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L`ingiustizia del danno nelle relazioni familiari

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L`ingiustizia del danno nelle relazioni familiari
Contr.Impr. 2005
GIOVANNI FACCI
L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari
SOMMARIO: 1. L‘illecito endofamiliare. - 2. Segue: l’ingiustizia del danno e la crisi coniugale.
- 3. Lo sperpero dei beni in comunione de residuo. - 4. La vita indesiderata. - 5 . L‘ingiustizia del danno ed il diritto a procreare dei genitori.
1. - I1 presente intervento ha ad oggetto il rapporto tra danno ingiusto
e relazioni familiari; in modo particolare, l’indagine è diretta a sottolineare l’importanza svolta dalla clausola generale dell’ingiustizia del danno,
nell’ambito dei rapporti tra responsabilità civile e relazioni familiari. Tale
analisi deve prendere le mosse, inevitabilmente, dall’illecito endofamiliare; infatti, il recente intrecciarsi dei rapporti tra responsabilità extracontrattuale e violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non deriva soltanto dal cd. ((nuovo danno non patrimoniale)) (1) - che è la figura più
idonea per riparare le conseguenze negative derivanti dall’illecito endofamiliare - ma anche dalla mutata concezione di danno ingiusto, delineatasi a seguito della pronuncia della Cass., sez. un., n. 500 del 1999, con la
quale è stata respinta la tradizionale interpretazione dell’art. 2043, che
identificava il a danno ingiusto »,esclusivamente, con la lesione di un diritto soggettivo; con tale pronuncia, si sottolinea come l’area della risarcibilità non sia definita da norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito, in quanto fatto lesivo di situazioni determinate, ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì sia caratterizzata dalla (( clausola generale », espressa dalla formula a danno ingiusto ». Siffatta clausola generale, nell’ambito dei rapporti tra coniugi e
l’illecito civile, svolge un ruolo di primo piano; infatti, dovendosi esclude(]) Su questo punto, sia consentito il rinvio a FACCI, Z nuovi danni nella famiglia che
cambia, in Nuovipercorsi di diritto di famiglia, collana diretta da Sesta, Milano, 2004, n. 5. In
giurisprudenza, di recente si segnala Cass., 10 maggio 2005, n. 9801, inedita, la quale - nel
rilevare che la violazione dei doveri coniugali può configurare un danno ingiusto - mette in
evidenza come la problematica in esame debba essere collocata nel contesto più generale
della lesione di valori di rango costituzionale, suscettibili di riparazione ex art. 2059 c.c., alla luce del nuovo assetto del danno alla persona, delineatosi a seguito delle pronunce della
S.C. del 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828, in Danno e resp., 2003, p. 816, con note di BUSNELLI, Chiaroscuri d’estate. La corte di cassazione e il danno alla persona; di PONZANELLI,
Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della corte di cassazione; di PROCIDA
MIRABELLI DI LAURO, L‘art. 2059 va in paradiso.
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re ogni sorta di automatismo tra la violazione dei doveri coniugali e la responsabilità civile, il vero problema che deve essere accertato consiste nel
valutare quando la violazione dei doveri che nascono dal matrimonio
possa dare luogo, oltre che ai rimedi previsti dal diritto di famiglia, ad un
danno ingiusto che giustifichi il risarcimento del danno extracontrattuale.
L‘automatismo tra violazione dei doveri coniugali e risarcimento del
danno deve essere negata sulla base della considerazione che, soprattutto
con riferimento ai doveri coniugali di carattere personale, si assiste ad un
processo di tendenziale <(degiuridificazione D (2). Tale processo si manifesta in modo chiaro con il progressivo deperimento delle conseguenze
giuridiche, per il caso di inosservanza dei doveri matrimoniali di carattere personale (3). La violazione di siffatti doveri, infatti, non può costituire
materia di pretese coercibili, poiché al soggetto attivo del rapporto non è
accordata alcuna azione per l’adempimento (4); il rapporto matrimoniale,
inoltre, non è esecuzione dell’atto di matrimonio, allo stesso modo in
cui il rapporto contrattuale è esecuzione del contratto: I’inadempimento
dei doveri matrimoniali non è assimilabile all’inadempimento del contratto ( 5 ) . Di conseguenza, con riguardo al profilo risarcitorio, non è possibile stabilire un parallelo tra rapporto matrimoniale e rapporto contrattuale. I doveri coniugali, specialmente, quelli di carattere personale, si
distinguono dalle obbligazioni contrattuali, non solo per il carattere non
patrimoniale delle prestazioni, ma soprattutto per la particolare natura
dei comportamenti dovuti e per la loro immediata e diretta incidenza
sulla persona ( 6 ) . Per questo motivo, a differenza del contratto il quale
tutela la pretesa all’adempimento della prestazione, nel vincolo matrimoniale la pretesa all’adempimento di un dovere coniugale, soprattutto se si
tratta di un dovere di natura personale è priva di un’azione di esecuzione
in forma specifica (’). Si consideri, inoltre, che non sussiste un automatismo tra violazione dei doveri coniugali ed addebito della separazione: ai
fini dell’addebito non bastano episodiche violazioni di questo o quel dovere, poiché il giudice non può limitarsi a considerare le stesse nella loro
esteriorità, ma deve sempre accertare in quale contesto siano maturate.
L‘addebito della separazione, quindi, rappresenta l’eccezione che si giustifica con gravi e continue violazioni degli obblighi nascenti dal matrimonio (8). I1 comportamento di un coniuge in violazione dei doveri matrimoniali, infatti, può provocare l’addebito della separazione, soltanto se
ha determinato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, oppure il grave pregiudizio all’educazione della prole.
Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che la chiave di lettura della fattispecie qui considerata è rappresentata, pertanto, dall’ingiustizia del danno; in tal modo, anche nell’ambito dei rapporti di famiglia, si
dovrà procedere ad applicare l’art. 2043, se si accerta che la condotta di un
coniuge ha cagionato un <(danno ingiusto », nell’ambito della sfera di interessi dell’altro (9,
in quanto la tutela del danneggiato non può subire limitazioni, derivanti dal fatto che il danno sia stato cagionato dal coniuge;
non vi sono motivi, infatti, per ritenere che lo status di coniuge possa
comportare una riduzione ed una limitazione alla tutela della persona (lo).
L‘indagine diretta a verificare la sussistenza o meno dell’ingiustizia del
danno deve essere condotta, tenendo in considerazione che il ((danno ingiusto)) è una clausola generale, attraverso la quale viene effettuata una
selezione degli interessi giuridicamente rilevanti. Proprio per questo fine,
( 2 ) In questo senso ROPPO, Coniugi. I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in
Enc. giur. Treccani,VIII, Roma, 1988, p. 2; D E CICCO,I diritti ed i doveri che nascono dal matrimonio, in La famiglia, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Torino,
2000, p. 358.
(3) ROPPO, Coniugi. I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in Enc. giur. Treccani,
VIII, Roma, 1988, p. 2, il quale sottolinea che il processo di degiuridificazione risulta evidente anche dal testo del progetto unificato di riforma, in cui fedeltà, assistenza, collaborazione e coabitazione erano definiti non già come (( obblighi », bensì come semplici (( impegni H dei coniugi.
Si può vedere anche JEMOLO, Sul diritto di famiglia bensieri di un malpensante), in Studi in onore di Scaduto, I, Padova, 1970, p. 561, il quale rileva come l’intervento dello Stato sia
necessario nel caso della violazione dei doveri economici, mentre per la violazione dei doveri di assistenza morale e di fedeltà deve intervenire l’opinione pubblica oppure la religione per i credenti.
(4) Sottolinea tale aspetto R ESCIGNO , voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., vol.
XXIX, Milano, 1979, p. 138.
( 5 ) Per tutti, G ALGANO , Diritto civile e commerciale, IV, Padova, 2004, p. 23, il quale sottolinea come il rapporto giuridico che il contratto, costituisce, regola o estingue ha natura
patrimoniale, al contrario il requisito della patrimonialità è assente nel matrimonio.
(6) M o ~ o z z o
DELLA ROCCA, Violazionedei doveri coniugali: immunità o responsabilità?,
in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 624, il quale sottolinea come le situazioni soggettive dei coniugi non siano riconducibili a figure di pseudo obbligazioni.
