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Polaroid scattate da Fabio Trisorio Testi di Silvia Rosa "Considero la

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Polaroid scattate da Fabio Trisorio Testi di Silvia Rosa "Considero la
MeTe
Polaroid scattate da Fabio Trisorio
Testi di Silvia Rosa
"Considero la Polaroid l’occhio del sogno.
Partendo da questo mio concetto ho sviluppato l’idea base di MeTe:
fotografare i luoghi che ricordassero un mondo lontano dalla realtà, un
luogo onirico dove il Me e il Te si incontrano. Ogni immagine è un punto
di partenza (una meta).
Ma sentivo che mancava qualcosa, un equilibrio 'tonale' al tutto.
Equilibrio che ho cercato, e trovato proponendo a Silvia Rosa di
scrivere su queste mie visioni. Con Silvia abbiamo selezionato e scelto
la strada da percorrere per arrivare a MeTe.
MeTe è un viaggio verso quei luoghi che abbiamo scoperto nei sogni o
nei pensieri ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di raggiungere
veramente.
MeTe è un incontro, è la ricerca di un equilibrio.
MeTe è il confronto tra due entità: tra l’anima e il suo fenomeno, che si
sfiorano, ma solo asintoticamente. Come l’amore, come tra un uomo e
una donna, come tra il Me e il Te, che mai si raggiungeranno."
Fabio Trisorio
ci sono stata
- Mi racconti?
ma era tanto tanto tempo
un'altra vita fa
- Mi racconti?
c'era come una musica
il frusciare svelto di giorni,
un volo di occhi e sorrisi,
e uno spicchio di nuvola
quando arrivavo in quel punto
- Quale?
quello in cui si congiunge
lo squillo d'aurora e un rauco
abbaiare di ombre
- Quale?
quello che sai che la giostra
si sta per fermare - è un istante eppure d'intorno
è un movimento di cielo in un vortice
non ti devi aggrappare
a niente
l a s c i a t i
- Dove?
a n d a r e
dovunque sia in nessun luogo
- Dove?
qui che è sempre un altrove.
Rinasco
in un vo(l)to di silenzio
all'alba
- mi si appannano i sensi madonna domestica
(mi) prego me stessa
allo specchio
la mia chiesa affollata di luce
è una finestra nel vuoto
chiusa
sul riflesso di me
che non sono.
Non superare
il chiarore
che del bosco di dubbi
(tuo) segna il confine
il sole
è uno spillo rovente
un filo incendiato
dal (tuo) desiderio
che ti cuce la carne
- rasente il muro dei forse di luce e bagliori di voglie
attento
Oltre è la stessa notte di no e
di sempre la stessa fitta vegetazione
inghiottita dal vuoto di sogni
uno squarcio
sull'orlo imperfetto
del procedere (tuo) per tesi e ragioni
da un inizio ad un altro
identico.
Non c'è un luogo
qualunque una terra
sicura una radice di senso
- almeno una eppure
è tutto uno sbocciare inquieto
di verde
la muffa acida della noia
che sta ovunque
ed io mi sono un'ombra
di un'ombra cupa
ghiotta
della trasparenza incerta della foglia
quando non si sa
se cresca ancora
o muoia.
Panna una macchia di tepore, spuma di
zucchero ruvida granella di onde, bevute
centellinandole al bordo, in una grinza del
labbro umida. Vortica il ricordo sul palato, è
l’arabesco del tuo sapore che ho ritrovato in
un’ansa golosa della bocca, e che mi sazia,
che mi brucia la gola svuotata del battito
morbido di farfalla, muta dell’ala soffice del tuo
nome che inghiottivo vibrando in un volo,
sfiorandoti sulla lingua goccia a goccia,
desiderando l’arsura che tu - solo - sapevi
incendiarmi
[mi nutrivi di parole come chicchi di cacao (d’)amare -, che mi sgocciolavano sull’inguine
sciolti gli avverbi di tempo tutti i bavagli
candidi dell’indecisione, a pungermi il ventre
di fame].
