...

Letture Anni 60 - Università degli Studi di Verona

by user

on
Category: Documents
30

views

Report

Comments

Transcript

Letture Anni 60 - Università degli Studi di Verona
cari vecchi
anni ’60
cronaca, pagine d’autore e musica
Con la partecipazione di:
Daniela Brunelli - voce recitante
Francesco Casale - batteria
Agostino Contò - voce recitante
Tiziano Gelmetti - voce recitante
Claudio Moro - chitarra
Francesco Palmas - chitarra e canto
Walter Peraro - voce recitante
Riccardo Poli - voce recitante
Claudio Sebasto - tastiere e canto
Enrico Terragnoli - chitarra
Marta Visconti - voce recitante
Ingresso libero
8 - 9 luglio 2008
ore 21.00
Chiostro di San Francesco
Via San Francesco, 20 - Verona
In caso di maltempo la manifestazione
si svolgerà presso il Polo didattico “G. Zanotto”
In collaborazione con:
Università degli Studi di Verona
Ufficio Comunicazione Integrata di Ateneo
Consiglio degli Studenti
Biblioteca Centralizzata Arturo Frinzi
Foto: Pete Reed
Università di Verona - Ufficio Comunicazione
Grafica:
a cura di Mario Allegri
Letture, Lettori e Canzoni
’60
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Italo Calvino, La “belle époque” inaspettata, da ID., Una pietra
sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 70-71 e 73-74.
Canzoni: Gino Paoli, Sassi; ID., Il cielo in una stanza.
’61
Lettura (Agostino Contò): Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 67- 102 (scelta
di alcune strofe).
Canzone: Giorgio Gaber, La ballata del Cerutti.
’62
Lettura (Agostino Contò): Italo Calvino: I beatniks e il “sistema” da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 75-78.
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Discorso alla luna di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962).
Recitazione con accompagnamento musicale (Marta Visconti / Daniela Brunelli) di Bob
Dylan, A hard rain’s gonna fall (Una dura pioggia cadrà: trad. di Fernanda Pivano).
Canzone: Adriano Celentano, Pregherò (Stand by me).
’63
Lettura (Tiziano Gelmetti): Martin Luther King, Io ho un sogno (discorso a Washington, 28 agosto
1963).
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Betty Friedan, Un problema inespresso da La mistica della
femminilità, Edizioni di Comunità, 1978.
Canzoni: Bob Dylan, Blowin’ in the wind – Compilation Beatles [nello spazio di una canzone, accennarne max tre] – Bruno Lauzi, Il poeta.
’64
Lettura (Agostino Contò): Herbert Marcuse, La società senza opposizione, da L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1967.
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli): Goffredo Parise, Due, tre cose sul Vietnam, da Guerre
politiche: Vietnam, Biafra, Laos, Cile, Adelphi, 2007.
Canzoni: Fabrizio De André, La guerra di Piero – Gianni Morandi, C’era un ragazzo.
Recitazione con accompagnamento musicale (Tiziano Gelmetti) di Amsterdam di Jacques Brel, accompagnato da musica.
’65
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Goffredo Parise, Cara Cina, Longanesi, 1966.
Canzoni: Patty Pravo, Ragazzo triste – Gianni Pettenati, Bandiera gialla.
’66
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli) di tre articoli da quotidiani su Gli angeli del fango (alluvione
di Firenze).
Lettura (Agostino Contò): Andrea Zanzotto, Al mondo [poesia].
Canzoni: I Nomadi, Come potete giudicar – The Rokes, È la pioggia che va – Adriano Celentano, Il
ragazzo della via Gluck.
’67
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli): Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Firenze,
Libreria editrice fiorentina, 1976, pp. 9- 13, 35-42.
Canzoni: Sergio Endrigo, Il treno che viene dal sud – Gianni Morandi, Un mondo d’amore – Francesco
Guccini e I Nomadi, Dio è morto.
’68
Lettura (Agostino Contò): Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, pp. 141143.
Lettura (Tiziano Gelmetti): Pier Paolo Pasolini, Perché ci si droga?, in “Il Tempo”, 28 dicembre 1968.
Canzoni: Enzo Jannacci, Vengo anch’io – Paolo Conte, Azzurro.
’69
Presentazione degli avvenimenti dell’anno e conclusione del curatore Mario Allegri.
Canzoni: Gualtiero Bertelli, Nina – Paolo Pietrangeli, Valle Giulia – Pooh, Piccola Katy.
Musica di chiusura: Bob Dylan, Ballad of Easy Rider (1969).
1960
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli):
Italo Calvino, La “belle époque” inaspettata, da ID., Una pietra sopra, Torino,
Einaudi, 1980, pp. 70-71 e 73-74.
Quindici anni fa prevedevamo tutto, tranne una cosa: che il mondo sarebbe entrato in una
fase di “belle epoque”. Adesso ci siamo dentro in pieno. C’è il boom economico, un’aria
di cuccagna, ognuno bada ai suoi interessi.
Quella intransigente tensione ideale che ieri animava propositi e azioni (buone o cattive
che fossero) di uomini di governo e intellettuali, ora ha ceduto il posto a un modo di parlare e agire più possibilista e utilitario. Tutti, apertamente o sotto sotto, sono convinti che
questa cuccagna durerà chissà quanto, anzi (e questo è tipico di ogni “belle epoque”) che
non finirà mai. C’è sì la guerra fredda che non è finita, e continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente che è al riparo li guarda come grandinate estive in
un giorno di sole. C’è sì lo squilibrio tra i paesi privilegiati e quelli arretrati che s’accresce;
ma l’immagine della folla stracciata e affamata fuor dalla porta del festino fa proprio parte
dell’iconografia classica della “belle epoque”.
Questo è ciò che è veramente cambiato in noi: non le idee o i “valori” che non c’è ragione
di cambiare (la vita è già tanto breve; se uno si mette a cambiare le sue idee frantuma quel
poco di continuità e di significato che la sua esistenza può avere; meglio pensare sempre
in una direzione, e se è sbagliata ci saranno ben degli altri prima o poi che penseranno
più giusto e renderanno “utile” il tuo errore); è che prima vedevamo la vita come qualcosa
di teso e guerreggiato e spinoso in cui dovevamo esercitare la nostra scelta del bene o
del male, la nostra saldezza di nervi e ragionevolezza e ironia demistificatrice, e adesso
invece la vediamo come uno spettacolo nelle grandi linee prevedibile e rassicurante, di
cui vorremmo godere tutti i particolari, qualcosa di comodo e ben fornito e stabile in cui
sfogare la nostra fretta e ansia e rabbia. Il tempo, prima, ci pareva procedesse di grande urgenza, e noi in mezzo ad esso ci sentivamo calmi, non pensavamo mai alla nostra
morte individuale, ansiosi solo di quanta parte della storia del mondo avrebbe fittamente
riempito lo spazio delle nostre esistenze. Adesso che il tempo fuori di noi ci pare batta
pulsazioni più rade e lente, è una fretta e scontentezza individuale che ci prende, e il pensiero degli anni della giovinezza passati d’improvviso e di tutto quel che potevamo fare e
non abbiamo fatto e non faremo.
(...)
La “belle epoque”, quell’altra, durò (pressapoco) dal 1870 al 1914: quasi un cinquantennio. E non sapevano che li aspettava Serajevo (...). Il peggio è sempre possibile. Non
abbiamo nessun mezzo per prevedere se questo stato d’incerto equilibrio e prosperità e
ottimismo durerà ancora poche ore, o qualche mese, o alcuni lustri, o cinquant’anni e più.
Serajevo potrebb’essere tutti i momenti, anche domani. Non sappiamo quale immagine
avrà se quella della guerra atomica (ma forse le cose troppo previste e paventate non
succedono) o un’altra. Forse prenderà la forma di qualcuno dei vecchi mostri mai estinti,
forse forme nuove, che non sapremo riconoscere.
Quello che sappiamo è che la nostra condizione di cittadini della “belle epoque” dobbiamo viverla come fosse temporanea, sia pur muovendoci in essa con perfetto agio
e naturalezza. Il mondo dello sterminio e della minaccia nel quale siamo cresciuti a età
virile è ancora possibile, può ricominciare in qualsiasi momento, e in qualsiasi momento
possiamo riprendervi il nostro ruolo di vittime o di carnefici, per il quale siamo da tempo
perfettamente preparati. Noi siamo sempre gli stessi e niente è in fondo cambiato intorno
a noi di ciò che conta: né le strutture, né le idee, né le coscienze. Certo oggi ci sentiamo
particolarmente legati ai segni esteriori del piacere della vita individuale; ma già quando
questi segni intorno a noi erano esigui, li consideravamo un “valore” ci rifiutavamo di
disprezzarli come vanità. Cosi come oggi, nell’euforia di questa immeritata cuccagna,
sappiamo che non possediamo veramente nulla, che tutto è un castello di carte e può
crollare al primo soffio. Qualcosa soltanto non può esserci tolta: la facoltà di fissarci volta
per volta un discrimine tra l’agire bene e l’agire male, di meravigliarci alle nuove immagini
del mondo, di proiettare su noi stessi la pietà e l’ironia del futuro.