(7) LATTANZI,
Dovere di fedeltà e responsabilità civile e coniugale in Giur. merito, 1991, p.
162; PINO, Il diritto difamiglia, Padova, 1998, p. 14.
(8) MONTECCHIARI, La separazione con addebito, in La famiglia, a cura di Cendon, Torino, 2000, p. 84; GRASSI, Separazione personale dei coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1915, p. 58. In senso diverso, ì?FINOCCHIARO, Del matrimonio, in Comm. C.C. scialojaBranca, a cura di Galgano, art. 151, Bologna-Roma, 1993, p. 365; FERRANDO, Crisi coniugale
e responsabilità civile, cit., p, 51.
(9) Sottolinea tale aspetto CENDON,
SEBASTIO, Lei, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, in Resp. civ., 2002, p. 1279.
(‘O) Rileva tale aspetto PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, p. 32.
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l’interprete deve effettuare un giudizio di comparazione (11) tra gli interessi in conflitto, ossia, tra l’interesse che la condotta del coniuge che ha violato i doveri nascenti dal matrimonio intendeva perseguire e l’interesse
del coniuge danneggiato al risarcimento del danno. Lo scopo è quello di
verificare se il sacrificio dell’interesse del coniuge danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza.
di porre fine al rapporto coniugale. La separazione personale, infatti, rappresenta un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della
persona, vale a dire un bene di altissima rilevanza costituzionale (14). Inoltre, la legittimazione a far valere tale diritto spetta anche al coniuge colpevole, perché i fatti adotti possono essere anche i comportamenti dell’attore stesso, che sono alla fonte della rottura e che possono consistere nella
violazione dei doveri derivanti dal matrimonio ( 5 ) . Si tenga, altresì, in
considerazione che con la riforma del diritto di famiglia, vi è stato uno
smantellamento dell’apparato sanzionatorio, basato sulla separazione per
colpa, con tutte le conseguenze legali che si connettevano a carico del coniuge colpevole (16).
Nella fattispecie qui considerata, invece, un danno ingiusto potrà
aversi, nel caso in cui risulti che la condotta trasgressiva di un coniuge,
posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più doveri coniugali,
ha determinato la lesione di interessi meritevoli di tutela dell’altro, come, la salute fisica e psichica, l’integrità morale, la dignità, l’onore, la reputazione. Così, ad esempio, la semplice violazione del dovere di fedeltà
2. - Nell’illecito endofamiliare, l’ingiustizia del danno non può essere
rawisata nella (( crisi coniugale D, in sé e per sé considerata, nella separazione o nel divorzio, poiché ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia (E). Di conseguenza, nel giudizio di bilanciamento tra i contrapposti
interessi dei coniugi, l’ingiustizia del danno non può essere rawisata nel
fatto stesso della rottura del vincolo coniugale, la quale non è un danno
risarcibile nel nostro ordinamento (u), perché ciascun coniuge ha diritto
(1’) Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in questa rivista, 1999, con commento di
FRAN ZONI, La lesione dell’interesse legittimo e, dunque, risarcibile.
(12) Trib. Milano, 4 giugno 2002, cit.; Trib. Civitavecchia, 24 novembre 1982, in Temi
rom., 1985, p. 167; sul punto anche Cass., 6 aprile 1993, n. 4108, in Mass. Giust. civ., 1993, p.
624; in dottrina, BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della
responsabilità civile?, cit., p. 208.
(u) PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, p. 76, il quale sottolinea come
sia ambigua l’espressione, talvolta riscontrabile in dottrina, ((danno derivante da divorzio )>.
Sul punto anche G RANELLI, Sulla variabilità dellassegno al coniuge divorziato, in Riv. dir.
civ., 1976, I, p. 136, nota 12, il quale rileva come sia imprecisato il pregiudizio al quale, in
concreto, si vuole fare riferimento. Sottolineano come non possa essere risarcito il danno
per il fatto, in sé e per sé, della separazione o divorzio anche C ENDON, SEBASTIO,
Lei, lui e il
danno. La responsabilità civile tra coniugi, in Resp. civ., 2002, p. 1307, i quali rilevano come
l’unica eccezione, anche se non facile da immaginare, potrebbe essere quella di un breakdown, effettuato con modalità crudeli e inopinate, all’esclusivo fine di infierire sull’altro coniuge. In giurisprudenza, Trib. Roma, 15 giugno 1972, in Dir. fam., 1973, p. 440, con nota di
POGGI, Sulla determinazione dellassegno in sede di divorzio e sulla risarcibilità dei danni non
patrimoniali.
Nel sistema francese, invece, l’art. 266, comma lo, c.c., prevede che il coniuge al quale
non sia imputabile alcuna colpa per il divorzio possa ottenere il risarcimento del pregiudizio materiale e morale subito in seguito alla dissoluzione del matrimonio; mentre, il pregiudizio materiale è fatto solitamente rientrare nella prestation compensatoriere, il pregiudizio morale è diretto a riparare, in modo particolare, la sofferenza subita dallo sposo non in
colpa, cagionato dalla rottura del legame matrimoniale e le eventuali conseguenze negative, derivanti dallo status di divorziato (TORINO, Il risarcimento del danno in famiglia: projìli
comparatistici, in Tratt. resp. civ. epen. in fam., a cura di Cendon, IV,Padova, 2004, p. 2961).
In ogni caso, la previsione dell’art. 266 code civ., tesa a risarcire il danno derivante dalla rot-
tura del vincolo matrimoniale rappresenta la volontà del legislatore, non di limitare l’operatività dell’art. 1382 code civ. (norma generale francese in tema di responsabilità), ma
piuttosto di coprire con le norme speciali un’area, rispetto alla quale I’operatività dell’art.
D ELLA ROCCA, Kola1382 code civ., poteva apparire dubbia (in questo senso, MOROZZO
zione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità?, cit., p. 611). L‘art. 266 c.c., inoltre,
non rappresenta un’ostacolo all’applicazione dell’art. 1382 C.C. anche se si giunge al divorce
aux torts exclusif; in modo particolare, l’art. 266 C.C. si applica ai danni causati propriamente dal divorzio, mentre l’art. 1382 C.C. ai danni derivanti non direttamente dal divorzio, ma per ottenere il risarcimento dei pregiudizi derivanti da fatti o atti precedenti il divorzio cagionati dalla violazione dei diritti coniugali. In ogni caso, l’art. 1382 c.c., diversamente dall’art. 266 C.C. invocabile soltanto nel caso di divorzio aux torts exclusif, può essere applicato in tutti i tipi di divorzio, eccetto quelli avvenuti per mutuo consenso, sia
per i danni derivanti dal divorzio in sé (indipendentemente dalla qualità di ((sposo in colpa» o ((sposo innocente))), sia per i danni non legati al divorzio, ma derivanti dalla violazione di doveri coniugali (TORINO, Il risarcimento del danno in famiglia: projìli comparatistici, cit., p. 2691 ss.).
(14) Cass., 6 aprile 1993, n. 4108, cit.
ZATTI, I diritti e doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in
Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 202; MOROZZO
D ELLA ROCCA, voce Separazione personale (dir. priv.), in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 1383.
(16) ROPPO,Coniugi. I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in Enc. giur. Treccani, WII, Roma, 1988, p. 2. Al riguardo, CARRARO, Il nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ.,
1975, I, p. 105, sottolinea come il vecchio sistema giuridico fondasse la stabilità della famiglia sul diritto, mentre il nuovo sembra riporre minor fiducia nella disciplina imposta dal legislatore e fa invece affidamento sulla stabilità dei sentimenti e degli interessi che legano i
coniugi.
