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Analisideltesto - Editori Laterza

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Analisideltesto - Editori Laterza
cop_LETTBASE_vol2.eps 21-04-2009 16:18 Pagina 1
C
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laLetteraturaLaterza
laLetteraturaLaterza
Dalle Origini
al Cinquecento
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Dalle Origini
al Cinquecento
Antologia della
«Divina Commedia»
ISBN 978-88-421-0831-3
laLetteraturaLaterza
laLetteraturaLaterza
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Dal Seicento
al Primo
Ottocento
Dal Secondo
Ottocento
a oggi
2
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Dal Seicento
al Primo Ottocento
ISBN 978-88-421-0832-0
Dal Secondo
Ottocento a oggi
ISBN 978-88-421-0833-7
In copertina: Caravaggio, Canestro di frutta,
1596 ca., Pinacoteca Ambrosiana, Milano
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Colori compositi
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laLetteraturaLaterza
LETTERATURA DI BASE
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Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte (o
opportunamente punzonato o altrimenti contrassegnato),
è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione
vietati: art. 17, c.2 l. 433/1941). Esente da I.V.A. (D.P.R.
26-10-1972, n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di
accompagnamento (D.P.R. 6-10-1978, n. 627, art. 4, n.6).
Euro 30,00 (i.i.)
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Dal Seicento
al Primo
Ottocento
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Secondo Settecento
Lo scenario
GLI EVENTI
1750-1780
1751-1766
1773-1776
1788
1789
1789-1791
1791-1793
1793-1794
1794
1796
1797-1799
1799
1804
1810
1812
1813
1814
1815
Età delle riforme in vari Stati europei; i despoti
illuminati.
Diderot e d’Alembert pubblicano l’Enciclopedia.
Guerra di Indipendenza delle colonie americane.
Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Stati generali in Francia.
Inizia la Rivoluzione francese: abolizione del
regime feudale, Dichiarazione dei diritti
dell’Uomo e del Cittadino, monarchia
costituzionale.
Seconda fase: esecuzione di Luigi XVI, è
proclamata la repubblica.
Terza fase: Robespierre e i giacobini al potere;
il Terrore.
Quarta fase: Robespierre è ghigliottinato;
il potere passa alle forze borghesi.
Napoleone in Italia.
Repubbliche giacobine in Italia.
Repubblica Partenopea a Napoli; reazione
borbonica a Napoli; colpo di Stato in Francia;
Napoleone primo console.
Codice civile napoleonico; Napoleone
imperatore.
Napoleone sposa Maria Luisa d’Austria; l’Europa
continentale è sotto il controllo francese.
Inizia la campagna di Russia; Napoleone a
Mosca. Inizia la ritirata.
Napoleone sconfitto a Lipsia.
Napoleone esule nell’Isola d’Elba; i sovrani
rientrano nei loro regni. Congresso di Vienna.
Napoleone rientra in Francia e riconquista
il potere. Battaglia di Waterloo (giugno).
Napoleone esiliato a Sant’Elena. Si chiude
il Congresso di Vienna.
IN QUESTA SEZIONE
Moduli Storico-culturali
• L’Età dei Lumi e delle rivoluzioni / L’eredità del periodo
• L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo / L’eredità
del periodo
Autori
• Carlo Goldoni • Vittorio Alfieri • Ugo Foscolo
Opere
• Enciclopedia / dall’opera al tema L’importanza sociale della «virtù»
(ma anche del «vizio») nel Settecento
• Il Giorno di Giuseppe Parini
Genere
• Le origini del romanzo
a seconda parte del Settecento segnò, per
tanti aspetti, la nascita del mondo moderno;
infatti alcuni eventi aprirono nuove prospettive
storiche e culturali: la rivoluzione industriale, il
trionfo della ragione illuminista, la crescita della
borghesia, la rivoluzione e l’indipendenza degli
Stati Uniti d’America, la Rivoluzione francese.
Le conquiste del pensiero scientifico e filosofico
fecero crescere nel corso del XVIII secolo un
atteggiamento razionalistico che coinvolse strati
rilevanti della borghesia europea: nasce così
l’Illuminismo, che conobbe il massimo sviluppo
nei decenni tra il 1750 e il 1780. Esso trae il
nome dal compito chiarificatore affidato all’uso
critico della ragione, in grado di sottoporre la
realtà ad un’analisi libera dai condizionamenti
della religione, dell’autorità degli antichi o della
tradizione, e può contribuire alla «felicità
pubblica». In nome di questi convincimenti gli
illuministi lottarono per le riforme, la diffusione
del sapere, il miglioramento delle condizioni di
vita e per l’emancipazione dalla superstizione,
dal fanatismo.
Protagonista dell’Illuminismo fu un nuovo
intellettuale, il philosophe, che riassume in sé gli
elementi del nuovo ideale umano, le qualità
morali, le virtù civili, la curiosità, l’indipendenza
di giudizio. Al centro dell’esperienza illuminista
c’è la grande impresa dell’Enciclopedia di
d’Alembert e Diderot.
A partire dal 1780 la forza innovativa
dell’Illuminismo si esaurisce; la crisi si manifesta
con la Rivoluzione francese: la Dichiarazione dei
diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 riprende
idee illuministe, ma gli eventi successivi
mettono in crisi l’ideologia delle riforme.
La Rivoluzione francese, dopo la prima fase alla
quale parteciparono le masse popolari e che si
concluse con l’esecuzione di Luigi XVI e il Terrore
giacobino, imboccò decisamente una strada
nuova dal 1795: emarginate le forze popolari, la
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I CONCETTI
borghesia consolidò le conquiste compiute e il
potere sull’intera società. In questa fase emerge la
figura di Napoleone; l’Impero che egli riuscì a
creare da una parte fu «figlio» della rivoluzione e
delle sue idee, dall’altro ne segnò la conclusione con
la formazione di uno Stato borghese, fortemente
accentrato. Il crollo dell’Impero napoleonico segnò
la rivincita delle potenze europee che si
apprestarono a dare un nuovo assetto all’Europa
nel Congresso di Vienna (1814-15).
Il secondo Settecento fu contraddistinto dal trionfo
dell’arte neoclassica, teorizzata da Johann J.
Winckelmann. Il Neoclassicismo ebbe i suoi punti
di forza nelle arti figurative, ma vi fu anche un
Neoclassicismo letterario. Tuttavia, questa
concezione artistica non fu univoca: accanto ad
un recupero dei modelli classici, si affermò un
Neoclassicismo che esaltava l’antichità come
patria dei valori civili e morali che tornavano in
auge nella società moderna. La Grecia classica fu
vista da molti poeti e scrittori come l’immagine
ideale di una situazione in cui l’individuo era stato
veramente libero, come non poteva più esserlo nel
mondo moderno. Contemporaneamente si
manifestarono, soprattutto in Germania e
Inghilterra, movimenti artistici e letterari che
contestavano quel modo di concepire l’arte; alcuni
poeti, critici e scrittori rivendicavano un’idea di
arte libera da regole e da modelli da imitare e
produssero quei fenomeni culturali e letterari che
si indicano solitamente come preromantici.
Illuminismo È il movimento culturale che domina la
seconda metà del Settecento; il «Lume» al quale rimanda il
nome è quello della ragione, che squarcia le tenebre
dell’ignoranza e della superstizione. Gli illuministi ebbero lo
scopo di creare un sapere capace di migliorare le condizioni
dell’umanità e di incidere sulla vita pubblica; per questo alcuni
di loro collaborarono con i monarchi europei per avviare
riforme che furono un importante passo verso la
modernizzazione della società. Tutti gli illuministi si sentivano
partecipi di questo comune slancio culturale, al di là delle
diverse componenti nazionali, e il movimento fu cosmopolita,
in quanto questi intellettuali si sentivano «cittadini del mondo».
Rivoluzione industriale Negli ultimi decenni del
Settecento, in Inghilterra, si mise in moto il processo di
trasformazione del modo di produrre manufatti che va sotto il
nome di rivoluzione industriale. Essa si fonda sulla
concentrazione nella fabbrica di una forza lavoro (operai) fra i
quali viene suddivisa la lavorazione, «smembrata» in numerose
operazioni semplici e ripetitive. La nascita della fabbrica
moderna fu dovuta a vari fattori: la possibilità di utilizzare il
vapore come forza motrice delle macchine, le numerose
innovazioni tecniche e tecnologiche, la presenza di capitalisti
che investivano in vista di un profitto.
Sensismo Fu la filosofia che costituì la base teorica
dell’Illuminismo. Essa si fonda sulla convinzione che il
pensiero nasce dalla rielaborazione, compiuta dalla mente, dei
dati che le giungono dai cinque sensi; la mente quindi crea
collegamenti fra le «idee semplici» e autonomamente crea le
«idee complesse», come i concetti generali e astratti (p. es.
quelli di libertà, amicizia, ecc.). Una delle maggiori novità del
sensismo fu lo sforzo di spiegare il formarsi del pensiero
senza ricorrere a elementi soprannaturali.
Tolleranza È una delle maggiori conquiste intellettuali
dell’Illuminismo; consiste in un atteggiamento culturale e
mentale che permette agli individui di non provare disagio e di
non manifestare aggressività in presenza di un pensiero
diverso dal proprio. La tolleranza comporta il confronto e il
dialogo, lo sforzo di capire le ragioni degli altri, senza per
questo rinunciare a sostenere le proprie.
Pedagogia Nell’ambito del pensiero illuminista fu riservato
uno spazio notevole alla revisione del concetto di educazione
dei bambini e dei giovani. La conquista maggiore (dovuta in
gran parte a Rousseau) fu quella di non considerare più il
bambino un «uomo in miniatura», ma un essere diverso
dall’adulto, con propri modi di rapportarsi con gli altri e con
l’ambiente. Per cui la pedagogia deve sforzarsi per prima cosa
di far crescere le naturali propensioni dell’individuo, prima di
imporre regole e divieti. Questa è la base di tutta la pedagogia
moderna.
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Modulo
Storicoculturale
L’
Età napoleonica
e il trionfo
del Neoclassicismo
MATERIALI
T1 La Repubblica Partenopea nacque
da una «rivoluzione passiva», da Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799,
capp. XV-XVI, di Vincenzo Cuoco
T2 Un generale che nel giorno della vittoria non dimentica la politica, da Proclama di Austerlitz di Napoleone
T3 Il giudizio di un grande storico sul Codice napoleonico, da Napoleone di Georges
Lefebvre
l’eredità del periodo
T8 La notte, I, dai Canti di Ossian tradotti da
T4 Dopo gli «evviva», subito grane per il
Melchiorre Cesarotti
Liberatore, da «Gazzetta di Bologna», n. 79,
Sabato 22 ottobre 1796
T5 La liberazione di Milano nell’entusiastico ricordo di Stendhal, da La Certosa di
Parma di Stendhal
T6 La Grecia antica, patria del bello, di
Johann J. Winckelmann
T7 Il canto del destino, da Poesie di
Friedrich Hölderlin
T9 Al signor di Montgolfier, da Odi di Vincenzo Monti
l’eredità del periodo
T10 Prometeo, da Poesie di Johann W.
Goethe
T11 Un grande scrittore del Novecento
ripensa il mito di Prometeo, da L’estate di
Albert Camus
CONTENUTI
✔ L’ascesa di Napoleone: dalla campagna in Italia all’Impero.
✔ Le repubbliche giacobine in Italia, cause della loro fragilità.
✔ La proclamazione del Regno d’Italia.
✔ La fine del potere napoleonico e il Congresso di Vienna.
✔ La Francia napoleonica, esempio di Stato moderno e accentrato.
