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“non ti prometto la felicità quaggiù, ma in Cielo”

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“non ti prometto la felicità quaggiù, ma in Cielo”
Il Cammino dei Tre Sentieri
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Circolare – aprile 2013
“non ti prometto la felicità quaggiù, ma in
Cielo”
1. Tra i santi che la Chiesa ci invita a ricordare nel mese di aprile vi
è Bernadette Sobirous (1844-1879), la giovane veggente di
Lourdes.
Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Alla Bontà va amata, corrisponde il
Primo Sentiero: Preghiera e Vita di
Grazia.
Alla Verità va conosciuta, corrisponde
il Secondo Sentiero: L’apologetica per
dimostrare la verità del Cattolicesimo.
Alla Bellezza va gustata, corrisponde il
Terzo Sentiero: Conoscere ed
esprimere il fascino irresistibile della
verità cattolica, che, sola, può
appagare il cuore dell'uomo.
Il Raduno: prima però di
intraprendere un viaggio, bisogna
esser convinti dei motivi per cui si deve
partire. Ovvero: l’uomo non può
vivere senza un senso che gli faccia
capire di non essere gettato nel mondo,
ma frutto di un progetto di amore.
2. La Circolare di questo mese apre con una frase che è diventata famosa e che è legata alla vita di questa
Santa. Ci riferiamo ad alcune parole che l’Immacolata rivolse alla fanciulla del piccolo paese dei Pirenei:
“Non ti prometto la felicità quaggiù, ma in Cielo”.
3. La scelta di questa frase è dovuta a due motivi.
a. Prima di tutto è una sintesi mirabile della vera essenza del Cristianesimo e della Speranza cristiana.
b. Secondo: è una frase a cui Il cammino dei Tre Sentieri si è sempre ispirato, perché su di essa (che
come abbiamo detto esprime sinteticamente il cuore del Cristianesimo) si può offrire un annuncio
davvero persuasivo del Cristianesimo stesso.
4. Partiamo da “… non ti prometto la felicità quaggiù …”
5. Certamente l’uomo è fatto per la felicità. La invoca. Se è onesto con se stesso coglie la necessità di
essere felice, cioè di realizzare pienamente se stesso con soddisfazione.
6. Ciò perché l’uomo non vive solo nella dimensione dell’essere ma anche dell’esistenza. L’uomo non solo
vive ma sa di vivere. E proprio in questo “saper di vivere” che l’uomo si pone la questione del senso:
perché vivo? Perché son qui ora? … Perché devo soffrire? Perché devo morire?
7. Solo l’uomo sa gioire e sa intristirsi. L’animale – come essere senziente - può sperimentare il piacere, ma
solo l’uomo ricerca e può sperimentare la felicità. E quando l’uomo sperimenta una gioia, già si
preoccupa del perché dovrà perderla; e questa preoccupazione lo costringe inevitabilmente. Il celebre
scrittore russo Nikolaj Gogol (1809-1852), nel suo racconto Il naso, scrive delle cose molte vere: “Di
lunga durata non c’è nulla al mondo, e anche la gioia, nell’istante che tien dietro al primo, non è già più
tanto viva; al terzo istante diventa ancora più debole, e infine insensibilmente si fonde col nostro stato
d’animo abituale, come sull’acqua il cerchio prodotto dalla caduta d’un sasso si confonde infine con la
liscia superficie” L’animale, invece, quando sperimenta un piacere non si fa prendere da nessuna
preoccupazione di sorta. Gode e basta. Non è così per l’uomo, il quale, quando sperimenta una cosa
bella, porta in questa esperienza tutto se stesso e quindi anche la piena consapevolezza del proprio
esistere e del proprio morire.
8. Uno dei temi su cui Il Cammino dei Tre Sentieri insiste di più è la vocazione dell’uomo alla felicità.
L’uomo è fatto per la felicità.
9. Ci sono due citazioni di papa Francesco che la Circolare offre ai suoi amici e che possono essere
importanti in merito a ciò che stiamo dicendo.
1
a. La prima è ciò che il Papa ha detto ai giornalisti il 16 marzo scorso: Il vostro lavoro necessita di
studio, di sensibilità, di esperienza, come tante altre professioni, ma comporta una particolare
attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza, e questo ci rende particolarmente
vicini, perché la Chiesa esiste per comunicare la Verità, la Bontà e la Bellezza ‘in persona’.
