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cinque anni buttati al vento

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cinque anni buttati al vento
CINQUE ANNI
BUTTATI AL VENTO
Se si lasciano da parte le sciagurate leggi sulla giustizia e l’ancora più sciagurata
riforma costituzionale e si passa in rassegna l’attività del governo dal 2001, quello
che colpisce del quinquennio berlusconiano non è tanto quello che è stato fatto, ma
tutto quello che non è stato fatto.
In questi ultima anni è divenuto chiaro come non mai che l’Italia è un Paese fermo al
palo che rischia di avvitarsi in un lento ed inesorabile declino. Certo non la deriva
argentina preconizzata dal Financial Times, ma una progressiva perdita della capacità
di sostenere la competizione internazionale, sia sui mercati esteri che su quelli
nazionali, di produrre ricchezza e benessere, quello sì. In gran parte si tratta di
problemi che risalgono indietro nel tempo, alcuni di carattere strutturale, altri no, e
non tutti immediatamente evidenti già nel 2001. Non si può quindi imputare al
governo del centrodestra di essere stato la causa del declino italiano, tesi che pure si
sente riecheggiare qua e là. Berlusconi e il suo governo hanno tuttavia una
responsabilità forse ancora più pesante: non solo quella di non aver fatto nulla per
contrastare lo stallo in cui si trova la nostra economia, cosa già grave di per sé, ma
quella pazzesca di essersi ostinati a negare persino che il problema esistesse, e nelle
rare occasioni in cui lo hanno fatto ad ostinarsi a dare la colpa a “nemici esterni”, la
Cina, l’euro, il Patto di Stabilità e Crescita.
Aspettando Godot
Come accennato sopra ad esaminarla da vicino la “non-politica” del governo della
Casa delle libertà è impressionante. Partiamo dal caso più eclatante, quello della
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finanza pubblica. È prassi standard dei governi di mezzo mondo, o almeno di quelli
che affrontano periodicamente il giudizio degli elettori, di stringere la cinghia e
imporre sacrifici nella prima metà o due terzi del mandato per poi dissipare risorse a
fini elettorali all’avvicinarsi delle urne. Nulla di scandaloso, si chiama ciclo politico,
ed è ormai talmente una regola da essere teorizzato nei manuali di economia e di
politica economica.
Sembra incredibile, ma il governo dell’accoppiata Berlusconi-Tremonti non è riuscito
neanche in questo. Preoccupato di apparire come il governo delle tasse e di inimicarsi
i lungimiranti imprenditori di Parma e il popolo delle partite Iva, l’esecutivo del
“nuovo miracolo italiano”, secondo l’infelice definizione dell’ex governatore di
Alvito, ha continuato a spendere e spandere andando avanti a forza di una-tantum,
condoni, cartolarizzazioni e quanto altro partorisse ogni settembre la fervida e
fantasiosa mente del titolare di via XX settembre. Il tutto in attesa della ripresa che
tutto avrebbe dovuto risolvere e che, a guardare le previsioni sfornate ad ogni piè
sospinto dal Ministero dell’Economia, sarebbe dovuta arrivare per il semplice fatto di
essere evocata continuamente con tassi di crescita che neanche il mago Do
Nascimiento si sarebbe arrischiato a proporre.
