di Lucio Tufano - Consiglio Regionale della Basilicata
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di Lucio Tufano - Consiglio Regionale della Basilicata
DENVER CHIAMA POTENZA È ancora difficile capire quale sia stato il contributo reale recato e quali le energie profuse da tutti quegli italiani che si immisero nel grande flusso emigratorio verso gli Stati Uniti e nella epopea del West. Non hanno mai costituito un preciso campo di indagine socio-demografica. Culture, tradizioni, mentalità, concezioni religiose ed abitudini, esperienze imprenditoriali e professionali, creazioni di talento e iniziative originali, produzioni di mestiere e artistiche passarono spesso in secondo ordine innanzi ai misfatti e alle eclatanti intraprese della mafia o rispetto alle festose celebrazioni della pizza e degli spaghetti. È lo storico e scrittore Andrew F. Rolle a dimostrare che molti emigranti italiani, giunti in America settentrionale, finirono col contendere a quelli che si erano già insediati, grazie alle primissime ondate immigratorie, il primato sociale e le posizioni più ambite nell’organizzazione economica e finanziaria. Tant’è che ad essi fu attribuita la denominazione di “upraised”,ovvero immigrati di successo. Proprio su costoro la prestigiosa rivista “La Basilicata nel Mondo”, diretta dall’avvocato Giovanni Riviello, costruisce negli anni 1924-1927 una dettagliata rassegna di storie, biografie, notizie, nonché di affermazione dei lucani in America.1 La più che pregevole opera di Ray Allen Billington, peraltro, ci dice come gli italiani avessero tracciato una vera e propria leggenda del loro attivismo, della loro alacre operosità, per la volontà e la tenacia di darsi da fare e progredire: “esploratori italiani in gambali di cuoio e mocassini, minatori italiani che da un treno di immigrati fermo ad un serbatoio d’acqua nel cuore dei Great Plains hanno scaricato montagne di sacchi di pane e di pasta, commercianti italiani che hanno esercitato la loro attività ad Omaha; italiani re del bestiame, padroni di centinaia di migliaia di acri di terra lungo il Rio Grande: raduni di nazionalisti italiani in cima al Comstock Lode, hanno celebrato l’Unità d’Italia, oppure a San Francisco, per costituire la Swiss-Italian AntiChinese Company of Dragoons; ed altri come Andrea Sbarbaro e Amadeo Pietro Giannini che hanno accumulato enormi patrimoni con il commercio di vini e con l’attività bancaria...”. Insomma non si trattava di poverissimi, di manovalanze generiche e di braccianti, di baraccati o di umili garzoni alle dipendenze di esosi ed ingordi datori di lavoro. Il West dischiuse agli italiani ogni possibilità di scalata al successo, specie il Colorado per le miniere, l’oro e l’argento e per l’ampio altopiano di terre fertilissime e di foreste. Il Colorado fu definito l’Italia dell’America dell’Ovest. Proprio perché montuoso divenne la destinazione di italiani provenienti dall’Appennino lucano e ligure che lavorarono nelle miniere di Central City, Blak Hawk, Georgetown, Russel Gulch, Empire City.2 Alla fine dell’800 i cosiddetti “agenti di emigrazione” pubblicizzavano le ottime condizioni di lavoro nel Colorado e reclutavano mano d’opera nei paesi e nelle campagne italiane. Forte fu la massa di italiani che vennero ingaggiati nella “Denver and Rio Grande Western Railroad” e nelle nuove miniere. L’emigrante, oltre a sopportare le spese del viag- — 151 — di Lucio Tufano gio, anticipava una cauzione in dollari e si impegnava nel contratto a corrispondere al proprio “boss” il 20% del salario per i primi tre anni di lavoro.3 Gli italiani, rispetto ai loro compagni di fatica, si sapevano adattare subito e meglio “malgrado il cibo cattivo e gli alloggi in capanne costruite frettolosamente con i tronchi degli alberi”. Possedevano qualche chitarra o mandolino e cantavano le canzoni napoletane, preparavano con gusto lo “stufato alla Colorado”, gli scoiattoli alla brace e cucinavano i funghi e i polli di quei luoghi con esiti più soddisfacenti degli irlandesi che approntavano i loro pasti con lardo, cavoli e patate. Importarono il modo di fare il vino in regioni dove vi erano solo whisky e birra. Dal 1880 al 1890 la città di Denver aumentò il numero dei suoi abitanti da 35.029 a 106.773. Con capacità e costanza gli italiani rimpiazzarono gli altri operai, quelli della Cornovaglia, i gallesi e gli inglesi. I cimiteri di Butte, Leadvielle, Central City sono pieni di italiani, sotterrati nel corso di