La sera e le sue longitudini scomposte in
richiami, che si dilatano lune rotte silenzi una
culla che attraversa breve l’aria come un
sorriso, da occidente oltre il punto cardinale
più vicino alle ombre incerte dei ricordi,
lancetta dopo lancetta il rintocco. Al buio non
affondare mai le dita nei cassetti tutti di fogli
scritti bianchi e neri, sette meno uno, aperto,
un lettino duro in cui stendersi, attendere
l’alba minuscola, qualche accenno di chiarità
domestiche, un sonno tenero di morte.
Latitudine zero infine la vertigine autentica,
l’urlo incrostato tra il legno, le pareti, ciò che
resta del cielo, lo specchio che non ti riflette,
le mani raccolte nel grembo due stelle costellazione desiderio - cadute.
Quante parole che schiacciano nell'angolo
smorto della vita, spalle al muro del corpo che
si sgretola nel buio, e io invece, io come vorrei
un silenzio d'occhi impastati insieme in grumi
neri, un'aderenza perfetta di labbra schiuse in
semi di promesse, il gesto di saltare una
ringhiera lieve, la corsa prima di un abbraccio,
il coraggio di fermare la mia mano - in una
carezza - toccare un oggetto che non mi
rifletta moltiplicata sterile nel vuoto, il suono
crudo simile ad un no di quando il vento sbatte
a chiudere una porta e s'impiglia tra le costole,
sporcarmi le ginocchia di sangue ed erba,
scrivermi addosso geografie di lingue nuove
sul foglio tenero dei polsi, la bocca umida di
nebbia, non vedere sentire solamente il cielo
spiovere, il gusto dolce della resa sulle ciglia
mentre si annega nell'odore a zucchero filato
che sa la pelle screpolata di preghiere
[quando l'amore si ama amando e smette
d'essere un esercizio d'infinite attese e
disciplina].
Dall’ombra un frustar di luce. I miei occhi
sedotti - in verticale - incontrano un cielo fatto
a pezzi, ordinato nella sua perfetta azzurra
freddezza.
Bagliori al lato mi raccontano. È questo ciò
che mi spetta? Io, che pensavo tutto fosse
possibile e le carezze poi erano smorfie sul
viso contratto - suture geometriche lungo il
perimetro tenero dell’alba - . È questo a d e s
s o, il mio cuore incollato al vetro che osserva
per intero ciò che non avrà, che non avremo.
La sequenza ripetuta - perfetta azzurra
freddezza di un cielo a schegge di solitudini e
resa.
[Me]
Cavalco il celeste terso
di una parola
- la tua - smarrita
tra un girotondo di voci,
una rincorsa
che ora mi inciampo:
è vuoto dietro il morbido
acceso di una curva
silenzio e (s)profondo
pensare che d'estate
c'era acqua fresca
in cui cullare le mani,
lavarle dai tuoi addii ripetuti,
annegare ad occhi aperti
il rintocco in(e)sistente
del tuo noi
una marcia funebre
che cammino ancora
da sola.
Voglio un altrove che sia qui,
voglio esserci nel verde che mi spia
dietro vetri pellicole distanze
che si incollano alla cornea,
voglio essere l’alba che mi accolga
un giorno dopo l’altro dopo ogni attesa,
voglio una parete di pelle tiepida
che mi sia confine appena
e mi precipiti lontano da me
che sto qui a metà - altrove con le labbra affittate spoglie
che sono casa, ma non la mia.
Sulla sponda fissa del viver quieto compari.
Arrivi dal luogo in cui la luce esita, dal lato
nascosto del cuore, dove una melma di tempo
e rancori hanno ispessito il filo che ti lega a
me.
Vorrei scioglierne i nodi, allentarne la stretta,
sentire che ti allontani come l'acuto di una
sirena, oltre gli argini friabili del non detto - e
io restare, libero, muto di attesa -.
(Se ti seguo una volta ancora, è per sempre
perderti. Lo giuro).
[Me]
Per sempre fosse il tempo dei suoni ovattati di
acque verdognole, dell'abbandonarsi in quiete
di corpi, in liquidi umori appena increspati
nella bolla d'un respiro denso di noi - una
spirale di fiato sfilacciandosi lenta in tepore,
per incendiarsi di nuovo -.
E invece.
Lasciami andare, insieme al soffio di ruggine
con cui pronunci ora il mio nome, non c'è più
parola possibile che non si tenda fra noi come
un filo di ferro a ferirci, un confine, una
frontiera di luce da cui siamo esclusi, stranieri
soli, ognuno sepolto nella sua ombra, col volto
bucato d'assenza e il ghigno feroce del rifiuto,
l'ennesimo.
