così complesse e profonde. Ho visto, a Hong-Kong, Bangkok, Saigon, americani giganteschi, coi capelli tagliati come gli indiani apaches, cioè con una spazzola crestata che si erge nel mezzo del cranio rasato, paurosi e infantili allo stesso tempo, abbracciati disperatamente a cinesine fragili e minute che erano la decima parte di loro. Lo spettacolo da un lato strideva, dall’altro attraeva. Strideva perché i due, pure essendo ugualmente infelici, non erano assolutamente fatti l’uno per l’altra; attraeva perché entrambi rappresentavano, pure con le loro caratteristiche somatiche così diverse, le due più grandi società di massa che esistano al mondo. Opposte e uguali. Queste due società hanno il loro massimo punto di scontro, per il momento, in Estremo Oriente. Basta uscire pochi chilometri dalla Cina, da qualunque punto del suo confine a sud e si incontrerà non l’Europa, che pure vi ha mantenuto il suo potere fino all’altro giorno, bensì l’America con tutte le sue spettacolari esibizioni di consumo di massa. In poche parole, di qua del confine è l’ideologia o teologia politica marxista, di là del confine l’ideologia o teologia politica del consumo. Da una parte idee, dall’altra denaro (...). I cinesi hanno urgente necessità di imparare da noi, Europa, due cose: l’analisi e la sintesi: cioè la libertà. E noi da loro altre due cose non meno importanti: lo stile della vita e l’aiuto reciproco: cioè l’amore. Messe insieme significherebbero pace e grande civiltà Dalla tenerezza e dalla commozione che hanno suscitato in me queste due qualità così reali del popolo cinese mi è venuto spontaneo il titolo di questo libro [Cara Cina]. Patty Pravo - Ragazzo triste Ragazzo triste come me ah ah che sogni sempre come me ah ah non c’è nessuno che ti aspetta mai perché non sanno come sei Ragazzo triste sono uguale a te, a volte piango e non so perché tanti son soli come me e te ma un giorno spero cambierà Nessuno può star solo, non deve stare solo quando si è giovani così Dobbiamo stare insieme, amare tra di noi scoprire insieme il mondo che ci ospiterà Ragazzo triste come me... Hey hey hey vedrai - hey hey hey vedrai non dobbiamo star soli mai, non dobbiamo star soli mai... Gianni Pettenati - Bandiera gialla Sì questa sera è festa grande, noi scendiamo in pista subito e se vuoi divertirti vieni qua, ti terremo fra di noi e ballerai... Finché vedrai sventolar bandiera gialla tu saprai che qui si balla ed il tempo volerà... Saprai quando c’è bandiera gialla che la gioventù è bella e il tuo cuore batterà. Sai quelli che non ci voglion bene è perché non si ricordano di esser stati ragazzi giovani o di aver avuto già la nostra età... Finché vedrai sventolar bandiera gialla tu saprai che qui si balla ed il tempo volerà... Saprai quando c’è bandiera gialla che la gioventù è bella e il tuo cuore batterà. Finché vedrai sventolar bandiera gialla tu saprai che qui si balla ed il tempo volerà... Saprai quando c’è bandiera gialla che la gioventù è bella e il tuo cuore batterà. Siamo noi, siamo noi, bandiera gialla... Vieni qui che qui si balla... Vieni qui che qui si balla... Siamo noi, bandiera gialla... 1966 Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): di tre articoli da quotidiani su Gli angeli del fango (alluvione di Firenze). Trecento, forse quattrocento mila metri cubi d’acqua si riversarono tra il 4 e il 5 novembre 1966 su Firenze. Una marea inarrestabile e immonda di fango, di nafta, di detriti di ogni sorta (pietre, alberi, insegne pubblicitarie, automobili, carcasse di animali annegati) sommerse con impeto furioso e inarrestabile strade, abitazioni, negozi, uffici, ospedali, chiese, musei, archivi, rompendo ponti e argini, travolgendo tutto quel che trovava sul proprio cammino. Un grande lago di melma infetta e maleodorante si distese sulle strade, sulle piazze, sui monumenti di una delle più belle e antiche città del mondo, deturpando irrimediabilmente ogni cosa. “Bisogna venire - si leggeva in quei giorni sul “Corriere della sera” - guardare con i propri occhi, camminare dieci ore nel fango che in qualche caso arriva ancora ai ginocchi, bisogna vedere i visi tirati, le pallide occhiaie dei direttori dei musei e delle biblioteche, bisogna stringere le mani melmose dei soldati e degli studenti che in lunga catena si passano codici, libri, dipinti, arazzi, vecchie riviste e carta da musica, bisogna sentire il fetore che si