La ripresa, con gran sconforto del miracolistico duo e di altri 56 milioni e passa di
italiani, non è arrivata. Altro che Godot…Nel frattempo interventi strutturali sulla
spesa, neanche a parlarne. Solo tagli e taglietti, quanto basta per non superare di
troppo la fatidica soglia del 3%. Tanto c’era chi sotto la mattonella aveva lasciato un
avanzo primario del 5,7%. E se anche quello non fosse bastato, meglio tentare, con
un qualche successo, di sfasciare il Patto di Stabilità e Crescita che rimboccarsi le
maniche. Risultato: avanzo primario azzerato e rapporto debito/PIL in salita per la
prima volta dal 1994. Roba da primato. Invece di approfittare dei bassi tassi
d’interesse per abbattere il debito, l’incredibile duo è riuscito addirittura a rimetterlo
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su un trend di crescita. C’è poco da sorprendersi poi se oggi, con i tassi d’interesse di
nuovo in aumento, sui mercati si rincorrono voci sempre più frequenti di un possibile
downgrading dell’Italia da parte delle agenzie di rating (il che non giustifica
naturalmente i catastrofismi di Nouriel Roubini o del Financial Times). La beffa è
che tutto ciò non ha avuto alcuna contropartita. Nessun programma di spesa pubblica
in grado di rilanciare la crescita, nessun abbattimento del cuneo fiscale, nessun
provvedimento serio a favore delle imprese, nulla a favore delle scuole o delle
università, nulla a favore della ricerca. Solo un’irrisoria ed inutile riduzione
generalizzata delle tasse. Qualche cappuccino al mese in più.
Garbage In…Garbage Out
Benché ineguagliabile l’incapacità in tema di finanza pubblica, che fatalmente avrà
ripercussioni sulla capacità di qualsiasi governo di intervenire a sostegno della
crescita a causa del sempre più stringente vincolo di bilancio, non è (purtroppo)
l’unica area in cui si è visto il governo prendere fischi per fiaschi. Nel 2001, il
quadrunvirato Berlusconi-Tremonti-Maroni-D’Amato, sostenuto dai fedelissimi
Sacconi e Fini, quest’ultimo in inedita versione thatcheriana, decide che tutti i mali
dell’economia italiana risiedono nell’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. Tesi
singolare vista l’elevata incidenza di partite Iva e Co.co.co, per non parlare del 27% o
giù di là di sommerso, ma tant’è. D’altra parte in campagna elettorale il premier
aveva siglato a Parma un contratto assai ben più impegnativo di quello con gli
italiani. E almeno quello andava onorato. E così, follia nella follia, il governo si
imbarca in una estenuante quanto totalmente inutile e priva di senso battaglia contro
l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, la cui incidenza sulla presunta rigidità del
mercato del lavoro era ed è pressoché nulla. Due anni persi a prezzo di un conflitto
sociale che porterà in piazza oltre tre milioni di lavoratori.
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Intanto viene approvata una riforma del mercato del lavoro con il nobile intento di
eliminare un po’ di lacci e lacciuoli per le imprese e fornire finalmente una tutela alla
fascia più debole dei lavoratori: i precari. La riforma, secondo tutte le rilevazioni, non
solo dei sindacati, ma anche dell’associazione dei dirigenti risorse umane e delle
stesse imprese, si risolve in un buco nell’acqua. La miriade di nuovi contratti non
trova applicazione da parte delle aziende che spesso non li conoscono o li giudicano
troppo complicati. Persino le società dei call-centre, il simbolo del lavoro precario,
decidono di ignorarli quando si tratta di rinegoziare la piattaforma contrattuale. I
co.co.co, ribattezzati nel frattempo co.co.pro, non hanno alcuna tutela in più e non
solo non diminuiscono, ma aumentano esponenzialmente. E insieme a loro
aumentano le “false” partite Iva, in realtà contratti di lavoro più o meno temporanei
camuffati. Secondo la Banca d’Italia oggi tra i giovani un quarto dei lavoratori è
precario, e tra i neo-assunti lo è addirittura uno su due. Un bel risultato, non c’è
dubbio, che non è meppure servito per alimentare la crescita economica. D’altra
parte, dato l’errore nella premessa (la bassa crescita è colpa della rigidità del lavoro),
non c’è da sorprendersi. Come dicono gli econometrici: Garbage In…Garbage Out.
Nel frattempo i buoi sono scappati
Intanto, mentre il governo si batte lancia in resta per onorare il suo debito nei
confronti della Confindustria versione D’Amato, l’Italia scopre improvvisamente di
non essere più quella di un tempo. O meglio di essere sempre la stessa in un mondo
che nel frattempo è cambiato radicalmente. Le imprese, dopo l’avvento dell’euro, non
possono più truccare la partita invocando e ottenendo svalutazioni competitive. Le
loro produzioni soffrono in misura crescente la competizione delle economie
dell’estremo oriente, Cina in testa. E date le loro dimensioni, e anche la loro limitata
visione strategica, non sono in grado di controbattere, al contrario di quelle degli altri
principali Paesi europei.