quell’epoca, che lavorarono anche nelle cave di granito: tagliatori, spianatori, fresatori di roccia e muratori in pietra.4 Il miraggio del West americano attirò anche i lucani che intrapresero la strada dell’emigrazione. Dagli inizi del '900 fino al 1915, circa 13 milioni e mezzo di italiani partirono per l’America. Tra il 1880 e il 1924 il costo del biglietto da Napoli a New York aumentò da 15 a 30 dollari. Era così familiare Denver agli italiani che persino Targa della Grand Lodge Società nativi di Potenza, fondata nel 1899 e riconosciuta nel 1940 la madre delle suore missionarie del Sacro Cuore, madre Francesca Saveria Cabrini, la “Santa degli emigranti”, nel 1904-1905, fondò a Denver il “Queen of Heaven Institute” e promosse tutta una serie di scuole e orfanotrofi. Dal 1885 in poi i giornali italiani che si stamparono a Denver furono: La Stella, La Nazione, Il Risveglio, La Capitale, Il Roma, La Frusta, il mensile “Il Vindice”, il settimanale “La Voce del Popolo” che nel 1931 distribuiva 15.595 copie. Nel 1919 a Trinidad si stampava “Il Corriere di Trinidad” che tirava 3.500 copie. Nel 1950 vi era “Il Risveglio” a Denver e “L’Unione” a Pueblo. Nel 1910 il “Colorado State of Immigration” sollecitò la immigrazione italiana in quelle regioni. I nuovi arrivati si raccolsero intorno alla Comunità agricola di Welby, a nord di Denver. In quell’ondata non mancarono i potentini. Quasi tutti questi immigrati si dedicarono al settore frutticolo ed orticolo, ai prodotti del latte e ad altro. Furono prodotti liquori come il Merlino Cherry e il Raspoerry (succo di limone) con fabbriche a Canon City. In onore degli italiani del Colorado nella valle del Gunnison, l’Italian Peak, ha assunto l’appellativo di Italia Mountain. Gli italiani hanno voluto il Columbus Day che è la festa italiana sancita dal Parlamento. Tra le feste religiose di Denver vi è quella di S. Rocco, prima celebrata dai potentini, poi divenuta la festa di tutti gli italiani. DENVER, I POTENTINI ANZIANI , I FIGLI DEI PRIMI IMMIGRATI E I NIPOTI Oggi vi sono i nipoti, quelli che ancora esigono l’appellativo di italoamericani, i figli dei padri ancora vivi e affetti da nostalgia per l’Italia, in balìa degli — 152 — anni e della mestizia. Si cercano ancora, si incontrano tra di loro per rinverdire un legame con la terra di origine. Li abbiamo conosciuti gli anziani e garbati signori, eleganti e con macchina personale, la Cadillac, in occasione del gemellaggio tra Potenza in Basilicata e Denver in Colorado.5 Parlano una lingua antica, quasi incomprensibile, un dialetto impregnato di nebbie atlantiche, di grattacieli e fabbriche frenetiche, con una cadenza lamentosa tra l’urlo delle sirene e la forte tensione del sentimento, in ricordo dei genitori e della loro adolescenza, quando da Potenza si partì per l’America dal lungo sorso di caffè, dal sigaro polposo e profumato, dal gustoso boccone di rostbeef. Sono costoro che hanno stabilito, con noi, un rapporto confidenziale da vecchi amici per notizie da chiedere o da offrire, un frammento vivo della vera e genuina Potenza, un cordiale groviglio di soprannomi, di “strascinar”, di vino e acqua freschissima che, come quella di Fossa Cupa nelle vecchie fontane potentine, scorre dalle propaggini delle Montagne Rocciose. Abbiamo ritrovato l’identità originale e schietta di un tempo in questi concittadini che parlano un’antica lingua di casa-campagna frammista a parole anglo-americane. Abitavano fino al 1940 in via Navajo assieme a tanti altri italiani, in case di legno con un po’di prato e con passerella davanti alla soglia, con scanni e sedie proprio come nei film western. Ora in quella via vi sono i messicani arri- vati dopo, mentre i potentini si sono stabiliti in altre zone con villette in muratura e porte in legno. Vi è una chiesa del 1894, con la parrocchia. La chiesa del monte Carmelo ha statue di santi fatte arrivare dall’Italia. Sulle pareti sotto le vetrate colorate si leggono i nomi di coloro che prodigarono braccia, mattoni e denaro. La chiesa è gremita di italiani e di potentini nella “domenica delle palme”. Non si offrono i tradizionali rametti di ulivo, bensì i rami delle palme dalle foglie bislunghe. La messa di sabato si è svolta con una grandiosa cerimonia di fiori e di stoffe, di gonne e nastri per la celebrazione delle nozze d’oro di due coppie di immigrati italiani, anzi meridionali. Gli sposi indossano un tight grigio perla o avorio; le signore sono sufficientemente rotonde