sprigiona dai fondachi e dalle cloache, per capire, per cercare di capire le ferite che la piena dell’Arno ha inferto al patrimonio artistico e culturale di Firenze e che si aggiungono al colpo quasi mortale subito da tutta l’economia cittadina. (...) Era il più sconvolgente cataclisma naturale della storia di Firenze. La natura si era presa la sua feroce rivincita sulla presunzione degli uomini che ne avevano sottovalutato la forza immane e sempre misteriosa. (...) Ma il diluvio mise in luce, oltre alla fragilità delle difese degli uomini, anche dell’altro: mise in luce, inaspettati, i valori, gli entusiasmi, la generosità della meglio gioventù di allora. “Chi viene - scriveva Giovanni Grazzini sul “Corriere della sera” - anche il più cinico, anche il più torpido, capisce subito tre cose: che le perdite sono spaventose, che per restituire a Firenze un volto luminoso e il benessere occorreranno miliardi e forse decenni, ma anche che d’ora innanzi non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats. Perché questa stessa gioventù che sino a ieri ha attirato le vostre ironie, oggi ha dato, a Firenze, un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune”. Onore ai beats, intitolava l’articolo, onore agli angeli del fango. In quei giorni tragici e disperati - ricorderà poi il sindaco Giorgio La Pira - si è compiuto veramente anche un esperimento prezioso. A migliaia sono venuti i giovani in quest’isola di coraggio e di disperazione e vi hanno trovato almeno una stagione di “educazione sentimentale”, di introduzione insieme a che cosa voglia dire civiltà. Hanno dormito nelle cuccette di freddi vagoni abbandonati su un binario morto di stazione. Hanno mangiato poco e male. C’è chi di loro ha salvato un Velásquez. Ma c’è soprattutto chi di loro ha contribuito a salvare vite umane, negli ospedali, nei tuguri. Questi giovani italiani e stranieri hanno combattuto il fango come forse non avevano mai veramente combattuto i pregiudizi e le ingiustizie sociali. Ma questa volta non era, il loro, un ideale astratto o l’amore - fastidio per una società di consumi che li criticava e li coccolava insieme. Era la lotta contro seicentomila tonnellate di fango, crudele, immondo, osceno. E ci sono entrati dentro fino ai capelli, con amore e pazienza, per salvare dei libri. Per ore ed ore. Come non avevano mai lavorato. Come non avevano mai studiato. Come non avevano mai ballato. Come non avevano mai fatto all’amore. Giovanni Grazzini, Si fruga ancora nel fango per ritrovare i capolavori di Firenze, “Corriere della sera” 9 novembre 1966; Giovanni Grazzini, Si calano nel buio della melma, 10 novembre 1966; Franco Nencini, Firenze. I giorni del diluvio, Firenze, Sansoni, 1966. Lettura (Agostino Contò): Andrea Zanzotto, Al mondo [poesia]. Mondo, sii, e buono; esisti buonamente, fa che, cerca di, tendi a, dimmi tutto, ed ecco che io ribaltavo eludevo e ogni inclusione era fattiva non meno che ogni esclusione; su bravo, esisti, non accartocciarti in te stesso, in me stesso Io pensavo che il mondo così concepito con questo super-cadere super-morire il mondo così fatturato fosse soltanto un io male sbozzolato fossi io indigesto male fantasticante male fantasticato mal pagato e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato” un po’ più in là, da lato, da lato Fa di (ex-de-ob-etc)-sistere E oltre tutte le preposizioni note e ignote, abbi qualche chance, fa buonamente un po’; il congegno abbia gioco. Su, bello, su. Su, münchhausen. I Nomadi - Come potete giudicar (traduzione di The Revolution Kind di Sonny Bono) Come potete giudicar come potete condannar chi vi crediate che noi siam per i capelli che portiam facciam così perché crediam in ogni cosa che facciam E se vi fermaste un po’ a guardar, con noi parlar vi accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai Quando per strada noi passiam voi vi voltate per guardar ci vuole poco a immaginar quello che state per pensar ridete pure se vi va ma non dovreste giudicar E se questo modo di pensar a voi non va cercate solo di capir che non facciamo male mai Come potete giudicar come potete condannar chi vi crediate che noi siam per i capelli che portiam facciam così perché crediam che nessun male si possa fare E se vi fermaste un po’ a guardar, con noi parlar vi accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai oh mai mai no mai mai... The Rokes - È la pioggia