Dovrebbe apparire chiaramente che siamo chiamati tutti non a comunicare noi stessi, ma questa
triade esistenziale che confermano verità, bontà e bellezza.” Dunque la verità cristiana non solo
soddisfa la mente, ma anche il cuore, cioè affascina l’uomo. E il fascino allegra lo spirito.
b. La seconda è ciò che il Papa ha detto nella Domenica delle Palme (24 marzo) ai giovani riuniti in
piazza San Pietro: “(…) questa è la prima parola che vorrei dirvi: gioia! Non siate mai uomini e
donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento!
La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una
Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei
momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che
sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo,
mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo
Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci
carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro
mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella
che ci dà Gesù.”
10. La grande questione sta però nel capire che la felicità non è realizzabile pienamente su questa terra …
come ha detto l’Immacolata a santa Bernadette.
11. Non è realizzabile in questa terra e non è realizzabile da questa terra, cioè come esito di questa terra.
Anche questi sono argomenti spesso utilizzati da Il Cammino dei Tre Sentieri.
12. Non è realizzabile in questa terra … La terra è la dimensione della fragilità e del dolore. L’unica felicità
possibile su questa terra non è alternativa alla sofferenza ma alla disperazione.
13. La Croce è ineliminabile dalla vita. Concepire una vita senza la Croce è un’illusione, è una pura fantasia,
è un’alienazione. Da qui l’astrattezza e la fallimentare inconsistenza di un Cristianesimo che voglia fare
a meno della Croce, come se se ne vergognasse.
14. Non è realizzabile da questa terra … La terra è il tesoro dell’inconsistenza. Non c’è nulla nella terra che
possa –da solo- sublimarsi nell’eterno.
15. Miguel Manara, protagonista dell’omonimo dramma dello scrittore di origine lituano Oscar Vladislas de
Lubicz Milosz (1877-1939), così dice prima della sua conversione: “Una bellezza nuova, un nuovo
dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova
vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla di
più”.
16. L’uomo aspira a raggiungere qualcosa che lo possa adeguatamente “saziare”, cioè qualcosa che vada a
soddisfare pienamente le sue attese, le sue aspirazioni, i suoi desideri. L’uomo, infatti, porta dentro di sé
una domanda che è infinitamente superiore a se stesso, in quanto è domanda di assoluto, cioè di infinito.
Facciamo questo esempio. Torniamo a casa ad ora di pranzo. Ovviamente siamo molto affamati, non
abbiamo avuto possibilità di sgranocchiare uno snack e inoltre la mattinata è stata alquanto faticosa. Ci
sediamo a tavola e ci aspettiamo un bel piatto di maccheroni con la “giusta curvatura”. Ma non è così.
Chi solitamente ci prepara il pranzo ci pone dinanzi un piatto con una misera foglia d’insalata … per
giunta scondita. E’ prevedibile che ci rimaniamo male. C’è qualcosa che non va. Patiamo una
sproporzione tra la grandezza della domanda (la fame) e la piccolezza della risposta (una misera e
scondita foglia d’insalata). Questo esempio è sul piano dell’alimentazione, ma possiamo utilizzarlo per
capire cosa capita all’uomo quando pretende soddisfare la sua vita con realtà finite. Anche in questo caso
2
si genera una sproporzione. Anzi, si genera una sproporzione molto maggiore: tra la domanda d’infinito
e la piccola, misera risposta che offre il finito e il limitato.
17. Miguel Manara era un “don Giovanni”, un signorotto che credeva di trovare soddisfazione nella sua vita
conquistando quante più donne. Ogni qual volta riusciva in questo intento, si accorgeva che la donna
conquistata non era capace di colmargli il cuore … e allora aveva bisogno di guardare altrove e cercarsi
una nuova donna da conquistare. Fin quando non conquistava, Manara poteva illudersi di aver trovato
davvero l’amore della sua vita, ma poi, una volta avuto successo, si accorgeva che quella “conquista”
non rispondeva pienamente alle sue attese. Non diverso dalla poetica di Leopardi che è “poetica
dell’attesa”. Anche il poeta recanatese afferma la stessa cosa: fin quando l’uomo non raggiunge ciò che
si prefigge di raggiungere, può illudersi che ciò che desidera riuscirà a soddisfarlo … ma poi, una volta
riuscito nell’intento, ecco la delusione! Nessuna aspirazione umana e terrena può colmare adeguatamente
il suo desiderio. Poesie come Il sabato del villaggio e L’infinito dicono proprio questo. La prima fa
capire quanto solo l’attesa possa illudere in un possibile raggiungimento della felicità; la seconda che
solo l’infinito può colmare questo desiderio.