✔ La nascita dell’estetica come disciplina autonoma.
✔ Il Neoclassicismo, un’estetica che non è solo riproposizione di antiche idee, ma sforzo per creare un’arte moderna.
✔ Diversi esiti del Neoclassicismo.
✔ L’estetica del «sublime», una prospettiva diversa.
✔ Il cosiddetto «preromanticismo»: l’anticlassicismo tedesco e il movimento dello Sturm und Drang.
✔ La letteratura in Italia nell’età napoleonica: Parini, Monti, Foscolo.
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l contesto
I
storico-politico
I CONTESTI
1 I La nuova fase
della Rivoluzione francese
Terminato, nel luglio del 1794, il predominio giacobino con l’esecuzione di Robespierre, le forze politiche moderate che presero il potere si impegnarono in
un lavoro di stabilizzazione e di pacificazione interna, favorito dalla disgregazione dei club giacobini, messi al
bando. Questa operazione si concretizzò nel 1795
con la promulgazione della Costituzione dell’anno III (della repubblica) che prevedeva il diritto di voto solo per coloro che dimostravano di avere un reddito piuttosto elevato. Il potere esecutivo veniva affidato ad un Direttorio di 5 membri che nominava i ministri e che conservava il controllo sulle assemblee
elettive che detenevano il potere legislativo. Per certi
versi si può dire che la Costituzione del 1795 ha carattere antipopolare e antidemocratico e mira a
consolidare il predominio dei proprietari terrieri, delle borghesie imprenditoriali e delle professioni: si andava così formando la nuova classe dirigente del paese, che vedeva emergere al suo interno un gruppo importante di banchieri e affaristi che dovevano la loro
fortuna alle forniture per l’esercito. La politica del Direttorio ebbe un indirizzo chiaro: da una parte la pratica di una certa tolleranza verso le diverse posizioni
politiche (ricomparvero sulla scena personaggi che
nascostamente o moderatamente si professavano
monarchici, così come si lasciò spazio alla rinascita
di gruppi giacobini); dall’altra l’inflessibile repressione di tutti i movimenti «estremisti». Furono presi a
cannonate, nelle strade di Parigi, migliaia di insorti
favorevoli alla restaurazione della monarchia (ottobre 1795, operazione in cui si mise in luce Napoleone Bonaparte, allora ufficiale di artiglieria), così come fu repressa nel sangue la Congiura degli Eguali, un
tentativo insurrezionale di ispirazione democratica
radicale che richiedeva l’abolizione della proprietà
privata e di ogni privilegio; Gracco Babeuf, il capo della congiura, venne ghigliottinato nel maggio 1797.
2 I L’ascesa di Napoleone Bonaparte
La politica della giovane Repubblica Francese continuava a poggiare fortemente sulla guerra. Da un la-
to, la situazione di continuo scontro militare con le
potenze europee era dovuta al fatto che i sovrani europei cercavano in ogni modo di scardinare un’esperienza rivoluzionaria da loro ritenuta pericolosa,
poiché capace di provocare turbamenti negli ordinamenti politici; dall’altro lato, la classe dirigente
francese vedeva nella guerra uno strumento per
convogliare l’attenzione delle masse popolari all’esterno, per creare una situazione di continua emergenza che rendeva più facile il governo interno del
paese. D’altra parte, la sicurezza della Francia dipendeva dalla capacità di creare sui confini dello Stato
una condizione favorevole. Le due situazioni da tenere sotto controllo erano principalmente quelle della
Germania, dove una serie di piccoli Stati vivevano
sotto l’ombra della Prussia e dell’Impero austriaco,
e quella dell’Italia. In quest’ottica era necessario
sconfiggere l’Austria (la Prussia aveva firmato con
la Francia la pace di Basilea nel 1795); per fare questo il Direttorio preparò un grande esercito da inviare in Germania (l’«Armata del Reno») e un’Armata
d’Italia, molto meno importante, affidata al giovane
generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). In
gioventù Napoleone aveva assunto posizioni giacobine, ma era riuscito a sopravvivere alla caduta di
Robespierre soprattutto per le sue capacità di legarsi a personaggi importanti e per l’appoggio di Giuseppina Beauharnais, vedova di un visconte, ex amante di
uno dei membri del Direttorio. La donna, che divenne moglie di Napoleone, guidò i primi passi nel difficile mondo della politica parigina del giovane generale, che intanto aveva dimostrato fermezza nella
repressione delle sommosse filomonarchiche. Così
Napoleone ottenne il comando della campagna
d’Italia (marzo 1796). La sua armata doveva avere, secondo i piani del Direttorio, la funzione di distogliere le forze austriache dal fronte principale, quello del Reno, e di fare bottino. Napoleone non si fece
scappare l’occasione per mettersi in mostra: le sue
vittorie furono clamorose, velocissime e straordinarie per qualità strategica e tattica militare. Sconfitti
i piemontesi (il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, fu
costretto a cedere alla Francia la Savoia e Nizza),
batté gli austriaci a Lodi e il 15 maggio 1796 entrava già a Milano. L’imperatore d’Austria compì un
tentativo di riconquistare la Lombardia, ma Napoleone sconfisse i suoi eserciti ad Arcole (novembre),
entrò nel territorio della repubblica Veneta (dove si
formò una repubblica sul modello francese), riportò
un’altra grande vittoria a Rivoli (gennaio 1797),
passò le Alpi e giunse fino a 100 chilometri da Vien-
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422 Secondo Settecento
na. L’Austria chiese la tregua; il papa Pio VI (177598) riconobbe il potere francese sull’Emilia e sulla
Romagna. Fu Napoleone a dettare le condizioni della pace con l’Impero austriaco che fu firmata a
Campoformio nell’ottobre del 1797: la Francia
portava i suoi confini fino al Reno; veniva riconosciuta l’annessione del Belgio; la Lombardia e l’Emilia-Romagna restavano sotto il controllo francese,
ma in compenso l’Austria otteneva i territori della
Repubblica Veneta (tranne Bergamo e Brescia che
passavano alla Lombardia), che perdeva così la sua
secolare indipendenza.
Tornato a Parigi da trionfatore e con un peso politico ormai di primo piano, Napoleone, che fin da allora aveva intuito che il vero grande nemico della Francia sarebbe stata l’Inghilterra, ottenne dal Direttorio
di organizzare l’occupazione dell’Egitto. Il paese formalmente faceva parte dell’Impero ottomano (turco), ma in realtà era uno Stato indipendente sotto i
Mamelucchi, un gruppo di militari. Acquisendo il controllo dell’Egitto, Napoleone cercava di interrompere
le vie commerciali con l’Oriente, fondamentali per l’economia inglese. Sbarcato nel luglio del 1798, il generale condusse il suo esercito al Cairo, dove sconfisse i
Mamelucchi (battaglia delle Piramidi), ma pochi giorni dopo la flotta inglese, comandata dall’ammiraglio
Nelson, distrusse quella francese davanti ad Abukir,
isolando l’esercito di Napoleone, che intanto cominciava ad essere decimato dalla peste. Intanto in Europa si era formata la II Coalizione antifrancese (Russia,
Austria, Inghilterra, Regno di Napoli), che riuscì a
cancellare quasi tutte le conquiste francesi in Italia e
in Germania e minacciava la stessa Francia. Napoleone abbandonò l’armata d’Egitto e tornò a Parigi, dove
la situazione politica era in grande fermento: si parlava di colpo di Stato da parte del Direttorio per rafforzare ulteriormente l’esecutivo e modificare la Costituzione ritenuta troppo liberale, ma i deputati delle assemblee elettive si opponevano, forti dell’appoggio
popolare dei parigini. Napoleone, che era ormai l’uomo forte grazie al controllo sull’esercito, favorì il colpo di Stato: fra il 9 e il 10 novembre le assemblee elettive furono costrette a votare, sotto la minaccia dell’intervento militare, una riforma della Costituzione
che affidava i pieni poteri a tre consoli (Sieyès, Ducos
e lo stesso Bonaparte). Nel giro di poco più di un anno
Napoleone risolse definitivamente a suo favore la
questione del potere; alla fine del 1799 fu promulgata la Costituzione dell’anno VIII, confermata da un plebiscito (cioè da un voto dei cittadini che la approvarono: s L’eredità del periodo, p. 434): Bonaparte era no-
minato Primo Console e riuniva nella sua persona il
potere esecutivo e legislativo (vari organismi, peraltro
controllati da lui, avevano solo funzioni consultive o
di facciata). Di fatto, la Francia era sotto la dittatura di
un solo uomo.
3 I In Italia nascono
le «Repubbliche sorelle»
Dopo che nel 1796 le truppe di Napoleone scesero dalle Alpi e si affacciarono sulla Pianura Padana, la situazione politica nella nostra penisola mutò radicalmente: realtà che si erano mantenute per secoli sparirono, altre se ne crearono, e indubbiamente si mise in
moto un processo che influì fortemente sul successivo
destino dell’Italia. I francesi perseguirono un obiettivo preciso, quello di creare una serie di Stati satellite
che si reggevano sulla forza dell’Armata d’Italia, le cosiddette «Repubbliche sorelle», che erano sorelle di
quella francese solo nel nome, in realtà erano territori di conquista. Nel maggio del 1796, con l’ingresso di
Napoleone a Milano, si formò la Repubblica Transpadana nei territori lombardi strappati all’Austria
e, nel 1797, la Repubblica Cispadana, che comprendeva il territorio dell’ex ducato di Modena e Reggio e quelli tolti allo Stato della Chiesa (Bologna, Forlì
e Ferrara). Fu proprio quest’ultima repubblica ad
adottare per prima il tricolore, bianco, rosso e verde,
con una delibera presa a Reggio Emilia. Nello stesso
1797 le due repubbliche si univano nella Repubblica Cisalpinacon capitale Milano, mentre nascevano
la Repubblica Ligure, la Repubblica Veneta e la
Repubblica di Lucca. Col trattato di Campoformio
del 1797 Napoleone aveva deluso fortemente tutti gli
italiani che avevano accolto i francesi con favore, non
solo per la cancellazione della millenaria Repubblica
di Venezia, ceduta all’Austria, ma anche perché regioni importanti come il Piemonte e la Toscana erano
state annesse direttamente alla Francia. Nel 1798 i
francesi trovarono il pretesto per entrare a Roma e per
instaurare una Repubblica Romana che comprendeva Lazio, Umbria e Marche; il papa Pio VI fu costretto a trasferirsi in Toscana. Tutte queste repubbliche
furono definite giacobine; in realtà non esiste un legame con l’ideologia giacobina, semplicemente il termine fu usato, soprattutto da chi si opponeva allo strapotere francese, per indicare i governi favorevoli alla
Rivoluzione e a Napoleone. La loro vita fu breve e difficile, perché queste «minirivoluzioni» furono quasi
sempre appoggiate da una cerchia ristretta di intellet-
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L’Italia nel 1799
SVIZZERA
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Milano
Torino
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AUSTRIACO
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Verona
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Napoli
REGNO
DI
SARDEGNA
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TIRRENO
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domìni austriaci
territori sotto
l’influenza francese
REGNO
DI SICILIA
tuali e di membri della borghesia cittadina che vedeva
nell’arrivo dei francesi un’occasione per conquistare
nuove posizioni di potere e nuove ricchezze. Coloro
che inizialmente aderirono alle repubbliche in buona
fede, spinti da ideali di rinnovamento e di libertà, presto rimasero delusi, dal momento che i governi formati da italiani agivano sotto tutela dei generali francesi
che comandavano le truppe d’occupazione; inoltre, la
popolazione fu costretta a mantenere l’Armata d’Italia, a fornire alloggi e vitto ai francesi. Napoleone poi,
per farsi propaganda in patria, diede inizio ad una vera razzia di opere d’arte: carovane di carri viaggiarono
verso Parigi cariche di statue, dipinti, codici antichi,
reperti archeologici. Gli italiani acculturati piangevano la perdita di tanti capolavori di cui erano stati spo-
gliati palazzi e chiese, ma anche la gente comune diventava ostile nei confronti di chi stava rubando immagini sacre da secoli oggetto di culto e di ammirazione. Questo sentimento popolare antifrancese rendeva
ancor più isolata la minoranza che cercava di collaborare coi francesi e salutava come un bene l’arrivo in
Italia degli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità affermati dalla Rivoluzione francese. Esemplare, a questo riguardo, è la storia della Repubblica Partenopea. Mentre Napoleone era in Egitto si era formata la
II Coalizione antifrancese che aveva iniziato le ostilità;
nelle primissime fasi della guerra i francesi avevano
invaso il Regno di Napoli, il re, Ferdinando IV, si era rifugiato in Sicilia ed era stata instaurata la repubblica
(gennaio 1799). Quando le truppe francesi dovettero
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ritirarsi, il governo napoletano si trovò ad operare
nell’ostilità delle classi popolari, soprattutto dei contadini, che non vedevano immediati vantaggi nella
nuova situazione (solo nell’aprile fu abolito il regime
feudale e si iniziò una riforma agraria) e furono guidati dalla propaganda borbonica, che fece passare
l’immagine distorta di un potere repubblicano antipopolare e antireligioso. In Calabria il cardinale Fabrizio Ruffo riuscì a raccogliere un esercito di contadini scontenti, ma anche di briganti e avventurieri, finanziato dal re e dagli inglesi, che chiamò Esercito
della Santa Fede; con i sanfedisti risalì verso Napoli, che
conquistò nel giugno del 1799. Il re, ripreso possesso del trono, avviò una repressione durissima, con-
T1
Vincenzo
Cuoco, Saggio
storico sulla
rivoluzione
napoletana
del 1799,
capp. XV-XVI
dannando a morte i massimi esponenti della repubblica; morirono così alcuni degli intellettuali che avevano reso vivo il dibattito sulle riforme e sulla modernizzazione del Sud d’Italia, come Mario Pagano,
Vincenzio Russo, Eleonora Pimentel e Francesco Caracciolo. Altri scamparono alla morte andando in esilio in altri Stati italiani o europei. Dalla rivoluzione napoletana, e dal suo rapidissimo declino,
prese spunto lo scrittore politico Vincenzo Cuoco
(1770-1823) per denunciare, nel Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799 (1801) l’astrattezza
dell’azione dei patrioti napoletani e il carattere «passivo» della rivoluzione napoletana [s T1], voluta da
una esigua minoranza.