che va Sotto una montagna di paure e di ambizioni c’è nascosto qualche cosa che non muore Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone troverete tanta luce e tanto amore Il mondo ormai sta cambiando e cambierà di più Ma non vedete nel cielo quelle macchie di azzurro e di blu È la pioggia che va, e ritorna il sereno, è la pioggia che va, e ritorna il sereno Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente le speranze dei ragazzi sono fumo Sono stanchi di lottare e non credono più a niente proprio adesso che la meta è qui vicina Ma noi che stiamo correndo avanzeremo di più Ma non vedete che il cielo ogni giorno diventa più blu È la pioggia che va, e ritorna il sereno, èla pioggia che va, e ritorna il sereno Non importa se qualcuno sul cammino della vita sarà preda dei fantasmi del passato Il denaro ed il potere sono trappole mortali che per tanto e tanto tempo han funzionato Noi non vogliamo cadere non possiamo cadere più giù Ma non vedete nel cielo quelle macchie di azzurro e di blu È la pioggia che va, e ritorna il sereno, è la pioggia che va, e ritorna il sereno Adriano Celentano - Il ragazzo della via Gluck (Coro) là dove c’era l’erba ora c’è una città. Questa è la storia di uno di noi anche lui nato per caso in via Gluck in una casa fuori città gente tranquilla che lavorava. Là dove c’era l’erba ora c’è una città e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà questo ragazzo della via Gluck si divertiva a giocare con me ma un giorno disse: “vado in città” e lo diceva mentre piangeva io gli domando: “amico non sei contento? vai finalmente a stare in città là troverai le cose che non hai avuto qui. Potrai lavarti in casa senza andar giù nel cortile”. “Mio caro amico” disse “qui sono nato e in questa strada ora lascio il mio cuore ma come fai a non capire che è una fortuna per voi che restate a piedi nudi a giocare nei prati mentre là in centro io respiro il cemento ma verrà un giorno che ritornerò ancora qui e sentirò l’amico treno che fischia così... ua ua”. Passano gli anni ma otto son lunghi però quel ragazzo ne ha fatta di strada ma non si scorda la sua prima casa ora coi soldi lui può comperarla torna e non trova gli amici che aveva solo case su case catrame e cemento là dove c’era l’erba ora c’è una città e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà non so no so perché continuano a costruire le case e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba non lasciano l’erba e non se andiamo avanti così chissà come si farà chissà chissà come si farà. 1967 Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1976, pp. 9- 13, 35-42. Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate. Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà nè eroismo. E solo mancanza di prepotenza. A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”. (...) Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Nè cattedra, nè lavagna, nè banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io. La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè non aveva capito, gli altri non andavano avanti. Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perchè il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto. Un professore disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”. Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline. Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”. Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla. Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su dieci la pensano esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa. Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi. Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. Fino all’ottobre seguente non sapete cosa avete fatto. È andato a lavorare o ripete? E se ripete gli farà bene o male? Si farà le basi per seguitare meglio o invecchierà malamente su programmi non adatti per lui? (...) Dei sei ragazzi bocciati, quattro stanno ripetendo la prima. Per la scuola non sono persi, ma per la classe sì. Forse la maestra non se ne dà pensiero perché li sa al sicuro nella classe accanto. Forse se li è già dimenticati. (...) La maestra (...) è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio. Chi manca ha il difetto che non si vede. Ci vorrebbe una croce o una bara sul suo banco per ricordarlo. Invece al suo posto c’è un ragazzo nuovo. Un disgraziato come lui. La maestra gli s’è già affezionata. Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani. Sergio Endrigo - Il treno che viene dal sud Il treno che viene dal sud Non porta soltanto Marie Con le labbra di corallo E gli occhi grandi così Porta gente gente nata tra gli ulivi Porta gente che va a scordare il sole Ma è caldo il pane Lassù nel nord Nel treno che viene dal sud Sudore e mille valigie Occhi neri di gelosia Arrivederci Maria Senza amore è più dura la fatica Ma la notte è un sogno sempre uguale Avrò un casa Per te per me Dal treno che viene dal sud Discendono uomini cupi Che hanno in tasca la speranza Ma in cuore sentono che Questa nuova questa bella società Questa nuova grande società Non si farà Non si farà Gianni Morandi - Un mondo d’amore C’è un grande prato verde dove nascono speranze che si chiamano ragazzi Questo è il grande prato dell’amore. Uno non tradirli mai, han fede in te Due non li deludere, credono in te Tre non farli piangere, vivono in te Quattro non li abbandonare, ti mancheranno Quando avrai le mani stanche tutto lascerai per le cose belle ti ringrazieranno piangeranno per gli errori tuoi E tu ragazzo non lo sai ma nei tuoi occhi c’è già lei ti chiederà l’amore ma l’amore ha i suoi comandamenti Uno non tradirla mai, ha fede in te Due non la deludere, lei crede in te Tre non farla piangere, vive per te Quattro non l’abbandonare, ti mancherà E la sera cercherà tra le braccia tue tutte le promesse tutte le speranze per un mondo d’amore Francesco Guccini e I Nomadi - Dio è morto Ho visto la gente della mia età andare via (1) lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già dentro le notti che dal vino son bagnate dentro le stanze da pastiglie trasformate dentro le nuvole di fumo nel mondo fatto di città essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà È un Dio che è morto ai bordi delle strade, Dio è morto nelle auto prese a rate, Dio è morto nei miti dell’estate, Dio è morto. M’han detto che questa mia generazione ormai non crede (2) in ciò che spesso han mascherato con la fede nei miti eterni della patria e dell’eroe perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità le fedi fatti di abitudini e paura una politica che è solo far carriera il perbenismo interessato la dignità fatta di vuoto l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto. È un Dio che è morto nei campi di sterminio, Dio è morto coi miti della razza, Dio è morto con gli odi di partito, Dio è morto. Ma penso che questa mia generazione è preparata (2) a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi, perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge, in ciò che noi crediamo Dio è risorto, in ciò che noi vogliamo Dio è risorto, nel mondo che faremo Dio è risorto... 1968 Lettura (Agostino Contò): Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, pp. 141-143. Non tutte le notizie erano buone. Un anno dopo la fuga del colonnello Aureliano Buendìa, José Arcadio e Rebeca se ne erano andati a vivere nella casa costruita da Arcadio. Nessuno seppe del suo intervento per impedire la fucilazione. Della casa nuova, situata nell’angolo migliore della piazza, all’ombra di un mandorlo privilegiato con tre nidi di pettirossi, con una porta grande per le visite e quattro finestre per la luce, fecero un luogo ospitale. Le vecchie amiche di Rebeca, tra le altre quattro sorelle Moscote ancora nubili, ripresero le riunioni di ricamo interrotte anni prima nel porticato delle begonie. José Arcadio continuò a usufruire delle terre usurpate, i cui titoli furono riconosciuti dal governo conservatore. Tutte le sere lo si vedeva tornare a cavallo, coi suoi cani da caccia e il suo schioppo a due canne, e una filza di conigli appesi alla sella. Un pomeriggio di settembre, che minacciava un temporale, tornò a casa più presto del solito. Salutò Rebeca nella sala da pranzo, legò i cani nel patio, appese i conigli in cucina per salarli più tardi e andò in camera a cambiarsi. Rebeca dichiarò poi che quando suo marito era entrato in camera lei si era chiusa nel bagno senza rendersi conto di niente. Una versione difficile da credere, ma non ce n’era altra più verosimile, e nessuno riuscì a concepire un motivo per il quale. Rebeca potesse aver assassinato l’uomo che l’aveva resa felice. Quello fu forse l’unico mistero che non si mise mai in chiaro a Macondo. Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue usci da sotto la porta, attraversò la sala, usci in strada, continuò in un percorso diretto lungo i marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendia, passò sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non macchiare i tappeti, continuò per l’altro salotto, schivò con un’ampia curva il tavolo della sala da pranzo, avanzò per il porticato delle begonie, passò non visto sotto la sedia di Amaranta che stava dando una lezione di aritmetica a Aureliano Josè si infilò nel granaio e fini nella cucina dove Ursula stava per rompere trentasei uova per fare il pane. “Ave Maria Purissima!” gridò Ursula. Segui il filo di sangue in senso contrario, e cercando la sua origine attraversò il granaio, passò per il porticato delle begonie dove Aureliano Josè cantava che tre e tre fanno sei e sei e tre fanno nove, e attraversò la sala da pranzo e i salotti e continuò in linea retta per la strada, e poi piegò a destra e poi a sinistra fino alla Strada dei Turchi, senza accorgersi che non si era tolta né il grembiule da cucina né le babbucce da casa, e usci nella piazza e entrò nella porta di una casa dove non era mai stata, e spinse la porta della camera e quasi soffocò per l’odore di polvere da sparo bruciata, e trovò José Arcadio bocconi per terra sulle uose che si era appena tolto, e vide l’origine del filo di sangue che aveva già smesso di sgorgare dall’orecchio destro del cadavere. Non trovarono alcuna ferita sul suo corpo e non riuscirono a trovare l’arma. Non fu nemmeno possibile togliere il penetrante odore di polvere da sparo dal morto. Prima lo lavarono per tre volte con sapone e strofinaccio, poi lo stropicciarono con sale e con perni d’acciaio, ma anche cosi si percepiva l’odore di polvere da sparo nelle strade dove passò il funerale. Padre Nicanor col fegato gonfio e teso come un tamburo, gli mandò la benedizione dal letto. Benchè nei mesi seguenti rinforzassero la tomba con muri sovrapposti e gettassero negli interstizi cenere compressa, segatura e calce viva, il cimitero continuò a puzzare di polvere da sparo anche per molti anni dopo, quando gli ingegneri della compagnia bananiera ricoprirono la tomba con una corazza di calcestruzzo. Non appena portarono via il cadavere, Rebeca sbarrò le porte della sua casa e si seppellì viva, chiusa in una grossa crosta di sdegno che nessuna tentazione terrena riuscì a infrangere. Uscì in strada una volta sola, già assai vecchia, con delle scarpe color argento antico e un cappello a fiorellini, all’epoca in cui passò per il villaggio l’Ebreo Errante che provocò un calore cosi intenso che gli uccelli sfondavano le reticelle delle finestre e venivano a morire nelle stanze. L’ultima volta che qualcuno la vide viva fu quando ammazzò con un colpo preciso un ladro che cercava di forzare la porta della sua casa. Tranne Argènida, sua serva e confidente, nessuno ebbe più rapporti con lei da quel momento. In una certa epoca si seppe che scriveva lettere al Vescovo, che considerava suo cugino primo, ma non è detto che avesse mai ricevuto risposta. Il villaggio la dimenticò. Lettura (Tiziano Gelmetti): Pier Paolo Pasolini, Perché ci si droga?, in “Il Tempo”, n. 53, 28 dicembre 1968. Perché ci si droga? Non capisco, ma in qualche modo lo spiego. Ci si droga per mancanza di cultura. Parlo, s’intende, della grande maggioranza o della media dei drogati. È chiaro che chi si droga lo fa per riempire un vuoto, un’assenza di qualcosa, che dà smarrimento e angoscia. E un sostituto della magia. I primitivi sono sempre di fronte a questo vuoto terribile, nel loro interno. Ernesto De Martino lo chiama “paura della perdita della propria presenza”; e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità benessere, produzione e consumo), ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria presenza. In realtà tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema, altri stordendosi in qualche altra attività. L’azione ha sempre una funzione di droga. “Che” Guevara si drogava attraverso l’azione rivoluzionaria (quella teorizzata dal castrismo romantico: agire prima di pensare); anche il lavoro che serve a “produrre” è una specie di droga. Ciò che salva dalla droga vera e propria (cioè dal suicidio) è sempre una forma di sicurezza culturale. Tutti coloro che si drogano sono culturalmente insicuri. Il passaggio da una cultura umanistica a una cultura tecnica pone in crisi la nozione stessa di cultura. Vittime di questa crisi sono soprattutto i giovani. Ecco perché ci sono tanti giovani che si drogano. Mancare di certezze culturali, e quindi della possibilità di riempire il proprio vuoto di alienati, se non altro per mezzo dell’autoanalisi e della coscienza (individuale e di classe), vuoi dire, in termini banali, anche essere ignoranti. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. Insomma, che non leggano più o che non leggano con amore. C’è da aggiungere: i giovani ignoranti che non si drogano, e che magari si drogano attraverso l’azione politica specializzata (che è una forma particolare di ignoranza), sono molto spesso cattivi, disumani, impietosi, sgradevoli: proprio così come la crudele cultura tecnica neocapitalistica (contro cui lottano) li vuole. Invece i giovani “ignoranti” che si drogano sono, in genere, buoni, dolci, pietosi, pieni di carità apostolici, disarmati, non aggressivi, fiduciosi (come, appunto, i primitivi): la loro contestazione in re, ossia nel proprio corpo, è molto più terribile e commovente. Essi sì, se ne fossero capaci, sarebbero nel pieno diritto di lanciare la prima pietra. Al contrario degli estremisti primi della classe, che parlano come (cattivi) libri stampati, essi hanno bruciato i ponti: si sono resi impossibile ogni possibilità di integrazione. Tuttavia, la loro rivolta, benchè terribile e commovente, è inutile: appunto perché priva di cultura, o fuori dalla cultura. Dopotutto è facile essere buoni e dolci come i primitivi, è facile essere pietosi a causa del terrore che proviene dal vuoto in cui si vive. D’altra parte (e questa è la conclusione disperante) liberarsi da questa “mancanza di cultura” o di “interesse culturale” sembra impossibile; infatti essa proviene, probabilmente, da un più generale senso di “paura del futuro”. Mai come in questi anni (in cui la “previsione” è divenuta scienza) il futuro è stato fonte di tanta incertezza, così simile a un incubo indecifrabile. Enzo Jannacci - Vengo anch’io Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale. Vengo anch’io. No, tu no. Per vedere come stanno le bestie feroci e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone, e vedere di nascosto l’effetto che fa. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Ma perché? Perché no! Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera. Vengo anch’io. No, tu no. Con la bella sottobraccio a parlare d’amore e scoprire che va sempre a finire che piove e vedere di nascosto l’effetto che fa. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Ma perché? Perché no! Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore. Vengo anch’io. No, tu no. Dove ognuno, sì, è già pronto a tagliarti una mano un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore e vedere di nascosto l’effetto che fa. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Ma perché? Perché no! Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale. Vengo anch’io. No, tu no. Per vedere se la gente poi piange davvero e capire che per tutti è una cosa normale e vedere di nascosto l’effetto che fa. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Vengo anch’io. No, tu no. Ma perché? Perché no! Paolo Conte - Azzurro Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola quà lei è partita per le spiagge io sono solo quaggiù in città Sento fischiare sopra i tetti un aereoplano che se ne va. Azzurro. il pomeriggio è troppo azzurro, e lungo per me, mi accorgo di non avere più risorse senza di te, e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, (ma) il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va. Sembra quand’ero all’oratorio con tanto sole, tanti anni fa quelle domeniche da solo in un cortile a passeggiar... ora mi annoio più di allora neanche un prete per chiacchierar... Azzurro. il pomeriggio è troppo azzurro, e lungo per me, mi accorgo di non avere più risorse senza di te, e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, (ma) il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va. Cerco un po’ d’Africa in giardino tra l’Oleandro e il Baobab, come facevo da bambino, ma quì c’è gente, non si può più Stanno innaffiando le tue rose, non c’è il leone, chissà dov’è. Azzurro. il pomeriggio è troppo azzurro, e lungo per me, mi accorgo di non avere più risorse senza di te, e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, (ma) il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va. 