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Aceto di Capriglia-Ingiustizia del Danno e Interessi Protetti

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Aceto di Capriglia-Ingiustizia del Danno e Interessi Protetti
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S. Aceto di Capriglia
Ingiustizia del Danno e Interessi Protetti
Prima di affrontare lo studio di questo riassunto occorre sapere che il manuale “Ingiustizia del
danno e interessi protetti” è un po' datato e che bisogna studiarlo anche alla luce delle nuove
decisioni della Corte di Cassazione.
Con sentenza 531 del 2014, la Corte è intervenuta per chiarire il significato delle locuzioni “danno
morale”, “danno biologico” e “danno esistenziale”, in quanto spesso impiegate in modo improprio.
Ad avviso del supremo collegio, queste voci di danno non sono classificazioni interne alla macrocategoria del danno NON patrimoniale, bensì sono delle mere descrizioni, impiegabili in sentenza,
ma al solo scopo di descrivere l'effettiva consistenza del pregiudizio patito dal danneggiato;
pregiudizio che, non potendo essere empiricamente valutato in termini economici, dovrà essere
valutato in via equitativa dal giudice a quo, che dovrà tener conto di tutti i pregiudizi non
patrimoniali e di tutte le conseguenze peggiorative sofferte dal danneggiato, così da disporne la
riparazione; riparazione che non potrà essere davvero “integrale”, ma quanto più congrua possibile.
Quindi, si realizza il paradosso del neminem laedere: come si sa, questo principio fondamentale
dell'ordinamento (consacrato nell'articolo 2043 c.c.), comporta il divieto di violare qualsiasi
situazione giuridica protetta dall'ordinamento, e, quindi, anche situazioni giuridiche diverse dai
diritti soggettivi. Tuttavia, nonostante questo principio debba bastare da solo ad assicurare il
risarcimento del danno ingiusto (patrimoniale o meno), per prassi giurisprudenziale si sono create
una serie di torti civili, allo scopo di rafforzare la tutela del danneggiato. E tra questi torti,
particolarmente rilevanti sono quello morale, biologico ed esistenziale: il danno morale può essere
considerato come un danno connesso ad una situazione soggettiva ed interiore del danneggiato
(dolore, sofferenza, patema d'animo); quello biologico (chiamato altresì danno alla salute) si
sostanzia in una lesione dell'integrità psicofisica; mentre il presunto danno esistenziale
riguarderebbe ogni conseguenza peggiorativa connessa all'illecito, che abbia potuto comportare la
compromissione di ogni attività realizzatrice della persona umana. In sostanza, sarebbe un danno
non patrimoniale diverso sia da quello morale, perchè non consiste nel dolore, sia da quello
biologico, in quanto non coincidente necessariamente con una lesione psico-fisica.
Esempio di danno esistenziale può essere la compromissione della serenità familiare.
CAPITOLO 1: Ingiustizia del danno
Il problema della delimitazione della responsabilità
L'articolo 2043 del Codice Civile ha posto all'interprete un dilemma di difficile soluzione, con
riferimento alla qualificazione della fattispecie della responsabilità civile, in termini di tipicità o
atipicità.
Nei sistemi appartenenti alla Western Legal Tradition, la responsabilità civile ha conosciuto
un'evoluzione sintetizzabile nel passaggio da un modello “classico” di responsabilità, fondato sul
principio della colpa, ad uno “moderno”, incentrato su diversi criteri di imputazione.
Per lungo tempo il nesso di causalità ha prevalso sull'elemento soggettivo della colpa, giustificando
le ipotesi di “no fault liability”, in cui la prova della colpa dell'agente cede il posto all'inevitabilità
dell'evento dannoso o pericoloso.
Nel Code Civil francese, la colpa era considerata come fondamento della responsabilità e veniva
intesa in termini etico-morali; perciò, la responsabilità dell'evento dannoso o pericoloso poteva
essere giuridicamente imputata all'autore, solo se costui avesse commesso il fatto per colpa.
All'epoca, infatti, dominava la tendenza a circoscrivere il più possibile l'area dei danni risarcibili,
nell'intento di affermare la prevalenza dell' “avere” sull' “essere”, in applicazione del principio del
laissez faire: così ragionando, il contratto era un affare esclusivo delle parti e il diritto di proprietà
veniva tutelato in modo assoluto. In questo senso, ogni danno che non fosse stato cagionato da una
condotta imprudente, negligente o imperita era da imputare alla mera fatalità e restava a carico
dell'offeso.
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Questa concezione mutò a partire dal ventesimo secolo, allorchè emerse la figura del “rischio”:
infatti, l'imputazione della responsabilità avviene sulla base della mera relazione esistente tra il
soggetto che venga chiamato a rispondere del danno e l'entità che lo abbia prodotto, e l'obbligo
risarcitorio viene meno solo laddove si provi che l'evento sia avvenuto per caso fortuito, forza
maggiore, fatto del terzo, fatto del danneggiato o altre circostanze di esclusione.
D'altro canto, a causa degli oscillanti orientamenti di dottrina e giurisprudenza, si è spesso parlato di
ciclicità della colpa, con riferimento alla delimitazione dell'illecito civile.
Pertanto, per comprendere la formula dell' “ingiustizia del danno” di cui all'articolo 2043 del codice
civile, si potranno comparare, da un lato, gli ordinamenti francese e italiano, e, dall'altro, quelli
inglese e nord-americano, intesi come campioni delle esperienze di civil law e di common law.
L'elemento oggettivo del danno nel modello di Civil Law: la doppia anima dell'articolo 1382.
La codificazione del danno qualificato come “ingiusto” rappresentò un'importante novità rispetto al
codice del 1865, che invece riproduceva fedelmente la regola francese, che, tra l'altro, fu oggetto di
numerose interpretazioni: i giuristi cisalpini del 19°secolo, infatti, vi aggiunsero il requisito, non
codificato, della necessaria lesione di un diritto assoluto della vittima o di una norma posta a sua
protezione: pertanto, in questo modo trovavano un'espressa tutela solo le situazioni giuridiche
perfette, cioè solo i diritti soggettivi.
Sulla scia di queste interpretazioni, la dottrina e la giurisprudenza italiane integrarono in modo
alquanto arbitrario la propria previsione normativa con un elemento oggettivo: quello
dell'antigiuridicità, che limitò fortemente la portata del principio di responsabilità.
D'altro canto, a partire dalla seconda metà dell'800, la tutela aquiliana venne concessa anche ai
diritti di credito, e l'obbligo risarcitorio incombeva, ad esempio, sul terzo che fosse concorso
nell'inadempimento, che avesse indotto il dipendente ad abbandonare il suo datore di lavoro o che
avesse acquistato dal promittente venditore in danno del promittente acquirente, violando l'altrui
posizione di “interesse giuridicamente protetto”.
Tuttavia, ciò non spiegava perchè alcuni fatti dannosi non dessero luogo a responsabilità. In buona
sostanza, l'individuazione delle fonti di risarcimento era rimessa alla discrezionalità del giudice.
In tempi più recenti, l'elemento oggettivo dell'antigiuridicità è poi stato assorbito in quello
soggettivo della colpa, che coincide con la violazione di una regola di diligenza, perizia o prudenza,
non necessariamente correlato all'effettiva lesione di una situazione giuridica del danneggiato.
Queste oscillazioni finiscono con il consegnare al giurista dati contrapposti: infatti, l'articolo 1382
del Code Civil si presta tanto ad una lettura restrittiva, coincidente con il modello di tipicità
dell'illecito, quanto ad una più estensiva, che legittima il sanzionamento di tutti i danni, salvo casi
eccezionali.
Allora, la risposta va ricercata nelle sentenze dei giudici francesi, e in particolare nelle pronunce
della Court de Cassation: alla luce di un'indagine fattuale, infatti, ci si rende conto che le corti, pur
aprendosi al riconoscimento di nuove figure di illecito, operano una rigorosa selezione degli
interessi meritevoli di tutela. Ed è proprio questa funzione “ordinante” ad aver consentito di sfatare
il pregiudizio che assumeva i diritti soggettivi perfetti a oggetto esclusivo della tutela aquiliana e di
adeguare le strutture del diritto alle istanze sociali di tutela di interessi giuridicamente rilevanti.
Il silenzio della dottrina francese e la nozione di illicéité
Il tema dell'illiceità non ha mai interessato la dottrina francese, tant'è che risulta ancora ancorato al
concetto di colpa. Inizialmente, l'illiceità costituì sinonimo di antigiuridicità legata all'aver
cagionato una lesione con délit o quasidélit (cioè con dolo o con colpa): pertanto, illiceità e colpa
erano due concetti sovrapposti.
Con l'entrata in vigore del BGB, questo legame divenne ancora più saldo; per cui, l'escamotage qui
era quello di individuare all'interno della faute un elemento soggettivo (dato dal dolo, costituito a
propria volta da un momento intellettivo e da uno volitivo) ed uno oggettivo, consistente
nell'illiceità. Inoltre, a differenza di quanto avviene nell'ordinamento italiano, l'imputabilità non è
considerata uno dei parametri cui ancorare il giudizio di colpevolezza: in questo senso, è tenuto a
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riparare il danno anche la persona non imputabile o non punibile. Se ne deve dedurre, che ciò che
qui vale è il nesso di causalità tra la condotta e il danno. Tra l'altro, è proprio il concetto di danno ad
essere qui privo di un'autonoma rilevanza.
Per quanto riguarda il concetto di faute, si può dire che la dottrina abbia percorso strade alternative,
di cui una è più accreditata dell'altra, e fa leva su una nozione più ampia di colpa, coincidente con
una regola di condotta -giuridica, morale o sociale- dalla quale si faccia discendere una nozione di
illiceità svincolata dalla categoria del diritto soggettivo. D'altro canto, altri autori hanno degradato
l'illiceità a condizione di ammissibilità dell'azione giudiziale; e altri ancora hanno esteso il
risarcimento ai diritti relativi e agli interessi non direttamente tutelati da norme giuridiche.
L'atipicità latente: il modello tedesco
Se il Code Civil francese opta per l'atipicità dell'illecito, il BGB tedesco opta per la soluzione
opposta, pur non includendo il fatto illecito tra le fonti delle obbligazioni.
Il legislatore tedesco ha optato per una soluzione tripartita, in cui le ipotesi di illecito coincidono
con gli articoli 823 e 826: il primo comma dell'articolo 823, infatti dispone che:“chi, con dolo o
colpa, leda antigiuridicamente la vita, il corpo, la salute, la libertà, la proprietà o un diverso diritto
altrui, è obbligato al risarcimento del danno da ciò derivante”.
Quindi, oltre al nesso di causalità e agli elementi soggettivi del dolo e della colpa, qui figura anche
l'antigiuridicità, che distingue l'istituto tedesco da quello francese e italiano. L'antigiuridicità quindi
è un elemento differenziale, per il quale esistono opinioni discordanti in dottrina: secondo alcuni
autori, ogni danno è necessariamente antigiuridico (a meno che non sussistano esimenti come la
legittima difesa o lo stato di necessità); mentre, secondo altri autori, laddove il fatto non sia doloso
occorrerà verificare, caso per caso, la misura della diligenza oggettiva che si potesse pretendere
dall'agente.