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non può configurare gli estremi del danno ingiusto ( g ) , così come la crisi
coniugale non è in grado, in sé e per sé, di integrare gli estremi dell’ingiustizia del danno. Nel giudizio di comparazione che deve essere effettuato al fine di valutare l’esistenza della clausola generale del danno ingiusto, infatti, il dovere di fedeltà viene inevitabilmente a scontrarsi con
il diritto del coniuge ad autodeterminarsi, ad avere rapporti interpersonali, a porre fine ad essi, eventualmente, anche in vista della formazione di
un nuovo nucleo famigliare. Tuttavia, in alcuni casi, la giurisprudenza ai
fini della pronuncia di addebito assegna un particolare risalto non al fatto
in sé della relazione, bensì agli aspetti esteriori con cui è coltivata, rispetto all’ambiente in cui i coniugi vivono, i quali, così facendo, danno luogo
a plausibili sospetti di infedeltà ed offendono la dignità e l’onore dell’altro coniuge (18). In casi di questo genere, in cui è stato leso l’onore e la
reputazione di un coniuge, l’art. 2043 può, indubbiamente, trovare applicazione, con la conseguenza che vi è l’obbligo di risarcire il danno; l’ingiustizia del danno deve essere rawisata, però, nella violazione dell’onore del coniuge, e non invece nella violazione del dovere di fedeltà oppure nella rottura del vincolo coniugale. La violazione del dovere di fedeltà, infatti, costituisce soltanto il mezzo attraverso il quale è stata effettuata la lesione di un interesse (onore e reputazione), meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. Si può anche ipotizzare il caso in
cui una relazione extraconiugale provochi nel coniuge ((tradito», sopratutto se si tratta di persona predisposta, una vera e propria lesione della
salute psichica. Anche in questo caso, l’indagine sull’ingiustizia del danno deve essere condotta attraverso una c comparazione », tra gli interessi
in conflitto, con la conseguenza che la relazione extraconiugale in sé e
per sé non può, nemmeno in questo caso, essere considerata come produttiva di un danno ingiusto. La lesione della salute del coniuge tradito,
tuttavia, può configurare un danno ingiusto, nel caso in cui la relazione
sia stata condotta in modo tale che il coniuge infedele abbia fatto mancare ogni tipo di assistenza, anche sanitaria, al coniuge che si stava amma-
lando. È necessario, così, un comportamento particolarmente grave del
coniuge, il quale, di fronte alla serietà delle condizioni di salute dell’altro, si sia disinteressato completamente dello stesso, lasciandolo vivere
in condizioni di abbandono e di degrado, in modo tale che la malattia, a
causa del mancato intervento terapeutico, si sia aggravata in modo permanente. In questo caso, la compromissione del bene salute rappresenta, indubbiamente, un danno ingiusto, provocato non dalla violazione
del dovere di fedeltà, bensì dalla violazione dell’obbligo di assistenza
morale e materiale derivante dal matrimonio (19).
( n ) In questo senso anche Trib. Milano, 24 settembre 2002, in Resp. civ. eprev., 2003, p.
465, con nota di FACCI, L‘infedeltà coniugale e l’ingiustizia del danno.
(18) Cass., 13 luglio 1998, n. 6834, in Mass. Giust. civ., 1998, p. 1518; Cass., 14 aprile 1994,
n. 3511, in Fam. e dir., 1994, p. 527, con nota di SERVETTI; Cass., 4 ottobre 1982, n. 5080, in
Mass. Giust. civ., 1982, fasc. 9, secondo la quale a l’ingiuria grave, che rende addebitabile la
separazione personale ai sensi dell’art. 151 c.c., è rawisabile nella relazione di un coniuge
con estranei quando - in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata, dell’ambiente nel quale i coniugi vivono e dei pettegolezzi già suscitati - dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non concreti gli estremi dell’adulterio, comporti certamente offesa alla dignità ed all’onere dell’altro coniuge ».
3. - L‘ingiustizia del danno è la chiave di lettura per accertare se sussista una responsabilità del coniuge anche in casi particolari di illecito endofamiliare, come ad esempio nell’ipotesi di sperpero dei beni rientranti
in comunione de residuo. È particolarmente dibattuto, infatti, se sussista
un dovere di buona amministrazione in capo al coniuge titolare dei beni
che possono rientrare nella comunione de residuo (se ed in quanto esistenti al momento dello scioglimento) e se sia ipotizzabile una responsabilità dello stesso in caso di comportamenti contrari alla solidarietà familiare, come, ad esempio, il consumo in mala fede dei propri redditi. Un
orientamento (fino ad alcuni anni or sono ritenuto dominante (20), esclude che, prima dello scioglimento della comunione legale, un coniuge abbia azione per la tutela delle proprie aspettative sulla comunione de residuo (21); tale tesi prende le mosse dalla constatazione che la comunione
(19) Sul risarcimento del danno alla salute del coniuge, a causa della violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale, Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001,
p. 741; nel caso di specie, si è accertato che la donna sofferente sin dai primi anni di matrimonio di una patologia psichica si era via via isolata dai mondo esterno e dalla vita coniugale, chiudendosi nel salotto di casa e restandovi per quattro anni in totale stato di degrado
fisico ed incuria, nel totale disinteresse del consorte che, solo per motivi di utilità pratica
che imponevano il rilascio dell’abitazione, attivò il servizio pubblico per il trattamento sanitario obbligatorio; il marito, infine, dopo le dimissioni della moglie dall’ospedale, presso
il quale era stata ricoverata per più di quaranta giorni, nel COSO dei quali si recò a visitarla
solo un paio di volte, non manifestò la minima disponibilità a riaccoglierla presso la nuova
abitazione, così come era stato indicato, a fini terapeutici, dai sanitari.
(20) Sottolinea come tale orientamento sia dominante, anche se non condivisibile, SCHLESINGER, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, 111, Padova, 1992, p. 116.
( 2 ’ ) A. FINOCCHIARO, M. F INOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 932; R U S SO, L‘ogqetto della comunione legale e i beni personali (artt. 177-179), in Comm. C.C.Schlesinger, Milano, 1999, p. 62; D E MARCHI, Natura e oggetto della comunione legale, in Il nuovo diritto di famiglia (contributi notarili), Milano, 1975, p. 543.
In questo senso in giurisprudenza, Trib. Trani, 12 maggio 1997, in Dir.fam., 1998, p. 1472.
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sorge sui beni indicati dagli artt. 177, lett. 6) e c), e 178 C.C. soltanto se ed in
quanto essi non siano stati ancora consumati, ovvero sussistano ancora al
momento dello scioglimento della comunione (22). In questo modo, il coniuge titolare ha una possibilità illimitata di consumare i propri redditi,
senza condizionamenti o vincoli di destinazione: la situazione soggettiva
del titolare rispetto a questi beni è piena ed esclusiva, senza che sia configurabile alcuna ragione giuridicamente rilevante dell’altro coniuge (23).
Quest’ultimo, infatti, ha una a aspettativa )) di mero fatto rispetto al residuo non consumato di frutti e proventi; tale aspettativa è simile a quella
dell’erede rispetto al contenuto della successione; anche l’erede, infatti,
prima dell’apertura della successione non ha alcuna azione con riguardo
ai beni che potenzialmente possono cadere in successione (24).