e morbide come pupe avvolte in vaporosi vestiti di chiffon rosa e celeste. La chiesa è gremita di foulards, di bluse, di lombi e fianchi opimi e di figure scheletriche, di acconciature e teste rosse, tutte bianche, tutte viola, di visi paffuti imbellettati con occhi bistrati, volti rugosi e di vecchi decorati con lenti a stanghe d’oro, con orecchini grandi e aurei. È il pubblico italoamericano che lavora (o è in pensione) e rappresenta la vita americana o quanto di americano è chic, è popcorn, è il risultato di cibi supernutrienti ingeriti distrattamente, di bevute al latte, alla cioccolata, di coca-cola, di birra e vitamine in succhi. Sono i nuovi sapori e le nuove sensazioni del Colorado più moderno, al latte, alla crema di limone, con i frappé di zucchero di canna e di ciliege, armonia del desiderio aperto alla magia del “it’s possible”. Strane sagome questi anziani italoamericani palesemente soddisfatti della loro condizione sociale ed economica, uniti nel rito religioso e nella vita dell’associazione. Don Giuseppe Carbone, figlio di Vincenzo di Vaglio, è il parroco della chiesa. Nacque in una di quelle case di fronte alla chiesa dove ha trascorso l’infanzia. Hanno chiesto notizie dei loro parenti di Potenza i Pomarici, i Quaratino e mister Perito, nipote di Salvatore “Magnafico”, che non sa parlare il potentino misto all’americano, parla solo la lingua americana e sostiene di essere un parente di Rocco della vecchia Società Lucana di Potenza. Altri indossano pantaloni verdi, giacche rosse o di velluto, cravatte alla cowboy, qualche cappello a falde larghe. Le ragazze portano fiori freschi, orchidee e camelie sul petto. Dopo la cerimonia religiosa ci siamo ritrovati nel salone dell’associazione “People to people”. Il Presidente John Astuni (Ostuni), figlio di potentini (direttore del College Board, un importante istituto professionale di scuola superiore, unico esempio di recupero culturale e professionale in Colorado) ha presentato altri immigrati dall’India, dalla Cina e dal terzo mondo. All’ingresso della sala, subito dopo la soglia, i soci del “Potenza Lodge” hanno collocato una grande statua di S.Gerardo fatta venire da Potenza nel 1899. Viene custodita dai potentini che la espongono in determinate occasioni. Denver è al centro di attrattive e curiosità eccentriche: le montagne rocciose, i pini, la neve, gli indiani, le stradine polverose, i canyons, interi villaggi del West con case in legno, Argo Gold Mill, le vecchie miniere d’oro, Stanley, Dumont, Salt Lake City, Winter Park, Empire City, gli antiquari di Central City, le lunghe strade dentro le scenografie delle miniere e delle pepite, Black Hawk Colo e Gold Dust Village, Buffalo Bill Grave, dove hanno sepolto il leggendario pioniere sotto mille libbre di cemento (cinque quintali per non farne rapire la salma) perché quattro o cinque Stati se ne contendevano la tomba. Central City con l’“Opera House” e le sue case in legno, le botteghe, i saloon-bar, è la classica città dove cow boy e pellirosse, bisonti e cercatori hanno scolpito a caratteri imperituri l’era gloriosa del Colorado anche con il valido ausilio dei potentini. Dappertutto si vendono souvenirs e pietre dure, bigiotteria, cartoline, terrecotte e porcellane di Manitou, Geronimo e vi sono ancora tipografie primordiali che stampano vecchi giornali. Qui il Gold americano impone la sua leggenda, la sua epopea, la sua cultura. Al “Potenza Lodge” ci sono tutti: figli, parenti, cugini e i pochi anziani — 153 — della presidenza, i padri di oggi che sono i figli dei pionieri di ieri venuti da Potenza alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento quando mandarono a chiamare fratelli e mogli. Vi sono quelli come Rocco Marchese che giunse a Denver a 12 anni con dodici soldi in tasca e lavorò nelle ferrovie della Union Pacific. Rocco Marchese morì nel 1918. Il figlio Gaetano Marchese, nato nel 1915, lavorò come sarto fino a qualche anno fa assieme a Mike Pergola, attuale dirigente del circolo. Anche Raffaele Villano arrivò a Denver nel 1903 per lavorare nelle miniere. John Villano, il figlio, ancora in preda ad un profondo amore per la vecchia Potenza, ha riferito che i primi potentini arrivarono con il biglietto pagato dalle Compagnie dei datori di lavoro e dal Governo americano e non poterono più rientrare in Italia in quanto nei primi tempi non guadagnavano abbastanza per vivere e per rientrare con qualche gruzzolo. Rocco Claps, padre di Frank Claps, giunse