La Repubblica Partenopea
nacque da una «rivoluzione passiva»
Vincenzo Cuoco nacque a Civitacampomarano nel 1770; dopo gli studi esercitò l’avvocatura a Napoli
fino allo scoppio della rivoluzione ed alla proclamazione della Repubblica Partenopea (1799). Ebbe incarichi governativi, cosa che gli costò la condanna all’esilio quando i Borboni tornarono sul trono (1800).
Dopo alcuni viaggi in Francia e in Piemonte, si stabilì a Milano e divenne funzionario della Repubblica Cisalpina. Dal 1803 al 1806 fu direttore del «Giornale italiano», organo semiufficiale del governo repubblicano. Dal 1806 tornò a Napoli, dove era salito al trono Giuseppe Bonaparte che aveva fatto entrare il regno nel sistema di alleanze della Francia napoleonica. Quando Giuseppe fu sostituito con Gioacchino
Murat, Cuoco collaborò attivamente con lui, occupandosi soprattutto dell’organizzazione giuridica e dell’istruzione. Traccia di questo impegno si trova nel Rapporto al re Gioacchino Murat per l’organizzazione
della pubblica istruzione nel Regno di Napoli (1809). La fine di Napoleone e la restaurazione dei Borboni
furono un colpo durissimo per Cuoco che, allontanato dalla vita pubblica, impazzì. Morì nel 1823.
La sua opera più importante è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato nel 1801
e ripubblicato con profonde modifiche nel 1806.
Di seguito presentiamo due brevi passi tratti da quest’opera. Nel primo, tratto dal capitolo XV, Cuoco
indica alcune delle cause del fallimento della Repubblica Partenopea; in primo luogo, l’eccessivo radicalismo delle posizioni rivoluzionarie, quindi, gli errori della classe dirigente, che non si rese conto del
fatto che la Costituzione francese poteva essere giusta per quel popolo, ma non poteva corrispondere
alle esigenze di una nazione diversissima per costumi e tradizioni, come quella napoletana. Il secondo
passo, tratto dal capitolo XVI, è una delle pagine di maggiore interesse storico dell’intera opera: l’analisi della situazione politica e sociale della nazione napoletana si allarga all’esame delle due culture separate e non comunicanti, quella dell’élite illuminista e quella delle masse. Viene anche introdotto il fondamentale concetto di «rivoluzione passiva», cioè voluta e provocata da una minoranza; per Cuoco questo tipo di rivoluzione non è destinato ad un inevitabile fallimento, a patto che la minoranza rivoluzionaria sappia e voglia interpretare la volontà della maggioranza, eseguirla e darle uno sbocco sicuro. La rivoluzione passiva di Napoli fallì perché la classe dirigente non fu in grado di fare tutto questo.
Siccome1 in ogni operazione umana vi si richiede la forza e l’idea2, così per produrre
una rivoluzione è necessario il numero e sono necessari i conduttori3, i quali presenti1. Siccome: come.
2. in ogni… forza e l’idea: in ogni attività
umana è necessaria la forza per compier-
la e l’idea che guida la realizzazione.
3. è necessario… i conduttori: sono necessari sia la forza delle masse (numero),
sia le idee dei capi che guidino le masse.
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no al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto4, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi. (…)
Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari5, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione6. Tratte da una costituzione straniera7, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi, e, quel ch’è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i
capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo8, lontanissimi dai nostri difetti, da’ nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietà ed i dispareri si moltiplicavano in ragione
del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e
che intanto vi entrarono9. (…)
La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva10, l’unico mezzo di condurla
a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti11
e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano12 diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse13. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra
repubblica, il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà14. (…) Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella
di cui abbisognava15 la nazione intera, e che potea sperarsi16 solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano
rimasti napolitani, che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così
la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva17.
Le disgrazie de’ popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità18. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione19.
4. egli talora… per istinto: il popolo riesce
a intravedere per istinto, non razionalmente. Compare l’impostazione paternalistica che vede nel popolo qualità legate
all’istinto e ai buoni sentimenti, ma gli nega ogni forma di intelligenza politica razionale. Nei pensatori riformisti e moderatamente progressisti come il Cuoco prevale la considerazione della «genuinità»
dei sentimenti popolari, cosa che determina la completa responsabilità, nel bene e
nel male, della classe dirigente.
5. popolari: ben accette dal popolo.
6. ove si avesse… della nazione: nel caso
in cui (ove) ci fosse stata la volontà di derivare le idee guida della rivoluzione dalla base stessa (istesso) della nazione.
7. tratte… straniera: (le idee) derivate invece da una Costituzione straniera, quella francese.
8. erano lontanissime dalla nostra… difetti di un altro popolo: queste idee erano
del tutto diverse da quelle del nostro popolo, basate su princìpi (massime) troppo
astratti, ed erano lontanissime dalla nostra sensibilità e, cosa ancor più grave, si
aggiungevano a quelle idee, con valore di
legge, tutte le usanze, le stranezze e a volte i difetti del popolo francese.
9. Le contrarietà ed i dispareri… vi entra-
rono: le opposizioni e i pareri contrari si
moltiplicavano in proporzione alla quantità di provvedimenti superflui, inutili,
che non dovevano rientrare nel piano
della rivoluzione, ma che intanto vi rientrarono.
10. rivoluzione passiva: è l’espressione su
cui ruota idealmente tutta l’opera del
Cuoco. Con questa egli vuole indicare che
la rivoluzione a Napoli non riuscì a coinvolgere le masse, in quanto fu voluta, organizzata e capita solo da un gruppo di intellettuali di formazione illuminista. Il carattere di «passività» risultava poi accentuato dal fatto che si trattò di una rivoluzione importata dall’esterno e non si originò da un moto spontaneo del popolo napoletano. Infatti, come viene spiegato in
altra parte dell’opera, la rivoluzione «attiva», per il Cuoco, è quella che nasce dalla
nazione, secondo una volontà comune, e
trova la sua naturale guida nelle classi superiori.
11. le vedute de’ patrioti: il modo di vedere le cose dei fautori della repubblica e
della rivoluzione.
12. aveano: avevano.
13. diversi costumi e finanche due lingue
diverse: diversi stili di vita e addirittura
parlavano due lingue diverse; le classi col-
te, infatti, parlavano in italiano o anche in
francese, mentre il popolo usava solo la
lingua napoletana.
14. Quella stessa… della libertà: l’ammirazione che le classi colte avevano per le
culture straniere, e che già nel periodo
della monarchia era stata un ostacolo allo sviluppo di una cultura autonoma e
nazionale, costituì anche nel momento
iniziale della Repubblica Partenopea l’ostacolo più grande all’affermazione della
libertà.
15. abbisognava: aveva bisogno.
16. che potea sperarsi: che si poteva sperare di ottenere.
17. e questa, a vicenda… non intendeva:
e la cultura popolare, a sua volta (a vicenda), quasi disprezzava la cultura delle
classi colte, che non le era di nessuna utilità e che non capiva.
18. Le disgrazie de’ popoli… più utili verità: le disgrazie che incontrano i popoli
sono spesso un esempio chiaro delle verità più utili.
19. Non si può… stima la nazione: non è
possibile essere utili alla patria se non la
si ama, e non si ama la patria se non si ha
stima e fiducia nel popolo.
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Lavoraresultesto
1 Nella prima riga Cuoco parla di
forza e di idea: a che cosa corrispondono,
nella realtà politica?
2 Quali sono le qualità che Cuoco
attribuisce al popolo, e quali i limiti?
3 Perché fu sbagliato accogliere le
idee contenute nella Costituzione francese
per fondare la Repubblica Partenopea?
a. Perché era troppo radicale e avanzata.
b. Perché era il frutto di esperienze troppo diverse.
c. Perché conteneva idee sbagliate e pericolose.
d. Perché era scritta in una lingua incomprensibile.
4 Cuoco definisce passiva la rivo-
luzione che portò alla Repubblica Partenopea; questo significa che:
a. i patrioti che la fecero copiarono le idee
francesi senza sforzarsi di crearne delle
nuove;
b. fu voluta dai francesi, che la imposero
con la forza ai napoletani;
c. fu voluta dalla minoranza di intellettuali e le masse popolari rimasero estranee;
d. il governo repubblicano ebbe un atteggiamento passivo e privo di iniziativa;
e. i capi non seppero svolgere fino in fondo una funzione attiva.