A conclusioni completamente opposte a quelle appena esaminate, è
giunta la Cassazione, la quale ha sostenuto che sono oggetto di comunione de residuo non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare
che sussistono ancora al momento dello scioglimento della comunione
ma anche quelli percepiti, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a
dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni
della famiglia o per investimenti già caduti in comunione (25). In questo
modo, pertanto, attraverso la formulazione di una nozione ristretta di
H consumo », si attribuisce rilievo a comportamenti del coniuge non solo
palesemente contrari alla solidarietà familiare (come la disposizione in
frode alla comunione e lo sperpero dei redditi o la mancata percezione
dei frutti (26), ma anche a qualsiasi consumo per causa ignota, non giustificabile o, comunque, estraneo ai bisogni della famiglia (27). Seguendo tale ricostruzione, inoltre, al coniuge debole (in genere la donna) spetta
provare che, ad una certa data, il congiunto aveva percepito determinati
redditi, mentre spetta a quest’ultimo dimostrare come e quando quei
proventi sono stati spesi (28). Alla luce di queste considerazioni, rientrano nella cd. comunione de residuo tutti i redditi percepiti e percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a dare la prova che
sono stati consumati per il soddisfacimento di bisogni della famiglia o
per investimenti già caduti in comunione (29). I1 risultato a cui si giunge
seguendo l’impostazione sopra riportata, tuttavia, pare porsi in contrasto
con il dettato legislativo. Tale conclusione, infatti, anche se appare
conforme alla natura stessa della vita coniugale, intesa come una comunione spirituale e materiale dei coniugi (39, e coerente con la rutio della
comunione legale, consistente nell’attribuire ad entrambi i coniugi ogni
aumento di ricchezza realizzatosi durante la convivenza coniugale (con
eccezione degli acquisti a titolo gratuito) ( 3 9 , è difficilmente conciliabile
( 2 2 ) Con riguardo a tali beni (non ancora individuati e dei quali non è certa la loro venuta ad esistenza), il legislatore non ha previsto che il coniuge non titolare possa vantare
un potere di disposizione o di amministrazione oppure un diritto al rendiconto; ai beni in
comunione de residuo, infatti, non si applica la disciplina dell’amministrazione dei beni
della comunione, di cui all’art. 180 c.c., in quanto l’amministrazione è affidata al solo coniuge proprietario, ai sensi dell’art. 217 c.c., il quale non ha obbligo di rendiconto e può
disporre degli stessi in via autonoma ed incondizionata. In questo modo, pertanto, a causa della mancanza di norme espresse che attribuiscano al coniuge non titolare dei beni
della comunione de residuo, un potere di controllo sulla sorte degli stessi, o che imprimano un vincolo di destinazione a tali beni, si ritiene infondata la domanda diretta ad accertare, prima dei sorgere stesso della comunione de residuo, la violazione da parte dell’altro
coniuge degli obblighi nascenti dalla comunione legale e la conseguente domanda di risarcimento dei danni (Trib. Trani, 12 maggio 1997, cit.). Secondo questa ricostruzione, ci
troviamo di fronte a beni che devono considerarsi personali di ciascuno dei coniugi, fino
al momento dello scioglimento della comunione, momento nel quale ciò che residua di
tali beni personali dovrà essere diviso a metà, secondo le regole previste per la divisione
dei beni comuni (Sintetizza così tale orientamento, BUSNELLI, Linee di tendenza della dottrina nei primi due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam.,
1979, p. 413).
(23) Russo, Loggetto della comunione legale e i beni personali (artt. 177-179), cit., p. 62.
(24) Russo, cit. alla nota prec.
(25) Cass., 17 novembre 2000, n. 14897, in Gius, 2001, p. 582; Cass., 10 ottobre 1996, n.
8865, in Vita not., 1996, p. 1200, in Corriere giur., 1997, p. 36, con nota di BARBIERA, Oggetto
della comunione de residuo ed onere della prova; in Fam. e dir., 1996, p. 515, con nota di
Comunione de residuo e onere della prova circa la sussistenza o meno di redditi di un coniuge non consumati.
( 2 6 ) In questo senso, SESTA, Diritto di famiglia, Padova, 2005, p. 159.
(27) S C n l x m K ì E R , Comunione de residuo e onere della prova circa la sussistenza o meno
di redditi di un coniuge non consumati, in Fa,. e dir., 1996, p. 515.
( 2 8 ) SCHLESINGER,
Comunione de residuo e onere della prova circa la sussistenza o meno
di redditi di un coniuge non consumati, cit., p. 511.
(29) In senso critico verso una ricostruzione di tal genere, FINOCCHIARO,
Diritto di famiglia, cit., I, p. 934, i quali sottolineano come, in questo modo, si impongono a carico del
percettore del reddito oneri diabolici.
(30) SCHLESINGER, Comunione de residuo e onere della prova circa la sussistenza o meno
Il regimepatridi redditi di un coniuge non consumati, cit., p. 517. Sul punto anche ALAGNA,
moniale primario della famiglia, in Vita not., 1917, p. 853, secondo il quale «questa teoria
presenta indubbi elementi di interesse, anzitutto perché è diretta ad attribuire alla comunione valore concreto, in linea col precetto costituzionale di eguaglianza e con l’indirizzo
generale della novella, quindi perché intende favorire la realizzazione della personalità degli individui nel gruppo sociale elementare, garantendo una posizione patrimoniale al coniuge meno abbiente o.
( 3 9 Sul punto B ARBIERA , La comunione legale, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 3,
11, Torino, 1996, p. 456; BUSNELLI,
Linee di tendenza della riforma della dottrina nei primi due
anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam., 1977, p. 415.
SCHLESINGER,
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SAGGI
con la formulazione delle norme disciplinanti i rapporti patrimoniali tra i
coniugi (32). In nessuna norma, infatti, è possibile rinvenire traccia di
strumenti che permettano ad un coniuge di sindacare od impedire l’utilizzo delle disponibilità economiche individuali dell’altro (33). Appare
condivisibile l’idea di fondo secondo la quale non vi è una piena libertà
del titolare dei proventi di disporne senza alcun limitazione, in quanto i
proventi delle attività separate dei coniugi costituiscono frutto della comunione di vita (34); è, tuttavia, difficilmente spiegabile il motivo per il
quale il coniuge che abbia sempre adempiuto ai propri doveri di natura
patrimoniale, garantendo un tenore di vita per la famiglia assolutamente
adeguato rispetto all’indirizzo di vita familiare concordato ex art. 144 c.c.,
sia poi costretto a rimborsare al patrimonio comune anche le somme utilizzate per bisogni personali specifici (come ad esempio, un aiuto ai propri genitori in difficoltà economiche (35).
I1 punto di equilibrio tra la volontà di tutelare il coniuge non percettore di redditi e l’esigenza di riconoscere a ciascun coniuge il potere di disporre dei propri redditi è individuato da taluno nel sanzionare l’abuso del
diritto da parte del titolare ( 3 9 , da altri nel punire la frode (37) oppure la
violazione della clausola generale di buona fede (38). Tali concetti possono
essere unificati e rappresentati dal dolo; in modo particolare, viene in rilievo il dolo specifico del coniuge percettore dei proventi, che, in vista dello scioglimento della comunione, abbia intenzionalmente sperperato o
abbia occultato tutti i beni al fine di sottrarli alla divisione con l’altro coniuge. In questo ambito, si segnala il ruolo svolto dall’ingiustizia del danno; talvolta, infatti, nell’ambito della responsabilità civile, il dolo incide
sulla stessa qualificazione di ingiustizia del danno, rendendo risarcibili
danni che, altrimenti, non potrebbero ricevere tale qualifica, in quanto cagionati attraverso un’attività che costituisce attuazione di un interesse di
per sé prevalente rispetto a quello del danneggiato e che quindi sarebbero
irrilevanti se posti in essere con colpa (39). Il dolo, comunque, riduce anche l’area dell’illecito civile ( 4 9 , non prevedendo la responsabilità per colpa di tutta una serie di attività umane, tanto essenziali per l’interesse dei
singoli, o comunque tanto importanti per la collettività, da far apparire secondario ed accettabile l’inconveniente di lasciare indifesa la vittima della
negligenza ( 4 9 . Si viene a creare una interferenza tra colpevolezza ed ingiustizia del danno: attraverso l’elemento soggettivo del dolo, nel giudizio
di bilanciamento degli interessi in conflitto, l’ordinamento esprime un
giudizio di meritevolezza dell’interesse del danneggiato al risarcimento. I1
dolo, pertanto, non è soltanto un criterio di imputazione della responsabilità, ma è anche un criterio utilizzabile per esprimere un giudizio sull’ingiustizia del danno. In questo modo, nel giudizio di bilanciamento tra
l’interesse del coniuge che dispone dei propri redditi e l’interesse del coniuge non percettore, l’interesse di quest’ultimo prevale nel caso in cui si
dimostri l’anirnus nocendi del primo: solo in questo caso vi è un danno ingiusto; in altre parole, il coniuge titolare dei proventi rimarrebbe libero di
disporre a proprio piacimento degli stessi - fermo restando, in ogni caso,
l’adempimento dei propri doveri di natura patrimoniale verso i familiari mentre sarebbe sanzionata l’esistenza di un anirnus nocendi vero e proprio, consistente nell’intenzionalità e nella consapevolezza dell’evento
dannoso e, pertanto, nella volontà di sottrarre i beni alla comunione. Se si
ammette che sussista una responsabilità nel caso di dolo, si attua un equo
contemperamento tra l’esigenza di tutela dell’autonomia personale del
(’l) BUSNELLI, Linee di tendenza della riforma della dottrina nei primi due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, cit., p. 415; SCHLESINGER, Comunione de residuo
e onere della prova circa la sussistenza o meno di redditi di un coniuge non consumati, cit., p.