18. Ma torniamo alla citazione dal Miguel Manara. Milosz fa dire al suo personaggio: Voglio una
bellezza nuova. E poi: Solo questo mi serve. Di ciò ho veramente bisogno … perché ciò veramente mi
può saziare. Con l’espressione “bellezza nuova” lo scrittore di origini lituane vuol dire che non basta una
semplice bellezza per soddisfare l’uomo, cioè non basta ciò che eventualmente si può sperimentare nella
vita di tutti giorni. Occorre qualcosa che vada veramente oltre. Qualcosa che sia il fondamento della vita
ma non sia nella vita. Qualcosa che dia spiegazione al reale ma non sia da prendere nel reale di tutti i
giorni. Solo questo può far assaporare la vita. Miguel Manara, infatti, dice: “Una bellezza nuova, un
nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo …”
19. Veniamo adesso alla seconda parte della frase dell’Immacolata a santa Bernadette: “… ma in Cielo”
20. L’unica felicità possibile è solo in Dio, cioè vivendo in Dio. Cosa è il Cielo se non la conquista di Dio?
21. Già Aristotele (…) nell’Etica a Nicomaco scrive: “La felicità è qualcosa di divino ed è impossibile
all’uomo, perché l’essenza sua più profonda è l’intelletto, parte divina dell’essere umano. Se è vero che
per ogni essere la cosa più buona e più piacevole è quella che attua quel che è tipico della sua natura (e
nell’uomo è l’intelletto), è innegabile che per l’uomo, il sommo bene, la perfetta felicità consista nella
vita contemplativa.”
22. C’è un bell’aneddoto che sant’Alfonso Maria dè Liguori (1697-1787) narra nel suo L’uniformità alla
volontà di Dio. Si tratta di un aneddoto che sarebbe toccato a padre Giovanni Taulero, italianizzazione di
Johannes Tauler, il famoso mistico tedesco del XIV secolo: Si narra che il padre Taulero pregava
continuamente il Signore di mandargli un grande maestro di spiritualità che potesse insegnargli la via
della perfezione. Un giorno udì una voce che gli diceva di recarsi in una determinata chiesa perché lì
avrebbe incontrato chi desiderava. Padre Taulero si mise in cammino e arrivò a destinazione, ma,
meraviglia, invece di incontrare un dotto teologo, un professore di chissà quale università teologica,
incontrò un misero mendicante che chiedeva l’elemosina dinanzi alla porta della chiesa. Il povero, quasi
come se lo attendesse da tempo, lo salutò e gli disse: “Maestro, io non ricordo mai di aver avuto un
giorno cattivo.” Il Taulero allora gli augurò di avere una vita felice, ma il mendicante obiettò: “Ma io
non sono mai stato infelice. Io non ho mai avuto un giorno cattivo, perché quando ho fame, lodo Dio;
quando nevica o piove, lo benedico; se qualcuno mi disprezza, mi scaccia o se provo altra miseria, ne do
sempre gloria a Dio. Ho detto poi che non sono stato infelice, poiché sono abituato a volere tutto ciò che
vuole Dio, senza riserve; perciò tutto quello che mi capita di dolce o di amaro, lo ricevo dalla sua mano
con allegria, come il meglio per me, e questa è la mia felicità.”
23. Queste parole, dette così, possono lasciarci un po’ perplessi, nel senso che, se è vero che bisogna
conformarsi alla volontà di Dio, è pur vero che l’uomo non può fatalisticamente annullare la propria
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volontà. Qualcuno infatti potrebbe chiedersi: che differenza c’è tra queste parole e ciò che afferma la
spiritualità delle religioni orientali? Il Buddismo dice che l’uomo deve raggiungere il nirvana (che è il
nulla) attraverso l’anatta (la convinzione che il proprio io non esiste e che è solo un’illusione). Il
Taoismo, poi, dice che l’uomo deve assecondare i ritmi del Tao (ciò che accade) attraverso il principio
del wu-wei (la non-azione). E invece quello che dice il mendicante al padre Taulero è proprio l’opposto
di tutto questo. Chiariamo. Le religioni orientali dicono che bisogna assecondare ciò che accade, perché
tutto è positivo in quanto tutto è divino. Dal momento che anche l’uomo è divino, l’assecondamento
diventa l’uomo che trova la salvezza in se stesso, essendo il divino e l’uomo la stessa cosa. Il
cristianesimo, invece, è su un piano completamente diverso; esso dice che l’uomo raggiunge la sua
felicità non in se stesso ma incontrando Dio, che non è un’atmosfera indefinibile ma è persona!