Gino Paoli - Sassi
Sassi che il mare ha consumato
sono le mie parole d’amore per te
Io non t’ho saputo amare
non ti ho saputo dare quel che volevi da me
Ogni parola che ci diciamo è stata
detta mille volte
Ogni attimo che noi viviamo è stato
vissuto mille volte
Sassi che il mare ha consumato
sono le mie parole d’amore per te
Sassi che il mare ha consumato
sono le mie parole d’amore per te
Io non t’ho saputo amare
non ti ho saputo dare quel che volevi da me
Ogni parola che ci diciamo è stata
detta mille volte
Ogni attimo che noi viviamo è stato
vissuto mille volte
Sassi che il mare ha consumato
sono le mie parole d’amore per te
sono le mie parole d’amore per te
Gino Paoli - Il cielo in una stanza
Quando sei qui con me
questa stanza non ha più pareti
ma alberi,
alberi infiniti
quando sei qui vicino a me
questo soffitto viola
no, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui
abbandonati
come se non ci fosse più
niente, più niente al mondo.
Suona un’armonica
mi sembra un organo
che vibra per te e per me
su nell’immensità del cielo.
Per te, per me:
nel cielo.
1961
Lettura (Agostino Contò):
Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 67- 102
(scelta di alcune strofe).
Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo
Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro
sia svelta, sorrida e impari le lingue
le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
capisce dove si trova? Transocean limited
qui tutto il mondo ...
è certo che sarà orgogliosa.
Signorina, noi siamo abbonati
alle Pulizie Generali, due volte
la settimana, ma il Signor Pratèk è molto
esigente - amore al lavoro è amore all’ambiente - cosi
nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino
sarà sua prima cura la mattina.
Ufficio A Ufficio B Ufficio C
Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno
adesso che lavori ne hai diritto
molto di più.
S’è lavata nel bagno e poi nel letto
s’è accarezzata tutta quella sera.
Non le mancava niente, c’era tutta
come la sera prima - pure con le mani e la bocca
si cerca si tocca si strofina, ha una voglia
di piangere di compatirsi
ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?
Tira il collo all’indietro ed ecco tutto.
Negli uffici s’imparan molte cose
ecco la vera scuola della vita
alcune s’hanno da imparare in fretta
perché vogliono dire saper vivere
la prima entrare nella manica a Praték
che ce l’ha stretta
A Praték gli vanno bene i soldi
e un impiegato mai, perché la fine
del mese i soldi l’impiegato pochi o tanti
li porta via, e lui li guarda coi suoi occhi
acquosi, i soldi, e non gli pare giusto.
A Pratèk gli van bene anche le donne
e Lidia che era furba lo sapeva
e l’ha passato mica male, il tempo, sullo sgabello della macchina
con le sue cosce grasse.
Ma la moglie coi soldi che è gelosa
vigila sulla serenità delle fanciulle,
Monsieur Pratèk - in fondo, io sono un filosofo non per niente è stato anche in galera
rispetta gli istituti: Lidia parte
entra Carla: può servire che si sappia:
col dottor Pozzi basta un po’ di striscio,
fargli mettere la firma in molti posti.
Però non è sicuro che la Carla
cresca come si deve o voglia o sappia
farlo, come si cresce a quell’età
e quali fatti passino o quali invece
segnino un passaggio, chi lo sa?
A venti o a ventiquattro quanti han scritto
d’esser pronti e d’aver necessità
di rifare all’indietro quella strada
non agevole, fin dentro nelle viscere
di chi li ha fatti nascere, a cercare
momenti di rottura soluzioni
di continuità
che la storia non dà
ma che ci sono stati certamente
se sono come sono?
Carla,
sensibile scontrosa impreparata
si perde e tira avanti, senza dire
una volta mi piace o non lo voglio
con pochi paradigmi non compresi
tali, o inaccettati; desideri
precisi da chiarirsi non le avanzano
a fine mese
a fine mese sangue
maculato tra le gambe pallide
la fa tremare sempre, e Praték quando
la chiama nel suo ufficio per dettare.
Per esempio, bisogna sentire come bestemmia
Che parole volgari come un uomo solamente
- a Carla nausea e niente voglia di domande oggi non mite Aldo
quando la gatta è via i topi ballano.
Giorgio Gaber - La ballata del Cerruti
Io ho sentito molte ballate
quella di Tom Dooley
quella di Davy Crocket
e sarebbe piaciuto anche a me
scriverne una così
invece invece niente
ho fatto una ballata
per uno che sta a Milano
al Giambellino
il Cerutti Cerutti Gino
Il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago
vent’anni biondo mai una lira
per non passare guai
fiutava intorno che aria tira
e non sgobbava mai
il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago
una sera in una strada scura
occhio c’è una lambretta
fingendo di non aver paura
il Cerutti monta in fretta
ma che rogna nera quella sera
qualcuno vede e chiama
veloce arriva la pantera
e lo vede la madama
il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago
ora è triste e un poco manomesso
si trova al terzo raggio
è lì che attende il suo processo
forse vien fuori a Maggio
s’è beccato un bel tre mesi il Gino
ma il giudice è stato buono
gli ha fatto un lungo verborino
è uscito col condono
il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago
è tornato al bar Cerutti Gino
e gli amici nel futuro
quando parleran del Gino
diran che è un tipo duro
1962
Lettura (Agostino Contò):
Italo Calvino: I beatniks e il “sistema” da ID., Una pietra sopra, Torino, Einaudi,
1980, pp. 75-78.
I libri dei sociologi, dei moralisti, dei critici della civiltà contemporanea occupano da alcuni
anni a questa parte un posto di rilievo nelle letture di noi tutti, e il vocabolario con cui interpretiamo la nostra vita quotidiana si è arricchito di espressioni divenute presto familiari
come alienazione, industria culturale, persuasori occulti, uomini dell’organizzazione, folla
solitaria, e cosi via. Il quadro che ne salta fuori non è roseo. Io che sono ostinatamente
ottimista, penso che la civiltà umana ne ha passate anche di peggio, e per rassicurarmi
cerco dei paralleli storici che facciano al nostro caso. Di veramente calzante, ho trovato
solo questo, e non so se varrà a consolarvi: stiamo vivendo al tempo delle invasioni barbariche.
È inutile che vi guardiate intorno cercando di identificare i barbari in qualche categoria di
persone. I barbari questa volta non sono persone, sono cose. Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva
essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del
nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare; sono l’abbondanza dei
beni che non ci dà l’agio del benessere ma l’ansia del consumo forzato; sono la febbre
edilizia che sta imponendo un volto mostruoso a tutti i luoghi che ci erano cari; sono la
finta pienezza delle nostre giornate in cui amicizie affetti amori appassiscono come piante
senz’aria e in cui si spegne sul nascere ogni colloquio, con gli altri e con noi stessi.
Ed è chiaro che l’elenco delle cose barbare e assoggettatrici non può culminare che con
l’evocazione di quella che tutte le comprende, le simboleggia e le vanifica, la cosa barbara
e assoggettatrice per eccellenza, la bomba che può porre fine alla storia umana.
(...)
Ecco turbe di giovani che, alla scoperta che l’impero dell’uomo sta cadendo in mano
alle cose, rifiutano d’integrarsi, dichiarano guerra alla civiltà dei frigoriferi e dei televisori,
dicono no a tutti i valori costituiti d’Occidente o d’Oriente, assumono come sola realtà la
liberazione dell’inconscio e il rapimento cosmico, portano barbe incolte, vestono in fogge
quasi fratesche, fondano le loro colonie nei quartieri a buon prezzo delle varie metropoli,
si drogano e fanno o dicono di fare altre sciocchezze, ed evocano l’apocalisse del fungo
atomico come il loro scenario naturale.
(...)
Il problema che la beat generation ha posto è come vivere fino in fondo la nostra natura
umana in un mondo che sarà sempre più perfettamente artificiale. I beatniks sono venuti
a cose fatte, accettano questo mondo costruito interamente dall’uomo come se fosse
uno scenario naturale, ma non comprendono perché dovrebbero condividere i principi e
le regole del gioco su cui si regge. La civiltà industriale, lussureggiante come una giungla,
tende ad inglobare tutto e a far crescere tutto con il suo ritmo, anche i fermenti di ribellione. Credo che una parte predominante, nella formazione della mentalità beat, pitù ancora
del pericolo atomico, l’abbia la tranquilla certezza nella prosperity della affluent society.