517; ALAGNA, Il regime patrimonialeprimario della famiglia, cit., p. 853.
( 3 3 ) SCHLESINGER,
Comunione de residuo e onere della prova circa la sussistenza o meno
di redditi di un coniuge non consumati, cit., p. 511.
( 3 9 BARBIERA,
Oggetto della comunione de residuo e onere della prova, in Corriere giur.,
1997, p. 38.
(35) M. FINOCCHIARO, La cassazione e la comunione de residuo: una sentenza da dimenticare, cit., p. 1205.
( 3 6 ) BARBIERA,
La comunione legale, cit., p. 489.
(37) COMPORTI, Proventi dell’attività separata e comunione legale, in Dir. fam., 1919, p.
392, secondo il quale al coniuge non percettore sarebbe concessa una specie di azione di
reintegrazione dei risparmi della somma distratta, simile agli effetti dell’azione revocatoria.
(38) D AINO, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986, p.
15, la quale critica il ricorso alla formula dell’abuso del diritto, in quanto l’espressione risponde ad un concetto di deviazione dalla finalità, o meglio dalla funzione, per cui il potere o il diritto è concesso, ed è suscettibile di assumere diversi contenuti e comportare conseguenze diverse, secondo il diverso atteggiarsi in relazione alle potestà, ai diritti reali o ai
rapporti obbligatori. Nel concetto di violazione della clausola generale di buona fede, l’a. ricomprende anche la colpa, sostenendo che anche un comportamento imprudente o generalmente trascurato nella cura del patrimonio personale può essere ritenuto contrario a
buona fede. Attribuisce rilievo alla violazione del dovere di buona fede anche PIIAIELLO,
Proventi dell’attività separata e comunione legale, in Dir.fam., 1919, p. 391, secondo il quale è
rawisabile una responsabilità contrattuale che il coniuge leso può far valere allo scioglimento della comunione, in sede di rimborsi e di restituzioni di cui all’art. 192 C.C.
(39) C ENDON e G AUDINO , Il dolo, in La responsabilità civile, diretta da Alpa e Bessone,
I, Torino, 1987, p. 82.
(40) FRANZONI, L‘illecito, in Tratt. resp. civ., diretto da Franzoni, I, Milano, 2004, p. 340;
ID., Dei fatti illeciti, in Cornrn. C.C.Scialoja-Branca, diretto da Galgano, Bologna-Roma,
1993, su6 art. 2043, p. 160.
(41) C ENDON e G AUDINO , Ii dolo, cit., p. 85.
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singolo coniuge e la tutela degli interessi comunitari della famiglia, permettendo una conciliazione tra l’esercizio di fondamentali diritti di libertà
ed il soddisfacimento di altri interessi immediatamente riferibili al nucleo
familiare (4*). In ogni caso, seguendo questa ricostruzione non si configura in capo al coniuge non percettore di reddito una ((pretesa))giuridicamente azionabile, né si modifica il diritto di disporre dei proventi dell’altro, quanto piuttosto si deve valutare expost il concreto esercizio di tale
potere, così da sanzionarlo nel caso in cui sia stato esercitato al fine di sottrarre i proventi alla divisione con l’altro (43); tale comportamento, inoltre,
sarebbe manifestamente contrario ai doveri di lealtà e di solidarietà nei
confronti dell’altro coniuge, nascenti dal matrimonio.
risarcimento del danno consiste nel fatto che non esiste un diritto a non
nascere se non si è sano (46). La S.C., inoltre, rileva che se esistesse un diritto a non nascere, se non sano, si porrebbe, inoltre, l’ulteriore problema,
in assenza di normativa in tal senso, dell’individuazione del livello di malattia per legittimare quel diritto.
Un argomento ulteriore per negare il risarcimento a favore del nato,
viene dedotto dalla S.C. dall’assenza di un danno risarcibile; si rileva, infatti, che anche se fosse concepibile un diritto a non nascere, se non sano,
non vi sarebbe un danno, in quanto non è comparabile la vita malata con
quella sana, proprio perché questa non ci sarebbe stata; la non nascita o la
morte, inoltre, costituiscono una perdita assoluta. Seguendo questa ricostruzione - che adotta per misurare il danno un calcolo differenziale tra
una situazione precedente con una negativa susseguente (47) - si sostiene
1252
4. - Uscendo dall’ambito dell’illecito endofamiliare - ma rimanendo
comunque all’interno delle rapporti tra illecito civile e relazioni familiari si può esaminare il valore e la portata della clausola generale dell’ingiustizia del danno, in un caso particolare di illecito concernente la procreazione: il cd. danno da vita indesiderata. In questa ipotesi, si pone una delle
questioni più problematiche e forse ((inquietanti)) (44) nell’ambito dell’ampio panorama della responsabilità civile: l’ammissibilità di una legittimazione al risarcimento del danno a favore del bambino nato con una
malattia non diagnosticata, a causa di un comportamento negligente del
sanitario, che ha impedito alla madre di esercitare il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. In modo particolare, si deve accertare se, oltre ai genitori, anche il bambino nato con una malattia genetica, non diagnosticata per errore dei sanitari, abbia diritto al risarcimento del danno,
anche se l’unica alternativa era la «non vita)). In altre parole, si deve valutare se di fronte all’alternativa tra il non nascere ed il nascere malato, l’ordinamento possa considerare la seconda eventualità come danno risarcibile. Di recente, questa fattispecie è diventata di stretta attualità dopo che
una pronuncia della S.C. n. 14488 del 2004, est. Segreto, nell’esaminare in
modo completo ed esaustivo la problematica, ha escluso la legittimazione
in capo al minore (45). La motivazione principale con cui viene escluso il
GIUSTI, L‘amministrazione dei beni della comunione legale, Milano, 1989, p. 34, nota 13.
GIUSTI, L‘amministrazione dei beni della comunione legale, cit., p. 34, nota 13.
(”) In questo senso, MONATERI, ((La marque de cain )) la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, in Un bambino non voluto è un
danno risarcibile, a cura di D’Angelo, cit., p. 296; S IMONE, Danno allapersona per nascita indesiderata, cit., p. 491; LISERRE,
In tema di danno prenatale, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 97.
(45) Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, in Corriere giur.,2004, p. 1437, con nota di LISERRE,
Mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione; in Fam. e dir., 2004, p. 559,
con nota di FACCI, Wronful lfe: a chi spetta il risarcimento del danno?; in Danno e resp., 2005,
p. 379, con nota di FEOLA,Essere o non essere: la Corte di Cassazione e il danno prenatale.
(42)
(43)
(46) Si sottolinea come nel nostro ordinamento non esista un diritto del nascituro a nascere sano o a non nascere affatto: ((il diritto di nascere sani, significa soltanto che, sotto il
profilo privatistico della responsabilità contrattuale, extracontrattuale e da contatto sociale,
nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o
commissivo colposo o doloso) e sotto il profilo - in senso lato - pubblicistico che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura ed assistenza idonei a
garantire, nell’ambito delle umane possibilità - la nascita sana)). Alla luce di tale considerazione, si giunge alla conclusione (owia) che il diritto a nascere sano non vuole dire che il
feto che presenta gravi anomalie genetiche non debba essere lasciato nascere. Secondo la
Corte, se si sostiene che il concepito abbia un diritto a non nascere se in condizioni di
malformazione, si arriva ad affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia
prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nonché con i
principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 C.C.
(47) Sulla cd. Differenztheorie di M OMMSEN, si segnala di recente, F RANZONI, Il danno risarcibile, in Tratt. resp. civ., diretto da Franzoni, Milano, 2004, p. 103; ID., Il danno alpatrimonio, in Il diritto privato oggi, serie a cura di Cendon, Milano, 1996, p. 286; BIANCA, Znadempimento delle obbligazioni, in Comm. C.C. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 247,
MASTROPAOLO, Danno (Risarcimento del danno), in Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, Roma,
1988, p. 7; SCOGNAMIGLIO, Risarcimento del danno, in Noviss. dig. it., Torino, 1969, p. 6;
BALDASSARI, Il danno patrimoniale, in Enciclopedia, collana diretta da Cendon, Padova,
2001, p. 8.