24. Quando il mendicante afferma che la sua felicità è nell’accettare ciò che Dio vuole, non vuol dire che
questo assecondamento sia una sorta di “doverismo” (una cosa si deve fare e basta senza capirne il
perché) o una tecnica di mortificazione che l’uomo può attuare con le sue sole forze, no; ma dice
piuttosto che questo abbandono è per abbracciare Dio da cui proviene unicamente la vera felicità. E che
il mendicante indichi questo è testimoniato da come prosegue il racconto: “Il Taulero allora obiettò: “E
se Dio vi volesse dannato, voi che direste? Il mendicante rispose: “Se Dio volesse questo, con umiltà e
amore mi abbraccerei al mio Signore e lo terrei stretto così forte che, se Lui volesse precipitarmi
all’inferno, sarebbe costretto a venire con me, così allora mi sembrerebbe più dolce essere con lui
all’inferno che possedere senza di lui tutte le delizie del Cielo”.
25. Certamente paradossale…ma bellissimo! Il mendicante precisa che la felicità è nell’incontro con Dio,
che è altro da sé. Tanto questa felicità è in Dio, che l’inferno con Dio (anche se va detto che nell’inferno
c’è comunque la presenza di Dio, ma questa è un’altra questione) diventerebbe un paradiso e il paradiso,
senza Dio, un inferno. Nel nirvana invece non c’è Dio perché non c’è nulla, è un vuoto; e infatti Buddha
non lo descrive proprio per questo.
26. Continuiamo a leggere: “Padre Taulero allora chiese al mendicante: “Dove avete trovato Dio?” E il
povero: “L’ho trovato nel momento in cui mi sono scoperto re!” Il padre Taulero lo vedeva così misero
che non poté fare a meno di domandare con sarcasmo: “E dove sta mai il vostro regno?” Risposta: “Sta
nella mia anima dove tengo tutto ordinato. Le passioni obbediscono alla ragione e la ragione obbedisce
a Dio.”
27. Questa risposta è bella e soprattutto attuale. L’uomo che vuole essere veramente libero e padrone di sé
deve saper rispettare quella che è una gerarchia naturale nella sua interiorità, e cioè: alla base deve
relegare le passioni; a governare le passioni, la ragione; e a fare in modo che la ragione venga ubbidita, la
volontà.
28. Leggiamo la conclusione del racconto: “Il Taulero, allora, gli domandò che cosa l’aveva condotto a
tanta perfezione. Il mendicante rispose: “E’ stato il silenzio. Tacere con gli uomini per parlare con Dio;
è l’unione che ho tenuto con il mio Signore, in cui ho trovato e trovo la mia pace.”
29. E sant’Alfonso conclude: quel mendicante fu certamente, pur nella sua povertà, più ricco di tutti i
monarchi della terra, e nei suoi patimenti più felice di tutti i “gaudenti” con le loro delizie terrene. San
Pio da Pietrelcina (1887-1968) amava dire: Chi ha Dio, ha tutto.”