Un ulteriore elemento differenziale è dato dall'elencazione dei diritti la cui lesione faccia sorgere la
responsabilità; laddove vengano lesi i diritti espressamente citati, il problema non sussiste, perchè
sarà sufficiente una mera attività sussuntiva; quando invece vi sia una lesione di un “diverso diritto
altrui” bisognerà intendere solo i diritti reali, i diritti della personalità, i diritti immateriali, il
possesso e, volendo, l'aspettativa.
Dove, poi, il danno sia frutto della violazione colpevole di una norma che miri alla tutela di un altro
soggetto o di una certa cerchia di soggetti, verrà in rilievo la previsione del secondo comma
dell'articolo 823, per il quale il danneggiato è esonerato dall'onere di provare sia il nesso di causalità
sia l'elemento psicologico con cui l'autore abbia commesso il fatto.
Il sistema è poi completato dall'articolo 826, per cui “chi cagioni ad altri intenzionalmente un
danno, violando il buon costume, è obbligato al risarcimento”. Questa disposizione, in effetti,
ricomprende le situazioni di fatto, lese con dolo, non rientranti nel primo comma dell'articolo 823.
In apparenza, il sistema tedesco allora sarebbe opposto a quello francese, ma in realtà non è proprio
così, in quanto dottrina e giurisprudenza hanno provveduto in entrambi i casi a demolire
l'equivalenza tra danno e diritto soggettivo, riconoscendo nuove ipotesi di illecito, quali: la
concorrenza sleale, la responsabilità per false informazioni, la conclusione di un contratto nullo, e
così via. Quindi, l'elemento differenziale sta solo nel procedimento cui dottrina e giurisprudenza
siano approdate a questo risultato: per addizione in Germania e per sottrazione in Francia.
Il requisito dell'antigiuridicità nel codice italiano del 1942.
Con l'introduzione del codice civile del '42 e con il riferimento all'ingiustizia del danno, si andò a
rafforzare il convincimento che il precetto alterum non laedere dovesse essere inteso come “divieto
di violare l'altrui situazione giuridica protetta”. Così, nel tentativo di dar conto a tutte le fattispecie
di danno risarcibile, la dottrina italiana ricorse a formulette pigre che aprivano le porte all'arbitrio
del giudice. Pertanto, la teoria dell' ingiustizia negativa non fu calzante, perchè la regola del “tutto
è lecito se non sia espressamente vietato” comporta l'obbligo del risarcimento del danno solo in
caso di violazione di una norma diversa dall'articolo 2043.
La dottrina italiana sembra uscire da questa impasse solo grazie al contributo di Schlensiger che,
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ribaltando l'insegnamento francese, affermò che non era vero che fosse consentito fare tutto ciò che
non fosse espressamente vietato; poiché, piuttosto: sarebbe proibito fare tutto ciò che non sia
esplicitamente permesso. Quindi, il requisito dell'antigiuridicità dev'essere inteso come sinonimo di
“assenza di un diritto del danneggiante al compimento dell'atto che ha causato il danno”.
Tuttavia, quest'impostazione presenta un limite; infatti: dato che non esiste un elenco delle
fattispecie permissive, dovranno considerarsi lecite tutte le attività che non siano puntualmente
vietate. Fu poi Rodolfo Sacco a dimostrare come la prassi giurisprudenziale avesse ampiamente
superato la dicotomia tra tipicità e atipicità della responsabilità civile, accordando il rimedio
risarcitorio anche a situazioni giuridiche imperfette sulla base di fattori ulteriori, quali: un elevato
grado di immoralità della fattispecie e un elemento che giustificasse il risarcimento o la preventiva
repressione di quella fattispecie, a titolo di reato mediante frode.
Pertanto, è risarcibile ogni danno verso situazioni giuridiche protette dall'ordinamento.
Al pari dell'articolo 1382 del Code Civile, l'articolo 2043 del Codice Civile italiano si presta ad una
duplice lettura: estensiva e restrittiva, coincidente ora con l'alterum non laedere, ora con la necessità
di un'effettiva lesione. E, tra le due, bisognerebbe preferire la seconda lettura.
Il danno ingiusto nell'applicazione giurisprudenziale
La nostra giurisprudenza si è mossa tra mille incertezze, offrendo ragionamenti, ma non soluzioni,
al problema della coincidenza tra “ingiustizia” e “lesione di una situazione giuridica protetta”.
Nel caso Superga (riguardante la morte dei giocatori della società Torino Calcio in un incidente
aviatorio) la corte non volle rivedere le proprie argomentazioni, negando il risarcimento del danno
sulla base del fatto che la Società Torino Calcio non vantasse alcun diritto soggettivo nei confronti
delle vite dei giocatori. Più tardi, la Corte ha negato che nel “Caso Meroni” ci fosse una
responsabilità extracontrattuale del minore che avesse cagionato la morte del giocatore in un
sinistro, ma adottò a sostegno della propria decisione la mancanza di un comprovato nesso di
causalità tra l'evento morte e il danno da lucro cessante richiesto dalla società. Nelle motivazioni, i
giudici riconobbero che, in linea di principio, i diritti relativi potessero giustificare un risarcimento,
ma optarono per una diversa soluzione. La Corte, infatti, si limitò a dire che l'ingiustizia del danno
da fatto illecito doveva essere intesa nella duplice accezione di danno non giustificato
dall'ordinamento (danno non jure) e di danno lesivo di una situazione giuridica riconosciuta (danno
contra jure).
Qualche anno più tardi, con il “Caso De Chirico”, i giudici della Corte Costituzionale sembrarono
estendere la tutela aquiliana ai diritti di credito. In effetti, la Corte non mancò di ribadire la
necessità di conferire tutela anche a situazioni giuridiche secondarie. Nel caso di specie, il celebre
pittore fu ritenuto responsabile di aver colposamente apposto la propria firma, autenticata dal notaio,
ad un dipinto, intitolato Inferno Metafisico, poi rivelatosi falso. A seguito di questo disconoscimento
della paternità dell'opera, l'acquirente convenne il giudizio De Chirico, reclamando il risarcimento
del danno patito per aver confidato nella veridicità del quadro. La Corte accolse la richiesta,
giustificando il risarcimento nell'ottica della lesione della libertà di autodeterminazione.
Mentre la giurisprudenza si è mossa in modo goffo, la dottrina ha fatto presente la necessità di
ampliare l'area di applicazione dell'articolo 2043, proponendo una concezione del danno ingiusto
che avesse riguardo alla meritevolezza dell'interesse leso, ancorando quest'ultimo ai principi
fondamentali dell'ordinamento.
Tipicità e atipicità dell'illecito nel Common Law
Se gli ordinamenti continentali sono divisi tra il modello di tipicità (tedesco) e atipicità (italiano e
francese) dell'illecito civile, quelli di Common Law sono stati caratterizzati a lungo da figure tipiche
di illeciti, confezionati a tutela di interessi specifici contro specifiche forme di violazioni,
classificate come “tort of negligence”.
Il termine “negligence” è sinonimo di negligenza, la quale si identificava totalmente con la colpa; in
questo modo, lo scopo era quello di impiegarla per sanzionare un comportamento ignobile e
peccaminoso. Successivamente, si distinse tra negligence e tort of negligence, che divenne una
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formula riassuntiva di requisiti specifici, dai quali nasceva l'obbligo di risarcire un danno non
volontariamente causato mediante un comportamento antigiuridico.
Anche qui, gli elementi costitutivi sono: il dovere di adottare un comportamento diligente, la
violazione di questa regola di condotta, la produzione di un danno e un nesso di causalità tra
condotta ed evento dannoso. L'onere della prova cade, di regola, sull'offeso; tuttavia, è anche
possibile un'inversione dell'onere della prova.
Tra i requisiti della responsabilità per negligence, l'elemento differenziale rispetto agli ordinamenti
di civil law è il duty of care (ossia il dovere di adottare un comportamento diligente), che prima era
riscontrabile solo nell'ambito di specifiche attività che imponessero a chi le esercitasse di non
violare i rapporti fiduciari; successivamente, invece, questo generico dovere di condotta venne
esteso a chiunque intraprendesse attività potenzialmente idonee ad arrecare danno al prossimo.
Tradizionalmente, la prima dichiarazione ufficiale dell'atipicità del sistema dell'illecito si fa risalire
al caso americano “Heven-Pender” del 1883, dal quale sorse un vivace dibattito in cui la
giurisprudenza difese strenuamente l'idea della relatività del duty of care, il cui scopo era quello di
garantire non chiunque, ma solo i soggetti che si trovassero sotto la diretta protezione della norma
giuridica violata. In questo senso, il risarcimento dei danni restava limitato ai danni alla persona e
alla proprietà, in quanto coloro che avessero subito danni meramente economici non erano giudicati
meritevoli di altrettanta tutela.
Tort o torts: un falso dilemma
Attualmente, non è chiaro se i Paesi di Common Law abbiano abbandonato la regola tradizionale in
favore di un principio generale di responsabilità per colpa, perchè nel sistema anglo-americano
permane una forte distinzione tra danni materiali a cose o persone e danni meramente economici.
Infatti, il common law si dimostra refrattario ad un ampliamento dell'area del danno risarcibile,
perchè restano legate a parametri equivocabili, quali la figura dell'uomo ragionevole e il criterio
della prevedibilità del danno, anche se la dottrina ha fatto notare più volte come questo stato di cose
ampliasse la discrezionalità del giudice.
Pertanto, il dilemma del “tort or torts?” è un falso dilemma, perchè offrirebbe solo risposte
parziali; e quindi, solo un'indagine fattuale sarebbe in grado di stabilire quali siano le situazioni
giuridiche meritevoli di tutela. Invece, nel sistema nord-americano è tutto più chiaro, perchè
concerne singole fattispecie di torti, ripudiando le regole di responsabilità del modello continentale.
Patrimonialità e non patrimonialità del danno
I concetti di danno e di risarcimento sono intimamente connessi e stanno tra loro in rapporto di
immediatezza, nel senso che tra i due elementi deve necessariamente sussistere un nesso di causalità.
La dottrina classica, tra l'altro, è incline a considerare l'evento dannoso come un elemento ulteriore
rispetto alla lesione, mentre un argomento più recente identifica danno e lesione, distinguendoli
però dall'illiceità. Ne deriva che possa esistere un illecito indipendentemente dall'occorrenza di un
danno, e che il danno ingiusto possa coincidere con la lesione di un interesse protetto. Altri autori,
ancora, propongono di distinguere tra danno patrimoniale e non patrimoniale: nel primo caso,
occorrerà la prova specifica del danno emergente e del lucro cessante, mentre nel secondo caso, il
danno è implicitamente sussistente nella lesione di un interesse giuridicamente rilevante. In questo
senso, le ipotesi di danno patrimoniale rappresentano la massima espressione della funzione
risarcitoria della responsabilità civile, mentre nelle ipotesi di danno non patrimoniale rilevano la
funzione preventiva ed organizzativa dell'istituto aquiliano, che intervengono sull'illecito a
prescindere dal pregiudizio. E a questa primaria distinzione seguono una pluralità di figure di danno
(come il danno morale, il danno alla salute, il danno edonistico, i danni psichici, i danni esistenziali,
i danni ambientali e così via.).