Un’economia perfettamente organizzata elargisce i suoi frutti come un’indifferente natura.
Non verrà forse il giorno in cui la produzione sarà mandata avanti da automi, il giorno in
cui il lavoro manuale consisterà nello schiacciare un bottone una volta tanto? I beatniks
sono i nuovi selvaggi d’una giungla meccanica ed estranea.
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli):
Discorso alla luna di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962).
Roma 11 ottobre 1962,
al termine della giornata di apertura del Concilio Vaticano II
“Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata
stasera… Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo… Noi chiudiamo una grande
giornata di pace… Sì, di pace: ‘Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà’.
Se domandassi, se potessi chiedere ora a ciascuno: voi da che parte venite? I figli di
Roma, che sono qui specialmente rappresentati, risponderebbero: ah, noi siamo i figli
più vicini, e voi siete il nostro vescovo. Ebbene, figlioli di Roma, voi sentite veramente di
rappresentare la ‘Roma caput mundi’, la capitale del mondo, così come per disegno della
Provvidenza è stata chiamata ad essere attraverso i secoli.
La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per
volontà di Nostro Signore… Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così;
guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è,
qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete forse qualche
lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che
il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza… E poi tutti insieme
ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che
ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino. Addio, figlioli. Alla
benedizione aggiungo l’augurio della buona notte”.
Recitazione con accompagnamento musicale
(Marta Visconti / Daniela Brunelli):
di Bob Dylan, A hard rain’s gonna fall (Una dura pioggia cadrà)
trad. di Fernanda Pivano.
E dove sei stato
figlio dagli occhi azzurri
dove sei stato
dolce mio figlio
ho inciampato nel fianco
di dodici montagne nebbiose
ho camminato e strisciato
su sei strade contorte
ho camminato nel mezzo
di sette tristi foreste
sono stato davanti
dodici oceani morti
sono stato diecimila miglia
nella bocca di un cimitero
e una dura dura
dura pioggia cadrà
e cosa hai visto
figlio dagli occhi azzurri
cosa hai visto
dolce mio figlio
ho visto un neonato
e bianchi lupi lo circondavano
ho visto una strada di diamanti
e nessuno vi camminava
ho visto un ramo nero
e il sangue ne gocciolava
ho visto una stanza piena di uomini
e i loro martelli sanguinavano
ho visto una scala bianca
tutta coperta di acqua
ho visto diecimila che parlavano
e le loro parole erano un balbettio
ho visto fucili e spade affilate
nelle mani di bambini
e una dura dura
dura pioggia cadrà
e cosa hai sentito
figlio dagli occhi azzurri
cosa hai sentito
dolce mio figlio
ho sentito il fragore di un tuono
e il suo rombo era un avvertimento
ho sentito il fragore di un’onda
che potrebbe sommergere tutto il mondo
ho sentito cento tamburini
e le loro mani erano in fiamme
ho sentito diecimila bisbigliare
e nessuno ascoltare
ho sentito un uomo morire di fame
ho sentito molti altri che ridevano
ho sentito la canzone di un poeta
che è morto nella strada
ho sentito il suono di un pagliaccio
che piangeva nel cortile
e una dura dura
dura pioggia cadrà
e cosa hai incontrato
figlio dagli occhi azzurri
chi hai incontrato
dolce mio figlio
ho incontrato un bambino
vicino a un cavallino morto
ho incontrato un uomo bianco
che camminava con un cane nero
ho incontrato una giovane donna
il suo corpo era in fiamme
ho incontrato una bambina
mi ha dato un arcobaleno
ho incontrato un uomo
che era ferito in amore
ho incontrato un altro uomo
che era ferito in odio
e una dura dura
dura pioggia cadrà
e cosa farai adesso
figlio dagli occhi azzurri
cosa farai adesso
dolce mio figlio
tornerò là fuori
prima che la pioggia cominci a cadere
camminerò nel profondo
della più profonda nera foresta
dove molti sono gli uomini
e vuote sono le loro mani
dove pallottole di veleno
contaminano le loro acque
dove la casa nella valle
è una sporca e fredda prigione
e la faccia del boia
è sempre bene nascosta
dove la fame è brutta
dove le anime sono dimenticate
dove nero è il colore
dove zero è il numero
e lo dirò e lo ripeterò
e lo penserò e lo respirerò
e rifletterò dalle montagne
così che tutte le anime lo vedano
poi starò in piedi sull’oceano
fino a quando comincerò ad affondare
ma saprò la mia canzone bene
prima di cominciare a cantare
e una dura dura
dura pioggia cadrà.
Adriano Celentano - Pregherò (Stand by me)
Crederai.
Io lo so perchè
Tu la fede non hai
Ma se tu lo vorrai
Crederai.
Non devi odiare il sole
Perchè tu non puoi vederlo,
Ma c’è
Ore splende su di noi,
Su di noi.
Dal castello del silenzio
Egli vede anche te
E già sento
Che anche tu lo vedrai.
Egli sa
Che lo vedrai
Solo con gli occhi mieri
Ed il mondo
La sua luce riavrà.
Io t’amo, t’amo, t’amo,
O-o-oh!
Questo è il primo segno
Che dà
La tua fede nel Signor.
Nel signor, nel Signor.
Io t’amo, t’amo, t’amo,
O-o-oh!
Questo è il primo segno
Che dà
La tua fede nel Signor,
Nel Signor.
La fede è il più bel dono
Che il Signore ci dà
Per vedere lui
E allor:
Tu vedrai, Tu vedrai, Tu vedrai, Tu vedrai
1963
Lettura (Tiziano Gelmetti):
Martin Luther King, Io ho un sogno (discorso a Washington, 28 agosto 1963).
Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla
cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale
decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati
bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla
lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è
ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto
oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della
società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità
da cartelli che dicono: “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché
i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere
nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia
non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro
che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in
un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del
loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!
Io ho davanti a me un sogno che un giorno, in Alabama, con i suoi malvagi razzisti, con il
suo governatore dalle cui labbra provengono parole di veto e annullamento, che un giorno, proprio qui in Alabama, i ragazzini neri e e le ragazzine negre sapranno unire le mani
con i ragazzini bianchi e le ragazzine bianche come se fossero fratelli e sorelle. Ho davanti
a me un sogno oggi!
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni
montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati
e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa
la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una
pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie
della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno
saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati
nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei
padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se
l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà delle cime prodigiose del New Hampshire.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la
libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui
tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani
e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio
Onnipotente, siamo liberi finalmente”.
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli):
Betty Friedan, Un problema inespresso da La mistica della femminilità.
C’è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso, nella mente delle
donne americane. È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione che la donna
americana ha cominciato a provare intorno alla metà del ventesimo secolo.
Per più di quindici anni non si è fatta parola di questo turbamento nelle rubriche, nei libri,
negli articoli scritti sulle donne e per le donne da esperti che sostenevano che il compito
di queste ultime era di cercare la realizzazione della loro personalità come mogli e madri.
Dalla voce della tradizione e da quella degli ambienti freudiani le donne appresero che non
potevano desiderare destino migliore di quello di gloriarsi della propria femminilità.
Gli esperti insegnarono loro come accalappiare un uomo e tenerlo, come allattare i figli e
insegnargli ad andare al gabinetto, come affrontare la rivalità tra fratelli e la ribellione dell’adolescenza; come comprare una lavastoviglie, fare il pane in casa, cucinare lumache
alla francese e costruire una piscina con le loro mani; come vestire, acconciarsi, e comportarsi in modo più femminile e come rendere il matrimonio meno noioso; come impedire ai mariti di morir giovani e ai figli di diventare delinquenti. Impararono a compatire quelle
donne nevrotiche, poco femminili e infelici che volevano fare le poetesse, le scienziate o
essere presidentesse di qualche associazione. Appresero che le donne veramente femminili non desiderano perseguire una professione, ricevere un’istruzione superiore, esercitare i loro diritti politici: che cioè non desiderano quell’indipendenza e quelle prospettive
per cui le femministe d’altri tempi avevano combattuto.
(...)
La casalinga del quartiere residenziale piacevole: era questa l’immagine ideale delle giovani americane, e l’invidia, così si diceva, delle donne di tutto il resto del mondo. La
casalinga americana: colei che la scienza e gli elettrodomestici avevano liberato dalle
fatiche domestiche, dai pericoli della gravidanza e dalle malattie della nonna. Era sana,
bella, istruita, preoccupata solo del benessere del marito e dei figli, interessata solo alla
casa. Come donna di casa e madre era rispettata quale compagna paritaria dell’uomo.