Al riguardo, Cass., 15 ottobre 1999, n. 11629, in Resp. civ., 2000, p. 1021, con nota di
MONNOSI, Prova delli’nadempimento e liquidazione del danno; in Foro it., 2000, I, c. 1917, con
nota di SCODITTI,
Danni conseguenza e rapporto di causalità; in Corriere giur., 2000, p. 902,
con nota di LASCIALFARI,
Causalità scientipca e causalità giuridica tra imputazione del fatto e
risarcimento del danno, la quale sottolinea come ((le delimitazioni della dannosità di un fatto, e cioè l’ammontare delle sue ripercussioni patrimoniali, vanno rilevate con il vecchio,
ma ancora valido, giudizio ipotetico di differenza tra la situazione dannosa così com’è e la
situazione ideale, quale sarebbe stata nell’ipotesi in cui il fatto dannoso non si fosse verificato. Tutte le conseguenze così evidenziate, proprio perché collegate a quel fatto, sono le
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che manchi un danno in senso giuridico: non è equiparabile una vita malata con una non vita perché quest’ultima è una perdita assoluta. La motivazione principale, pertanto, con cui si esclude il risarcimento del danno a
favore del minore si basa sull’insussistenza di un diritto a nascere sano o
a non nascere affatto; l’insussistenza di tale diritto viene desunta, soprattutto, dalla ratio della 1. n. 194 del 1978, individuata nella tutela della salute della gestante, con la conseguenza che la sola esistenza di malformazioni del feto, non incidenti sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l’aborto. È fuori discussione che tale diritto non esista: se la madre, a conoscenza della malformazione o della
malattia, decide di portare a compimento la gravidanza, può farlo; nessuna norma gli impone di ricorrere all’1.V.G.
Tuttavia, se si nega il risarcimento sulla base dell’inesistenza del diritto del nascituro a nascere sano, sembra che sia riproposta una nozione di
danno ingiusto legata, esclusivamente, alla lesione di un diritto soggettivo; la Cass., sez. un., n. 500 del 1999, ha censurato l’impostazione, secondo la quale il fatto deve ledere una situazione soggettiva riconosciuta e
garantita dall’ordinamento nella forma di un diritto soggettivo perfetto.
L‘attenzione dovrebbe essere spostata su un piano diverso. Si deve valutare, alla luce della nozione di danno ingiusto, risultante da Cass., sez. un.,
n. 500 del 1999, se il danno ingiusto non possa essere rappresentato, nei
confronti del minore, dal dover convivere con un gravissimo handicap, a
prescindere dal fatto che l’unica alternativa era la non vita ( 4 9 , indipendentemente dalla circostanza che la lesione della salute non è stata cagionata dai medici, ma da un processo biologico sviluppato dai genitori. La
sentenza della S.C. n. 14488 del 2004 sottolinea, altresì, che se si ammette
la legittimazione del nato, si pone il problema di individuare la soglia di
gravità dell’handicap, che renderebbe la ((vita intollerabile )) (49); tale questione, tuttavia, dovrebbe porsi nei medesimi termini anche nel caso di risarcimento del danno ai genitori per nascita indesiderata, derivante da
mancata diagnosi di malformazioni del feto, la cui risarcibilità è confermata anche dalla stessa S.C. n. 14488 del 2004 (50).
Si può, altresì, osservare che sostenere che nel caso di specie, non è
configurabile (( giuridicamente un danno )) non essendo comparabile una
vita, per quanto malata, con una non vita che rappresenta una ((perdita assoluta », potrebbe apparire contraddittorio con l’orientamento giurisprudenziale che riconosce ai genitori il risarcimento del danno patrimoniale,
nel caso di nascita di un bambino sano ma non voluto (59, oppure nel caso di nascita di un bambino affetto da una malattia non diagnosticata ( 5 2 ) :
anche in questo caso, se per stimare il danno si utilizza il calcolo differenziale tra la situazione attuale e quella che vi sarebbe stata senza l’illecito (53), si deve prendere a base di calcolo, ai fini della valutazione del danno, la non vita e quindi una ((perdita assoluta)) (54). Perplessità ulteriori
possono sorgere dal fatto che il risarcimento del danno è riconosciuto non
solo alla madre ma anche al padre; in particolare, la pronuncia di Cass. n.
14488 del 2004 sottolinea come il risarcimento debba essere riconosciuto
alla gestante poiché è stato leso il suo diritto ad interrompere la gravidanza ed al marito della stessa (che non ha un tale diritto), in quanto è diventato padre di un ((bambino anormale D ( 5 5 ) . In questo modo, potrebbe
sembrare che anche se si nega l’esistenza del diritto del nascituro a nascere sano, si attribuisce, tuttavia, ai genitori il diritto ad avere figli sani; così
ripercussioni immediate e dirette del fatto stesso, e rappresentano, in via generale, il limite
massimo del risarcimento da prestarsi, ove non intervengano altri fattori di riduzione di cui
agli artt. 1221, 1225, 1227, comma 2”)).
(48) Lo sottolinea MONATERI, (( La marque de cain )) la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, cit., p. 298; Va., inoltre, sottolinea il (( comodo sotterfugio )> in cui incorre spesso la giurisprudenza, la quale risarcisce il
danno ai genitori, per risarcirlo invece al figlio.
(49) In dottrina, in questo senso anche BUSNELLI, Postilla, cit., p. 217.
(50) Di recente, anche Cass., 21 giugno 2004, n. 11488, cit.; nel caso di specie, i giudici di
merito avevano escluso che ricorressero i presupposti, di cui all’art. 6,l. n. 194 del 1978, sulla base, tra l’altro, di un’asserita inesistenza di (( una rilevante malformazione del nascituro ». La S.C., invece, respinge siffatta ricostruzione, sostenendo che la ((parziale mancanza
di un braccio N rappresenti una grave lesione dell’integrità psicofisica, che provoca rilevanti
ripercussioni nelle varie estrinsecazioni della personalità umana, in campo relazionale,
estetico, lavorativo, affettivo e sessuale; di conseguenza, si afferma la sussistenza del requisito di cui alla 1. n. 194 del 1978, rappresentato dalla (( rilevante malformazione del nascituro ».
(51) Trib. Busto Arsizio, 17 luglio 2001, in Resp. civ., 2002, pp. 441 e 590, con note di BILLOTTA, La nascita non programmata di un jìglio e il conseguente danno esistenziale, e di DEMORI, Fallimento di intervento di sterilizzazione maschile e (( wrongful birth »: projìli di responsabilità medica e problemi di liquidazione del danno; nel caso di specie, l’organo giudicante
ha liquidato, in via equitativa, la somma di £. 100.000.000, ai genitori, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale.
( 5 2 ) Cass., 10 maggio 2002, n. 6735, cit., la quale ha confermato la pronuncia di merito,
che aveva liquidato il danno patrimoniale per il danno emergente (spese mediche e di cura
già sopportate e che dovranno essere sopportate in futuro), nonché il lucro cessante (per la
necessità di accudire il figlio totalmente invalido, tradottasi in una limitazione del tempo da
dedicare all’attività professionale ed alla vita di relazione); Trib. Bergamo, 16 novembre
1995, in Giust. civ., 1996, p. 867; App. Perugia, 28 ottobre 2004 (data della decisione), Pres.
Chiari, est. Di Marzio, inedita.
( 5 3 ) Sulla differenztheorie, F RANZONI , Il danno risarcibile, cit., p. 103.
(54) PICKER, Il danno della vita, Milano, 2004, p. 52.
( 5 5 ) Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, cit.