In materia di danno patrimoniale, va notato come il risarcimento di cui all'articolo 1223, sulla
responsabilità contrattuale, si estenda oltre che al danno diretto, anche a quello indiretto che sia in
rapporto di causalità con l'azione o l'omissione che l'abbia cagionato.
In occasione del “Caso Repetto” la Corte Costituzionale ha riscritto parzialmente il testo
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dell'articolo 2059, chiarendo che l'ampia e generica locuzione di danno non patrimoniale dovesse
essere riferita solo ai danni morali “puri”, ossia alla sofferenza, al dolore e al patema d'animo
connesso all'illecito.
Nel '96, poi, la Corte ha sconfessato quest'interpretazione restrittiva, riaffermando la riferibilità del
danno non patrimoniale a tutte le conseguenze peggiorative non suscettibili di valutazione
economica, ricomprendendovi anche il danno alla salute, che designa una vera e propria patologia.
La Corte ha poi precisato che l'inclusione del danno alla salute non si identifica con il danno morale
soggettivo; e infatti, il danno alla salute è coperto dall'articolo 32 della Costituzione, ed è risarcibile
ai sensi dell'articolo 2043 del Codice Civile, in quanto è pur sempre un danno ingiusto, a
prescindere dalla verificazione di un fatto previsto dall'ordinamento come reato; mentre il danno
morale non è assistito da un'analoga garanzia e perciò resta connesso a fatti penalmente rilevanti.
In realtà, l'articolo 2059 (chiamato da Montaneri, “il brontosauro del diritto”) reclama una
riformulazione, se non addirittura un'abrogazione; perchè, infatti, la bipolarizzazione tra le due
figure di danno (quello patrimoniale risarcibile, di cui all'articolo 2043; e quello non patrimoniale
risarcibile, di cui all'articolo 2059) finisce con il creare un vistoso equivoco, che fa leva sulla
patrimonialità dell'interesse leso, in virtù della quale si accorda il risarcimento. In realtà, qui, la
patrimonialità non è importante, perchè l'elemento che che giustifica il risarcimento è l'ingiustizia
del danno, a prescindere dal fatto che questo sia patrimoniale o meno.
Allora l'articolo 2043 è la norma generale, mentre l'articolo 2059 è norma speciale perchè specifica
quali siano i danni morali soggettivi; e quindi l'espressione “danno non patrimoniale” è fuorviante.
C'è chi lamenta che abrogando l'articolo 2059 si amplierebbe eccessivamente l'area dei danni
risarcibili, ma questo ampliamento non dev'essere letto come un ostacolo, quanto piuttosto come
una garanzia; tanto è vero che in Francia la responsabilità extracontrattuale non conosce limiti!
Il principio di riparazione integrale del danno nell'esperienza francese
Mentre nel sistema italiano, la responsabilità civile continua a basarsi sulla distinzione tra danno
patrimoniale e non patrimoniale, in Francia questa distinzione è stata superata molto tempo fa, tanto
è vero che l'articolo 1382 del Code Civil ricomprende ogni tipo di danno, economico, biologico e
morale. Il principio dominante è quello dell'integrale riparazione, e consente: di individuare l'area
della risarcibilità, di influenzare la quantificazione delle singole voci di danno e di incidere sul
nesso di causalità.
Ad esempio, in caso di danno alla salute, questo principio consente di risarcire integralmente il
soggetto leso del danno emergente, del lucro cessante e di tutta una serie di pregiudizi personali
(fisiologici, affettivi, sessuali o estetici) che abbiano potuto comportare anche la perdita di comodità,
gioie e altri piaceri della vita. In realtà, questa estensione è stata spesso criticata, soprattutto con
riferimento al préjudice d'agrément (con cui si indica l'oggettiva lesione dell'integrità psicofisica)
perchè non sarebbe altro che un duplicato del danno fisiologico, da cui deriverebbe l'ingiustificata
moltiplicazione delle pretese risarcitorie.
Anche nel sistema di common law si è creato lo stesso problema con riferimento al “danno per
perdita dei piaceri della vita”, che assorbirebbe il danno morale soggettivo e il danno da perdita
della speranza di vita.
Queste sovrapposizioni, in effetti, potrebbero far pensare ad una certa inutilità di alcune voci di
danno, ma in realtà qui non si fa altro che rispondere giuridicamente al principio generale per cui
tutti i danni alla persona sono più gravi dei danni al patrimonio.
I “personal losses*” nel modello anglo-americano = perdite personali*
Nel pensiero giuridico anglo-americano vige la convinzione che il danno alla persona prodotto
mediante violazione del duty of care debba essere integralmente risarcito. Quindi, anche in questo
caso l'integrità della persona prevale sui diritti patrimoniali e sulla violazione contrattuale, tanto è
vero che si è parlato di “cerchio magico” tracciato intorno alla persona, nel senso che, anche quando
la lesione sia lievissima, il danneggiato avrà sempre diritto ad un integrale risarcimento dei personal
losses, cioè delle perdite personali. In quest'ambito rientrano la presumibile diminuzione della
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durata della vita, le sofferenze fisiche e morali, le prostrazioni psichiche, gli stati nervosi, gli
attacchi di panico, l'ansia e le fobie.
Tuttavia, per prassi giurisprudenziale, la perdita della speranza di vita non è risarcibile, mentre
l'angoscia e la sofferenza sono risarcibili solo se la vittima sia capace di intendere e di volere,
mentre negli altri casi il risarcimento prescinde dalla coscienza e dalla volontà del danneggiato.
Inoltre, la determinazione del quantum risarcibile avviene sulla base dei precedenti in materia, nel
senso che non esistono minimi e massimi prestabiliti per la liquidazione del danno.
Invece, nel sistema nord-americano si è proposto un nuovo metodo di calcolo del danno risarcibile,
di carattere probabilistico, che impone alle giurie di domandarsi quanto un uomo ragionevole
sarebbe stato disposto a pagare per eliminare il rischio che ha causato il danno.
Il danno esistenziale
La Corte di Cassazione, tra gli anni 80 e 90, ha reinterpretato l'articolo 2043 del codice civile,
volendo scindere la risarcibilità del danno dal requisito della sua patrimonialità, allineandosi alle
esperienze francesi, tedesche e spagnole.
Ora, si sa che il danno biologico va risarcito indipendentemente da un certo detrimento patrimoniale
della vittima, anche se purtroppo la sua applicazione non ha mai dato i frutti sperati, dato che il
danno biologico non si è concettualmente sganciato dall'ambito dell'integrità psicofisica. Proprio
per ovviare a questo problema, è emersa una nuova categoria di danno: cioè il danno esistenziale,
con cui si tenta di colmare determinate lacune. Per le scuole triestina e torinese, il danno esistenziale
abbraccia i rapporti familiari (di cui un esempio potrebbe essere il danno alla serenità familiare), la
lesione della reputazione, della dignità, della riservatezza, i diritti del lavoratore e l'ambiente.
Nello specifico, il danno esistenziale si distinguerebbe tanto dal danno biologico quanto dal danno
morale, perchè il danno biologico non consente di accordare risarcimento alla vittima la cui vita sia
cambiata in peggio a seguito della lesione, se il suo equilibrio psico-fisico resti impregiudicato.
Inoltre, si distingue dal danno psichico, perchè il danno esistenziale comprende anche il turbamento
emotivo temporaneo capace di sfociare in una lesione psichica vera e propria. In questo senso, il
danno psichico confluirebbe nel danno alla salute, mentre il danno esistenziale sarebbe un tertium
genus rispetto al danno patrimoniale e quello morale.
Tuttavia, ci si chiede se il risarcimento del danno esistenziale debba essere sempre a titolo di
responsabilità extracontrattuale o possa essere anche a titolo di responsabilità contrattuale da
inadempimento. La risposta è positiva, tanto che si è parlato di sovrapposizione di responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale: ad esempio, nel caso della mancata interruzione di gravidanza su
parare del medico ecografista, da cui derivi la nascita di un bambino deforme, il danno esistenziale
puro della madre (sconvolta da una nascita non voluta) può trovare la propria fonte anche
nell'inadempimento del contratto d'opera professionale.
Tuttavia, questa tesi non è del tutto persuasiva, mentre convince una diversa interpretazione
dell'articolo 2059: in questo senso, non c'è alcun bisogno di chiamare “danno esistenziale” una
lesione che comunque si concreta in un danno alla salute o all'integrità psicofisica del soggetto, se si
postula che il danno biologico e il danno alla salute coincidono!
Ora, alla luce di queste considerazioni, l'articolo 2043 dev'essere concepito come il risultato di una
sintesi che, attraverso il requisito dell'ingiustizia del danno, tendere ad avvicinarsi al modello
tedesco, ispirato al principio della tipicità, volto a creare non un sistema bipolare, bensì “tripolare”,
in cui esistono un danno patrimoniale, un danno morale ed un danno personale.
CAPITOLO 2
FIGURE SINTOMATICHE DI DANNO INGIUSTO E INTERESSI PROTETTI
Il danno nella procreazione nell'esperienza tedesca:
sterilizzazione, aborto ed errata consulenza genetica e prenatale
Il tema della nascita indesiderata è un valido espediente per verificare l'efficacia dell'ingiustizia del
danno, inteso come elemento oggettivo dell'illecito civile.
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Da un punto di vista giuridico, la procreazione si compone di tre fasi: concepimento, gestazione e
nascita; e quindi, per “danno da procreazione” si intende il pregiudizio subìto dal bambino in
conseguenza della nascita, e pone il problema di stabilire se questo danno sia risarcibile o meno.
Nell'ordinamento tedesco, la questione della risarcibilità del danno da parto indesiderato ha
comportato due pronunce di segno contrario ad opera del Tribunale Costituzionale.
La Corte Costituzionale Federale Tedesca (BVerfG) prima ha dichiarato che la nascita di un
bambino non possa mai costituire fonte di danno, giacchè il suo risarcimento violerebbe la dignità
umana; poi ha smentito tale contrasto. Va però precisato che la prima decisione era riferita al caso
dell'interruzione di gravidanza, mentre la seconda era riferita ad un fallito intervento di
sterilizzazione.
La Corte Federale di Giustizia (BGH), nel 1980, ha accordato il risarcimento del danno
patrimoniale a favore di entrambi i coniugi e il danno morale soltanto alla madre, a seguito di un
fallito intervento di sterilizzazione; e quest'orientamento è rimasto per lo più immutato, tenendo
però presente che il presupposto del risarcimento (che ammonta agli oneri economici dipendenti
dalla nascita indesiderata) consiste nell'esistenza di un valido contratto di cura o di consulenza.