Era libera di scegliere le automobili, i vestiti, gli elettrodomestici, i negozi; aveva tutto ciò
che le donne avevano sempre desiderato.
Nel quindicennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale questa mistica della
realizzazione della personalità femminile divenne uno dei temi centrali della civiltà americana.
Ma una mattina d’aprile del 1959 sentii una madre di quattro figli, che stava prendendo
il caffè con altre quattro madri in un quartiere residenziale a quindici miglia da New York,
menzionare in tono di tranquilla disperazione “il problema”. E le altre mostrarono di capire
immediatamente che non stava parlando di un problema familiare. Capirono subito che
avevano tutte lo stesso problema e cominciarono con esitazione a parlarne.
(...)
Queste donne hanno una fame che il cibo non può soddisfare.
(...)
Forse il problema che stiamo esaminando è legato alla routine domestica della donna
di casa? Infatti quando cercano di esprimere con parole il loro problema, queste donne
spesso finiscono col descrivere la loro vita quotidiana.
(...)
Ho cominciato a vedere nuove dimensioni nei vecchi problemi: le difficoltà delle mestruazioni, la frigidità sessuale, la leggerezza dei costumi, la paura della gravidanza, la depressione del parto, l’alta percentuale di collassi nervosi e di suicidi tra le donne dei venti ai
quarant’anni, la crisi della menopausa, la cosiddetta passività e immaturità degli uomini
americani, il divario tra la capacità intellettuale dimostrata dalle donne nell’infanzia e ciò
che realizzano nella maturità, la mutata frequenza dell’orgasmo sessuale nelle donne
americane, e i problemi che persistono nella psicoterapia e nell’educazione delle donne.
Se la mia intuizione è giusta, il problema che agita oggi la mente di tante donne americane
non si riferisce alla perdita della femminilità o ad un’eccessiva istruzione, o al peso del
mènage familiare. La sua importanza è decisiva rispetto alla soluzione degli altri nuovi e
vecchi problemi che hanno torturato le donne, e i mariti, e i figli, e turbano i medici e gli
educatori. Potrebbe persino essere la chiave del nostro futuro come nazione e civiltà. Non
possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: “Voglio qualcosa
di più del marito, dei figli e della casa”.
Bob Dylan - Blowin’ in the wind
(Titolo del disco: The freewheelin’ Bob Dylan - 1963)
How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ‘n’ how many times must the cannon balls fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.
How many times must a man look up
Before he can see the sky?
Yes, ‘n’ how many ears must one man have
Before he can hear people cry?
Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows
That too many people have died?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.
How many years can a mountain exist
Before it’s washed to the sea?
Yes, ‘n’ how many years can some people exist
Before they’re allowed to be free?
Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn’t see?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.
Compilation Beatles – [nello spazio di una canzone, accennarne max tre]
Bruno Lauzi - Il poeta
Alla sera al caffè con gli amici
si parlava di donne e motori
si diceva “son gioie e dolori”
lui piangeva e parlava di te
Se si andava in provincia a ballare
si cercava di aver le più belle
lui, lui restava a contare le stelle
sospirava e parlava di te
Alle carte era un vero campione
lo chiamavano “il ras del quartiere”
ma una sera giocando a scopone
perse un punto parlando di te
Ed infine una notte si uccise
per la gran confusione mentale
fu un peccato perché era speciale
proprio come parlava di te
(parlato)
Ora dicono, fosse un poeta
e che sapesse parlare d’amore
Cosa importa se in fondo uno muore
e non può più parlare di te
1964
Lettura (Agostino Contò):
Herbert Marcuse, lettura di La società senza opposizione, da L’uomo a una dimensione.
La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non
serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo?
(...)
Se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la
società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che
perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri
mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari
come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano
bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del
bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione.
E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e i bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante
minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per
l’esistenza - individuale, nazionale e internazionale.
Questa repressione, cosi differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno
sviluppati, della nostra società opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e
tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della
società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e
ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più
grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le
forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla
duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita.
La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso
come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse,
imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di
esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata.
(...)
Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la
società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole.
(...)
Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla
coscienza autentica, dall’ interesse immediato al loro interesse reale. Essi possono far
questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a
reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire dei beni” su scala sempre più
ampia e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell’uomo.
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli):
Goffredo Parise, Due, tre cose sul Vietnam.
Nei bar di Vung Tao tutti i camerieri non superano i dieci anni. Una folla di lilliput frenetici,
terrorizzati dalle urla dei padroni e al tempo stesso felici di lavorare come gli uomini. La
loro paga consiste nel cibo e nelle mance. Ho osservato attentamente sia bambini che
padroni. I padroni stanno curvi sul blocchetto dei conti e poiché il locale straripa di corpi
umani, e dunque di consumazioni, scrivono freneticamente, il volto cattivo, teso verso cifre che si accavallano senza ordine nel loro cervello. Quando aprono bocca urlano come
bestie. Alle loro urla rispondono le urla dei bambini camerieri: questi afferrano il conto, lo
portano al cliente, riscuotono il denaro, tornano al banco, infilano il conto su una punta
di ferro, con rabbia, gioia e orgoglio, corrono dietro il banco, versano bibite e le portano
ai tavoli, fanno altri conti, sempre urlando, sempre sbagliando, spesso piangendo, disperandosi per i rimproveri dei padroni-pirati. I portieri hanno la stessa età e sono vestiti di
larghe divise russe, con galloni, alamari e spalline d’oro. Non riescono a tenere gli occhi
aperti, spesso non resistono in piedi, allora si accucciano, lentamente finiscono sdraiati
per terra davanti alla porta, fagottini rossi e oro che dormono tra i via vai di gigantesche
scarpe di mogano.
È in uno di questi bar che ho trovato un soldato di diciannove anni, ferito quattro volte in
zona d’operazioni. Aveva, la sua ragazza sulle ginocchia ed era tutto felice di parlare con
me: era un vero “americano tranquillo”. Ho avuto con lui una breve conversazione con la
quale mi pare giusto concludere questo articolo. Si parlava, naturalmente, delle donne
vietnamite. Ne era entusiasta.
“Sono fantastiche, dolci, tenere, appassionate, ma anche piene di personalità. Creda a
me che le conosco da più di un anno; la prostituzione, i bar? Ma è logico, sono costrette
a farlo, nelle condizioni in cui vivono, come potrebbero fare altrimenti? Spesso devono
mantenere una ventina di persone, tra nipoti e nonni. Vede questa? È la mia fidanzata,
gliela presento: si chiama Lan, che vuol direi Orchidea, Che nome poetico! Ieri ho chiesto
al mio comandante il permesso di sposarla”.
“E la lascia lavorare in un bar?”
“Non fa nulla di male e del resto è lei che vuole continuare a fare questo lavoro”
“È sicuro che lei lo ama?”
“Sicurissimo. La guardi. Non vede che mi ama?”
Così dicendo prese la ragazza per il mento e le girò il volto verso di me. La guardai. Era
anche lei una bambina, non bella. I suoi occhi lunghi e infidi fingevano di sorridere mentre
carezzava con gelido calcolo la guancia del suo ragazzone. Ci voleva ben altro che un
americano di diciannove anni per capirlo. Risposi di sì, che lei lo amava certamente.
Fabrizio De André - La guerra di Piero
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi
lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente
così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve
fermati Piero, fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce
ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera
e mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore
sparagli Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue
e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore
e mentre gli usi questa premura
quello si volta, ti vede e ha paura
ed imbracciata l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato
cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno
e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole
dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
Gianni Morandi - C’era un ragazzo
C’era un ragazzo
che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones
girava il mondo, veniva da
gli Stati Uniti d’America.
Non era bello
ma accanto a sé aveva mille donne se
cantava «Help» e «Ticket to ride»
o «Lady Jane» o «Yesterday».
Cantava «Viva la libertà» ma
ricevette una lettera,
la sua chitarra mi regalò
fu richiamato in America.
Stop! coi Rolling Stones!
Stop! coi Beatles. Stop!
Gli han detto vai nel Vietnam
e spara ai Vietcong...
Ta ta ta ta ta...
C’era un ragazzo
che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones
girava il mondo, ma poi finì
a far la guerra nel Vietnam.
Capelli lunghi non porta più,
non suona la chitarra ma
uno strumento che sempre dà
la stessa nota ratatata.
Non ha più amici, non ha più fans,
vede la gente cadere giù:
nel suo paese non tornerà
adesso è morto nel Vietnam.