5 Cuoco giudica l’ammirazione che
le classi colte avevano per le culture straniere:
4 I Napoleone imperatore: l’apoteosi
La presa del potere da parte di Napoleone coincise
con un momento di grande pericolo per la Francia,
visto che le truppe della II Coalizione stavano per invaderla. Formati due eserciti, Napoleone mandò il
primo a combattere sul confine tedesco al comando
del generale Moreau, col secondo scese in Italia. In
pochi mesi una serie ininterrotta di vittorie francesi
(la più famosa a Marengo, in Piemonte, nel giugno
del 1800) costrinse i nemici a desistere dalla guerra:
la Russia si ritirò dal conflitto e l’Austria firmò la pace di Luneville (1801): la Francia riconquistava i territori fino al Reno, si annetteva Piemonte, Liguria,
Toscana e faceva risorgere la Repubblica Cisalpina,
che nel 1802 divenne Repubblica Italiana (il cui presidente era lo stesso Napoleone), annettendosi il Veneto. Rimasta sola, l’Inghilterra firmò la pace di
Amiens (1802), riconoscendo le conquiste effettuate dalla Francia. Si aprì un periodo di pace che Napoleone utilizzò per consolidare il suo potere e renderlo ereditario; nel 1802 fece approvare con un plebiscito una nuova Costituzione in base alla quale egli
divenne Console a vita con poteri accresciuti e la possibilità di nominare il successore; due anni dopo,
con ulteriore cambiamento costituzionale, fu proclamato imperatore dei francesi, istituendo una
dinastia, in quanto il titolo veniva trasmesso per via
maschile ai suoi discendenti. Il 2 dicembre 1804 avvenne la solenne incoronazione nella cattedrale di
a. in maniera totalmente positiva;
b. in maniera totalmente negativa;
c. in maniera negativa, perché impedì la
nascita di una cultura nazionale;
d. in maniera positiva, ma nello stesso
tempo la giudica esagerata;
e. in maniera positiva, perché altrimenti i
napoletani sarebbero stati troppo ignoranti.
Motiva la tua risposta.
6 Non si può mai giovare alla patria
se non si ama, e non si può mai amare la
patria se non si stima la nazione: commenta brevemente questa affermazione di
Cuoco.
Notre Dame di Parigi, alla quale fu costretto a partecipare anche il papa Pio VII. Le potenze europee cercarono di bloccare il trionfo travolgente di Napoleone; formatasi la III Coalizione (Inghilterra, Russia,
Austria, Svezia, Regno di Napoli), si combatté in tutta Europa e sui mari. Non bastò che l’ammiraglio
Nelson distruggesse la flotta francese a Trafalgar,
perché le continue e fulminanti vittorie di Napoleone a Ulma (Napoleone occupò la stessa capitale dell’Impero austriaco, Vienna) e soprattutto ad Austerlitz, in Moravia, nel dicembre 1805 [s T2], costrinsero tutti i nemici alla resa, tranne l’Inghilterra. Anche la IV Coalizione (che riuniva Prussia, Russia, Inghilterra, Svezia) subì la grave sconfitta di Jena, dove venne distrutto l’esercito prussiano. Intanto la politica dell’imperatore francese era mutata:
non più Stati satellite repubblicani, i territori conquistati divenivano regni affidati a familiari e a generali fedeli. Così, nel 1805 la Repubblica Italiana
divenne il Regno d’Italia e Napoleone ne divenne il
re; nel 1806, cacciati ancora una volta i Borboni da
Napoli, Napoleone mise sul trono del Regno di Napoli il fratello Giuseppe, trasformò la Repubblica Batava in Regno d’Olanda e la corona andò al fratello
Luigi; poi creò in Germania il Regno di Vestfalia e lo
affidò all’altro fratello Gerolamo. Nel 1808 invase la
Spagna e vi chiamò a regnare Giuseppe, mentre il
Regno di Napoli veniva affidato al generale Gioacchino Murat; dopo che, nel 1809, si era formata la
V Coalizione (Austria e Gran Bretagna), nel 1810
impose sul trono di Svezia il generale Bernadotte.
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L’Europa continentale era ormai in mano ai francesi e le altre potenze rimaste indipendenti (Impero
austriaco, Russia, Prussia) avevano dovuto accettare di essere alleate di Napoleone. Per dare stabilità a
T2
Napoleone,
Proclama
di Austerlitz,
in Documenti
storici, antologia
a c. di R. Romeo
e G. Talamo,
vol. Il,
L’età moderna,
Loescher,
Torino 1972
questo quadro politico-militare, dopo aver ripudiato
Giuseppina Beauharnais che non gli aveva dato figli
maschi, Napoleone sposò Maria Luisa d’Austria,
figlia dell’imperatore.
Un generale che nel giorno della vittoria
non dimentica la politica
La battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805) fu una delle più grandi vittorie di Napoleone che, di fronte ad
un esercito nemico assai più numeroso, scelse con cura la posizione da assumere sul terreno e utilizzò
un piano audacissimo che prevedeva il fattore sorpresa. Il piano stava per fallire perché, a causa della
nebbia, la cavalleria francese non riusciva a localizzare esattamente i nemici, ma quando finalmente il
sole apparve, la vittoria divenne trionfale. Napoleone da quel giorno ricordò spesso il «sole di Austerlitz» come segno della sua buona fortuna e del suo destino di dominatore. Quello che riportiamo è il proclama che l’imperatore indirizzò all’esercito dopo la vittoria; è certo un esempio di «retorica di guerra»,
poiché ogni generale vittorioso ha sempre manifestato riconoscenza al valore dei propri soldati, però i
numeri della vittoria non sono gonfiati, perché nella realtà tanti furono i cannoni catturati e i prigionieri;
ma fra le righe Napoleone comunica anche altro ai suoi soldati. In primo luogo, dice una grande verità,
cioè che il suo Impero poggia sulla forza e la fedeltà dell’esercito.
Soldati, io sono contento di voi. Nella giornata di Austerlitz voi avete giustificato tutto
ciò che mi attendevo dalla vostra intrepidezza1; voi avete decorato le vostre aquile2 di
una gloria immortale. Un esercito di 100.000 uomini, comandato dagli imperatori di
Russia e d’Austria3, in meno di quattr’ore è stato fatto a pezzi o disperso. Coloro che sono sfuggiti alle vostre armi si sono annegati nei laghi. Quaranta bandiere, gli stendardi della guardia imperiale di Russia, centoventi cannoni, venti generali, più di 30.000
prigionieri, sono il risultato di questa giornata, che resterà celebre per sempre. Questa
fanteria così vantata4, e in numero superiore, non ha potuto resistere al vostro urto, e
ormai voi non avete più da temere rivali. Così, in due mesi, questa terza coalizione5 è
stata vinta e dissolta. La pace non può più essere lontana; ma, come ho promesso al
mio popolo prima di passare il Reno, io farò solo una pace che ci dia delle garanzie, e
che assicuri ricompense ai nostri alleati.
Soldati, quando il popolo francese pose sulla mia testa la corona imperiale, io mi affidai a voi per mantenerla sempre in quell’alto splendore di gloria che solo poteva darle pregio ai miei occhi6. Ma nello stesso momento i nostri nemici pensavano a distruggerla e ad avvilirla! E quella corona di ferro, conquistata col sangue di tanti francesi,
volevano obbligarmi a porla sulla testa dei nostri più crudeli nemici!7 Progetti temerari e insensati che, nel giorno stesso dell’anniversario dell’incoronazione del vostro im1. intrepidezza: coraggio senza tentennamenti.
2. le vostre aquile: l’aquila, simbolo imperiale, sovrastava le aste delle bandiere
francesi.
3. comandato… d’Austria: Austerlitz passò alla storia come «la battaglia dei tre
imperatori»; il terzo era ovviamente Napoleone.
4. questa… vantata: particolarmente temuta era la fanteria russa.
5. terza coalizione: l’alleanza antifrancese era costituita da Inghilterra (che ottenne la vittoria navale di Trafalgar), Russia,
Austria, Svezia e Regno di Napoli.
6. io mi affidai… miei occhi: io mi affidai
a voi soldati perché la corona imperiale
splendesse di quell’alta gloria che è l’unica qualità che le dava valore (pregio) ai
miei occhi.
7. E quella… nemici: e i nostri nemici pretendevano che io ponessi sulla loro testa
la Corona d’Italia, che era stata conquistata col sacrificio di tanti francesi. La corona di ferro deve il suo nome al fatto che
all’interno presenta un cerchio di ferro ricavato, secondo la tradizione, da un chiodo con cui era stato crocifisso Gesù. Sarebbe poi stata donata dalla regina longobarda Teodolinda al Duomo di Monza,
dove è ancora conservata servì per incoronare tutti coloro che ebbero il titolo di
re d’Italia, da Berengario (888) fino a Napoleone.
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peratore8, voi avete annientati e confusi! Voi avete insegnato loro che è più facile sfidarci e minacciarci che non vincerci.
Soldati, quando tutto ciò che è necessario per assicurare la felicità e la prosperità
della nostra patria sarà compiuto, io vi ricondurrò in Francia; là voi sarete l’oggetto
delle mie più tenere sollecitudini. Il mio popolo vi rivedrà con gioia, e vi basterà dire Io
ero alla battaglia di Austerlitz, perché si risponda, Ecco un valoroso.
8. nel giorno… imperatore: la battaglia avvenne il 2 dicembre 1805 ed esattamente un anno prima Napoleone era stato incoronato
imperatore a Parigi.
Lavoraresultesto
1 La prima frase del proclama (Soldati, io sono contento di voi) è alquanto
semplice, quasi in contrasto col resto del
documento. Secondo te Napoleone la
usa perché:
a. vuol fare il falso modesto;
b. si rivolge ai soldati e non agli ufficiali e
ai generali;
c. vuole esordire con un linguaggio diretto, quello che si usa tra commilitoni;
d. non vuole che i soldati si montino la testa.
Motiva brevemente la tua risposta.
2 Secondo te, nel proclama Napoleone tende a sminuire il nemico sconfitto? Motiva la tua risposta.
3 Individua nel testo la frase con la
quale Napoleone informa i suoi soldati
che non potranno tornare a casa subito,
pur dopo una vittoria così clamorosa. In
che modo giustifica la necessità di continuare la guerra?
4 In quale modo Napoleone dice
che il suo destino di imperatore è legato
all’esercito? Individua la frase del testo
che sottintende questo concetto.
5 Napoleone coglie anche l’occasione per ribadire la legittimità del suo titolo di re d’Italia; su che cosa egli basa questa legittimità? Ancora una volta, quindi,
riafferma l’importanza …………………….
per la sua politica.
6 Nelle ultime righe Napoleone fa
5 I La lotta mortale con l’Inghilterra
e la fine di Napoleone
L’unica potenza che Napoleone non era riuscito a
piegare era l’Inghilterra. Forte della sua superiorità
sui mari, garantita dalla flotta da guerra che aveva
inflitto tremende sconfitte a quella francese, con
un’economia in pieno sviluppo che non veniva intralciata dalla guerra perché le navi inglesi erano libere di commerciare in tutte le parti del mondo, il
Regno Unito era l’unico in grado di contrastare Napoleone. Questi aveva progettato l’invasione delle
Isole britanniche per far valere così la superiorità del
suo esercito sul suolo nemico, ma l’impresa non
poté essere realizzata proprio per l’inferiorità francese sul mare. Perciò, fin dal 1806, Napoleone aveva
proclamato il blocco continentale, proibendo a
tutti i paesi europei di accogliere navi inglesi nei lo-
una promessa ai suoi soldati: quale? Egli
usa un tono da:
a. buon padre;
b. generale burbero, ma in fondo buono;
c. capo di Stato giusto.
7 Considera la frase: Il mio popolo
vi rivedrà con gioia: noti qualche cosa di
particolare? Ragiona soprattutto sulla
contrapposizione fra mio popolo e vi.