Invece, in caso di fallita interruzione della gravidanza, il BGH reputa determinante lo scopo
dell'aborto: nel senso che se l'interesse protetto sia la salute della madre, quest'ultima non avrà
diritto ad un risarcimento; se, invece, sia ravvisabile una colpa ascrivibile al sanitario
nell'esecuzione dell'intervento, la madre avrà diritto ad un risarcimento.
Le ipotesi di sterilizzazione e aborto vanno poi tenute distinte da quelle di errata consulenza
genetica, perchè in questo caso i giudici sono propensi ad accordare un risarcimento quando
dall'errore medico dipenda la nascita di un bambino malformato o altrimenti portatore di handicap,
laddove si provi il nesso di causalità tra l'handicap e l'omissione delle informazioni dovute.
Il bébé préjudice nell'esperienza francese
L'orientamento della giurisprudenza francese è più rigido e parte dal presupposto della sacralità
della vita, proclamando l'irrisarcibilità del danno per la nascita indesiderata di un bambino, salva la
ricorrenza di un “dommage particulier”: questa circostanza particolare è limitata esclusivamente al
caso “d'un enfant non parfaitement constitué”, e quindi rientra sempre nell'ipotesi dell'handicap.
Questo danno coincide con la lesione del diritto alla salute del bambino e con le sofferenze morali
patite dalla madre. Più tardi si è coniata l'espressione bébé préjudice, con cui la Corte di
Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità del danno per la nascita di un bambino handicappato a
causa di un errore diagnostico, tenendo presente che il danno è risarcito a titolo di responsabilità
contrattuale (e non aquiliana); cosa che, in effetti, comporta in primis che il bambino malato, a
differenza di quello sano, non abbia diritto ad un'autonoma pretesa risarcitoria e, in secondo luogo,
comporta l'esigenza di stabilire se i pregiudizi connessi ad un'esistenza che non consenta di godere
dei piaceri della vita possano essere risarciti. La risposta sarebbe negativa, perchè una vita da
malato è comunque vita, e pertanto sarebbe inconcepibile risarcire il danno a chi sia venuto al
mondo, seppur con una deficienza, visto che il danno non può mai consistere nella nascita in sé.
Allora si dovrà concludere che il diritto alla salute del concepito non possa mai spingersi fino al
riconoscimento del diritto di non essere nato affatto a causa di un handicap.
Pretese ipotesi di danno esistenziale
Nel 1950, il Tribunale di Piacenza venne adito da un soggetto eredoluetico che chiedeva di essere
risarcito dai propri genitori che, avendogli trasmesso la sifilide, lo avevano condannato ad
un'esistenza infelice. In questa circostanza, il Collegio affermò che la trasmissione della sifilide
fosse un fatto illecito ed antigiuridico e che, ai fini del risarcimento fosse rilevante già il fatto di
aver messo al mondo un figlio.
Nel corso del tempo, questo tema si è arricchito di nuovi profili, dai quali si evince che, ad avviso
dei nostri giudici, le lesioni risarcibili riguardino i casi in cui sia stata compromessa un'attività (di
rilievo non patrimoniale) che abbia influito negativamente sullo sviluppo della personalità del
soggetto. In questo senso, il diritto del bambino a nascere sano si fonderebbe sull'articolo 2 della
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Costituzione e sull'articolo 1 della legge 194/78, i cui temi “caldi” vertono sull'interruzione della
gravidanza e sul diritto alla vita di relazione (che in realtà oggi confluisce nell'ambito del danno
biologico). Si pensi che in Cassazione giunse il caso della mancata interruzione di gravidanza,
imputabile alla colpa del medico, che aveva omesso di verificare l'esito positivo dell'operazione
praticata su una madre minorenne, nubile ed economicamente impossibilitata a provvedere ad un
figlio: in quest'occasione, i giudici di legittimità precisarono che lo stato di indigenza della gestante
diventava rilevante nel contesto dell'interruzione della gravidanza, perchè ledeva o esponeva a
pericolo il suo diritto alla salute.
D'altro canto, si è fatta strada l'idea di una tutela extracontrattuale della vita prenatale, grazie ad una
sentenza della Corte Costituzionale in materia di aborto, alla quale si deve il riconoscimento del
nascituro come persona in fieri, titolare di aspettative che si trasformeranno in diritti al momento
stesso della nascita. Ad esempio, il Tribunale di Milano, nel 1997, ha sottolineato i caratteri di
assolutezza e di libertà del diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, la cui ingiusta
lesione viene risarcita a titolo di responsabilità extracontrattuale; il Tribunale di Milano qui fece
espresso riferimento alla figura del danno esistenziale, in cui confluisce, in particolare la perdita del
concepito, più precisamente chiamato “danno da perdita del frutto del concepimento”.
Di questo tipo di danno si sono occupati sia il Tribunale di Napoli che quello di Verona, che hanno
in parte sdoppiato il danno morale in due voci, di cui una si riferisce al danno da perdita del frutto
del concepimento.
La dottrina rifiuta categoricamente questo sdoppiamento, perchè il danno da perdita del frutto del
concepimento non è temporaneo, ma definitivo, e quindi dovrebbe essere inquadrato nel danno
esistenziale e non nell'ambito del danno morale. Infatti, i risarcimenti a titolo di danno morale sono
irrisori e corrispondono a circa la metà di quanto viene conferito alla vittima in dipendenza di un
danno biologico, di cui il danno esistenziale è una sottocategoria connessa all'ingiustizia del danno.
La soluzione inglese: wrongful birth e wrongful life
Nel modello inglese, le fattispecie di nascita indesiderata (che comprendono aborto, sterilizzazione
e consulenza genetica e prenatale) prendono il nome di “wrongful birth” e “wrongful life”, a
seconda che l'illecito sia connesso alla nascita o riguardi le condizioni di vita del neonato.
Quindi, nell'ambito del wrongful birth rientrano i casi di fallita sterilizzazione, aborto non riuscito
ed errate diagnosi (e quindi i danneggiati sono i genitori); invece nell'ambito del wrongful life
rientrano le diagnosi genetiche che, per colpa del medico, diano luogo alla nascita non voluta di un
bambino malato o malformato. E, in questo caso, il danno ingiusto non coincide mai con la nascita
del bambino ma con la negligenza del medico.
Queste decisioni sono state dettate in virtù del cosiddetto Bolam Test, che introduce una sorta di
clausola di esonero della responsabilità a favore del medico che abbia agito nel rispetto delle leges
artis (che sono specifici parametri di perizia cui il sanitario deve sempre scrupolosamente attenersi)
e nel rispetto di un preciso dovere di informazione verso il paziente.
Invece, il caso in cui il bambino nasca malato o malformato a causa di un errore del medico è
trattato diversamente, in quanto qui si distingue tra nascita di un bambino non voluto perchè malato
e nascita indesiderata tout court: infatti, qualora sia dimostrato che i genitori volessero un figlio, ma
che avrebbero interrotto la gravidanza nel caso in cui fossero stati informati delle malformazioni, il
risarcimento sarà limitato alla differenza tra il mantenimento ordinario e le spese aggiuntive
necessarie per far fronte alla malattia; qualora, invece, i genitori non volessero affatto un figlio,
avranno diritto ad un risarcimento completo per il pregiudizio patito.
La questione invece è più complessa laddove la nascita di un bambino malformato non sia dipesa da
medical malpratice, perchè in questo caso non si potrà mai agire contro il personale sanitario,
perchè qui non sussisterebbe affatto una condotta illecita.
Il valore edonistico della vita: l'hedonic damage del sistema nord-americano
Nel 1985, la Corte distrettuale dell'Illinois fu chiamata a pronunciarsi sulla congruità dei criteri di
liquidazione, adottati dalla giuria, nella quantificazione del danno subìto da un genitore a seguito
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dell'uccisione del proprio figlio: in questo caso, l'assassino venne condannato al pagamento di una
somma per la lesione del “valore edonistico della vita”, oltre che al risarcimento dei distinti danni
morali e patrimoniali, connessi alla perdita della capacità lavorativa del de cuius. La Corte si servì
di un economista, affinchè valutasse l'entità della perdita sulla base di modelli statistici fondati sui
parametri di “willingness to pay” e “willingness to accept”.
Il valore edonistico della vita, se leso, giustifica una voce di danno particolare: l'hedonic damage,
che comporta la valutazione dello stile di vita dei danneggiati prima e dopo l'offesa ricevuta, avendo
riguardo ai riflessi dell'illecito:
1)
sullo svolgimento di attività ordinarie, come mangiare, dormire, leggere;
2)
sulla psiche
3)
sulla capacità di relazionarsi con gli altri
4)
e di svolgere la propria attività professionale
D'altro canto, ammettere l'hedonic damage significa rischiare una duplicazione delle pretese
risarcitorie, giacchè questa voce di danno ingloberebbe altri tipi di danni non economici.
La nostra giurisprudenza, con una sentenza clamorosa, accordò ai danneggiati da un illecito stradale
una somma a titolo di risarcimento del danno edonistico da loro patito per la morte del proprio
congiunto, avallando l'idea della configurabilità di una voce di danno comprensiva di tutti i valori
collegati al bene della vita. Tuttavia, la soluzione non è condivisibile, perchè nel nostro ordinamento
questa voce di danno esiste già, ed è il danno biologico (o danno alla salute), in cui confluiscono il
danno alla vita di relazione, il danno estetico, il danno sessuale, il danno alla capacità lavorativa, e
così via. Quindi, si potrebbe pensare che il danno edonistico sia l'equivalente nord-americano del
nostro danno biologico, ma così non è perchè: il danno edonistico è espressione di una società
permeata da uno spiccato individualismo; il danno biologico, invece, presenta connotazioni
solidaristiche e pubblicistiche, che tradiscono la sua duplice valenza di diritto del singolo e di
interesse sociale.
Il danno biologico da morte del congiunto nella giurisprudenza italiana
Anche se nel nostro ordinamento non esiste un fondamento giuridico al risarcimento del danno da
morte del congiunto, le nostre corti non hanno mai dubitato della necessità di indennizzare i
familiari anche di un diritto proprio, consistente nella menomazione della stabilità di situazioni
connesse alla loro posizione nei confronti della vittima diretta. I problemi, però, nascono dai
tentativi di qualificare il danno da morte del congiunto, e in questo la strada percorsa dalla
giurisprudenza italiana è stata particolarmente tortuosa. Ad esempio, la Corte di Cassazione ha
postulato che il credito risarcitorio per il danno biologico patito dalla vittima diretta sia trasmissibile
agli stretti congiunti solo se il danneggiato sia sopravvissuto all'evento lesivo per un lasso
apprezzabile di tempo. La vaghezza di questa soluzione ha indotto dottrina e giurisprudenza a
cercare soluzioni alternative, volte ad affermare l'esistenza di un'autonoma pretesa risarcitoria dei
familiari per il danno biologico da essi patito in conseguenza della morte del congiunto. Tuttavia,
gli sforzi di affermare questo “diritto proprio” si sono imbattuti nel veto posto dalla Corte
Costituzionale. D'altro canto, con la storica sentenza 372/1994, la Corte, ha qualificato il dolore
conseguente al decesso del congiunto in termini di danno morale, risarcibile a norma dell'articolo
2059, precisando che questo principio sia applicabile solo quando il turbamento sia degenerato in
una vera e propria patologia. Praticamente, la Corte si è contraddetta, in quanto solo pochi mesi
prima aveva distinto il “turbamento psicologico temporaneo” dall' “alterazione psichica rilevante”,
dove il turbamento si inquadrava nel danno morale, mentre l'alterazione si inquadrava nel danno
biologico risarcibile a norma dell'articolo 2043.