(Il nostro arcobaleno non è che una tregua
d'indifferenza).
[Te]
Ha masticato il vento, oggi,
la perfezione del vento
una lisca invisibile che punge,
all’ora stesa allungata
sulla cresta pallida dei pioppi,
all’improvviso una lacrima, giù inghiotte
la perfezione del vento
dopotutto nelle mani non resta
niente della notte dei giorni
degli amori dei nomi propri detti -una litania
infinita- infinite volte al vento
la perfezione del vento
un solletico tenerissimo di voci
che gonfia i polmoni ed esplode una risata
ad un passo (incerto) del tramonto,
un sussurro di nuvole che - a se stessoracconta la filastrocca degli occhi
tesi ai quattro angoli del mondo
la perfezione del vento
soffia via ogni dubbio lievita dolce
il vento la leggerezza di un addio
[ché ad ogni orgasmo di luce
segue il pulviscolo denso del buio
e ancora luce e buio e]
un brivido netto alle spalle,
la perfezione del vento
un colpo di gelo, è il vuoto, che sazia.
Se per tutte la volte che ti ho detto ti voglio
t’avessi davvero sfiorato, il tuo corpo ora
assomiglierebbe a quello levigato d’una
statua, all’involucro di marmo consumato che
si prega santo, inginocchiandosi, aspettando il
miracolo del sangue che pianga che si faccia
carne, amore vita morte condonata nel tepore
d’un abbraccio donandosi.
Attraversami
come suono puro una parola
quella - l'unica che non hai mai detto
segreta, fino all'origine
all'etimologia esatta
del mio esser(ti)
soglia di senso
crocevia di significati
il (tuo) centro
schiudimi
adagio di lacrime
l'occhio indaco
che pulsa nel ventre:
mi sei pulviscolo di cielo
in frammenti
che mi ferisci di luce
dentro
ti sento morendo(mi)
lenta ogni lettera
e mi perdo nell'alfabeto di passi
che mi (in)segni
così
ancora
più vicino
oltre me e te e noi
all'eterno.
Ricomincia il tarlo dell’assenza, a lavorarmi le
ossa di morsi.
Mi (as)sento (da) me stessa, quando l’assenza
segue il suo corso - per pause d’abbandono -.
Capiterà ancora, e il vuoto sarà quell’armadio
(boccaventre una fossa sulla linea dell’orizzonte
una cellula di aria contratta) che (s)chiudo di
continuo. Lo sapevo bene del tarlo (mi dico), ma a
lasciarlo vivere pensavo di vivermi - insieme - più
viva, e dopo che è adesso mi nascondo alla
conta, alla (mia) mano che tocca di legno che si
sgretola la lingua ottusa: un lenzuolo di lino, intima
la biancheria austera che mi stringe il petto, labbra
inamidate stirate tese in un segreto, un fazzoletto
candido, la mia carne fra il bianco vergine di tutto
il non-detto
[e il tarlo, il tarlo anche lo sapeva che c’era nido e
morte, specialmente].
C’era un corridoio d’attese e in cima (passo dopo
passo) una promessa, a cui sfuggendo hai voltato
le spalle per voltarti a fissare la luce di un cielo
qualsiasi [domestico].
Non si sa mai quando un nome ti abita (è c a s a).
Allo scricchiolio molesto della tua solitudine abitui
presto lo sguardo imbevuto di notte e opponi
all’odore di lavanda, che ti confonde le vene dei
polsi, l’apnea frigida della rinuncia (che indossi); intanto - l’intonaco dei forse si screpola, la parete
trasuda attonita l’essenza del nulla, pare che
l’alba sbadigli e poi si accenda un addio, che ti
sembra un arrivederci, una scusa - del tempo per (non) esserci (d)alla finestra che si affaccia del
giorno, la puntuale sottrazione dell’oggi
(l’ennesimo).
Se si precipita si vola e lo schianto è solo un
punto. Bisogna imparare ad andare a capo.
Domani arriva ed è un giorno col sole che mi
si impiglia nel sorriso e tu scioglilo con le tue
labbra, scioglimi alla luce, sciogli tutti i nodi bui
che fanno male quando mi parli…
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