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facendo si finisce per considerare come danno ingiusto, rispetto ai genitori, l’avere un figlio malato, mentre si nega che la stessa malattia possa rappresentare un danno ingiusto nei confronti di chi deve convivere con la
stessa, per tutta la durata della vita (56). Sarebbe stato senza dubbio più
corretto riconoscere la legittimazione del padre sulla base della motivazione che anche se l’art. 5,l. 5 maggio 1978, n. 194, attribuisce alla sola volontà della donna la decisione di interrompere la gravidanza, tale scelta,
tuttavia, rientra tra le scelte fondamentali della vita coniugale e, in quanto tale, non deve essere sottratta al dovere di ricercare l’accordo con il coniuge previsto dall’art. 144 c.c.; così facendo, si potrebbe sostenere che sia
stato leso il diritto del padre a partecipare ad una scelta di tal genere. Come si è sottolineato in precedenza, nella fattispecie qui esaminata, ci si
deve domandare se non sia rawisabile un danno ingiusto nel dover vivere una vita in condizione di menomazione fisica e psichica; è dificilmente controvertibile, infatti, che questa sia una situazione esistenziale negativa, a prescindere dalle alternative a disposizione (57). Questo appare il
punto fondamentale sul quale si basa la tesi favorevole a riconoscere la legittimazione del nascituro (58). Seguendo siffatta ricostruzione, si è in pre-
senza di un illecito plurioffensivo, che lede, in capo a soggetti distinti, interessi diversi, tutti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento. La condotta negligente del sanitario lede interessi meritevoli di tutela non solo
in capo ai genitori, ma anche in capo al minore: il dover convivere con un
grave handicap ed il dover vivere accanto ad una persona che si trovi in
una siffatta situazione rappresenta un danno ingiusto, rispettivamente per
il minore e per i genitori.
I1 nesso di causalità è rappresentato dalla circostanza che se non vi fosse stato l’errore del sanitario, che ha impedito alla madre di esercitare l’interruzione volontaria della gravidanza, il minore non avrebbe dovuto vivere una vita in condizioni di menomazione psichica e fisica, indipendentemente dalla alternative a disposizione (59); tale nesso è individuabile
non tra l’errore sanitario e la malattia, ma semplicemente tra la condotta
negligente del primo ed il dover vivere una vita in uno stato di handicap.
Al riguardo, si può sottolineare come, nel campo della responsabilità civile, spesso si adotti una nozione alquanto H allargata)) di nesso di causalità,
giustificata in base alla funzione riparatoria della stessa responsabilità civile; in questi casi - in cui di fronte all’alternativa tra lasciare senza ristoro
un danno oppure ritenere responsabile chi era nella condizione migliore
per prevenirlo, si preferisce la seconda ipotesi - la teoria della wondicio sine qua non» è applicata in modo rigoroso, senza alcun temperamento, in
modo tale che l’autore della condotta illecita iniziale risponde di tutte le
conseguenze, anche remote, che non si sarebbero verificate se non vi fosse stato l’illecito. Ammettere il risarcimento del danno anche nei con-
(56) Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, cit., sottolinea come la contraddizione tra il riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e non riconoscerlo al minore nato con l’handicap
debba essere superato considerando che per i genitori l’evento finale della sequenza causale è rappresentato dall’avere un (( figlio malformato )) e quindi (( l’evento finale è la genitorialità non voluta)); per il figlio, invece, l’evento finale consiste nella ((vita non voluta». A
tal proposito, si deve, però, rilevare che per i genitori l’evento finale non è la ~genitorialità
non voluta », poiché essi volevano un figlio, ma lo desideravano sano; di conseguenza, l’evento finale è l’avere un figlio malformato; rispetto al figlio, invece, l’evento finale non è la
vita non voluta, quanto la sussistenza della malattia.
(57) MONATERI, ((La marque de cain )) la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni
del comparatista al distillato dell’alambicco, cit., p. 298; in senso dubitativo, invece, BuSNELLI , Postilla, cit., p. 217; si segnala anche OPPO,L‘inizio della vita umana, in Riv. dir. civ.,
1982, p. 507, il quale sottolinea come ((neli’altemativa tra il non nascere e il nascere malato,
la seconda eventualità non può essere considerata dall’ordinamento come fatto lesivo D;
nello stesso senso P RINCIGALLI, Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?, cit., p. 615; CAPOBIANCO, Nascituro e responsabilità civile, in Rass. dir. civ., 1997, p. 65.
( 5 8 ) AI riguardo, D E MATTEIS,
Danno esistenziale e procreazione, in Rapporti familiari e
responsabilità civile, a cura di Longo, Torino, 2004, p. 134, la quale sottolinea come sia ipotizzabile un danno ingiusto, non sotto il punto di vista della lesione di un diritto di non nascere in capo a chi viene al mondo, bensì come offesa alla personalità del nascituro, cui il
diritto deve offrire protezione nel rispetto dei valori fondamentali della vita: ((l’omessa
informazione, conseguente alla mancata diagnosi delle malformazioni, che ha impedito alla madre di decidere se fare o meno ricorso, sussistendo le condizioni stabilite dalla legge,
all’aborto, rilevi non come concausa di un evento non voluto (nascita del figlio non sano),
bensì come presupposto necessario perché la negligenza medica possa contestualmente ri-
levare come fonte di responsabilità e nei confronti del bambino in ragione dei pregiudizi
esistenziali subiti e nei confronti della madre in ragione del riscontro della presenza delle
condizioni posta dalla legge per far ricorso all’intenuzione volontaria di gravidanza. In sostanza quel che decide della risarcibilità del danno al bambino nato con handicap non è la
violazione della libertà di scelta della donna nel ricorso all’intermzione di gravidanza, bensì il fatto che, al momento della dovuta, ma non data, informazione alla madre sullo stato
di salute del feto, fossero presenti tutte le condizioni previste dalla legge per far ricorso all’aborto. Solo per tale via è possibile giungere ad ammettere la legittimazione ad agire in
giudizio del nato, in quanto volta a chiedere i danni non per una nascita non voluta, in
conformità ai desideri della madre, bensì per un’esistenza difficile da vivere in ragione delle gravi limitazioni fisiche ».
(59) La dottrina contraria alla sentenza Cour de Cassation, 17 novembre 2000, cit., critica la sussistenza di un nesso di causalità tra l’errore medico e l’handicap; si ritiene, invece,
che ciò che è stato causato dall’errore non sia l’handicap ma la nascita del bambino, di conseguenza, si afferma che la nascita non possa costituire un pregiudizio risarcibile. AI riguardo, CAYLA e THOMAS, Il diritto di non nascere, Milano, 2004, p. 33, criticano siffatta impostazione, affermando che tale affermazione possa sussistere solo ipotizzando il caso in
cui la madre avrebbe effettivamente voluto la nascita di un bambino disabile.
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fronti del minore, sarebbe indubbiamente più conforme alla funzione riparatoria e solidaristica svolta dalla responsabilità civile, soprattutto nel
caso in cui il danneggiato sia costretto a convivere con il peso di un grave
handicap; se si riconosce, come generalmente accade, un risarcimento del
danno patrimoniale soltanto ai genitori per i costi di assistenza e mantenimento del figlio malato, tale danno viene commisurato alla presumibile
durata della vita dei genitori, che è più corta di quella del figlio, con la
conseguenza che il risarcimento del danno patrimoniale non copre il momento in cui il bambino avrà maggiormente bisogno di un sostentamento
economico.
5. - Si è sottolineato che, se si ammette la legittimazione del nato con
l’handicap al risarcimento, si corre il pericolo di giungere ad alcune conseguenze estremamente delicate e gravi; in altre parole, sostenere che vivere con una malattia genetica sia un danno ingiusto nei confronti del minore, potrebbe portare a conclusioni assai delicate e gravi: un obbligo per i
genitori di diligente accertamento degli eventuali difetti genetici; un obbligo di astenersi dall’attività procreativa quando questa possa determinare handicap; un obbligo di interrompere la gravidanza, se l’handicap interviene o viene individuato successivamente al concepimento (60). In primo
luogo, si può rilevare come, in base alla tesi appena prospettata, il dover
convivere con la malattia sia un danno ingiusto nel caso in cui tale situazione abbia come antecedente un errore medico, che abbia impedito alla
madre di esercitare l’interruzione volontaria della gravidanza, allorché ricorressero le condizioni per ricorrere alla stessa. Siamo, infatti, in presenza di un illecito plurioffensivo che lede prima l’interesse dei genitori ad
una procreazione cosciente e responsabile e poi quello del figlio nato con
la malattia. Su un piano ancor diverso si pone, invece, il problema della responsabilità della madre che, con una condotta sconsiderata (come ad
esempio, abuso di alcol o di sostanze stupefacenti) durante la gestazione,
abbia pregiudicato la salute del figlio. Il caso è differente da quelli esaminati in precedenza, in quanto, in questa fattispecie, il bambino sarebbe nato sano, se non vi fosse stata la condotta sconsiderata della madre; in questa fattispecie, pertanto, l’alternativa non è tra una vita malata ed una non
vita, bensì tra una vita malata ed una sana. Al riguardo, appare evidente
che lo stato di gravidanza imponga alla gestante di assumere un comportamento adeguato a preservare la nascita e la salute del feto, con la conseguenza che in caso negativo potrebbe sorgere una responsabilità verso il
figlio e verso il padre (‘jl). In questa ipotesi, infatti, si verifica un danno inLa responsabilità perprocreazione, in Giur. it., 1986, IV,c. 123.