30. C’è una novella di Dino Focenti che s’intitola La vera felicità e che ha come protagonista san Longino, il
centurione che infilzò la lancia nel costato di Gesù in Croce e che si convertì perché investito dall’acqua
e dal sangue che fuoriuscì dalla Piaga. Leggiamo questo breve racconto:
I pugni li aveva ben chiusi. Temeva di perdere ciò che stringeva nervosamente tra le dita. I
pensieri si affastellavano nella mente. Il centurione gli ordinò di fare presto, ma lui sembrava
impietrito … con i pugni chiusi a stringere ciò che (non sapeva il perché) riteneva la cosa più
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importante. Si decise ad ubbidire, correva anche lui. La terra aveva tremato, e grosse nuvole in
cielo minacciavano un forte temporale. Il tuono si era fatto sentire. L’uomo correva stringendo i
pugni per non perdere ciò che era nelle sue mani …
*
… Erano passati diversi anni da quello che era capitato nella sua vita. L’uomo ancora
conservava ciò che aveva stretto tra le sue dita e che aveva gelosamente portato con sé. Era
riuscito chissà come a non perderlo. Riconosceva la sua vita in quella misera realtà. Si trattava
di terra … solo terra mista a qualcosa. L’uomo l’aveva riposta in una specie di piccola ampolla
che conservava nel tascone della tunica, e ogni tanto la guardava. Sembrava trovare in essa la
spiegazione di tutto: eppure era solo terra di uno strano colore. Un giorno - stava andando
verso nord – entrò in un piccolo borgo. Scorse sul volto degli abitanti un evidente velo di
tristezza. Cercò di capirne il motivo. Non riuscendoci, domandò ad un passante cosa stesse
accadendo. Ebbe come risposta il silenzio. Chiese ad un altro, niente da fare. Ad un altro
ancora, nulla. Ad un terzo … niente di niente. Tutti lo guardavano con volto triste, non sapevano
accennare nemmeno ad un sorriso. Nessuno che dicesse qualcosa. Il viandante fu preso da una
grande curiosità. Il fatto era alquanto strano. Pensò di essere capitato in un luogo di folli.
Eppure il borgo era bello. Un’evidente ricchezza traspariva dai palazzi. Le strade erano ben
curate. Tutto denotava un benessere fuori dal comune. Gli abitanti, quegli strani abitanti
silenziosi e tristi, vestivano di “porpora e di bisso” … vestivano, cioè, alla stessa maniera di
quel ricco di cui aveva sentito parlare dai suoi nuovi compagni. Un ricco che pensava solo a sé,
che credeva di trovare nella ricchezza e nel soddisfacimento del ventre la gioia dell’esistere;
quel ricco che pensava tanto a sé e che vedeva solo se stesso come risposta alla sua vita, che
non badava nemmeno a chi bussava alla sua porta chiedendo un tozzo di pane. Che forse anche
quegli strani abitanti stessero facendo l’errore di quel ricco? Forse perciò la loro evidente
tristezza. Il viandante decise di allontanarsi da quel luogo. Uscito dalle mura, estrasse dal
tascone la sua unica ricchezza: un’ampolla con un po’ di terriccio intriso di sangue. Un sangue
sgorgato quand’egli infilzò la sua lancia nel costato di quell’Uomo. Quel sangue aveva
cambiato la sua vita. Quel sangue lo aveva davvero reso ricco e felice.
31. Adesso poniamoci questo interrogativo: c’è la possibilità di ricevere un’anticipazione del Cielo su questa
terra?
32. La risposta è ovviamente affermativa a patto però che vengano vissute tre dimensioni:
a. La Vita di Grazia
b. La centralità della Croce
c. La prospettiva del pellegrinaggio
33. La Vita di Grazia: l’Infinito dimora nel finito. La Vita di Grazia è vivere la Vita di Dio. Scrive santa
Teresa d’Avila (1515-1582) ne Il Cammino di perfezione: “Immaginiamoci che, dentro di noi, ci sia un
palazzo di una ricchezza immensa, costruito con oro e pietre preziose, dunque degno del Padrone a cui
appartiene. Poi ditevi, sorelle mie, che la bellezza di tale edificio dipende anche da voi. Infatti, c'è forse
edificio più bello di un'anima pura e piena di virtù ? Quanto più le gemme sono grandi, tanto più
risplendono. Infine, pensate che in questo palazzo abita il grande Re che si è degnato di farsi nostro
Padre; siede su un trono preziosissimo, che è il vostro cuore... Forse riderete di me, e direte che questo è
evidente, e avrete ragione. Eppure questo per me è stato oscuro per un certo tempo. Avevo capito che
avevo un'anima, però la stima che meritava quest'anima, la dignità di colui che vi abitava, non lo avevo
capito. Le vanità della vita erano come una benda che mi mettevo sugli occhi. Se io avessi capito, come
oggi, quale grande Re abitava in quel piccolo palazzo della mia anima, non l'avrei lasciato da solo così
spesso; sarei rimasta di tanto in tanto accanto a lui, e avrei fatto il necessario affinché il palazzo fosse
meno sporco. Quanto è mirabile pensare che colui la cui grandezza potrebbe riempire mille mondi e
anche molto di più, si rinchiude così in una così piccola dimora.”