nel 1895 per i lavori della Ferrovia. Ma chi ancora presidia la “loggia” e parla il dialetto di Potenza, quello di una volta, il più verace, quello degli anni Trenta, sono proprio i dirigenti dell’organismo: John Astuni, il nipote di Felice e figlio di Rocco, contadini di Potenza, John Smart, Giuseppe Santopietro, Mike Pergola e Marchese. Mike Pergola, che appartiene alla razza “Scarrozza”, ha cantato “u sole mio”, “sì fatta rrossa comm’ a na cirasa” e “u ciucci’ di Ciacià”, dimostrando gusti e visioni pertinenti ad una dimensione del passato meridionale e potentino, familiare e nostrano, ad una nostalgia delle siepi e delle scampagnate a S. Antonio la Macchia, di fiaschi, baccalà e frittate. Vi è in tutti una nostalgia del ruolo eroico vissuto dai padri, del proprio protagonismo ininterrotto, spezzato e ripreso, proprio di giocatori della vita. Sono i potentini che scelsero il West e costituirono una comunità forte e compatta per soddisfare il bisogno di associarsi. È per tutto questo che Denver può considerarsi una “enclave” di potentini nel vasto territorio del Colorado. Denver è una seconda città di Potenza. Per raggiungerla occorre attraversare l’oceano Atlantico e passare per altri Stati. I potentini di Denver si sono ormai stabiliti negli estesi quartieri di ville e case con giardino, prati inglesi e box per auto, con gli scoiattoli che si arrampicano sugli alberi, dove fanno il nido le tortore e i merli cantatori volano tra i fili della luce. Sono ormai imprenditori, funzionari pubblici, direttori di istituti, docenti, idraulici, meccanici, avvocati e pensionati. I cognomi sono ormai consunti, modificati dagli errori di pronuncia e di anagrafe. Ma Giuseppe Satriano ha un’azienda per l’appalto delle pulizie nella città con macchine, attrezzature e dipendenti. Abita in una casa-villino. A casa di De Carlo si pranza alla potentina: dal primo piatto fino alla frutta, al vino, al dolce, le ricette sono improntate agli usi della terra di origine. Tutto è nel pieno rispetto delle radici, scita della loro urbanistica, fatta eccezione per i due centri storici di Denver, quello moderno dei grattacieli e quello antico delle bidonville americane e delle antiche bottegucce. Eppure si è trattato di un “gemellaggio di base”, sostenuto e voluto dalla comunità dei potentini. Hanno avuto espressioni di affetto e di entusiasmo con presenze numerosissime e programmi, iniziative, manifestazioni interessanti da un punto di vista culturale, istituzionale, economico e sociale. Fasi importanti di questo scambio sono stati l’incontro con il sindaco Pegna, di colore, con il Consiglio Comunale multietnico di quella città, a dimostrazione di un processo di integrazione avvenuto nel “grande corridoio” della nazione americana. Certificato di riconoscimento della Società dei nativi di Potenza, 1940 di quei sapori raccontati dai padri e preparati dalle mamme nel più vivo amore per la vecchia città natale. Non si è trattato solo di fusi orari, ma ci è sembrato di aver raggiunto una dimensione quarta, al di là del tempo: nei loro racconti e dai ricordi dei più anziani si scopre un passato da Novecento, di stazioni sbuffanti, di sirene, di bastimenti, di duri biscotti trangugiati prima di imbarcarsi a Napoli e conservati per il viaggio. Sono volti e cognomi racchiusi in fotografie ingiallite, su buste utilizzate nei lunghi viaggi di oltre Atlantico. La loro è una natura anfibia, ambigua appartenenza a due patrie, a due modi di concepire l’esistenza. Ma hanno l’intelligenza e il bisogno di essere in molti, di cercarsi, di rimanere insieme, di coabitare e solidarizzare. Al “Potenza Lodge”, nello statuto che sancisce i criteri di iscrizione, vi è una condizione: almeno il padre o il nonno del nuovo socio dovrà essere di Potenza. Ma ecco, al di là dell’etica e della finalità del gemellaggio, l’incontro di due città Potenza e Denver, tra rappresentanti municipali di città così consanguinee, così somiglianti e vicine nel sentimento e nella memoria, forse per certi aspetti anche nella irrompente cre- — 154 — Note 1 “La Basilicata nel Mondo”, rivista, anni 1924-1927. Ristampa anastatica a cura del Consiglio Regionale di Basilicata, tip. Bmg, Matera 1982; 2 G. PERILLI, Colorado and Italians in Colorado, Denver 1922; 3 “Labor Enquirer”, Denver, 19 gennaio-9 febbraio 1884; 4 R.T. BERTHOFF, British Immigrants in Industrial America 1790-1850, Cambridge 1950; 5 Aprile 1984. Gemellaggio tra le città di Potenza e Denver.