Quest'interpretazione estensiva del danno morale è apparsa inaccettabile, perchè il pregiudizio
lamentato dalle vittime secondarie dell'illecito è un danno “ingiusto”, che come tale è risarcibile
sulla base dell'articolo 2043 a titolo di danno biologico. D'altro canto, dato che ognuno può tollerare
un trauma in modo diverso, si è posto il problema di evitare richieste di risarcimento del tutto
pretestuose: in questo senso, si è propensi a giudicare irrilevante lo shock subito dal terzo che abbia
assistito all'evento lesivo, qualora questi non vanti alcun legame con la vittima; al contrario,
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l'esistenza di rapporti affettivi consente di attribuire rilevanza all'esperienza del lutto.
Il danno da lutto nell'ordinamento francese e in quello inglese
Nel modello francese vige la regola della generale risarcibilità dei danni riflessi sofferti dai parenti
per la morte della vittima, quando questa lesione rappresenti una normale conseguenza dell'illecito e
che comporti un pregiudizio effettivo, certo e diretto. Il pregiudizio va risarcito nella sua interezza,
e si estende ai danni patrimoniali e ai danni morali.
Tuttavia, è importante sottolineare due aspetti: innanzitutto, il presupposto di questo risarcimento
non è l'esistenza di un vincolo di parentela o di affinità con la vittima, perchè è sufficiente anche un
legame affettivo, obbligatorio o lavorativo; in secondo luogo, mentre per il risarcimento dei danni
patrimoniali ci si dovrà basare sulla teoria della causalità adeguata, per il risarcimento dei danni
alla persona si ricorrerà alla teoria della condicio sine qua non, che amplia significativamente il
panorama delle circostanze rilevanti per la verificazione dell'illecito: in questo senso, il danno da
morte del familiare è giudicato con estrema liberalità dalla giurisprudenza francese (forse troppa,
tale da moltiplicare le controversie e dar luogo a richieste pretestuose).
Nel modello inglese, invece, persiste una certa diffidenza verso i danni riflessi, anche se il Fatal
Accident Act del 1976 ha ampliato il catalogo degli aventi diritto; sono legittimati attivi il coniuge
(anche divorziato), i figli, i collaterali, gli affini, e il convivente more uxorio che abbia convissuto
con il de cuius per almeno 2 anni e fosse da questi economicamente dipendente. Quindi, i legittimati
sono ben pochi se paragonati al modello francese, dove è risarcibile anche la lesione economica
sofferta dal cliente, dal datore di lavoro o dal creditore. Inoltre, il quantum risarcibile ai familiari
per il dolore e le sofferenze patite è rimesso alla discrezionalità del giudice, e in caso di
sopravvivenza della vittima verranno indennizzate solo le spese “vive” sostenute dai congiunti per
soccorrere la vittima: in questo senso, il danno riflesso non è autonomo come nel modello francese.
Il damnum juventutis e il danno per morte del genitore
In Francia esiste un ulteriore voce di danno morale: il damnum juventutis, che si sostanzia
nell'impossibilità per il minore di svolgere, a causa della lesione subita, mestieri, professioni,
attività sportive, culturali o di svago. Questa voce di danno in realtà non è esente da critiche, perchè
la giovane età della vittima dovrebbe costituire solo un'aggravante della somma da liquidare al
minore a titolo di risarcimento del danno. In realtà, grazie alla Convenzione di New York sui diritti
del fanciullo, tutti gli Stati aderenti hanno convenuto di dover rafforzare la tutela della salute del
minore. Ma questo rafforzamento non deve far pensare che la lesione alla salute del fanciullo sia
diversa da quella di un adulto: deve piuttosto far capire che un certo tipo di lesione può essere
percepita diversamente da un bambino rispetto ad un adulto. Quindi, bisognerà procedere
all'accertamento del danno in base a criteri oggettivi e scientifici, ma bisognerà anche tener conto
della condizione soggettiva del bambino. Si pensi ad una lesione che gli impedisca di giocare; di
partecipare ad un concorso che, con una certa prospettiva di successo, lo avrebbe avviato ad un
certo tipo di carriera; oppure si pensi ad una lesione che cagioni al bambino un danno estetico o
sessuale tale da compromettere le sue relazioni sociali.
Per quanto invece riguarda la misurazione del pregiudizio patito dal minore per il decesso del
proprio genitore, la valutazione non spetterà al medico-legale, ma si ricorrerà ad una presunzione di
danno, che trova giustificazione nel trauma che l'evento luttuoso ingeneri nel fanciullo,
compromettendone potenzialmente lo sviluppo psico-fisico. Il tema è ancor più complesso quando
il figlio non sia ancora nato, perchè le corti sembrano ostili quando si tratti di riparare il danno
morale del nascituro, perchè:
•
il momento lesivo non coincide con quello dell'insorgenza del danno;
•
il nascituro è incapace di provare sofferenza e dolore per la perdita del genitore che non
conosce ancora;
•
e perchè il diritto al risarcimento del danno non è tra i diritti che la legge riconosce al
nascituro.
Questi argomenti, anche se apparentemente sembrano ineccepibili, in realtà non si possono
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condividere, perchè il concepito è un centro di interessi giuridicamente tutelato, e quindi non gli si
potrà mai negare il risarcimento di un danno ingiusto connesso all'illecita privazione di un genitore,
perchè quando il concepito verrà ad esistenza acquisterà personalità giuridica e, come tale, sin dal
primo istante avrà diritto alla tutela di tutti i suoi rapporti patrimoniali, familiari, successori e di
carattere esistenziale.
La perdita della “chance” come autonoma voce di danno emergente
La perdita della chance è un'autonoma voce di danno, che designa la perdita attuale di un
miglioramento patrimoniale futuro e possibile. La sua formulazione è avvenuta in Francia, dove il
principio dell'integrale riparazione del danno ha indotto le corti a risarcire il pregiudizio “virtuale”,
che non è legato alla certezza del danno, ma alla sua ragionevole probabilità.
Inizialmente, questo principio era circoscritto ad ipotesi tipiche, che però attualmente costituiscono
un elenco dotato di vis exspansiva, che comprende la negata possibilità di: progredire negli studi o
di avanzare di grado, di beneficiare di un trattamento assistenziale, di realizzarsi nella vita
sentimentale, fino a giungere alla perdita della probabilità di guarigione o di sopravvivenza.
Innanzitutto, la chance che è venuta a mancare deve essere vera e seria e l'onere della prova grava
sull'attore, che dovrà dimostrare il nesso di causalità tra l'evento lesivo e la perdita irrimediabile
dell'opportunità vantaggiosa.
Nel nostro ordinamento, questo tipo di danno è risarcibile in ipotesi variegate, che spaziano dalla
responsabilità professionale (soprattutto medica e legale) all'inadempimento contrattuale, fino a
giungere a casi di danno alla carriera lavorativa a causa dell'illegittima esclusione da un concorso.
Accanto a numerose affermazioni della risarcibilità del danno per perdita della chance, vi sono
alcune sentenze negative, come quella del Tribunale di Termini Imerese, ad avviso del quale il
danno per perdita della chance non sarebbe risarcibile qualora mancasse la prova della sussistenza
di un elevato grado di probabilità di conseguire l'utilità finale. Nel caso di specie, la domanda di
risarcimento si rivolgeva contro l'Ente Poste Italiane, in quanto responsabile del mancato recapito
tempestivo di un telegramma, contenente la comunicazione della data di svolgimento di una prova:
il problema è che qui la responsabilità non sarebbe extracontrattuale, cioè da fatto illecito, bensì
contrattuale. Questo fa pensare che questo tipo di danno sia ibrido, perchè in esso possono confluire
sia i caratteri di entrambe le forme di responsabilità.
Nell'esperienza inglese, il danno per perdita della chance di solito è connesso alla perdita della
chance di guarigione o di sopravvivenza; ma il common law accorda anche il risarcimento del
danno per perdita di una possibilità di profitto in una serie di situazioni, come la perdita della
possibilità di partecipare ad un concorso, l'infausto esito di una lite giudiziaria imputabile alla
negligenza del proprio avvocato o il mancato avanzamento di carriera per fatto colposo di un terzo.
La riparazione concerne un danno certo ed attuale conseguente alla perdita della possibilità di
ottenere, in futuro, un'utilità finale ipotetica e incerta: proprio per questo motivo, la perdita di
chance non è una fattispecie di lucro cessante, ma una voce autonoma di danno emergente; tuttavia,
si pone il problema di stabilire se la lost chance fondi un'autonoma azione per negligence. La
risposta sembra essere positiva solo in Australia, perchè le corti inglesi sono molto più restìe ad
accogliere questa possibilità, preferendo risolvere la questione sul terreno del nesso di causalità, nel
senso che il risarcimento deve essere negato in assenza di un nesso tra la violazione del duty of care
e il pregiudizio patito dalla vittima. Tuttavia, emblematica fu l'osservazione del giudice Donaldson
della Corte d'Appello, che, in un caso sottoposto alla House of Lords, notò come il problema non
stesse tanto nella prova del nesso di causalità, quanto piuttosto nell'individuare dei criteri limitativi
per la liquidazione del danno.
Il danno da softwere
I danni da softwere sono ormai quotidiani, perchè i computer sono impiegati praticamente in quasi
tutti i settori della vita quotidiana. Con riferimento al danno da softwere, occorre distinguere i casi
in cui il pregiudizio sia doloso da quelli in cui sia colposo: nel primo caso si parlerà di veri e propri
reati informatici (frode informatica, danneggiamento di sistemi informatici e telematici, e così via),
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mentre nel secondo caso il danno può essere contrattuale o extracontrattuale: è contrattuale se
all'acquirente venga venduto un hardwere difettoso, mentre è extracontrattuale se il danno viene
cagionato a terzi che siano in rapporto con l'acquirente. Quindi, nel primo caso interverranno le
norme relative alla responsabilità contrattuale e alle garanzie legali del compratore; nel secondo,
invece possono trovare applicazione le regole vigenti in materia di responsabilità del produttore.
In entrambi i casi dovrà essere considerata l'ipotesi del concorso di colpa dell'utente nella creazione
del danno. Il problema fondamentale è che persistono alcuni dubbi sulla natura della produzione del
softwere: cioè, ci si chiede se debba essere considerata come un'attività intellettuale o commerciale
e se per softwere si debba intendere un prodotto o una prestazione.