Sul punto, LISERRE,
Zn tema di danno prenatale, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 103.
(60)
Z ENO-Z ENCOVICH,
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SAGGI
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giusto, in quanto la salute del minore è lesionata a causa di un comportamento illecito, e non da un processo genetico sviluppato dai genitori: lo
stato di gravidanza vincola la gestante, a tutela del nascituro, ad una limitazione della propria libertà di autodeterminazione, soprattutto nel caso in
cui questa si esplichi in comportamenti disdicevoli e pericolosi.
In ogni caso, per accertare se sussista una responsabilità dei genitori
nei confronti del nato con una malattia genetica - per non aver effettuato
esami diagnostici, durante la gestazione, per verificare se sussistevano
malattie genetiche, oppure per aver procreato, ben sapendo che vi erano
possibilità che il figlio nascesse malato, oppure per non aver interrotto la
gravidanza, nonostante l’individuazione dell’esistenza di un handicap durante la gestazione - si deve valutare se sussista un danno ingiusto; di
conseguenza è necessario effettuare un bilanciamento degli interessi contrapposti: l’interesse del minore, a non dover convivere con una malattia
e l’interesse dei genitori, rappresentato dal diritto di procreare. L‘interesse
del primo dovrebbe soccombere rispetto all’interesse dei genitori; infatti,
come si è già ricordato in precedenza, per la 1. n. 194 del 1978, la sola esistenza di malformazioni del feto non incidenti sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla gestante di praticare l’aborto; inoltre, se la
madre è a conoscenza delle malformazioni o della malattia e decide di
portare a compimento la gravidanza può farlo, in quanto nessuna norma
gli impone di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, che è
collegata alla lesione della salute della gestante e non del feto. In questo
modo, deve escludersi la responsabilità nel caso in cui i genitori abbiano
procreato, ben sapendo che vi erano possibilità che il figlio nascesse malato, assumendosi così il rischio di un evento di tal genere, oppure per non
aver interrotto la gravidanza nonostante l’individuazione dell’esistenza di
un handicap durante la gestazione. Dalla ratio della 1. n. 194 del 1978, infatti, si evince che, in casi di questo genere, l’interesse dei genitori a procreare, espressione del diritto di libertà personale previsto dall’art. 13 Cost., prevale sull’interesse del figlio a non dover convivere con una menomazione. Più problematico appare il caso in cui i genitori non abbiano effettuato esami diagnostici dai quali si poteva apprendere l’esistenza di una
malattia del nascituro; si può sostenere, in ogni caso, che se tale omissione di indagini diagnostiche ha peggiorato la condizione del nascituro (ad
es. perché si poteva intervenire per eliminare la malattia o attenuarla, durante la gestazione), si dovrebbe affermare la responsabilità dei genitori.
In questa ipotesi, la condotta dei genitori ha cagionato un danno alla salute del feto; tale danno è ingiusto, in quanto lo stato di gravidanza impone ai genitori un comportamento adeguato a preservare la nascita e la salute del feto, con la conseguenza che in caso di violazione può sorgere
una responsabilità degli stessi. Il bambino, infatti, sarebbe nato sano se
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CONTRATTO E IMPRESA
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non vi fosse stata la condotta irresponsabile dei genitori. L‘alternativa,
pertanto, non è tra una vita malata ed una non vita, bensì tra una vita malata ed una sana. Diverso può essere il caso in cui l’omissione dell’esecuzione degli esami non abbia inciso sulla possibilità di cura della malattia o
della malformazione, ma soltanto sulla possibilità di ricorrere all’aborto.
In questa fattispecie, proprio perché nessuna norma impone alla madre di
ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, anche in presenza di
malattia, e poiché tale scelta spetta solo alla stessa, appare difficilmente
ipotizzabile una responsabilità dei genitori nei confronti del figlio: i genitori hanno sì tenuto una condotta sconsiderata, tuttavia, anche se informati sull’esistenza delle malformazioni, avrebbero potuto decidere di non
ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, con la conseguenza
che non vi è alcun danno ingiusto.
Più in generale, si può sostenere che il punto di equilibrio tra l’interesse del minore, a non dover convivere con una malattia, e l’interesse
dei genitori, rappresentato dal diritto di procreare, può essere individuato
allorche quest’ultimo sia stato esercitato in modo cosciente e responsabile (62). I genitori hanno sì il dovere morale di evitare di trasmettere ai figli
una malattia genetica, tale dovere, tuttavia, non può comportare il divieto, per i genitori a rischio genetico, di avere figli (63); l’interesse del nascituro ad una vita non menomata non ha un valore assoluto, ma va bilanciato con il diritto di procreare dei genitori e se quest’ultimo diritto è
esercitato in modo cosciente e responsabile non sussiste alcun danno ingiusto. In tal modo, la responsabilità dei genitori, per aver generato un figlio malato, può sussistere solo nel caso, eccezionale, in cui il diritto di
procreare sia stato esercitato in modo irresponsabile, anche da uno solo
degli stessi; questo, ad esempio, può essere il caso, conosciuto dalla giurisprudenza penale ( 6 9 , in cui un coniuge dolosamente taccia all’altro l’e-
sistenza di una malattia infettiva e contagi la propria compagna ed il nascituro. In questa ipotesi, la responsabilità sussiste oltre che nei confronti della madre, anche verso il figlio, il quale subisce un danno ingiusto:
siamo in presenza di un illecito plurioffensivo, poiché un soggetto, con
una condotta illecita e dolosa, esercitando in modo irresponsabile il diritto di procreare ha leso, non solo interessi meritevoli di tutela in capo al
proprio partner, ma anche la salute del nascituro, il quale subisce un danno ingiusto, a prescindere daiia circostanza che l’alternativa, per lui, fosse la non vita.
In questo senso anche D E MATTEIS, Danno esistenziale eprocreazione, cit., p. 139.
F ERRANDO, in Dalla disgrazia al danno, a cura di Braun, Milano, 2002, p. 177.
(64) Cass. pen., sez. I, 14 giugno 2001, n. 775, in Studium Juris, 2002, p. 799, secondo la
quale N nel caso in cui un soggetto sieropositivo contagi il partner attraverso molteplici rapporti sessuali non protetti e senza mai informarlo delle proprie condizioni di salute, provocandone così la morte, dovrà rispondere del reato di omicidio (doloso o colposo) e non solo di quello di lesioni; infatti, nonostante l’evento - contagio sia la conseguenza diretta ed
immediata della condotta dell’agente, anche l’evento - morte può ugualmente ricondursi
alla persistente condotta omissiva del soggetto, che non ha in tal modo permesso al partner
di sottoporsi alle cure adeguate, accelerandone il processo letale D; Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Foro it., 2000, 11, c. 348, secondo la quale«risponde di omicidio doloso, commesso con dolo eventuale, colui che, pienamente consapevole del proprio stato di sieropositività e delle modalità di contagio dell’Aids, intrattiene col proprio ignaro partner, nel corso di una relazione esclusiva di fidanzamento e poi di matrimonio durata per circa dieci an(62)
(63)
ni, una pluralità di rapporti sessuali non protetti, accettando così l’alto rischio, poi effettivamente concretizzatosi, tanto di un possibile contagio quanto del probabile esito letale dell’infezione eventualmente insorta )).
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