Stop! coi Rolling Stones!
Stop! coi Beatles. Stop!
Nel petto un cuore più non ha
ma due medaglie o tre...
Ta ta ta ta ta...
Recitazione con accompagnamento musicale (Tiziano Gelmetti):
di Amsterdam di Jacques Brel, accompagnato da musica.
Quando approdi a Amsterdam
Getti l’ancora fra
I sogni d’incanti,
Nei canti dei marinai
Che nel porto d’Amsterdam
Puoi trovare assopiti
Come fossero dei
Gran pavesi ammainati.
Se vai ad Amsterdam
Puoi vederli morire
Di ricordi annegati
All’oblò di un bicchiere
O salpare alla vita
Cercando i confini
Nei misteri nebbiosi
Di amplessi marini
Nei bistrot d’Amsterdam
Stanno lì a divorare
Fritture grondanti
Gli uomini del mare
E a mostrare dei denti
Da sbranafortuna,
Da sgranocchiadiamanti
E da Azzanna-la-luna.
Ed in mezzo a fiumane
Di pesci e patate
Vanno su le manone
Per le altre portate,
Poi sbaraccan la mensa
E cominci la festa
Ma in piedi, rollando
E ruttando tempesta.
I marò di Amsterdam
Quando s’apron le danze
Si struscian le panze
Alle panze di dame
E riscattano con
Fisarmoniche grame
Tante notti di veglia
Di freddo e di fame
E si storcon la testa
Per rider più forte
Finché colpita a morte
La musica s’arresta
Allora bestemmiando,
A fatica dritti,
Se ne vanno ondeggiando
Come vecchi relitti.
Per le vie d’Amsterdam
Ci sono dei marinai
Che si bevono mari
Di birra e di guai
E che, trinca e tracanna
E continua a brindare,
Non la smettono mai
Di bere alle signore
Che negli alberghi a ore
Dan loro la virtù,
E quando han ben bevuto
Da non poterne più
Si piantano naso al cielo
A patte spalancate
E pisciano come io piango
Sulle donne infedeli.
Se vai ad Amsterdam,
Nel porto d’Amsterdam…
1965
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli):
Goffredo Parise, Cara Cina.
Una cosa [della Cina] che mi ha particolarmente colpito è l’odio di tutti i cinesi per gli
americani.
Mi ha colpito perché non è soltanto un odio ideologico e politico ma mi è parso un odio in
cui convivono terrore, invidia, amore e molti altri moti dell’animo: insomma non un sentimento chiaro e forte, ma un complesso oscuro e debole. Ho cercato di analizzarlo come
un complesso e sono
arrivato alla conclusione che i cinesi odiano gli americani prima di tutto perché hanno
paura di essere invasi, sfruttati, imbrogliati e maltrattati come è accaduto da più di cinquecento anni a questa parte, se non dagli americani, da noi europei; poi perché a catechizzati come sono con sistemi non ideologici ma teologici, sul marxismo di Mao, sono
profondamente convinti di avere una missione da compiere nel mondo e dunque vedono
negli americani (e non nei sovietici) dei concorrenti che invadono il campo: concorrenti
perché come loro, il popolo americano è altrettanto convinto della propria missione. Infine
li odiano perché li amano come sempre avviene quando l’odio ha radici così complesse
e profonde.
Ho visto, a Hong-Kong, Bangkok, Saigon, americani giganteschi, coi capelli tagliati come
gli indiani apaches, cioè con una spazzola crestata che si erge nel mezzo del cranio rasato, paurosi e infantili allo stesso tempo, abbracciati disperatamente a cinesine fragili
e minute che erano la decima parte di loro. Lo spettacolo da un lato strideva, dall’altro
attraeva. Strideva perché i due, pure essendo ugualmente infelici, non erano assolutamente fatti l’uno per l’altra; attraeva perché entrambi rappresentavano, pure con le loro
caratteristiche somatiche così diverse, le due più grandi società di massa che esistano al
mondo. Opposte e uguali. Queste due società hanno il loro massimo punto di scontro,
per il momento, in Estremo Oriente. Basta uscire pochi chilometri dalla Cina, da qualunque punto del suo confine a sud e si incontrerà non l’Europa, che pure vi ha mantenuto
il suo potere fino all’altro giorno, bensì l’America con tutte le sue spettacolari esibizioni
di consumo di massa. In poche parole, di qua del confine è l’ideologia o teologia politica
marxista, di là del confine l’ideologia o teologia politica del consumo. Da una parte idee,
dall’altra denaro (...).
I cinesi hanno urgente necessità di imparare da noi, Europa, due cose: l’analisi e la sintesi:
cioè la libertà. E noi da loro altre due cose non meno importanti: lo stile della vita e l’aiuto
reciproco: cioè l’amore. Messe insieme significherebbero pace e grande civiltà Dalla tenerezza e dalla commozione che hanno suscitato in me queste due qualità così reali del
popolo cinese mi è venuto spontaneo il titolo di questo libro [Cara Cina].
Patty Pravo - Ragazzo triste
Ragazzo triste come me ah ah
che sogni sempre come me ah ah
non c’è nessuno che ti aspetta mai perché non sanno come sei
Ragazzo triste sono uguale a te,
a volte piango e non so perché
tanti son soli come me e te ma un giorno spero cambierà
Nessuno può star solo,
non deve stare solo quando si è giovani così
Dobbiamo stare insieme, amare tra di noi
scoprire insieme il mondo che ci ospiterà
Ragazzo triste come me...
Hey hey hey vedrai - hey hey hey vedrai
non dobbiamo star soli mai, non dobbiamo star soli mai...
Gianni Pettenati - Bandiera gialla
Sì questa sera è festa grande,
noi scendiamo in pista subito
e se vuoi divertirti vieni qua,
ti terremo fra di noi e ballerai...
Finché vedrai
sventolar bandiera gialla
tu saprai che qui si balla
ed il tempo volerà...
Saprai
quando c’è bandiera gialla
che la gioventù è bella
e il tuo cuore batterà.
Sai
quelli che non ci voglion bene
è perché non si ricordano
di esser stati ragazzi giovani
o di aver avuto già
la nostra età...
Finché vedrai
sventolar bandiera gialla
tu saprai che qui si balla
ed il tempo volerà...
Saprai
quando c’è bandiera gialla
che la gioventù è bella
e il tuo cuore batterà.
Finché vedrai
sventolar bandiera gialla
tu saprai che qui si balla
ed il tempo volerà...
Saprai
quando c’è bandiera gialla
che la gioventù è bella
e il tuo cuore batterà.
Siamo noi,
siamo noi,
bandiera gialla...
Vieni qui
che qui si balla...
Vieni qui
che qui si balla...
Siamo noi,
bandiera gialla...
1966
Lettura (Marta Visconti / Daniela Brunelli):
di tre articoli da quotidiani su Gli angeli del fango (alluvione di Firenze).
Trecento, forse quattrocento mila metri cubi d’acqua si riversarono tra il 4 e il 5 novembre 1966 su Firenze. Una marea inarrestabile e immonda di fango, di nafta, di detriti di
ogni sorta (pietre, alberi, insegne pubblicitarie, automobili, carcasse di animali annegati)
sommerse con impeto furioso e inarrestabile strade, abitazioni, negozi, uffici, ospedali,
chiese, musei, archivi, rompendo ponti e argini, travolgendo tutto quel che trovava sul
proprio cammino. Un grande lago di melma infetta e maleodorante si distese sulle strade,
sulle piazze, sui monumenti di una delle più belle e antiche città del mondo, deturpando
irrimediabilmente ogni cosa.
“Bisogna venire - si leggeva in quei giorni sul “Corriere della sera” - guardare con i propri
occhi, camminare dieci ore nel fango che in qualche caso arriva ancora ai ginocchi, bisogna vedere i visi tirati, le pallide occhiaie dei direttori dei musei e delle biblioteche, bisogna
stringere le mani melmose dei soldati e degli studenti che in lunga catena si passano
codici, libri, dipinti, arazzi, vecchie riviste e carta da musica, bisogna sentire il fetore che
si sprigiona dai fondachi e dalle cloache, per capire, per cercare di capire le ferite che la
piena dell’Arno ha inferto al patrimonio artistico e culturale di Firenze e che si aggiungono
al colpo quasi mortale subito da tutta l’economia cittadina.
(...)
Era il più sconvolgente cataclisma naturale della storia di Firenze. La natura si era presa
la sua feroce rivincita sulla presunzione degli uomini che ne avevano sottovalutato la forza
immane e sempre misteriosa.
(...)