8 Ti risulta che qualche generale
o capo di governo, nel corso della storia,
non abbia detto che occorre fare la guerra perché è necessario per assicurare la
felicità e la prosperità della nostra patria? Fai una riflessione su questo argomento.
ro porti o di inviare loro navi in Inghilterra. Apparve subito chiara l’impossibilità di far applicare questo
provvedimento in maniera rigorosa: il danno economico inflitto all’Inghilterra avrebbe avuto conseguenze negative in tutti i paesi che con essa avevano
rapporti commerciali. Quando la Russia dichiarò che
non avrebbe rispettato più il blocco, Napoleone le dichiarò guerra; raccolse quella che chiamò la Grande Armata, formata da francesi, dagli alleati prussiani e austriaci e da migliaia di uomini arruolati nei
regni satellite e alleati: in tutto, un esercito enorme,
di 600.000 uomini. Le operazioni cominciarono
nell’estate del 1812 e l’avanzata, favorita da alcune
vittorie parziali e non decisive, fu rapidissima. I russi applicarono la tattica della «terra bruciata», ritirandosi e distruggendo i raccolti e il bestiame così
che la Grande Armata si trovasse sempre più lontana dalle sue basi e priva di rifornimenti. Il 15 settembre Napoleone era a Mosca, una città vuota, che fu
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incendiata dopo pochi giorni; cominciò forzatamente la ritirata che avvenne nell’inverno e fu una marcia tormentata dai continui attacchi dei russi. Per
aprirsi la strada verso ovest la Grande Armata dovette combattere duramente per attraversare il fiume Beresina (novembre 1812), e fu ridotta a
100.000 uomini. Napoleone riuscì a tornare a Parigi, ma la sua tremenda sconfitta ricompattò il fronte dei nemici di sempre: Inghilterra, Prussia, Russia
e Austria diedero vita alla VI Coalizione che mise in
campo un grosso esercito, assai più grande di quello francese; lo scontro campale avvenne a Lipsia
(16-18 ottobre 1813). La sconfitta di Napoleone
aprì le porte della Francia agli eserciti alleati, che
giunsero a Parigi; l’imperatore fu costretto ad abdicare e gli fu assegnata l’Isola d’Elba: un modo per
esiliarlo e controllarlo; sul trono di Francia fu messo
il fratello di Luigi XVI, il re ghigliottinato, che assunse il nome di Luigi XVIII. Nel 1814 si riunì il Congresso di Vienna, col quale tutti i paesi europei si
posero come obiettivo quello di dare un nuovo ordinamento al continente dopo la «tempesta» napoleonica. Ma in Francia la maggioranza della popolazione e soprattutto l’esercito spingevano Napoleone a
tornare. Questi tentò di nuovo l’avventura del potere: sfuggito alle navi che pattugliavano l’Elba, sbarcò
nel Sud della Francia e la sua marcia verso la capitale fu un trionfo; Luigi XVIII fuggì e Napoleone rientrò nei suoi pieni poteri. Ma immediatamente dovette affrontare gli eserciti delle potenze nemiche; a Waterloo, in Belgio, si ebbe lo scontro finale il 18 giugno 1815; bloccato dagli inglesi guidati dal duca di
Wellington, Napoleone fu assalito anche dall’esercito prussiano e fu sconfitto. Consegnatosi agli inglesi,
fu confinato in un’isoletta in mezzo all’Atlantico,
Sant’Elena, dove morì il 5 maggio 1821.
l’Impero d’Austria, lo zar Alessandro I, Castlereagh,
ministro inglese, e Talleyrand, il plenipotenziario francese che riuscì a far passare l’idea che la Francia e
Luigi XVIII erano «vittime» di Napoleone. Il Congresso volle dare l’idea di agire in nome dei popoli e
delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come il principio di legittimità in base al quale occorreva ripristinare i diritti «legittimi» dei sovrani e dei popoli, violati dalla Rivoluzione e da Napoleone; di conseguenza, furono rimesse sul trono le
vecchie dinastie (ma vi furono scambi ed eccezioni
che dimostravano come il principio fosse interpretato in modo «elastico»). Lo zar Alessandro I, pervaso
da un atteggiamento mistico, propose una Santa Alleanza che impegnasse tutte le potenze a vegliare sui
popoli e imporre una pace fondata sui princìpi cristiani; l’Inghilterra rifiutò di farne parte e Metternich trasformò il progetto in impegno di reciproca assistenza militare fra Austria, Prussia e Russia per soffocare eventuali nuove rivoluzioni. Quanto all’assetto
territoriale, la carta d’Europa non fu sconvolta, ma
riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche. Il Congresso, che si chiuse con
la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole al Vecchio Continente, rimane un evento
importante nella storia: inaugurò, infatti, la stagione
delle grandi «conferenze» fra potenze che dura ancora oggi. Anche queste riunioni hanno l’obiettivo e,
potremmo dire, l’illusione di instaurare una convivenza pacifica fra i popoli mediante la creazione di un
«ordine internazionale».
l contesto
I
economico e sociale
I CONTESTI
6 I Il Congresso di Vienna
e la Restaurazione
Lo sconvolgimento causato dalla Rivoluzione francese e da Napoleone aveva prodotto la coscienza che
l’Europa aveva vissuto un’età di avvenimenti eccezionali, al termine della quale bisognava ricostruire
un equilibrio. Il Congresso che si aprì a Vienna nel
1814 dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia ebbe
questo compito. Dopo una pausa (ritorno di Napoleone in Francia, battaglia di Waterloo) riprese i lavori e vi parteciparono decine di delegazioni, ma a
dominarlo furono Metternich, rappresentante del-
1 I La Francia di Napoleone:
un modello di Stato moderno
Gli storici si sono chiesti in quale misura l’esperienza napoleonica si debba considerare, nel suo insieme, il compimento della Rivoluzione francese o il
suo affossamento. La risposta è: né l’una né l’altra
cosa, perché lo Stato che Napoleone creò era assai
distante dai progetti democratici più avanzati, ma
nello stesso tempo era cosa totalmente diversa dalle
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monarchie assolute, anche se alcuni dei loro caratteri furono accolti nella nuova organizzazione. Si
può affermare che lo Stato, come lo intendiamo ancora oggi, è nato con Napoleone. Vediamo alcuni
elementi fondamentali.
● Forte accentramento e presenza costante
del potere centrale nelle realtà locali Napoleone ereditò la divisione della Francia in dipartimenti
(territori che corrispondono alle nostre province)
dall’esperienza rivoluzionaria; la razionalizzò e, soprattutto, creò una nuova figura, quella del prefetto,
che dipendeva direttamente dal governo centrale, lo
rappresentava a livello locale, ne attuava gli ordini,
svolgeva opera di sorveglianza politica e di polizia,
costituiva, cioè, l’occhio, l’orecchio e la mano del governo. I prefetti furono lo strumento fondamentale
per sorvegliare che le leggi fossero applicate in maniera uniforme su tutto il territorio.
● Creazione di un’amministrazione e di una
burocrazia di alto livello Napoleone ebbe chiarissima l’idea che uno Stato moderno è una macchina complessa, difficile da gestire, e per questo si
preoccupò di creare scuole superiori nelle quali formare le alte gerarchie dello Stato, amministratori e
burocrati che conoscessero perfettamente tutte le
componenti della «macchina-Stato» e i segreti del
suo funzionamento. Nacque così la figura del funzionario fedele al governo e competente, in grado di
prendere iniziative e di dare attuazione alle direttive
politiche.
● Assunzione da parte dello Stato di funzioni
tradizionalmente svolte dalla Chiesa e da privati Napoleone aveva ereditato dalla prima fase
della Rivoluzione i risultati della lotta contro i privilegi e i benefici ecclesiastici. La continuazione di
questa politica lo portò su posizioni di duro scontro
col papa e gli ecclesiastici, per l’abolizione di ordini
monastici, la sconsacrazione di chiese e la decisa volontà di sottomettere il clero alle direttive dello Stato. D’altra parte, accanto alla necessità di «fare cassa», spogliando la Chiesa e soprattutto gli ordini monastici delle loro immense proprietà per venderle ai
privati, c’era l’esigenza di rendere fruttuose enormi
ricchezze che per secoli erano rimaste ai margini
della dinamica economica (le proprietà ecclesiastiche non potevano essere vendute, erano cioè fuori
dal mercato). Naturalmente, lo Stato dovette fornire
quei servizi che tradizionalmente erano offerti ai ceti più poveri dalla Chiesa: nacque così la sanità
pubblica, con strutture ospedaliere e mediche [s
L’eredità del periodo, p. 437]. Così si avviarono anche
le prime esperienze di pubblica assistenza per gli indigenti, i disoccupati.
● Potenziamento dell’istruzione pubblica e
dell’università Anche in questo caso lo Stato si
sostituì alla Chiesa, soprattutto a partire dall’istruzione successiva a quella elementare. Napoleone costruì una scuola pubblica fortemente accentrata, con
programmi decisi dal governo, nomina diretta dei
professori, controllo centralizzato dei risultati. L’imperatore si vantò del fatto che in una determinata
ora del giorno si poteva esattamente sapere che cosa si stesse facendo in tutte le scuole di Francia. Il
gioiello di questo sistema fu il liceo, destinato a fornire un’ampia preparazione di base fondata sull’insegnamento di materie letterarie (greco, latino, letteratura, storia, filosofia) e mirato a formare la classe
dirigente. Un’altra punta di diamante del sistema fu
la Scuola politecnica, che aveva il compito di formare
i tecnici destinati ad agire nei settori delle costruzioni, delle miniere e dell’artiglieria; a Napoleone si deve inoltre il potenziamento delle Accademie militari,
trasformate in scuole di livello universitario dove i
futuri ufficiali ricevevano un’educazione completa e
una specializzazione tecnica di alta qualità.
Tale modello di Stato non fu importante solo per la
Francia, ma per l’intero mondo occidentale. Infatti, bisogna tenere presente che se le «imitazioni» che ne
vennero fatte nei paesi conquistati da Napoleone ebbero spesso una portata limitata, molto più vasta fu l’influenza che questo modello ebbe nel tempo. Alcune
sue parti (per esempio il sistema scolastico) furono ricreate in realtà anche assai diverse e soprattutto il
buon funzionamento dell’amministrazione e della burocrazia francesi fece sì che molti altri Stati, anche a
distanza di decenni, adottassero soluzioni simili.
2 I Il Codice civile di Napoleone
diventa la base
della moderna giurisprudenza
La fama di Napoleone ancora oggi rimane legata alla
promulgazione del Codice civile, avvenuta nel marzo 1804 [s L’eredità del periodo, p. 436]. Una commissione lavorava fin dal 1794 alla stesura di questo documento che doveva rispecchiare il nuovo rapporto
fra cittadino e legge nato dalla Rivoluzione. La
prima grande novità fu proprio quella di riunire in un
codice tutte le norme che regolavano i rapporti fra i
cittadini e fra il singolo cittadino e lo Stato; infatti, fi-
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no ad allora esisteva una frammentazione di regole
valide a livello locale, in parte scritte, in parte affidate
alla «consuetudine», alla tradizione non scritta. Questa frammentarietà derivava dall’antica struttura
feudale e il nuovo codice ebbe come primo compito la
fissazione di norme per una società in cui il feudalesimo, con i suoi privilegi, era stato abolito. Un altro elemento decisivo fu l’adattamento delle leggi alla realtà
economica e sociale contemporanea; mantenuta ben
salda l’idea che alla base del vivere civile c’è l’inviolabilità della proprietà privata, il Codice si articola avendo
come punto di riferimento una concezione liberale
dell’economia, proteggendo la libera iniziativa, favorendo le attività imprenditoriali, commerciali, professionali [s T3], tanto da limitare al minimo i diritti dei
lavoratori dipendenti; ad essi veniva negato, per
esempio, il diritto di sciopero. Il capitolo dei diritti civili è importante, perché fissa in maniera definitiva e
traduce in norme pratiche i princìpi di eguaglianza fra
i cittadini e libertà di espressione delle convinzioni reli-
giose e politiche. Questo non significa che il regime
napoleonico non conservasse strumenti anche forti
di controllo sociale e di repressione, che anzi usò con
continuità e decisione, tuttavia, fu ribadita la situazione nuova che si era creata dopo la Rivoluzione, nella quale ad ognuno era garantito il diritto di lavorare,
arricchirsi e vivere senza essere discriminato per le
proprie idee. Alcune norme furono decisamente innovative, come quelle che eliminavano i privilegi del
figlio primogenito nei confronti dei fratelli minori o
quelle che ammettevano e regolavano il divorzio.