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34. La centralità della Croce. Papa Francesco ha detto nell’omelia della Messa con i cardinali nella Capella
Sistina il giorno dopo la sua elezione (14 marzo 2013): “… non si può confessare davvero Cristo
dimenticando la Croce. Questo è un altro elemento indispensabile per assaporare il Cielo già su questa
terra…
35. …ma è anche una grande questione della Chiesa attuale. Senza la Croce, il Cristianesimo non si capisce.
Non ha senso. Si è dimenticata la Croce perché questa richiama una verità che un certo cristianesimo
contemporaneo, conforme al mondo, non vuole accettare, e cioè che Dio è assoluta perfezione e, nella
sua assoluta perfezione, è Logos. Dio è infinita misericordia ma anche infinita giustizia. Dio non può
patire la contraddizione, per cui non possiamo dire che Egli è misericordioso e non-misericordioso o che
è giusto e non-giusto. Ma può avere l’apparente contrarietà, da qui l’inconfutabile verità che Dio è
infinitamente misericordioso ma anche infinitamente giusto … e che la giustizia di Dio va compensata.
La Croce questo vuol significare. La contraddizione sta nel fatto che chi vuol dimenticare la dimensione
della “sofferenza vicaria” –che è costitutiva del Cristianesimo- per evitare di parlare troppo della
giustizia e del rigore di Dio, non si accorge che, proprio dimenticando la Croce, il Dio cristiano diventa
paradossalmente “cattivo” … perché, se non c’è la Croce, come si fa a capire il perché Dio permetta che
muoia l’innocente e che il cattivo viva? Come si fa a capire il perché Dio permetta che soffra un bambino
e che il malvagio goda? Nulla avrebbe più senso. La Chiesa degli ultimi decenni non solo si è vergognata
di Cristo, si è vergognata anche della Croce.
36. La prospettiva del pellegrinaggio. Il beato Guerrico d’Igny (circa 1080-1157), abate cistercense, così
scrive nei suoi Discorsi per l’Avvento: “‘Preparate le vie del Signore’. Fratelli, anche se siete molto
avanzati in questa via, vi resta sempre da prepararla, affinché, dal punto al quale siete giunti, andiate
sempre avanti, sempre tesi verso ciò che è al di là. Così, ad ogni passo che fate, essendo preparata la
strada per la sua venuta, il Signore vi verrà incontro, sempre nuovo, sempre più grande.
37. Queste parole del beato Guerrico d’Igny dicono una cosa vera: secondo la verità cristiana la vita è un
cammino, è un pellegrinaggio. Ci sono due motivi fondamentali per capirlo:
a.L’esperienza del pellegrinaggio segna la priorità dell’essere e della verità.
b.L’esperienza del pellegrinaggio ricorda all’uomo che la sua vita è per assaporare lo spessore
del reale.
38. L’esperienza del pellegrinaggio ricorda all’uomo che la sua vita è per assaporare lo spessore del
reale. Quando si era ragazzi si soleva giocare al calcio per strada o sul qualche piazzale. Si prendeva il
famoso pallone arancione (con cui si sono divertite generazioni e generazioni) e si calciava e si correva.
Quando si era in pochi, per un po’ di tempo ci si cercava di divertirsi facendo a passaggi (come si soleva
dire), ma poi –immancabilmente- si avvertiva il bisogno di immaginare una porta, mettere qualcuno a
parare, e finalizzare il gioco. Ecco il punto: finalizzare il gioco. Era noioso passarsi il pallone senza tirare
… e segnare. Anche nel divertimento c’è bisogno di finalizzare. Quando si cammina senza saper dove
andare, il passo è lento: in un certo qual modo si ciondola. Quando invece si ha una meta prefissata da
raggiungere, allora sì che il passo è spedito e l’andatura sicura.
39. Lo stesso vale per la vita. La vita è un cammino, non un vagare. La vita è un cammino dove la mèta deve
essere sempre presente. Dove deve essere sempre attuale il Destino che si andrà ad incontrare. Ebbene, il
pellegrinaggio è l’esperienza dell’andare ad incontrare. E’ l’esperienza che ricorda all’uomo che la sua
vita non può ridursi ad un vagare, che il cammino non è un fine ma un mezzo per incontrare il
Fondamento del suo esistere e del suo proseguire. E’ un mezzo per incontrare definitivamente Dio.