Infatti, quando il softwere viene venduto o dato in leasing è considerato un tutt'uno con l'hardwere
ed è inquadrabile come prodotto, ma vi sono anche casi in cui il softwere possa essere considerato
come un servizio; proprio perchè in ogni caso il danno da softwere esiste, vi sono delle polizze che
coprono il rischio di questi danni e dei danni alle informazioni oggetto dell'elaborazioni, nonché
polizze che coprono il rischio di danni a terzi e polizze di responsabilità civile verso terzi.
Un esempio di danno da softwere è quello riconducibile al Millennium Bug (con ci si riferisce ad
un potenziale difetto informatico che avrebbe potuto manifestarsi con il cambio di data tra il 31
dicembre 1999 e il 1°gennaio 2000, e che avrebbe fatto sì che i sistemi informatici avrebbero
confuso l'anno 2000 con il 1900, con conseguenze difficili da immaginare, ma che teoricamente
potevano essere così catastrofiche da determinare il blocco delle centrali elettriche e nucleari, degli
istituti di credito e delle reti di telecomunicazione).
Gli illeciti commessi mediante internet.
La responsabilità dell'internet service provider è stata modulata sugli illeciti commessi a mezzo
stampa, ma ciò non toglie che i due casi non siano equipollenti, poiché esistono diverse categorie di
internet service providers: c'è chi offre accesso alla rete telematica mondiale, chi si occupa di
fornire il contenuto di un sito e chi mette a disposizione degli utenti uno spazio telematico. Tra
queste tipologie, quella rilevante è quella del content provider, perchè ha la funzione di selezionare
il materiale da diffondere nella rete. Dato che però la quantità di informazioni che devono essere
monitorate è praticamente immensa, la giurisprudenza ha convenuto di dover esonerare il provider
da ogni tipo di responsabilità oggettiva per la diffusione in rete di messaggi illeciti, salvo che
conoscesse il contenuto delle pubblicazioni.
La responsabilità sportiva
La responsabilità sportiva concerne i danni connessi all'esercizio e all'organizzazione di attività
sportive; ai sensi della legge 426 del 1942, l'ordinamento statale riconosce valenza giuridica
all'ordinamento sportivo del C.O.N.I., che svolge anche una funzione di amministrazione statale
indiretta in materia di attività sportive.
Ora, questo tema rientra nell'ambito delle circostanze esimenti non codificate, nel senso che ci si
chiede se il rispetto scrupoloso delle regole di un certo sport possa avere valore scriminante per chi
cagioni una lesione ad altro giocatore. Bettiol, per esempio, ritiene che qui si debba ricorrere al
principio del bilanciamento degli interessi, per cui l'interesse individuale all'integrità fisica
soccomberebbe dinanzi all'interesse collettivo al potenziamento della gioventù mediante la pratica
di attività sportive, perchè l'infortunio, se avviene nel rispetto delle regole del gioco, non può
considerarsi come un atto illecito. D'altro canto, l'attività sportiva, se violenta (si pensi al rugby)
può essere considerata come un'attività rischiosa, e quindi quando si eccedano colposamente i limiti
imposti dalle regole del gioco, questo eccesso comporterà un'ipotesi di danno ingiusto, risarcibile a
norma dell'articolo 2043.
Può anche accadere che l'atleta ecceda i limiti della propria tolleranza fisica, esponendosi a rischi
superiori al consentito: da qui, allora, l'esigenza di predisporre un meccanismo assicurativo, che si
estrinseca nella Sportass (cassa di previdenza per l'assicurazione degli sportivi) che copre sia gli
sport agonistici che l'attività sportiva svolta nella scuola dell'obbligo.
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Lesione della riservatezza.
Il diritto alla riservatezza è uno dei diritti inviolabili della persona umana, cui viene accordata tutela
da parte di numerose norme penali; ma anche in ambito civile, il giudice ha la possibilità di
accertare incidentalmente la sussistenza del reato ai fini della tutela risarcitoria. Tuttavia, a causa
della Legge sulla Privacy (la 675 del 96) si prevede una tutela risarcitoria a favore delle vittime di
trattamenti illeciti dei dati personali, restringendo notevolmente la portata dell'articolo 2059.
L'articolo 18 della legge sulla privacy prevede che:“Chiunque cagioni danno ad altri per effetto del
trattamento dei dati personali è tenuto al risarcimento, ai sensi dell'articolo 2050 del Codice
Civile”.
D'altro canto, il confine tra la libertà positiva e negativa va risolto mediante il bilanciamento degli
interessi, per cui, di regola, prevale la libertà negativa ogni qualvolta la natura dei pensieri o delle
informazioni comunicate abbia comunque carattere personale e non giustifichi una divulgazione.
Si deve poi ricordare che il perimetro della zona interdetta alla curiosità degli estranei varia in
relazione alla notorietà della persona e all'interesse pubblico alla conoscenza di determinati fatti.
Questo non vuol dire che la persona famosa possa essere ritratta in qualsiasi momento e in qualsiasi
occasione, ma che può esserlo nel contesto in cui sia famosa senza che ne venga lesa la riservatezza.
Right to be let alone e freedom to speech nel diritto anglo-americano
Nel modello inglese, il riconoscimento del diritto alla privacy dipende dal bilanciamento tra “right
to be let alone” e “freedom of expression”, e proprio per questo i confini di questo diritto sono
molto incerti.
Le corti inglesi hanno spesso fatto ricorso a mezzi equitativi non particolarmente efficaci, perchè
soggetti alla dimostrazione del carattere confidenziale di un'informazione poi abusivamente
impiegata per danneggiare l'autore. Pertanto, queste insufficienze hanno comportato la necessità di
valutare l'elaborazione di un generale diritto alla riservatezza, ancora in fase di sperimentazione.
Invece, negli Stati Uniti, la privacy ha un'autonoma fisionomia, perchè la corposa legislazione
federale ha praticamente ribaltato le tradizionali regole del common law in materia di colpa, onere
della prova, risarcimento del danno e giudizio d'appello. Nel 1964, la Corte Suprema Federale
estese la protezione di cui al primo emendamento del Bill of Rights alle “menzogne diffamatorie”
rese contro individui esercenti pubblici poteri; tuttavia, questo istituto è molto meno protettivo verso
i convenuti di quanto non lo sia il diritto inglese, visto l'elevatissimo numero di condanne per
calunnia. Nell'ambito delle menzogne diffamatorie rientra l'invasione della privacy, che ingloba 4
diversi torts: il primo concerne la diffusione di notizie private e altri segreti, il secondo riguarda la
pubblicazione di notizie che screditano o offendono la persona, il terzo si definisce “intrusion” e
consente di perseguire tutte le possibili intromissioni -fisiche- nell'altrui sfera giuridica, e il quarto
riguarda lo sfruttamento commerciale illecito dell'altrui nome o immagine.
La riparazione dei danni da ingiusta detenzione
L'introduzione nel nostro ordinamento dell'equa riparazione per ingiusta detenzione, prevista dagli
articoli 314 e 315 del Codice di Procedura Penale, rappresenta il riconoscimento del principio per
cui chi sia stato privato ingiustamente della libertà abbia diritto ad una congrua riparazione per i
danni morali e materiali sofferti.
Quindi, colui che sia stato detenuto ingiustamente vanta un vero e proprio diritto soggettivo da
esercitarsi contro lo Stato, che si sostanzia nella pretesa di un risarcimento in denaro: si parlerebbe,
infatti, di un'obbligazione di diritto pubblico, che trova la propria fonte nell'ingiustizia del danno e
il proprio limite nel fatto che il risarcimento non possa essere accordato laddove l'interessato abbia
dato causa – per dolo o colpa grave – all'imposizione della pena detentiva.
È opinione diffusa che si debbano tener presenti i parametri di cui all'articolo 643 del codice di
procedura penale (in tema di riparazione dell'errore giudiziario) che fanno riferimento alla durata
della privazione della libertà e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla sentenza di
condanna. Sul punto però è sorto un contrasto: un primo argomento afferma che la determinazione
del risarcimento debba basarsi esclusivamente sul pregiudizio derivante dalla privazione della
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libertà personale che, come tale, dev'essere di identico ammontare per tutti i soggetti (per cui, ai fini
del calcolo è stabilito che “ogni singolo giorno di detenzione sta al valore monetario dello stesso,
come il tetto massimo di custodia cautelare prevista per il reato contestato sta al tetto massimo di
un miliardo”.); un secondo argomento, invece, non ritiene equa la riparazione fondata solo sulla
durata della detenzione, poiché bisognerebbe considerare anche le conseguenze personali e familiari,
l'incidenza sulla posizione economica del soggetto e il danno arrecato dalla pubblicità negativa. La
Cassazione preferisce il secondo indirizzo, perchè è giusto che la riparazione sia adeguata al modo
in cui sia stata effettivamente patita la privazione della libertà da parte di quella particolare persona,
ingiustamente detenuta.
I danni del rapporto di lavoro
Recentemente, la Corte Costituzionale ha qualificato come danno biologico il pregiudizio sofferto
da un dipendente, rimasto vittima di un infarto a causa dell'enorme carico di lavoro cui era stato
assoggettato per diversi anni, addebitabile alla mancanza di un organico adeguato a far fronte agli
impegni aziendali. I giudici di legittimità hanno asserito che l'attività di collaborazione cui
l'imprenditore è tenuto nei confronti dei suoi dipendenti si estende anche all'adozione di strumenti
atti a preservare la salute dei lavoratori: questa ipotesi comporta un danno da “superlavoro”,
risarcibile ed inquadrabile nell'ambito del danno biologico; si tratta però di una responsabilità di
tipo contrattuale, in quanto il lavoratore non dovrà dimostrare la colpa dell'imprenditore, ma solo
che questi non abbia adottato le misure necessarie a scongiurare questo tipo di lesione, perchè sarà
l'imprenditore a dover provare di non aver potuto impedire il danno per fatti a lui non imputabili.
Il “demansionamento” o la “dequalificazione”, specialmente se protratti nel tempo, parimenti si
riflettono negativamente sull'immagine professionale del lavoratore, arrecandogli un danno
patrimoniale e professionale; anche in materia di licenziamento illegittimo si è posto il problema
della risarcibilità di un ulteriore danno rispetto a quello patrimoniale, perchè il lavoratore avrà
diritto anche ad un'indennità che rappresenti il prezzo dell'estinzione del rapporto di lavoro.
Diversamente dal licenziamento illegittimo, quello ingiurioso genera un pregiudizio ulteriore e
diverso da quello consistente nella mera perdita del posto di lavoro, che legittima il lavoratore ad
agire ex contractu per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, morale e biologico. Le nostre
corti sono anche propense ad attribuire al lavoratore un'azione extracontrattuale, volta ad ottenere la
riparazione del danno esistenziale, sofferto in ragione della privazione delle retribuzioni, quali fonte
di sostentamento per sé e per la propria famiglia, che lo abbiano costretto ad un regime di vita
gravoso e pregiudizievole per l'equilibrio esistenziale, tale da arrecare un certo pregiudizio all'intero
nucleo familiare.