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Come si è già accennato, i problemi hanno radici lontane, le cui origini vanno
rintracciate più nella scarsa qualità del capitalismo nostrano che nella politica dei vari
governi. Ma ciò non toglie che i sintomi e le avvisaglie della crisi del Made in Italy
fossero tutti lì per chi li volesse cogliere. Cosa che il governo si è puntualmente
astenuto dal fare, continuando a cullarsi nell’illusione della crisi passeggera, salvo poi
imbarcarsi in crociate sconsiderate (la Cina, l’euro) quando finalmente ha dovuto
prendere atto che di passeggero la crisi aveva e ha ben poco. Così, piuttosto che
avviare una politica industriale che avesse come obiettivo di medio-lungo periodo il
riposizionamento del tessuto produttivo italiano in settori tecnologicamente più
avanzati, l’esecutivo berlusconiano ha continuato a sostenere la validità dell’attuale
modello basato su produzioni a basso valore aggiunto, limitandosi sostanzialmente a
proporre e perseguire politiche protezionistiche nei confronti della Cina. Ma ormai
era tardi e i buoi erano già scappati. Meglio sarebbe stato intervenire quando dazi e
contingentamenti facevano parte di un accordo internazionale come il Multi-fibre. Ma
allora forse si era troppo impegnati a fare crociate contro l’articolo 18 o ad approvare
leggi vergognose in tema di giustizia per accorgersi che quell’accordo sarebbe presto
scaduto e che come conseguenza i Paesi sviluppati sarebbero stati inondati di prodotti
tessili cinesi. L’unico altro guizzo d’ingegno è stato il famigerato provvedimento
sulla competitività, che tutto conteneva tranne misure a favore del rilancio del sistema
produttivo italiano, a meno che non si voglia intendere in tal senso l’abolizione del
visto notarile nel passaggio di proprietà delle automobili.
Certo, intervenire su un problema complesso come quello della competitività del
sistema imprenditoriale italiano non è facile. Ma qualcosa si sarebbe potuto fare:
incentivare la ricerca e lo sviluppo a livello privato; finanziare quella pubblica o parapubblica; agire su Eni ed Enel perché, invece di redistribuire utili per dare un po’ di
respiro alle casse dello Stato, finanziassero programmi di ricerca in campo
energetico-ambientale; operare a sostegno del credito per le imprese, soprattutto per
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progetti innovativi; avviare serie politiche di liberalizzazione, in primis nel settore
delle professioni; promuovere e sostenere la presenza delle nostre imprese all’estero;
realizzare una politica dell’immigrazione intelligente volta ad attrarre cervelli oltre
che manodopera (altro che Bossi-Fini). Insomma, da fare ce n’era e ce n’é. Si chiama
politica industriale. Ma forse era pretendere troppo da Marzano e dal suo successore
Scajola il cui ruolo è stato quello di semplici notai di decisioni prese al Ministero
dell’Economia. Quest’ultimo intanto non ha trovato nulla di meglio che ricreare
surrettiziamente una sorta di moloch che controlla ormai quasi tutte le imprese a
partecipazione statale: la Cassa Depositi e Prestiti. Un mostro di dimensioni enormi
nelle mani del solo titolare del dicastero di via XX settembre e di fatto sottratto a
qualsiasi indirizzo o controllo politico.
Tutto questo senza considerare il Mezzogiorno, per cinque anni scomparso dagli
schermi radar di Palazzo Chigi e totalmente abbandonato al suo destino. D’altronde
come ha autorevolmente dichiarato il Ministro Lunardi “con la Mafia bisogna
convivere”. Amen. L’unica speranza è che dal 10 aprile non ci tocchi continuare a
convivere con un governo come quello che non ci ha governato dal 2001 ad oggi.
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