1969 Presentazione degli avvenimenti dell’anno e conclusione del curatore Mario Allegri. Gualtiero Bertelli - Nina Nina ti te ricordi quanto che gavemo messo a andar su ‘sto toco de leto insieme a far a l’amor. Sie ani a far i morosi a strenserla franco su franco e mi che sero stanco ma no te volevo tocar. To mare che brontolava «Quando che se sposemo»; el prete che racomandava che no se doveva pecar. E dopo se semo sposai che quasi no ghe credeva te giuro che a mi me pareva parfin che fusse un pecà. Adesso ti speti un fio e ancuo la vita xe dura a volte me ciapa la paura de aver dopo tanto sbaglià. Amarse no xe no un pecato, ma ancuo el xe un lusso de pochi e intanti ti Nina te speti e mi so disocupà. E intanto ti Nina te speti e mi so disocupà. Paolo Pietrangeli - Valle Giulia Piazza di Spagna, splendida giornata, traffico fermo, la città ingorgata e quanta gente, quanta che n’era! Cartelli in alto e tutti si gridava: «No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!». E mi guardavi tu con occhi stanchi, mentre eravamo ancora lì davanti, ma se i sorrisi tuoi sembravan spenti c’erano cose certo più importanti. «No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!». Undici e un quarto avanti a architettura, non c’era ancor ragion d’aver paura ed eravamo veramente in tanti, e i poliziotti in faccia agli studenti. «No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!». Hanno impugnato i manganelli ed han picchiato come fanno sempre loro; ma all’improvviso è poi successo un fatto nuovo, un fatto nuovo, un fatto nuovo: non siam scappati più, non siam scappati più! Il primo marzo, sì, me lo rammento, saremo stati millecinquecento e caricava giù la polizia ma gli studenti la cacciavan via. «No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!». E mi guardavi tu con occhi stanchi, ma c’eran cose molto più importanti; ma qui che fai, ma vattene un po’ via! Non vedi, arriva giù la polizia! «No alla scuola dei padroni! Via il governo, dimissioni!». Le camionette, i celerini ci hanno dispersi, presi in molti e poi picchiati; ma sia ben chiaro che si sapeva; che non è vero, no, non è finita là. Non siam scappati più, non siam scappati più. Il primo marzo, sì, me lo rammento... ...No alla classe dei padroni, non mettiamo condizioni, no! Pooh - Piccola Katy Oh, oh, piccola Katy oh, oh, piccola Katy oh, oh, oh! Piccola Katy, stanotte ho bruciato tutti i ricordi del tuo passato tutte le bambole con cui dormivi ed il tuo diario che sempre riempivi solo con ciò che faceva piacere anche di notte l’andava a vedere. Piccola Katy, oh, oh piccola Katy oh, oh, oh! Piccola Katy, stanotte hai capito che carezzandoti ti hanno tradito e alle tue mani han legato il calore che si conquista in un’ora d’amore e in questo mattino di grigia foschia di colpa hai deciso di andartene via. Piccola Katy, vai vai piccola Katy vai vai vai! (Parlato) Piccola Katy, fermati un momento ed ascolta. Ti ricordi quel ragazzo ieri alla festa che ti guardava negli occhi senza parlare e che ti ha accompagnato mano per mano e ti ha detto soltanto “Arrivederci”? Adesso, adesso lui sta sognando di te e quando si sveglierà, si accorgerà di volerti rivedere presto, molto presto. Piccola Katy, il mondo è buio è cattivo non è fatto per te, non andare, non gettare al vento i tuoi sedici anni favolosi! Vai, vai piccola Katy vai vai piccola Katy vai vai vai! Piccola Katy, la porta è socchiusa non devi nemmeno inventare una scusa dormono tutti di un sonno profondo e questo silenzio è la fine del mondo chiudi pian piano e ritorna a dormire nessun nel mondo ti deve sentire. Piccola Katy ciao ciao, piccola Katy ciao ciao, piccola Katy Bob Dylan - Ballad of Easy Rider (1969) Il fiume scorre Scorre verso il mare Dovunque il fiume va è lì che voglio andare Scorri fiume scorri lascia che le tue acque scorrano lavando Portami da questa strada in qualche altra città Tutto quel che voleva era essere libero E questo è il modo in cui è finita Scorri fiume scorri lascia che le tue acque scorrano lavando Portami da questa strada in qualche altra città Scorri fiume scorri oltre l’albero ombroso Vai fiume vai Vai verso il mare Scorri verso il mare Il fiume scorre Scorre verso il mare Dovunque il fiume va è lì che voglio andare Scorri fiume scorri lascia che le tue acque scorrano lavando Portami da questa strada in qualche altra città