Ma il diluvio mise in luce, oltre alla fragilità delle difese degli uomini, anche dell’altro: mise
in luce, inaspettati, i valori, gli entusiasmi, la generosità della meglio gioventù di allora.
“Chi viene - scriveva Giovanni Grazzini sul “Corriere della sera” - anche il più cinico, anche
il più torpido, capisce subito tre cose: che le perdite sono spaventose, che per restituire a
Firenze un volto luminoso e il benessere occorreranno miliardi e forse decenni, ma anche
che d’ora innanzi non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats.
Perché questa stessa gioventù che sino a ieri ha attirato le vostre ironie, oggi ha dato, a
Firenze, un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune”. Onore ai beats,
intitolava l’articolo, onore agli angeli del fango.
In quei giorni tragici e disperati - ricorderà poi il sindaco Giorgio La Pira - si è compiuto
veramente anche un esperimento prezioso. A migliaia sono venuti i giovani in quest’isola
di coraggio e di disperazione e vi hanno trovato almeno una stagione di “educazione sentimentale”, di introduzione insieme a che cosa voglia dire civiltà.
Hanno dormito nelle cuccette di freddi vagoni abbandonati su un binario morto di stazione.
Hanno mangiato poco e male.
C’è chi di loro ha salvato un Velásquez. Ma c’è soprattutto chi di loro ha contribuito a
salvare vite umane, negli ospedali, nei tuguri.
Questi giovani italiani e stranieri hanno combattuto il fango come forse non avevano mai
veramente combattuto i pregiudizi e le ingiustizie sociali. Ma questa volta non era, il loro,
un ideale astratto o l’amore - fastidio per una società di consumi che li criticava e li coccolava insieme. Era la lotta contro seicentomila tonnellate di fango, crudele, immondo,
osceno. E ci sono entrati dentro fino ai capelli, con amore e pazienza, per salvare dei
libri.
Per ore ed ore.
Come non avevano mai lavorato.
Come non avevano mai studiato.
Come non avevano mai ballato.
Come non avevano mai fatto all’amore.
Giovanni Grazzini, Si fruga ancora nel fango per ritrovare i capolavori di Firenze,
“Corriere della sera” 9 novembre 1966;
Giovanni Grazzini, Si calano nel buio della melma, 10 novembre 1966;
Franco Nencini, Firenze. I giorni del diluvio, Firenze, Sansoni, 1966.
Lettura (Agostino Contò):
Andrea Zanzotto, Al mondo [poesia].
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso, in me stesso
Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”
un po’ più in là, da lato, da lato
Fa di (ex-de-ob-etc)-sistere
E oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, münchhausen.
I Nomadi - Come potete giudicar
(traduzione di The Revolution Kind di Sonny Bono)
Come potete giudicar come potete condannar
chi vi crediate che noi siam per i capelli che portiam
facciam così perché crediam in ogni cosa che facciam
E se vi fermaste un po’ a guardar, con noi parlar
vi accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai
Quando per strada noi passiam voi vi voltate per guardar
ci vuole poco a immaginar quello che state per pensar
ridete pure se vi va ma non dovreste giudicar
E se questo modo di pensar a voi non va
cercate solo di capir che non facciamo male mai
Come potete giudicar come potete condannar
chi vi crediate che noi siam per i capelli che portiam
facciam così perché crediam che nessun male si possa fare
E se vi fermaste un po’ a guardar, con noi parlar
vi accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai
oh mai mai no mai mai...
The Rokes - È la pioggia che va
Sotto una montagna di paure e di ambizioni
c’è nascosto qualche cosa che non muore
Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone
troverete tanta luce e tanto amore
Il mondo ormai sta cambiando
e cambierà di più
Ma non vedete nel cielo
quelle macchie di azzurro e di blu
È la pioggia che va, e ritorna il sereno, è la pioggia che va, e ritorna il sereno
Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente
le speranze dei ragazzi sono fumo
Sono stanchi di lottare e non credono più a niente
proprio adesso che la meta è qui vicina
Ma noi che stiamo correndo
avanzeremo di più
Ma non vedete che il cielo
ogni giorno diventa più blu
È la pioggia che va, e ritorna il sereno, èla pioggia che va, e ritorna il sereno
Non importa se qualcuno sul cammino della vita
sarà preda dei fantasmi del passato
Il denaro ed il potere sono trappole mortali
che per tanto e tanto tempo han funzionato
Noi non vogliamo cadere
non possiamo cadere più giù
Ma non vedete nel cielo
quelle macchie di azzurro e di blu
È la pioggia che va, e ritorna il sereno, è la pioggia che va, e ritorna il sereno
Adriano Celentano - Il ragazzo della via Gluck
(Coro) là dove c’era l’erba ora c’è una città.
Questa è la storia
di uno di noi
anche lui nato per caso in via Gluck
in una casa fuori città
gente tranquilla che lavorava.
Là dove c’era l’erba ora c’è
una città
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà
questo ragazzo della via Gluck
si divertiva a giocare con me
ma un giorno disse: “vado in città”
e lo diceva mentre piangeva
io gli domando: “amico non sei contento?
vai finalmente a stare in città
là troverai le cose che non hai avuto qui.
Potrai lavarti in casa senza andar
giù nel cortile”.
“Mio caro amico” disse “qui sono nato
e in questa strada ora lascio il mio cuore
ma come fai a non capire
che è una fortuna per voi che restate
a piedi nudi a giocare nei prati
mentre là in centro io respiro il cemento
ma verrà un giorno che ritornerò
ancora qui
e sentirò l’amico treno che
fischia così... ua ua”.
Passano gli anni ma otto son lunghi
però quel ragazzo ne ha fatta di strada
ma non si scorda la sua prima casa
ora coi soldi lui può comperarla
torna e non trova gli amici che aveva
solo case su case catrame e cemento
là dove c’era l’erba ora c’è
una città
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà
non so no so perché continuano
a costruire le case
e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba
non lasciano l’erba
e non se andiamo avanti così
chissà come si farà
chissà chissà come si farà.
1967
Lettura (Walter Peraro / Riccardo Poli):
Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1976, pp. 9- 13, 35-42.
Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”.
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato
tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non
esser visto.
Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La
mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo
osserva e ascolta, ma non parla.
Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi
parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla.
Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e
tutti i seggi in parlamento.
Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so
spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà nè eroismo. E solo mancanza di prepotenza.
A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio,
estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”.
(...)
Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Nè cattedra, nè lavagna, nè banchi.
Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava.
D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava.
Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.
Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi
accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè
non aveva capito, gli altri non andavano avanti.
Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica.
Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perchè il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che
capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto.
Un professore disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo
sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”.
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno
di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.
Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà
sempre meglio della merda”.
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son
pronti a sottoscriverla.
Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete
interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su dieci la pensano
esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa.
Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi.
Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà
a comodo.
Fino all’ottobre seguente non sapete cosa avete fatto. È andato a lavorare o ripete? E se
ripete gli farà bene o male? Si farà le basi per seguitare meglio o invecchierà malamente
su programmi non adatti per lui?
(...)
Dei sei ragazzi bocciati, quattro stanno ripetendo la prima. Per la scuola non sono persi,
ma per la classe sì.
Forse la maestra non se ne dà pensiero perché li sa al sicuro nella classe accanto. Forse
se li è già dimenticati.
(...)
La maestra (...) è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio. Chi manca
ha il difetto che non si vede. Ci vorrebbe una croce o una bara sul suo banco per ricordarlo.
Invece al suo posto c’è un ragazzo nuovo. Un disgraziato come lui. La maestra gli s’è già
affezionata.
Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi
le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante
altre creature da servire.
È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non
aver cacciato nessuno con le nostre mani.
Sergio Endrigo - Il treno che viene dal sud
Il treno che viene dal sud
Non porta soltanto Marie
Con le labbra di corallo
E gli occhi grandi così
Porta gente gente nata tra gli ulivi
Porta gente che va a scordare il sole
Ma è caldo il pane
Lassù nel nord
Nel treno che viene dal sud
Sudore e mille valigie
Occhi neri di gelosia
Arrivederci Maria
Senza amore è più dura la fatica
Ma la notte è un sogno sempre uguale
Avrò un casa
Per te per me
Dal treno che viene dal sud
Discendono uomini cupi
Che hanno in tasca la speranza
Ma in cuore sentono che
Questa nuova questa bella società
Questa nuova grande società
Non si farà
Non si farà
Gianni Morandi - Un mondo d’amore
C’è un grande prato verde
dove nascono speranze
che si chiamano ragazzi
Questo è il grande prato dell’amore.