40. L’esperienza del pellegrinaggio segna la priorità dell’essere e della verità. Il modo per cui intendere il
pellegrinaggio è inequivocabile. Il pellegrinaggio non è una ricerca della verità, ma l’incontro con la
Verità. Sono fuori luogo e improprie tutte quelle affermazioni secondo cui il pellegrinaggio si coniughi
con la ricerca. No. Il pellegrinaggio può essere contrassegnato da un’incertezza, che è quella di non
sapere se si raggiungerà la destinazione desiderata, ma non dall’incertezza riguardo all’esistenza della
mèta da raggiungere.
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41. L’esperienza del pellegrinaggio evita, quindi, tre errori che sono strutturali della nostra epoca:
• Il primo è l’errore secondo cui la verità sarebbe introvabile. Il pellegrinaggio è un andare verso la
méta, dove la méta c’è, è presente. Ancora non è raggiunta, ma è lì che attende. Si tratta, dunque, di
un’esperienza agli antipodi dello scetticismo e del nichilismo a cui inevitabilmente approda il
pensiero moderno. Il pellegrinaggio non è una ricerca dove non si sa se si troverà ciò che si vuole
ricercare, ma un viaggio verso una destinazione ben precisa.
• Il secondo è l’errore secondo cui la verità sarebbe costruibile dall’azione, dal cammino, dalla prassi.
Ed è questo l’errore tipico della modernità. La categoria filosofica della modernità, da non
confondere con la cosiddetta modernità cronologica, si distingue per aver anteposto sempre qualcosa
alla dimensione dell’essere, arrivando ad affermare che il vero non sarebbe un dato, ma un risultato
del pensiero o dell’azione. Insomma la verità non sarebbe da riconoscere, ma da inventare.
• Il terzo errore è quello secondo cui l’uomo può trovare risposta al mistero della sua vita solo
nell’esistere del presente. Anche questa convinzione è strutturale al pensiero contemporaneo.
L’esperienza del pellegrinaggio, invece, riconduce ad un’altra prospettiva: la risposta non sta nel “qui
ed ora”, bensì nel “dopo”. Il pellegrinaggio ricorda all’uomo che egli è fatto per l’eternità, e che se
non orienta la sua vita verso l’eterno non può capire nulla di se stesso. Il pellegrinaggio ricorda
all’uomo che per capire il presente deve andare oltre, che per capire la terra deva guardare il cielo,
che per capire il tempo deve indirizzarsi verso l’eternità. L’esperienza del pellegrinaggio è strutturata
e fondata sulla priorità dell’essere rispetto all’azione, sulla verità rispetto alla ricerca.
42. Insomma, la possibilità di vivere il Cielo già su questa terra sta nella compenetrazione; che è una delle
tante bellezze del Cristianesimo: la compenetrazione tra Cielo e terra. Il Cristianesimo non è solo Cielo
né solo terra, ma è la terra che trova significato nel Cielo e il Cielo che diventa compimento logico e
necessario della terra.
43. Anche in questo il vero modello è proprio l’Immacolata, cioè Colei che disse a santa Bernadette: “… non
ti prometto la felicità quaggiù, ma in Cielo.”
44. C’è un dipinto del Correggio (1489-1534) (pseudonimo di Antonio Allegri), esposto nel Museo
Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, che esprime un’immagine interessante. Il quadro è intitolato
Natività notturna e ovviamente descrive la Nascita di Gesù.
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45. La particolarità di questo dipinto è la luce che emana Gesù Bambino. Una luce abbagliante, folgorante,
quasi impossibile a fissarla tanto è intensa.
46. Ci sono diversi personaggi rappresentati, ma due colpiscono particolarmente.
a. Il primo personaggio è la Vergine che abbraccia il Bambino e gli sorride. La luce intensissima
illumina il volto dell’Immacolata ed Ella riesce facilmente a sopportare il bagliore.
b. Il secondo personaggio è, invece, una donna (forse una delle ancelle che aiutarono la Madonna) che
vorrebbe guardare il Bambino ma non riesce a resistere alla luce. Si nota quasi un movimento,
malgrado la ovvia fissità dell’immagine: una mano cerca di proteggere gli occhi senza impedire
totalmente la vista, solo per appannare la luce. Ma é un movimento non risolutivo. La donna vuole
guardare ma non riesce totalmente perché la luce abbagliante glielo impedisce. La Vergine no. La
Vergine non avverte nessun fastidio a farsi avvolgere da quel chiarore … che per Lei è solo luce
armoniosa e non bagliore accecante.