Napoleone completò l’opera di codificazione emanando, dopo quello civile, il Codice di procedura civile
(1806), il Codice di Commercio (1807, con le norme
per la costituzione delle società, per la contabilità, il
fallimento, ecc.) e il Codice penale (1810).
L’importanza dei codici napoleonici si desume dal
fatto che, adottati in tutti paesi che caddero nell’orbita francese, rimasero in vigore anche dopo la caduta di Napoleone.
T3
Il giudizio di un grande storico sul Codice napoleonico
Georges
Lefebvre,
Napoleone,
Laterza, Bari
1960
Georges Lefebvre (1874-1959) fu uno dei più importanti storici della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica; la sua formazione risentì delle teorie storiche del marxismo, ma soprattutto egli fu fautore di
una ricostruzione «dal basso» degli avvenimenti, in cui, cioè, si prendevano come punto di osservazione i fenomeni sociali.
Le sue opere fondamentali sono La rivoluzione francese e Napoleone. Lefebvre, sottolineando l’importanza storica del Codice napoleonico, intende chiarire anche in che senso esso si presenta come portatore di una ideologia borghese e come, fatti salvi i princìpi «rivoluzionari», in realtà esso miri al consolidamento del potere della borghesia sia in ambito economico sia sociale.
Come tutta l’opera di Napoleone, il Codice presenta un doppio carattere. Conferma la
scomparsa dell’aristocrazia feudale1 e adotta i principi sociali del 1789: la libertà personale, l’eguaglianza davanti alla legge, la laicità dello Stato e la libertà di coscienza, la
libertà del lavoro. A questo titolo2 esso apparve in Europa come il simbolo della Rivoluzione, e ha fornito, dovunque sia stato introdotto, le regole essenziali della società moderna. Se tale aspetto oggi è divenuto frusto3, si falserebbe la storia dell’età napoleonica se non gli si restituisse tutta la sua freschezza, e ci si condannerebbe a non comprendere la portata della dominazione francese. Ma esso conferma anche la reazione contro
l’opera democratica della Repubblica4: concepito in funzione degli interessi della borghesia, esso si occupa innanzitutto di consacrare e sanzionare il diritto di proprietà, considerato come naturale, anteriore alla società5, assoluto e individualista (...).
1. Conferma la scomparsa dell’aristocrazia feudale: l’abolizione del sistema feudale era stato uno dei primi atti della Rivoluzione nel 1789.
2. A questo titolo: sotto questo aspetto.
3. oggi è divenuto frusto: oggi si è ormai
consumato, non ha più forza.
4. la reazione… della Repubblica: la reazione contro gli aspetti più democratici
della Rivoluzione francese, in particolare
del periodo giacobino.
5. come naturale… società: come diritto
naturale, cioè presente fin dall’origine
dell’uomo, ancor prima che si formassero le più antiche società.
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La famiglia è preziosa per lo Stato, poiché essa costituisce uno dei corpi sociali che
disciplinano l’attività degli individui. L’autorità del padre, indebolita dalla Rivoluzione, viene dunque rafforzata: egli può fare imprigionare i suoi figli per una durata di sei
mesi senza controllo dell’autorità giudiziaria; è padrone dei loro beni; allo stesso modo amministra quelli della moglie (...). Ma come tutti i gruppi, la famiglia può diventare troppo potente di fronte allo Stato, e tanto più facilmente in quanto, generata spontaneamente dalla natura, la sua coesione è fortissima; attraverso di essa, potrebbe ricostituirsi un’aristocrazia indipendente. Così essa vien posta sotto tutela; al padre, il
diritto di testare6 viene limitato dal ristabilimento della «legittima»7, e il diritto di successione, dichiarato d’ordine sociale, è regolato dalla legge. Sotto questo aspetto, il Codice fu amaramente criticato dall’antica nobiltà e da una parte della borghesia, di cui
esso limitò la potenza assicurando la divisione dei patrimoni8.
Tuttavia, di coloro che non posseggono nulla esso non parla se non per difendere la loro libertà personale proibendo i contratti e la locazione d’opera a titolo perpetuo9. Proclamando libero il lavoro e uguali i cittadini in diritto, esso abbandona in realtà il lavoro
salariato a tutti i rischi della concorrenza economica10 e non scorge in esso che una merce come un’altra. (...) Contro il salariato, esso deroga persino al principio dell’eguaglianza giuridica11, poiché, in materia di salari, solo il padrone è creduto sulla parola. (...)
Il Codice si presenta dunque come il frutto dell’evoluzione della società francese in
quanto essa ha prodotto la borghesia e l’ha portata al potere.
6. testare: fare testamento.
7. legittima: è la parte di eredità alla quale per legge hanno diritto il coniuge sopravvissuto e i figli, anche se il testamento desse indicazioni diverse.
8. assicurando la divisione dei patrimoni: la vecchia nobiltà feudale (imitata anche dalla più ricca borghesia) riusciva a
perpetuare il suo potere non dividendo il
patrimonio di famiglia, che andava in
massima parte al primogenito (questa
norma si definisce «maggiorascato»). Dividendo il patrimonio fra tutti i figli si riduceva il potere delle famiglie più ricche.
9. proibendo… a titolo perpetuo: proibendo i contratti e l’affitto di manodopera
senza limiti di tempo: sarebbe stata una
forma di servitù della gleba o di schiavitù.
10. abbandona in realtà... concorrenza
economica: lascia che la parte più debole,
quella del lavoratore, corra tutti i rischi
derivanti dalla concorrenza, per esempio,
che uno venga licenziato e venga assunto
un altro che si accontenta di un salario inferiore.
11. esso deroga… giuridica: il Codice fa
un’eccezione al principio che tutti sono
uguali di fronte alla legge.
Lavoraresultesto
1 Secondo l’autore, il Codice di
Napoleone accoglie due «conquiste» della Rivoluzione: quali?
2 Il Codice apparve in Europa come il simbolo della Rivoluzione, e ha fornito, dovunque sia stato introdotto, le regole essenziali della società moderna. Spiega questa affermazione dell’autore. Che
cosa intende per dovunque sia stato intro-
dotto?
3 Quale atteggiamento rivela il Codice nei confronti della famiglia?
a. La valorizza, anche in termini economici, ma ne limita il potere.
b. La rende completamente sottoposta
agli interessi dello Stato.
c. Ne fa il nucleo fondamentale della so-
3 I L’esercito
e la coscrizione obbligatoria
Il potere di Napoleone si basò in gran parte sull’esercito, che gli permise per molti anni di trionfare in Europa. Ma qui vogliamo soffermarci sulla funzione so-
cietà e la sottrae al controllo statale.
Motiva la tua risposta.
4 Quali diritti garantisce il Codice
ai lavoratori salariati?
5 In che cosa il Codice favorisce il
datore di lavoro rispetto ai suoi dipendenti?
ciale dell’esercito, che divenne uno strumento importante nella dinamica sociale. Napoleone indicò
chiaramente ai francesi e ai popoli da lui sottomessi
che la carriera militare poteva essere uno strumento di avanzamento nella scala sociale, un’occasione
che si offriva ai cittadini, anche provenienti dai ceti
inferiori, di entrare a far parte della classe dirigente.
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Non mancava l’aspetto «propagandistico», rintracciabile nelle numerose promozioni sul campo in presenza di atti di valore: sottufficiali diventavano ufficiali, ufficiali inferiori diventavano superiori, colonnelli passavano al grado di generale; cose che alzavano il morale delle truppe e che permettevano a
Napoleone di dire che nello zaino di ogni soldato delle sue armate si nascondeva il bastone da maresciallo di Francia (il simbolo che contraddistingueva i generali di maggior grado). Rilevante era, inoltre, la
cura dedicata alla preparazione tecnica e culturale
degli ufficiali, in modo che questi, una volta fuori dal
servizio attivo, potevano diventare funzionari efficienti e fedeli.
Tuttavia, vi è un carattere ancora più importante
nell’esercito napoleonico: già dal 1793, di fronte ai
primi attacchi delle potenze europee, la Francia repubblicana aveva fatto ricorso alla coscrizione obbligatoria, cioè all’obbligo per ogni cittadino maschio di una certa età di trasformarsi in soldato della
repubblica. Napoleone rese stabile questa leva di massa, sia per le necessità delle continue guerre, sia perché il servizio militare era un periodo di vita in cui
l’individuo poteva essere formato e controllato in
modo che, una volta tornato alla vita civile, rimanesse un cittadino legato allo Stato, avesse il senso della
gerarchia e dell’autorità. La superiorità dell’esercito
nazionale di cittadini sugli eserciti «vecchi» delle altre
potenze, formati da mercenari o da uomini costretti
a combattere in base ad antichi vincoli feudali, fece sì
che anche in questo campo l’esempio francese venisse seguito in Europa anche dagli altri Stati nemici di
Napoleone. Bisogna però ricordare che la coscrizione obbligatoria colpiva in particolare le classi povere,
mentre c’erano molte possibilità per un giovane di famiglia abbiente di evitare il servizio militare (la più
frequente: quella di pagare un poveraccio che lo facesse al posto suo).
La coscrizione obbligatoria fu accettata in Francia, anche se suscitava resistenza e opposizione tra
coloro che dovevano abbandonare il lavoro proprio
nel momento in cui diventavano «produttivi»; costituì invece un motivo di grande malcontento e a volte di vera ribellione negli Stati satellite, come gli Stati tedeschi e l’Italia: migliaia di giovani furono costretti ad arruolarsi nelle armate napoleoniche e a
combattere per anni lontano da casa, senza ottenere poi i vantaggi ai quali potevano aspirare i commilitoni francesi. Perciò la leva obbligatoria fu tra i motivi che più alimentarono la diffusione di un sentimento anti-francese fra i popoli sottomessi a Napoleone.