Uno non tradirli mai, han fede in te
Due non li deludere, credono in te
Tre non farli piangere, vivono in te
Quattro non li abbandonare, ti mancheranno
Quando avrai le mani stanche tutto lascerai
per le cose belle ti ringrazieranno
piangeranno per gli errori tuoi
E tu ragazzo non lo sai
ma nei tuoi occhi c’è già lei
ti chiederà l’amore ma
l’amore ha i suoi comandamenti
Uno non tradirla mai, ha fede in te
Due non la deludere, lei crede in te
Tre non farla piangere, vive per te
Quattro non l’abbandonare, ti mancherà
E la sera cercherà tra le braccia tue
tutte le promesse tutte le speranze
per un mondo d’amore
Francesco Guccini e I Nomadi - Dio è morto
Ho visto
la gente della mia età andare via (1)
lungo le strade che non portano mai a niente
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già
dentro le notti che dal vino son bagnate
dentro le stanze da pastiglie trasformate
dentro le nuvole di fumo
nel mondo fatto di città
essere contro od ingoiare
la nostra stanca civiltà
È un Dio che è morto
ai bordi delle strade, Dio è morto
nelle auto prese a rate, Dio è morto
nei miti dell’estate, Dio è morto.
M’han detto
che questa mia generazione ormai non crede (2)
in ciò che spesso han mascherato con la fede
nei miti eterni della patria e dell’eroe
perché è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità
le fedi fatti di abitudini e paura
una politica che è solo far carriera
il perbenismo interessato
la dignità fatta di vuoto
l’ipocrisia di chi sta sempre
con la ragione e mai col torto.
È un Dio che è morto
nei campi di sterminio, Dio è morto
coi miti della razza, Dio è morto
con gli odi di partito, Dio è morto.
Ma penso
che questa mia generazione è preparata (2)
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata,
ad un futuro che ha già in mano,
a una rivolta senza armi,
perché noi tutti ormai sappiamo
che se Dio muore è per tre giorni
e poi risorge,
in ciò che noi crediamo Dio è risorto,
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
nel mondo che faremo Dio è risorto...
1968
Lettura (Agostino Contò):
Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, pp. 141-143.
Non tutte le notizie erano buone. Un anno dopo la fuga del colonnello Aureliano Buendìa,
José Arcadio e Rebeca se ne erano andati a vivere nella casa costruita da Arcadio.
Nessuno seppe del suo intervento per impedire la fucilazione. Della casa nuova, situata
nell’angolo migliore della piazza, all’ombra di un mandorlo privilegiato con tre nidi di pettirossi, con una porta grande per le visite e quattro finestre per la luce, fecero un luogo
ospitale.
Le vecchie amiche di Rebeca, tra le altre quattro sorelle Moscote ancora nubili, ripresero le
riunioni di ricamo interrotte anni prima nel porticato delle begonie. José Arcadio continuò
a usufruire delle terre usurpate, i cui titoli furono riconosciuti dal governo conservatore.
Tutte le sere lo si vedeva tornare a cavallo, coi suoi cani da caccia e il suo schioppo a due
canne, e una filza di conigli appesi alla sella. Un pomeriggio di settembre, che minacciava
un temporale, tornò a casa più presto del solito. Salutò Rebeca nella sala da pranzo, legò
i cani nel patio, appese i conigli in cucina per salarli più tardi e andò in camera a cambiarsi. Rebeca dichiarò poi che quando suo marito era entrato in camera lei si era chiusa nel
bagno senza rendersi conto di niente. Una versione difficile da credere, ma non ce n’era
altra più verosimile, e nessuno riuscì a concepire un motivo per il quale. Rebeca potesse
aver assassinato l’uomo che l’aveva resa felice. Quello fu forse l’unico mistero che non si
mise mai in chiaro a Macondo. Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo
scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue usci da sotto la porta,
attraversò la sala, usci in strada, continuò in un percorso diretto lungo i marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in
una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendia,
passò sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non
macchiare i tappeti, continuò per l’altro salotto, schivò con un’ampia curva il tavolo della
sala da pranzo, avanzò per il porticato delle begonie, passò non visto sotto la sedia di
Amaranta che stava dando una lezione di aritmetica a Aureliano Josè si infilò nel granaio
e fini nella cucina dove Ursula stava per rompere trentasei uova per fare il pane.
“Ave Maria Purissima!” gridò Ursula.
Segui il filo di sangue in senso contrario, e cercando la sua origine attraversò il granaio,
passò per il porticato delle begonie dove Aureliano Josè cantava che tre e tre fanno sei e
sei e tre fanno nove, e attraversò la sala da pranzo e i salotti e continuò in linea retta per
la strada, e poi piegò a destra e poi a sinistra fino alla Strada dei Turchi, senza accorgersi
che non si era tolta né il grembiule da cucina né le babbucce da casa, e usci nella piazza
e entrò nella porta di una casa dove non era mai stata, e spinse la porta della camera e
quasi soffocò per l’odore di polvere da sparo bruciata, e trovò José Arcadio bocconi per
terra sulle uose che si era appena tolto, e vide l’origine del filo di sangue che aveva già
smesso di sgorgare dall’orecchio destro del cadavere. Non trovarono alcuna ferita sul suo
corpo e non riuscirono a trovare l’arma. Non fu nemmeno possibile togliere il penetrante
odore di polvere da sparo dal morto. Prima lo lavarono per tre volte con sapone e strofinaccio, poi lo stropicciarono con sale e con perni d’acciaio, ma anche cosi si percepiva
l’odore di polvere da sparo nelle strade dove passò il funerale. Padre Nicanor col fegato
gonfio e teso come un tamburo, gli mandò la benedizione dal letto. Benchè nei mesi
seguenti rinforzassero la tomba con muri sovrapposti e gettassero negli interstizi cenere
compressa, segatura e calce viva, il cimitero continuò a puzzare di polvere da sparo anche per molti anni dopo, quando gli ingegneri della compagnia bananiera ricoprirono la
tomba con una corazza di calcestruzzo. Non appena portarono via il cadavere, Rebeca
sbarrò le porte della sua casa e si seppellì viva, chiusa in una grossa crosta di sdegno che
nessuna tentazione terrena riuscì a infrangere.
Uscì in strada una volta sola, già assai vecchia, con delle scarpe color argento antico e
un cappello a fiorellini, all’epoca in cui passò per il villaggio l’Ebreo Errante che provocò
un calore cosi intenso che gli uccelli sfondavano le reticelle delle finestre e venivano a
morire nelle stanze. L’ultima volta che qualcuno la vide viva fu quando ammazzò con un
colpo preciso un ladro che cercava di forzare la porta della sua casa. Tranne Argènida,
sua serva e confidente, nessuno ebbe più rapporti con lei da quel momento. In una certa
epoca si seppe che scriveva lettere al Vescovo, che considerava suo cugino primo, ma
non è detto che avesse mai ricevuto risposta. Il villaggio la dimenticò.
Lettura (Tiziano Gelmetti):
Pier Paolo Pasolini, Perché ci si droga?, in “Il Tempo”, n. 53, 28 dicembre 1968.
Perché ci si droga? Non capisco, ma in qualche modo lo spiego. Ci si droga per
mancanza di cultura.
Parlo, s’intende, della grande maggioranza o della media dei drogati. È chiaro che
chi si droga lo fa per riempire un vuoto, un’assenza di qualcosa, che dà smarrimento e angoscia. E un sostituto della magia. I primitivi sono sempre di fronte a
questo vuoto terribile, nel loro interno. Ernesto De Martino lo chiama “paura della
perdita della propria presenza”; e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie.
Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società passato il primo
momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità benessere,
produzione e consumo), ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della
perdita della propria presenza.
In realtà tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema, altri stordendosi in
qualche altra attività.
L’azione ha sempre una funzione di droga. “Che” Guevara si drogava attraverso
l’azione rivoluzionaria (quella teorizzata dal castrismo romantico: agire prima di
pensare); anche il lavoro che serve a “produrre” è una specie di droga. Ciò che
salva dalla droga vera e propria (cioè dal suicidio) è sempre una forma di sicurezza
culturale.
Tutti coloro che si drogano sono culturalmente insicuri.
Il passaggio da una cultura umanistica a una cultura tecnica pone in crisi la nozione stessa di cultura. Vittime di questa crisi sono soprattutto i giovani. Ecco perché
ci sono tanti giovani che si drogano.
Mancare di certezze culturali, e quindi della possibilità di riempire il proprio vuoto
di alienati, se non altro per mezzo dell’autoanalisi e della coscienza (individuale e di
classe), vuoi dire, in termini banali, anche essere ignoranti. La crisi della cultura fa
sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. Insomma, che non leggano più o che non leggano con amore.