Le vessazioni morali sul lavoro: il mobbing
Con il termine “mobbing” si indicano una serie di condotte che avvengano sul posto di lavoro, e che
possono consistere in: aggressioni, discussioni, liti, insubordinazioni, dequalificazioni, inattività
forzate, molestie sessuali, comportamenti omissivi, elusione di doveri, uso strumentale ed estorsivo
del potere disciplinare, trasferimenti pretestuosi, boicottaggi, atteggiamenti beffardi dei superiori e
dei colleghi, umiliazioni, provocazioni quotidiane, atti di ingiuria e diffamazione, e così via.
Nonostante il termine “mobbing”, questo fenomeno ha origini scandinave riconducibili all'operato
del professor Heinz Leymann. Si parla poi di mobbing verticale, o bossing, quando le strategie
persecutorie siano messe a punto per indurre un dipendente “scomodo” a rassegnare le dimissioni,
allo scopo di eludere la lunga e costosa procedura di licenziamento. Il mobbing si configura solo
mediante la reiterazione delle condotte, che, se isolatamente considerate non costituiscono un
illecito. E, inoltre, qui la responsabilità per il danno da mobbing è sia contrattuale che
extracontrattuale quando la stessa condotta leda diritti che non trovino la propria fonte nel rapporto
di lavoro; e quindi, il lavoratore che sia vittima di mobbing può invocare sia l'articolo 1218 che
l'articolo 2043; ma se la fattispecie integri un reato, la norma di riferimento è l'articolo 2059, che
estende il risarcimento anche ai danni non patrimoniali.
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I danni da immissioni
Nel nostro ordinamento, i danni derivanti dalle immissioni nocive restano connessi all'articolo 2043
e all'articolo 844 del codice civile, che dispone 3 criteri di legittimità delle immissioni:
1)
la loro normale tollerabilità;
2)
il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà;
3)
e la priorità dell'uso, ritenuto facoltativo e sussidiario.
Dato che il legislatore non ha quantificato il limite della normale tollerabilità, in materia domina il
principio della relatività, da impiegarsi solo quando le immissioni ledano il diritto di proprietà e non
anche altri interessi, come la salute, salva l'applicabilità dell'articolo 2043 e la violazione di norme
di diritto pubblico di natura preventiva o repressiva. Quanto al secondo criterio, qualora l'attività
immissiva sia connessa ad un'esigenza della produzione e sia impossibile o antieconomico imporre
all'autore delle immissioni l'adozione di accorgimenti opportuni, il giudice può dichiarare legittime
le immissioni, anche se queste siano intollerabili, accordando un indennizzo al soggetto passivo, in
misura equivalente alla diminuzione del valore del fondo: quanto alla natura di questo indennizzo,
alcuni autori ritengono che si tratti di un corrispettivo per gli effetti negativi che limitano il diritto di
proprietà, altri invece ritengono che si tratti di un'ipotesi di responsabilità oggettiva per danni
derivanti da un'attività lecita – e, in questo senso, gli atti leciti, ma dannosi, rientrerebbero
comunque nell'area dell'articolo 2043. Si deve poi considerare che l'indennizzo non sarà mai un
vero e proprio risarcimento, perchè il risarcimento presuppone la perdita del diritto, mentre
l'indennizzo è un mezzo diretto a ristabilire l'equilibrio tra due patrimoni mediante un compenso del
sacrificio sofferto. Quindi, mentre le immissioni intollerabili giustificano un risarcimento, il
contemperamento tra esigenze opposte giustifica un mero indennizzo.
Il danno ambientale
L'ambiente è un valore universalmente riconosciuto e la sua tutela orbita intorno al diritto dell'uomo
al benessere e alla qualità della vita. Il primo programma d'azione ambientale fu elaborato dopo il
Vertice di Parigi, cui ha fatto seguito, nel 1975, la raccomandazione del Consiglio d'Europa, in cui
apparve il principio “chi inquina, paga”, poi consacrato con l'Atto Unico Europeo. La Corte di
Giustizia, poi, ha ingaggiato una vera e propria lotta per uniformare le legislazioni degli Stati
membri in materia ambientale, prevedendo alcuni oneri per le imprese potenzialmente inquinanti o
nocive. Il Trattato di Maastricht del '92 ha poi ribadito la necessità di ricorrere ad una crescita
sostenibile e rispettosa dell'ambiente, mirando ad un elevato livello di tutela, tenendo conto delle
diverse situazioni a livello regionale, così come il Libro Verde sul risarcimento dei danni ambientali
addita la responsabilità civile come strumento con cui obbligare chi sia responsabile
dell'inquinamento a sopportare i costi dei danni conseguenti. Alla luce di ciò, si evince l'anelito di
una più efficace protezione dell'ambiente, inteso come bene pubblico.
Sul piano legislativo, si deve notare che la legge italiana 349/1986 vanta un'indiscussa leadership
nel panorama europeo, perchè, diversamente da quella tedesca, considera le risorse ambientali
direttamente tutelabili, a prescindere dalla lesione di beni ulteriori, quali la salute e la proprietà.
In ragione di ciò, il danno ambientale è un danno collettivo e patrimoniale; tanto è vero che il primo
comma dell'articolo 18 della legge 349/86 ricalca fedelmente lo schema dell'articolo 2043, perchè
riconduce la responsabilità per danno ambientale a “qualunque fatto doloso o colposo, in violazione
di norme di legge o provvedimenti legali, che comprometta l'ambiente”. Se ne deve dedurre, che qui
venga rigettato il principio della responsabilità oggettiva, che rileva sulla base del mero nesso di
causalità tra condotta (attiva od omissiva) ed evento (dannoso o pericoloso). Titolare del potere
d'azione è soltanto lo Stato, mentre alle associazioni ambientalistiche è consentito solo un intervento
adesivo dinanzi al giudice ordinario e al giudice amministrativo, al fine di ottenere l'annullamento
di un provvedimento illegittimo, lesivo dell'interesse ambientale.
Un'ulteriore problema è poi quello della quantificazione del risarcimento per danno ambientale,
visto che è difficile stabilire quanto valga un fiume o una specie vegetale o animale rara.
In Italia è previsto, in via sussidiaria, che il giudice, laddove non sia possibile una quantificazione
precisa del danno, ne determini l'ammontare in via equitativa, tenendo conto del grado della colpa
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individuale, del costo necessario alla riparazione del danno e del profitto conseguito illecitamente
dal trasgressore.
Per quanto concerne la giurisdizione, va detto che il giudice ordinario è competente in caso di danni
arrecati da dipendenti e funzionari pubblici, mentre alla Corte dei Conti spetta la competenza per i
giudizi di rivalsa della PA nei confronti del dipendente o dell'amministratore che, dolosamente o
colposamente, abbia danneggiato un terzo, violando i doveri d'ufficio.
D'altro canto, si è pensato che l'azione a difesa dell'ambiente dovrebbe spettare anche ad un
Pubblico Ministero, visto che l'ambiente è un bene collettivo, tanto è vero che si è pensato ad un
Pubblico Ministero Europeo che avrebbe dovuto presentare le accuse dinanzi ai Tribunali Nazionali
per ottenere sia la condanna penale per i reati di frode comunitaria, sia il risarcimento del danno e
restituzione del maltolto. In Italia si è penato anche ad un Tribunale Specializzato in Materia
Ambientale, composto da giudici ordinari, amministrativi e contabili; tuttavia, per ora questa
soluzione resta soltanto ipotetica.
I danni da incidenti nucleari: il principio della canalizzazione della responsabilità.
L'energia nucleare è potenzialmente dannosa, e proprio per questo sono stati istituiti degli organismi
internazionali di controllo, che hanno predisposto degli importanti documenti come la Convenzione
di Parigi, la Convenzione Supplementare di Bruxelles e la Convenzione di Vienna. Tuttavia, le
convenzioni vincolano esclusivamente gli Stati aderenti, e dato che non sempre i danneggiati erano
cittadini di Stati firmatari, ci si è mossi per ampliare la tutela: così, è stato elaborato un Protocollo
Congiunto da un gruppo di esperti appartenenti all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica
e all'Agenzia per l'Energia Nucleare.
L'incidente di Chernobyl del 1986 ha evidenziato la necessità di una revisione della normativa
internazionale in materia di energia nucleare, che ha condotto alla Convenzione sulla tempestiva
notifica di un incidente nucleare e alla Convenzione relativa all'assistenza in caso di incidente
nucleare o di emergenza radiologica. Il regime di responsabilità civile in materia nucleare è poi
completato da altre due convenzioni di Bruxelles, una del '62 e l'altra del '71. In Italia, la
responsabilità civile nucleare è costretta a bilanciare due esigenze confliggenti: da un lato, la
predisposizione di un sistema risarcitorio adeguato ai bisogni della collettività, dall'altro, il varo di
una normativa che non penalizzi lo sviluppo dell'industria nucleare. Il risultato, tuttavia, è
decisamente sfavorevole a quest'ultima esigenza, perchè la disciplina della responsabilità civile
nucleare trova un limite nella natura dell'impiego che si faccia di questa energia; per cui, qui vale la
responsabilità oggettiva, dato che l'attuale normativa è basata sul principio della canalizzazione
della responsabilità verso un soggetto immediatamente individuabile: cioè l'esercente dell'impianto
nucleare, vale a dire colui che sia titolare di un'apposita licenza per l'esercizio dell'impianto
nucleare, rilasciata dal Ministro competente. È chiaro che allora il requisito soggettivo della
colpevolezza quindi non rientri nell'imputazione della responsabilità da danno nucleare. Questo
rigore viene poi mitigato dal fatto che il risarcimento del danno nucleare avvenga entro limiti
quantitativi e temporali prestabiliti, espressi ancora in lire, e l'azione risarcitoria può essere esperita
contro l'esercente, il suo assicuratore o l'eventuale garante.
Tuttavia, se la somma da risarcire superi il massimo previsto per legge o se siano pendenti più
domande in relazione al medesimo incidente nucleare, si attiverà una procedura concorsuale che
accerti l'insufficienza delle garanzie finanziarie: in questo modo, il Tribunale ridurrà l'importo di
ogni danneggiato in misura proporzionale.
L'azione di risarcimento può essere promossa entro 10 anni dall'incidente nucleare.
La responsabilità per danni arrecati da velivoli e dal lancio di oggetti spaziali
La navigazione aerea è un'attività rischiosa che induce ad apprestare una tutela specifica ai terzi che
possano esserne in qualche modo danneggiati; d'altro canto, questi danni non possono considerarsi
“ingiusti” ai sensi dell'articolo 2043, perchè la navigazione aerea è un'attività lecita, ma rischiosa,
per la quale vale l'imputazione del danno a titolo di responsabilità oggettiva.