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434 Secondo Settecento
L’eredità
del periodo
INDIVIDUI
E SOCIETÀ
Il concetto di cittadinanza
«Io sono un cittadino italiano.» Ciascuno di noi può dire questa semplice frase, ammesso
che abbia la cittadinanza italiana; altrimenti dirà di essere cittadino francese o ucraino o
senegalese. Queste cose sono talmente ovvie che ci sembra che siano state sempre così; invece il concetto di cittadinanza è uno dei più complessi da definire sia da un punto di vista
pratico sia giuridico sia culturale, ed è una delle eredità più rilevanti della Rivoluzione
francese e della successiva sistemazione ed elaborazione giuridica avvenuta in età napoleonica. Possiamo dire che la cittadinanza è lo stato giuridico in base al quale un individuo «appartiene» (nel senso che fa parte di) a uno Stato e per questo gode di diritti e ha dei doveri. Ogni
uomo o donna che vive sul territorio di uno Stato gode dei diritti civili che gli sono garantiti dall’essere uomo o donna, ma il cittadino gode anche dei diritti politici (come, per esempio, quello di votare o essere eletto). Tuttavia sarebbe sbagliato limitare il concetto di cittadinanza al dato politico, perché esso comprende anche un aspetto sociale (un cittadino ha il senso di appartenenza ad una struttura sociale di cui accetta le regole), un aspetto culturale (un cittadino si riconosce in certi modelli di vita che sente come caratteri
«nazionali»), un aspetto economico (il cittadino è inserito in un sistema economico che
ha certe regole o almeno le conosce), un aspetto giuridico (il cittadino riconosce un ordinamento codificato di diritti e doveri). L’idea di cittadinanza è stata fondamentale per
costruire l’idea di Stato nazionale, così come trova attuazione nel pensiero e nella realtà
storica dell’Ottocento. Fino ad oggi, almeno nella cultura occidentale e in quelle parti del
mondo che da tale cultura sono state influenzate, la vita degli individui si è sviluppata facendo costante riferimento alla presenza di Stati nazionali e al concetto di cittadinanza.
Tuttavia, negli ultimi decenni questi punti di riferimento sono entrati in crisi. Possiamo
dire che una causa certamente rilevante di ciò risiede in quell’insieme di fenomeni che riguardano sia la politica, sia l’economia, sia la cultura che indichiamo con il termine globalizzazione, intendendo far riferimento alla diffusione su scala planetaria del sistema di
produzione, dei modelli culturali e sociali, degli stili di vita propri dell’Occidente capitalista e alla creazione di un unico sistema mondiale all’interno del quale sono frequentissime le relazioni economiche, sociali, culturali. Un italiano che ha fatto l’università negli
Usa, si è specializzato in Inghilterra e lavora ad Hong Kong potrà rimanere cittadino italiano da un punto di vista giuridico-politico, ma sarà sicuramente «meno italiano» da un
punto di vista sociale e culturale. Attualmente noi italiani abbiamo già almeno due cittadinanze, quella italiana e quella europea, tanto è vero che siamo chiamati a votare per
eleggere dei rappresentanti al Parlamento europeo e sul nostro passaporto risulta che sono due le istituzioni che ce lo rilasciano, l’Unione Europea e la Repubblica Italiana.
LE IDEE
Plebiscito
Il termine plebiscito deriva da plebe, ed era un’istituzione della Roma repubblicana, una
conquista appunto della plebe, che aveva ottenuto che alcune delibere votate dal popolo
avessero valore di legge dello Stato. Il plebiscito tornò a vivere durante la Rivoluzione francese, ma con un significato profondamente modificato: infatti, si definì in questo modo la
convocazione di una votazione che approvasse o meno un provvedimento proposto e presentato dal governo o da un’assemblea legislativa. Naturalmente, questo procedimento si
applica soltanto alle leggi fondamentali dello Stato, come appunto la Costituzione, che de-
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LE IDEE
finisce l’ordinamento politico, giuridico, sociale ed economico, fissando quei princìpi generali ai quali le leggi devono adeguarsi. Se la Costituzione stabilisce che le leggi vengono
fatte da un Parlamento, quando una nuova legge viene fatta non ha bisogno di essere confermata da un plebiscito. L’idea di chiamare il popolo ad esprimere il suo parere ha le sue
radici nel pensiero illuminista e in particolare in quello di Jean-Jacques Rousseau, il quale aveva sostenuto che alla base del governo delle società dovesse esserci l’espressione della volontà generale, risultante dalla somma delle volontà individuali dei cittadini. Senza
dubbio il plebiscito è una forma di democrazia diretta, cioè una possibilità che il popolo prenda una decisione politica senza la mediazione dei suoi rappresentanti eletti nel
Parlamento; tuttavia, si deve anche riflettere sul fatto che se lo strumento è di per sé democratico, non sempre lo è l’uso che se ne fa. Intanto, il plebiscito ebbe nel Settecento e
nell’Ottocento i limiti che erano comuni anche alle altre votazioni, perché votava solo
una minoranza della popolazione, in quanto erano escluse le donne e altre categorie
di persone. Inoltre, il plebiscito viene indetto da chi detiene il potere e ciò raramente accade senza che il promotore abbia una fondata convinzione che una larga maggioranza voterà per l’approvazione del provvedimento sottoposto a plebiscito. Napoleone lo sapeva
bene, e usò questo strumento per dare legittimità alla sua conquista del potere assoluto,
prima come Primo Console, poi come imperatore. Infatti, se una modifica della Costituzione viene approvata a larga o larghissima maggioranza, chi ha indetto il plebiscito ha
un potente mezzo per far tacere le opposizioni, vantando l’appoggio del popolo.
I plebisciti furono utilizzati largamente nell’Ottocento, quando si formarono nuovi Stati, si trasformarono regni in repubbliche e viceversa; per esempio, tutto il processo storico che portò all’unità d’Italia fu sancito da plebisciti: quando il Regno di Sardegna, sotto la guida del re Vittorio Emanuele II prese possesso dell’Emilia-Romagna, della Toscana,
dell’Umbria, delle Marche e via via degli altri Stati della penisola, gli abitanti vennero chiamati ad esprimere con un «sì» o con un «no» la loro volontà di entrare o meno a far parte
del Regno d’Italia. Tutte le votazioni ebbero risultati simili: la quasi totalità si espresse a
favore e i voti contrari furono poche centinaia, anche perché il voto era palese, cioè il cittadino doveva chiedere davanti a tutti la scheda che intendeva infilare nell’urna; in questo modo i notabili, gli uomini del governo e dei poteri locali erano in grado di controllare
il voto di tutti. Anche Mussolini fece ricorso al plebiscito per dare una legittimità popolare alla trasformazione del governo italiano in una dittatura; i cittadini votarono in seggi presidiati dalle squadre fasciste, pronte all’intimidazione e alla violenza fisica. L’ultimo
plebiscito che si è svolto in Italia è stato quello del 1946, quando gli italiani, dopo la caduta del fascismo, la sconfitta nella guerra e la dissoluzione del vecchio potere politico, furono chiamati a decidere se l’Italia doveva continuare ad essere una monarchia o diventare una repubblica. In quel caso si trattò di un «vero» plebiscito, perché l’esito non era scontato, il voto era segreto e per la prima volta il diritto di voto veniva esteso a tutti i cittadini
maggiorenni, senza distinzioni di sesso. Tanto è vero che la repubblica vinse solo per poche centinaia di migliaia di voti. Oggi il ricorso al plebiscito è limitato; per lo più viene utilizzato da regimi dittatoriali o autoritari, per legittimarsi a livello internazionale. Nel
linguaggio politico il termine «plebiscitario» ha ormai un significato negativo, nel senso
che si usa per indicare la ricerca di un appoggio popolare che elimina la possibilità di discutere, il confronto fra maggioranza e opposizione e la mediazione e il compromesso fra
le varie esigenze e richieste politiche.
I «liberatori»
La storia dell’umanità è sempre stata segnata da guerre intraprese per motivi economici e di potere, ma giustificate con le più diverse motivazioni di carattere ideologico, religioso, culturale: un evento terribile come la guerra ha sempre necessitato di un «vesti-
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LE IDEE
to» che la rendesse presentabile agli occhi della gente. Fino alla Rivoluzione americana e
alla Rivoluzione francese le cause delle guerre spesso erano rappresentate da motivi dinastici: quando in un regno si esauriva una dinastia, si facevano avanti diversi pretendenti, ognuno vantando legami di parentela con la dinastia estinta. La Rivoluzione
americana fu una novità: anche se è possibile trovare nei secoli precedenti qualche analogia, era la prima volta che un popolo dichiarava guerra per rendersi indipendente da
un altro; la bandiera che veniva alzata era quella della «libertà». La Francia rivoluzionaria dovette affrontare gli eserciti delle potenze europee che intendevano invaderla «per
rimettere sul trono il legittimo re» ed anch’essa lottò in nome della libertà e dell’indipendenza da conservare. Ma a partire dal 1796 gli eserciti della Repubblica Francese marciarono fuori dai confini dello Stato e invasero paesi stranieri. Allora non si poteva più
affermare di fare la guerra per la libertà e l’indipendenza e si cominciò a proclamare che
«si portava la libertà ai popoli oppressi dalla tirannide». Soprattutto con Napoleone prese forma l’immagine del liberatore, ossia, di colui che, con la forza degli eserciti, permetteva ad un altro popolo di essere libero; tuttavia, già con lo stesso Bonaparte divennero
evidenti i limiti di questa figura ideale. In Italia, inizialmente, buona parte della classe dirigente accolse positivamente l’occasione di abbattere governi inefficienti o autoritari,
anche se le masse contadine rimanevano piuttosto estranee al mutamento o comunque
nutrivano la speranza che questo avrebbe alleviato le loro condizioni di miseria e di fatica. Ma un esercito straniero, anche se «liberatore», ha dei costi economici, sociali e politici rilevanti (va mantenuto e alloggiato), e, soprattutto, vuole portare la «sua» libertà:
non può certo permettere che i popoli liberati facciano scelte incompatibili con le proprie
esigenze di sicurezza, di potere, di conquista. Esso finisce per imporre un regime politico,
economico e sociale simile al proprio, come avvenne in Italia con le cosiddette «repubbliche giacobine».
La difesa della libertà e della democrazia contro le dittature e i totalitarismi sono motivazioni che si usano ancora oggi per dare una giustificazione alle guerre e agli interventi
militari nelle varie parti del mondo. Non si può affermare che i «liberatori» agiscano sempre e soltanto per interessi economici o di predominio, rimane però il fatto che è molto più
facile vincere delle battaglie che costruire dall’esterno, in un paese straniero, una situazione di reale libertà e democrazia.
LE ISTITUZIONI
La legge è uguale per tutti
Una delle caratteristiche dei Codici voluti da Napoleone fu l’unificazione delle leggi. In
precedenza, infatti, in Francia, come nelle altre monarchie europee, c’era una sovrapposizione delle norme, perché la giustizia veniva amministrata a livello locale. Poche erano
le leggi emanate dal re che avessero valore per tutti i sudditi, mentre la maggior parte erano norme, in vigore nei vari territori e nelle diverse città. Inoltre, in alcune zone sottoposte al potere di un nobile feudatario, questi era anche il giudice e applicava le leggi o infliggeva le pene a suo arbitrio. Una vera e propria «selva» di privilegi proteggeva i nobili e
gli ecclesiastici: avevano tribunali a loro riservati, potevano essere giudicati solo da un loro pari o superiore nella gerarchia, rispetto ad alcune leggi godevano dell’immunità e non
potevano essere sottoposti a pene considerate degradanti, riservate solo ai ceti inferiori. A
ciò si aggiunge il fatto che una delle fonti del diritto è la consuetudine, cioè la tradizione che
assume valore di legge senza essere scritta. In queste condizioni la certezza del diritto era
un’utopia. I Codici napoleonici stabilirono invece il principio che la legge era uguale per
tutti, e se è vero che non tutte le leggi erano «giuste» e che non tutti i cittadini erano davvero uguali di fronte alla legge, poiché le classi abbienti e gli imprenditori erano ancora
avvantaggiati rispetto ai salariati, è però vero che da allora vi fu una raccolta delle leggi
scritte, valide su tutto il territorio nazionale e fatte applicare da giudici che erano funzio-
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LE ISTITUZIONI
nari dello Stato e che trovavano già fissate nei codici il massimo e il minimo di pena che si
poteva infliggere per ciascun crimine commesso.