47. I due personaggi sono emblematici di due possibili posizioni. La Vergine non avverte fastidio per quella
luce intensissima perché è capace di cogliere la presenza del divino nella vita, perché vive di questa
Presenza. La donna, invece, è impreparata e pertanto non riesce a reggere a quella luce.
48. La Vergine è la natura consapevole di trovare la sua ragione solo nel soprannaturale; la donna è la natura
che pensava di poter essere ragione di se stessa e risulta impreparata all’irrompere del divino. La Vergine
è la terra che si apre al Cielo; la donna sconosciuta è la terra che pensava di non aver bisogno del Cielo,
che non lo attendeva, che non era abituata a pensare ad esso.
49. E’ come quando ci si sveglia la mattina. Se si pretende di fissare immediatamente la luce, non ci si riesce
perché gli occhi sono impreparati in quanto le pupille, ancora dilatate, non possono reggere il chiarore.
Bisogna attendere che il processo ottico abbia il suo corso perché gli occhi possano nuovamente
accogliere la luminosità.
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50. Il mondo che si preclude il soprannaturale è un mondo avvolto nelle tenebre, che, allorquando irrompe la
luce, è impreparato ad accoglierla. Il mondo che concepisce la compenetrazione tra naturale e
soprannaturale è invece un mondo che può contemplare la luce intensissima del divino.
51. Ma torniamo alla felicità. La felicità piena sarà nel Paradiso. Ma già ora –se si vive la compenetrazione
tra naturale e soprannaturale che è nei tre elementi indicati prima- si può gustare un anticipo di questa
felicità: che è la letizia, la gioia cristiana.
52. Da qui una sorta di “obbligo” per il Cristiano di testimoniare la gioia. Nella Vita di San Francesco, detta
Anonimo perugino (XIV secolo) si legge: Dall'inizio della sua conversione fino al giorno della sua
morte, il beato Francesco è sempre stato duro nei confronti del suo corpo. Eppure la sua prima e
massima preoccupazione è stata il possedere e conservare sempre all'interno e all'esterno la gioia
spirituale. Egli affermava che se il servo di Dio si sforza di possedere e di conservare la gioia spirituale
interiore e esteriore che procede dalla purezza del cuore, non potranno fargli alcun male i demoni,
costretti a riconoscere: «Poiché quel servo di Dio conserva la sua pace nella tribolazione quanto nella
prosperità, non possiamo trovare nessun accesso per nuocere alla sua anima». Un giorno, egli
rimproverò un suo compagno che aveva un'aria triste e il viso malinconico: «Perché manifestare così la
tristezza e il dolore che provi a causa dei tuoi peccati? Questo tocca Dio e te. Pregalo di renderti, per la
sua bontà, la gioia di essere salvato (Sal 50,14). Davanti a me e davanti agli altri, sforzati di mostrarti
sempre lieto, perché non conviene che un servo di Dio si faccia vedere con il viso triste e accigliato».
53. Veniamo ad una questione fondamentale: questa prospettiva, questo “cuore” del Cristianesimo
significato dalla frase dell’Immacolata a santa Bernadette: “… non ti prometto la felicità quaggiù, ma
nel Cielo” fino a che punto è oggi presente?
54. Papa Francesco nell’udienza di mercoledì scorso (3 aprile 2013) ha detto “a braccio” rivolgendosi ai
giovani: “(…) giovani, tenete forte la corda che vi tiene legati al Cielo.”
55. La risposta alla domanda del punto 53 non è per nulla confortante. La frase dell’Immacolata esprime un
modo di vedere l’esistenza umana che non è affatto protagonista né all’esterno né all’interno, cioè né
nella cultura dominante né tantomeno nella Chiesa … e ovviamente quando parliamo di Chiesa
intendiamo il sentire della maggioranza di coloro che si definiscono “cattolici”.
56. Il Cammino dei Tre Sentieri più volte è intervenuto su questo punto, ma è bene insistere. D’altronde è
soprattutto per questo che Il Cammino è nato. Bisogna resistere e perseverare.
57. Dobbiamo essere contemplativi in azione. Agire, ma fondando la nostra azione sulla preghiera, tenendo
lo sguardo fisso su Dio … e conservando la convinzione dell’integrità del Cristianesimo: Vita di Grazia,
centralità della Croce e dimensione del pellegrinaggio.
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