Il soggetto passivo dell'obbligazione risarcitoria è colui che utilizzi il velivolo al momento del
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danno o che abbia conferito a terzi il diritto all'utilizzo, e questi risponde di tutti i danni cagionati
dal velivolo a cose e persone che si trovino sulla superficie, anche per causa di forza maggiore
(però non risponde dei danni causati a cose o persone che si trovino all'interno del velivolo). Il fatto
che la forza maggiore non costituisca una circostanza esimente amplia notevolmente l'area del
rischio connesso ai danni arrecati da velivoli, cui si contrappongono 2 circostanze scriminanti, e
infatti: la responsabilità dell'esercente è esclusa qualora egli provi che i danni siano stati
volontariamente prodotti da persone estranee all'equipaggio e di non aver potuto impedire il
verificarsi dell'evento dannoso; e parimenti la responsabilità è esclusa quando l'esercente riesca a
provare che l'evento dannoso sia imputabile a colpa del danneggiato.
Esistono altre 2 ipotesi di esclusione della responsabilità: quella dei danni derivanti da un conflitto
armato o da moti civili e quella in cui l'esercente sia stato privato dell'uso dell'aeromobile con un
atto della pubblica autorità. L'esercente, comunque, beneficia di una limitazione del debito, che
varia a seconda del peso del velivolo; tuttavia, la responsabilità è illimitata se il danneggiato provi
che il danno sia stato intenzionalmente causato.
Quando poi si tratti di danni derivanti dal lancio di oggetti spaziali, la Convenzione del 1972
stabilisce la responsabilità internazionale dello Stato autore del lancio; è prevista solo una
fattispecie giustificante per danni attribuibili al comportamento doloso o colposo dello Stato che
richieda il risarcimento, anche se l'onere della prova grava sempre sullo Stato autore del lancio.
Il danno contrattuale
Nel Common Law, il risarcimento del danno contrattuale è limitato solo ad alcune conseguenze
dell'inadempimento, essendo esclusi i danni eccezionali ed imprevedibili. Parimenti, il codice civile
tedesco considera rilevante solo l'evento dannoso che colpisca determinate categorie di beni e diritti.
In Francia, invece, questo problema è risolto pacificamente, perchè per individuare i danni indiretti,
imputabili all'inadempimento del debitore, si ha riguardo al nesso di causalità tra il pregiudizio
subito dal creditore e l'inadempimento del debitore.
Nel sistema italiano non esiste una definizione specifica del danno contrattuale, ma è pacifico che
siano risarcibili sia i danni diretti che quelli indiretti; anche se spesso è possibile riscontrare
pronunce che sembrano disattendere la regola dell'articolo 1223, così da allargare l'ambito della
risarcibilità; infatti, è interessante rilevare che, secondo la Corte Costituzionale, a differenza della
responsabilità aquiliana, nella responsabilità contrattuale la preesistenza di un'obbligazione
presuppone l'applicabilità del criterio della prevedibilità (nel senso che sono risarcibili solo i
danni oggettivamente prevedibili al momento in cui sia sorta l'obbligazione, a meno che il debitore
non abbia agito con dolo, perchè in quel caso dovrà risarcire anche i danni imprevedibili).
Il danno dev'essere integralmente risarcito, anche se nel nostro ordinamento si incontra un limite nel
criterio dell'evitabilità, di cui all'articolo 1227 del Codice Civile, che dispone che:
“Se il fatto colposo del creditore abbia concorso a cagionare il danno, il risarcimento sarà
diminuito in modo proporzionale alla gravità della colpa e all'entità delle conseguenze che ne siano
derivate. Inoltre, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare
mediante l'ordinaria diligenza”.
In questo senso, secondo la giurisprudenza, il risarcimento può essere diminuito quando il creditore
che abbia contribuito alla produzione del danno sia incapace di intendere e di volere.
CAPITOLO 3
SELEZIONE DEGLI INTERESSI E MODELLI DI TUTELA
La risarcibilità degli interessi legittimi
La Corte di Cassazione, con la sentenza 500 del 99, ha superato in modo definitivo il principio che
limitasse il risarcimento ai soli diritti soggettivi, ravvisando nell'articolo 2043 una clausola generale
dell'ingiustizia del danno, capace di tutelare tutti gli interessi giuridicamente rilevanti.
Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno affermato la risarcibilità degli interessi che vengano
ingiustamente lesi a causa dei provvedimenti della PA; ipotesi che comporta che il giudice debba
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innanzitutto valutare se il provvedimento sia illegittimo o sia stato adottato o eseguito in violazione
dei doveri di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Alla luce dei fatti, bisogna ricordare due sentenze del TAR della Lombardia e della Sicilia; in
particolare, la sentenza del TAR siciliano ha affrontato la questione della natura giuridica dello ius
aedificandi e quella della possibilità di configurare una legittima aspettativa di risarcimento per
perdita della chance nel momento in cui al proprietario venga illegittimamente impedito di costruire
sul proprio fondo – ipotesi che, chiaramente, configura un danno ingiusto, in connessione con la
perdita dell'utilità finale che sarebbe derivata dall'edificazione.
Quindi, il principale merito della sentenza 500 del 99 è quello di aver affermato che l'articolo 2043
sia norma primaria, anche se resta da chiarire con quale criterio si debbano individuare questi
interessi “giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela”.
Nelle esperienze italiana e francese, il principio del neminem laedere si contrappone alla tenace
tipizzazione dei torti civili, emergenti nella prassi: e in questo si concretizza il “paradosso del
neminem laedere”, che richiede un'opera di contenimento volta a scongiurare il pericolo di
alimentare una catena infinita di richieste risarcitorie.
In Italia, quest'opera di contenimento è svolta dal requisito dell'ingiustizia del danno, perchè
consente di selezionare quali siano gli interessi meritevoli protezione, traendo ispirazione dai
principi costituzionali, tra i quali sono prioritari quelli che facciano capo alla “persona”.
In Francia, quest'opera di contenimento è svolta dall'illiceità dell'interesse leso, senza dover
ricorrere necessariamente ad una classificazione di questi interessi.
Nel modello anglo-americano, le tecniche di selezione degli interessi prendono il nome di policy
factors e consistono in: prevedibilità, ragionevolezza, scopo della norma e nesso di causalità. Con
riferimento a quest'ultimo, nel tempo si sono succedute diverse teorie per stabilire quando e a quali
condizioni una condotta potesse essere causa di un certo evento; tra le diverse teorie,
particolarmente importante è quella dell'equivalenza delle condizioni (detta anche teoria della
condicio sine qua non), che però ha un limite, in quanto, essendo tutte le circostanze equivalenti,
non sarà possibile sottrarne mentalmente anche una sola senza che l'evento venga meno; in questo
modo, però, è stato correttamente osservato che almeno in linea teorica queste circostanze
potrebbero essere infinite, così da non offrire una soluzione puntuale al caso complesso. A questa
teoria si è poi contrapposta quella della causalità adeguata, che presenta il limite opposto e non
considera ipotesi di decorso causale atipico e anomalo, ipotesi di interruzione del nesso causale,
ipotesi in cui l'evento sia il risultato di una combinazione di eccezionali fattori casuali e non causali,
e così via; poi, esiste anche la teoria della causalità umana, che ha come rischio quello di un
irrazionale slittamento verso l'imputazione soggettiva.
Per cui, come correttivo al regresso all'infinito, è stata proposta la sussunzione del rapporto di
causalità in una legge scientifica di copertura, che comunque può porre in essere svariati problemi
quando il riscontro statistico non sia elevato (e a questi problemi la giurisprudenza italiana pone
rimedio postulando la prevalenza della probabilità logica sulla probabilità statistica, che si basa sul
mero grado di frequenza). D'altro canto, anche nell'ambito del Common Law spesso ci si rifà al
“commonsense” per stabilire quali, tra diverse concause, sia stata davvero idonea a generare un
certo evento.
Il tramonto della colpa e le ipotesi di responsabilità oggettiva
Va tenuto presente che l'articolo 2043 avverte che sono risarcibili solo i danni derivanti da dolo o
colpa, dove il fatto doloso è quello che l'autore non doveva volere, mentre quello colposo è quello
che l'agente non doveva produrre, e che si è verificato per negligenza, imprudenza, imperizia o per
violazione di norme di legge, regolamenti, discipline oppure ordini. Quindi, affinchè l'atto sia
illecito, oltre ad essere tipico e antigiuridico, dev'essere anche doloso o colposo: questi due requisiti
però non attengono al giudizio di colpevolezza, ma rilevano già al momento della tipicità.
Nel sistema anglo-americano si è molto più indulgenti nei confronti dell'incapace; in questo senso,
si utilizza un criterio di valutazione soggettiva quando sia in gioco la colpa di natura concorrente; e
un criterio di imputazione oggettiva, quando è l'incapace ad essere convenuto.
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Sia nel nostro ordinamento che in quelli stranieri si è concordi nel ritenere che la colpa sia il
principale criterio di imputazione della responsabilità, anche se oggi ha perso i suoi originari
connotati etici; tuttavia, esistono casi in cui si afferma solo la responsabilità oggettiva, da molti
ritenuta inaccettabile, in quanto violerebbe il principio di cui al primo comma dell'articolo 27 della
Costituzione. Ad esempio, nell'ambito del codice penale italiano sono pochissime le circostanze in
cui valga esclusivamente la responsabilità oggettiva; tali sono: i reati aggravati dall'evento, il delitto
preterintenzionale, i casi di aberratio di cui agli articoli 82 e 83, le ipotesi di cui agli articoli 116 e
117, l'articolo 57 bis e l'articolo 602 quater.
Nel Common Law, di fatto, non esistono ipotesi equivalenti, anche se la giurisprudenza inglese
comunque ha individuato un esiguo numero di casi di strict liability; al contrario, nel sistema nordamericano, l'evoluzione del tort of negligence ha dato vita a sviluppi diversi, in quanto consente al
danneggiato di non dover provare la colpa del danneggiante.
Inoltre, la strict liability può essere assoluta o relativa: quella assoluta non ammette prova contraria
e stabilisce una presunzione di responsabilità sulla base del solo nesso di causalità; quella relativa,
invece consente all'individuo di dimostrare la propria estraneità ai fatti.
Ultrahazardous activities: restaurazione del principio della colpa?
Quando un'attività sia per sua natura particolarmente rischiosa, comporta che chi la eserciti debba
osservare una serie di regole di condotta atte a scongiurare i possibili danni che ne possano derivare.
Chi si impegni in tali attività può essere ritenuto oggettivamente responsabile dei danni causati a
terzi, nonostante abbia preso ogni precauzione possibile per scongiurare eventi dannosi o pericolosi.
Ci sono diverse categorie di attività oggettivamente pericolose, che includono: trasporto e uso di
esplosivi, materiali radioattivi, sostanze chimiche pericolose o custodia di animali predatori o
velenosi. Allora, se queste attività danneggino qualcuno, l'autore sarà oggettivamente responsabile
del danno, a meno che non provi la negligenza di chi l'abbia subìto.
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