C’è da aggiungere: i giovani ignoranti che non si drogano, e che magari si drogano
attraverso l’azione politica specializzata (che è una forma particolare di ignoranza),
sono molto spesso cattivi, disumani, impietosi, sgradevoli: proprio così come la
crudele cultura tecnica neocapitalistica (contro cui lottano) li vuole.
Invece i giovani “ignoranti” che si drogano sono, in genere, buoni, dolci, pietosi,
pieni di carità apostolici, disarmati, non aggressivi, fiduciosi (come, appunto, i primitivi): la loro contestazione in re, ossia nel proprio corpo, è molto più terribile e
commovente. Essi sì, se ne fossero capaci, sarebbero nel pieno diritto di lanciare
la prima pietra. Al contrario degli estremisti primi della classe, che parlano come
(cattivi) libri stampati, essi hanno bruciato i ponti: si sono resi impossibile ogni possibilità di integrazione.
Tuttavia, la loro rivolta, benchè terribile e commovente, è inutile: appunto perché
priva di cultura, o fuori dalla cultura. Dopotutto è facile essere buoni e dolci come
i primitivi, è facile essere pietosi a causa del terrore che proviene dal vuoto in cui
si vive.
D’altra parte (e questa è la conclusione disperante) liberarsi da questa “mancanza di cultura” o di “interesse culturale” sembra impossibile; infatti essa proviene,
probabilmente, da un più generale senso di “paura del futuro”. Mai come in questi
anni (in cui la “previsione” è divenuta scienza) il futuro è stato fonte di tanta incertezza, così simile a un incubo indecifrabile.
Enzo Jannacci - Vengo anch’io
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale.
Vengo anch’io. No, tu no.
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone,
e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Ma perché? Perché no!
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera.
Vengo anch’io. No, tu no.
Con la bella sottobraccio a parlare d’amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Ma perché? Perché no!
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore.
Vengo anch’io. No, tu no.
Dove ognuno, sì, è già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore
e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Ma perché? Perché no!
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale.
Vengo anch’io. No, tu no.
Per vedere se la gente poi piange davvero
e capire che per tutti è una cosa normale
e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Vengo anch’io. No, tu no.
Ma perché? Perché no!
Paolo Conte - Azzurro
Cerco l’estate tutto l’anno
e all’improvviso eccola quà
lei è partita per le spiagge
io sono solo quaggiù in città
Sento fischiare sopra i tetti
un aereoplano che se ne va.
Azzurro.
il pomeriggio è troppo azzurro,
e lungo per me,
mi accorgo di non avere più risorse
senza di te,
e allora io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te,
(ma) il treno dei desideri,
nei miei pensieri all’incontrario va.
Sembra quand’ero all’oratorio
con tanto sole, tanti anni fa
quelle domeniche da solo
in un cortile a passeggiar...
ora mi annoio più di allora
neanche un prete per chiacchierar...
Azzurro.
il pomeriggio è troppo azzurro,
e lungo per me,
mi accorgo di non avere più risorse
senza di te,
e allora io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te,
(ma) il treno dei desideri,
nei miei pensieri all’incontrario va.
Cerco un po’ d’Africa in giardino
tra l’Oleandro e il Baobab,
come facevo da bambino,
ma quì c’è gente, non si può più
Stanno innaffiando le tue rose,
non c’è il leone, chissà dov’è.
Azzurro.
il pomeriggio è troppo azzurro,
e lungo per me,
mi accorgo di non avere più risorse
senza di te,
e allora io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te,
(ma) il treno dei desideri,
nei miei pensieri all’incontrario va.
1969
Presentazione degli avvenimenti dell’anno
e conclusione del curatore Mario Allegri.
Gualtiero Bertelli - Nina
Nina ti te ricordi
quanto che gavemo messo
a andar su ‘sto toco de leto
insieme a far a l’amor.
Sie ani a far i morosi
a strenserla franco su franco
e mi che sero stanco
ma no te volevo tocar.
To mare che brontolava
«Quando che se sposemo»;
el prete che racomandava
che no se doveva pecar.
E dopo se semo sposai
che quasi no ghe credeva
te giuro che a mi me pareva
parfin che fusse un pecà.
Adesso ti speti un fio
e ancuo la vita xe dura
a volte me ciapa la paura
de aver dopo tanto sbaglià.
Amarse no xe no un pecato,
ma ancuo el xe un lusso de pochi
e intanti ti Nina te speti
e mi so disocupà.
E intanto ti Nina te speti
e mi so disocupà.
Paolo Pietrangeli - Valle Giulia
Piazza di Spagna, splendida giornata,
traffico fermo, la città ingorgata
e quanta gente, quanta che n’era!
Cartelli in alto e tutti si gridava:
«No alla scuola dei padroni!
Via il governo, dimissioni!».
E mi guardavi tu con occhi stanchi,
mentre eravamo ancora lì davanti,
ma se i sorrisi tuoi sembravan spenti
c’erano cose certo più importanti.
«No alla scuola dei padroni!
Via il governo, dimissioni!».
Undici e un quarto avanti a architettura,
non c’era ancor ragion d’aver paura
ed eravamo veramente in tanti,
e i poliziotti in faccia agli studenti.
«No alla scuola dei padroni!
Via il governo, dimissioni!».
Hanno impugnato i manganelli
ed han picchiato come fanno sempre loro;
ma all’improvviso è poi successo
un fatto nuovo, un fatto nuovo, un
fatto nuovo:
non siam scappati più, non siam scappati più!
Il primo marzo, sì, me lo rammento,
saremo stati millecinquecento
e caricava giù la polizia
ma gli studenti la cacciavan via.
«No alla scuola dei padroni!
Via il governo, dimissioni!».
E mi guardavi tu con occhi stanchi,
ma c’eran cose molto più importanti;
ma qui che fai, ma vattene un po’ via!
Non vedi, arriva giù la polizia!
«No alla scuola dei padroni!
Via il governo, dimissioni!».
Le camionette, i celerini
ci hanno dispersi, presi in molti e poi picchiati;
ma sia ben chiaro che si sapeva;
che non è vero, no, non è finita là.
Non siam scappati più, non siam scappati più.
Il primo marzo, sì, me lo rammento...
...No alla classe dei padroni,
non mettiamo condizioni, no!
Pooh - Piccola Katy
Oh, oh, piccola Katy
oh, oh, piccola Katy
oh, oh, oh!
Piccola Katy, stanotte ho bruciato
tutti i ricordi del tuo passato
tutte le bambole con cui dormivi
ed il tuo diario che sempre riempivi
solo con ciò che faceva
piacere anche di notte l’andava a vedere.
Piccola Katy, oh, oh
piccola Katy oh, oh, oh!
Piccola Katy, stanotte hai capito
che carezzandoti ti hanno tradito
e alle tue mani han legato il calore
che si conquista in un’ora d’amore
e in questo mattino di grigia foschia
di colpa hai deciso di andartene via.
Piccola Katy, vai vai
piccola Katy vai vai vai!
(Parlato)
Piccola Katy, fermati un momento ed ascolta.
Ti ricordi quel ragazzo ieri alla festa
che ti guardava negli occhi senza parlare
e che ti ha accompagnato mano per mano
e ti ha detto soltanto “Arrivederci”?
Adesso, adesso lui sta sognando di te
e quando si sveglierà, si accorgerà di
volerti rivedere presto, molto presto.
Piccola Katy, il mondo è buio è cattivo
non è fatto per te, non andare, non gettare
al vento i tuoi sedici anni favolosi!
Vai, vai piccola Katy
vai vai piccola Katy
vai vai vai!
Piccola Katy, la porta è socchiusa
non devi nemmeno inventare una scusa
dormono tutti di un sonno profondo
e questo silenzio è la fine del mondo
chiudi pian piano e ritorna a dormire
nessun nel mondo ti deve sentire.
Piccola Katy
ciao ciao, piccola Katy
ciao ciao, piccola Katy
Bob Dylan - Ballad of Easy Rider (1969)
Il fiume scorre
Scorre verso il mare
Dovunque il fiume va
è lì che voglio andare
Scorri fiume scorri
lascia che le tue acque scorrano lavando
Portami da questa strada
in qualche altra città
Tutto quel che voleva
era essere libero
E questo è il modo
in cui è finita
Scorri fiume scorri
lascia che le tue acque scorrano lavando
Portami da questa strada
in qualche altra città
Scorri fiume scorri
oltre l’albero ombroso
Vai fiume vai
Vai verso il mare
Scorri verso il mare
Il fiume scorre
Scorre verso il mare
Dovunque il fiume va
è lì che voglio andare
Scorri fiume scorri
lascia che le tue acque scorrano lavando
Portami da questa strada
in qualche altra città
Fly UP