Dall’epoca napoleonica iniziò il processo di modernizzazione della giustizia che
ha dato origine ai sistemi ancora in uso nei paesi democratici: al di là delle manchevolezze e delle deficienze dei singoli giudici e della qualità delle leggi che ogni nazione si dà, da
allora vige il principio espresso in quasi tutte le aule giudiziarie dalla scritta «La Legge è
uguale per tutti».
L’ospedale
Gli ospedali pubblici non furono un’invenzione dell’epoca napoleonica, perché già in precedenza i monarchi avevano dovuto dotare le grandi città, e in particolare le capitali, dove si concentrava un numero di persone sempre crescente, di strutture nelle quali raccogliere e curare i malati, anche per limitare i pericoli di gravi contagi ed epidemie. Si trattava spesso di costruzioni immense, che dovevano testimoniare la «bontà» e la sollecitudine del sovrano nei confronti dei suoi sudditi, ma che quasi sempre erano solo enormi
contenitori, privi di organizzazione razionale: i malati vi erano ammassati senza un preciso criterio e le cure affidate a personale privo di adeguata preparazione. Già gli illuministi francesi si erano posti il problema di come rendere efficienti queste strutture e un grande impulso fu dato a questa riflessione da un incendio che, nel 1772, distrusse l’Hôtel Dieu,
l’enorme ospedale di Parigi. Nel 1784 il governo francese si rivolse all’Accademia delle
Scienze, l’istituzione che raccoglieva gli scienziati più illustri del tempo, e chiese di formare una commissione che facesse una proposta su come ricostruire l’ospedale. Fecero parte di quella commissione i medici, i fisici, i matematici, gli economisti che hanno lasciato
una traccia indelebile nella storia delle rispettive discipline: tra gli altri, il fondatore della
chimica moderna Lavoisier, i fisici La Place e Coulomb, l’economista Condorcet. La proposta avanzata da quella commissione costituisce l’atto di nascita della clinica moderna:
l’Hôtel Dieu non doveva essere ricostruito e al suo posto dovevano sorgere quattro ospedali più piccoli secondo questi indirizzi:
ogni ospedale non doveva superare i 1200-1500 posti letto;
doveva essere organizzato per padiglioni: edifici separati fra loro, in ciascuno dei quali
dovevano essere curate specifiche malattie;
● si dovevano istituire reparti distinti per uomini e donne e ciascun malato doveva avere
un suo posto letto (cosa non garantita in precedenza);
● l’assistenza infermieristica doveva essere fornita da personale differenziato a seconda
delle funzioni (chi lava o viene a contatto con gli ammalati non può dedicarsi anche alla
pulizia dei bagni o alla cucina).
●
●
Cose che oggi diamo per scontate, dunque, sono in realtà il risultato di una politica realmente innovativa avviata in epoca illuministica.
Fu poi la legislazione della nuova repubblica nata dalla Rivoluzione a sancire il principio secondo cui la salute è un bene primario dell’uomo ed è anche un diritto-dovere del cittadino di cui lo Stato deve assumere la tutela. Su questa base si fece strada l’idea che la clinica deve essere nello stesso tempo luogo di cura e luogo di studio e di formazione poiché in
essa medici e studenti possono osservare le più diverse patologie, studiarne le cause, verificare i rimedi e stabilire nuovi metodi di cura. In epoca napoleonica tutto questo venne
realizzato su larga scala e fu reso organico il rapporto fra l’ospedale e le Ecoles de santé, le
facoltà universitarie di medicina. Come per tanti altri aspetti, anche queste fondamentali innovazioni in campo medico furono diffuse in Europa dalle armate napoleoniche e l’esperienza francese costituì il modello di riferimento in tutto l’Occidente nel corso dell’Ottocento e, per buona parte, sopravvive ancora oggi, negli Stati in cui esiste una sanità pubblica.
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438 Secondo Settecento
L’eredità del periodo
Laboratorio Una nuova figura: i «liberatori»
T4
Dopo gli «evviva», subito grane per il Liberatore
«Gazzetta
di Bologna»,
n. 79, Sabato
22 ottobre 1796
Quando, nel 1796, l’Armata di Napoleone si affacciò sulle Alpi promettendo di portare la libertà e di cacciare i «tiranni», tutti capirono che se i francesi avessero vinto non ci sarebbe stato scampo per i governanti in carica, che sarebbero stati sostituiti. Ma quale regime sarebbe stato imposto dai «liberatori»?
Alcuni intellettuali entusiasti (come Ugo Foscolo) pensavano che Napoleone avrebbe lasciato l’Italia agli
italiani; altri speravano che le repubbliche che sarebbero sorte si sarebbero ispirate ai princìpi di «Libertà Uguaglianza Fraternità» (le parole d’ordine della Rivoluzione); altri ancora speravano invece che i
nuovi governi si sarebbero poggiati sulle classi dei possidenti e dei borghesi. Il popolo, in genere sotto
l’influenza della Chiesa, temeva l’arrivo dei francesi ma sperava ugualmente di poter trarre giovamento
immediato dalla nuova situazione. Il «Liberatore» che giungeva in Italia, però, era un generale del Direttorio che con la Costituzione dell’anno III aveva impresso alla Rivoluzione francese una svolta antidemocratica e antipopolare e che perciò non solo cercava l’appoggio delle classi dirigenti locali, ma, soprattutto, era pronto a ricorrere alla forza per reprimere ogni accenno di rivolta popolare, ogni sommossa che turbasse l’ordine pubblico.
Riportiamo qui un articolo apparso su una gazzetta di una delle tante città italiane liberate durante la campagna del 1796; in questo caso si tratta di Bologna, che passava dallo Stato della Chiesa alla nuova realtà.
Avvertiamo che il linguaggio della «Gazzetta di Bologna» è abbastanza incerto, l’uso delle maiuscole è
piuttosto singolare (spesso vengono usate per i nomi comuni, anche per attirare l’attenzione del lettore
sulle parole chiave del testo), la punteggiatura precaria: si tratta comunque di un fatto normale per i giornali dell’epoca, che venivano redatti da dilettanti, spesso privi di una solida preparazione linguistica.
Circa le ore 5. e mezza pomeridiane dello scorso
Martedì, siccome fu accennato, giunse in questa
Città il Generalissimo Bonaparte, il quale poscia
partì poco dopo il mezzogiorno del seguente Mercordì, prendendo la strada di Ferrara.
Nella stessa sera di Martedì, fu piantato improvvisamente in questa pubblica Piazza l’Albero
della Libertà1, ed il Senato2 in seguito con suo Proclama espose: Che questo segno denotava non la
licenza, sempre detestabile; ma soltanto la vera libertà sotto l’autorità, e la protezione delle Leggi3.
Quindi ordinava, che questo Albero fosse da ciascuno rispettato; e che se alcuno avesse osato
1. l’Albero della Libertà: fin dalle prime
fasi della Rivoluzione francese si impose
l’usanza di innalzare in una piazza un albero ornato dei simboli della Rivoluzione,
attorno al quale si dava luogo a una festa
per celebrare la libertà ritrovata. Si trattava di un rito laico, che fu esportato nei
paesi conquistati dalle armate francesi.
2. Senato: si tratta dell’organismo di governo della città.
3. Che questo… Leggi: il proclama del Senato afferma che l’Albero della Libertà non
era un simbolo di distruzione dell’ordine
costituito (licenza), cosa sempre da con-
d’insultarlo, sarebbe giudicato reo di lesa Nazione4, e soggetto alle più gravi pene, ed anche di
morte, secondo i casi.
Occorso però qualche disordine in quella istessa notte5, per una troppo popolare effervescenza6,
benché senza la minima percossa, o ferita, il Senato, eccitato7 dal Supremo Comandante Bonaparte
a prendere le più forti, e più opportune provvidenze8, formò sull’istante una provvisoria Guardia
Civica; ordinando ad ognuno di doverla rispettare, e comminando le pene più rigorose, fino alla
morte, a chiunque ardisse di farle il più minimo
insulto9.
dannare, ma della vera libertà che si realizza nel rispetto delle autorità e nell’ambito
delle leggi. È chiaro che l’Albero era stato
innalzato da quei cittadini che erano entusiasti dell’arrivo dei francesi e che il Senato
fa buon viso a cattiva sorte e cerca di mantenere il controllo della situazione.
4. sarebbe… Nazione: sarebbe stato giudicato colpevole di offesa alla nazione. Nei
regimi monarchici il delitto di «lesa maestà» era il più grave e, per analogia, nelle
nascenti repubbliche si «inventò» il delitto di «lesa nazione».
5. Occorso… notte: capitato quella stessa
notte qualche disordine. Il cronista è qui
reticente, ma da quanto detto in seguito
si capisce che alcuni popolani avevano
cominciato a rivendicare la «loro» libertà, intesa come richiesta di maggiore eguaglianza, di ridistribuzione delle ricchezze,
e quindi avevano tentato qualche saccheggio.
6. per una… effervescenza: per un’eccessiva eccitazione del popolo.
7. eccitato: sollecitato.
8. provvidenze: provvedimenti.
9. comminando… insulto: minacciando
di infliggere le pene più rigorose a chiunque avesse osato compiere il minimo atto
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Finalmente, venne pubblicata sù di ciò10 la seguente Lettera del Generalissimo Bonaparte.
REPUBBLICA FRANCESE
LIBERTÀ EGUAGLIANZA
Dal Quartier Generale di Bologna
28. Vendemmiatore (19 Ottob.)11
Bonaparte, Generale in capite12 dell’Armata
d’Italia al Popolo di Bologna.
«Entrando nella vostra Città ho veduto con piacere l’entusiasmo, che anima i Cittadini, e la ferma risoluzione, in cui sono di conservare la loro libertà13. La Costituzione, e la vostra Guardia Nazionale saranno prontamente organizzate14; ma sono rimasto afflitto di vedere qualche eccesso, a cui
si sono abbandonati alcuni cattivi soggetti, indegni di essere Bolognesi.»
«Un Popolo, che commette degli eccessi è indegno della Libertà. Un Popolo libero è quello, che rispetta le persone, e le proprietà. L’Anarchia prodi ostilità e resistenza contro la Guardia
Civica. La durezza delle pene fa intuire
quello che il cronista aveva cercato di addolcire, parlando di popolare effervescenza:
i disordini in città dovevano essere stati
piuttosto pesanti, anche se non c’era stato spargimento di sangue.
10. venne… di ciò: venne resa pubblica riguardo ai disordini e ai saccheggi. Evidentemente l’autorità del Senato non era sufficiente e si dovette far sentire la voce del
vero padrone della situazione, Napoleone.
11. 28. Vendemmiatore (19 Ottob.): i governi rivoluzionari giacobini, per eliminare qualsiasi riferimento alla religione,
avevano cambiato il calendario e assegnato nuovi nomi ai mesi; fu un provvedimento che venne poi abolito proprio da
Napoleone. Il 28 vendemmiaio corrispondeva dunque al 19 ottobre.
12. Generale in capite: generale in capo.
13. la ferma… libertà: la sintassi è un po’
traballante, ma il senso è chiaro: Napo-
duce la Guerra intestina, e tutte le pubbliche calamità.»15
«Io sono nemico dei Tiranni; ma sopra tutto sono il nemico giurato degli scellerati, dei Saccheggiatori, e degli Anarchisti. Faccio fucilare i miei
Soldati, quando saccheggiano: Farò fucilare quelli, che rovesciando l’ordine Sociale, sono nati per
l’obbrobrio, e per la disgrazia del Mondo»16.
«Popolo di Bologna. Volete voi, che la Repubblica
Francese vi protegga? Volete, che l’Armata Francese vi stimi, e si pregi di fare la vostra felicità?17 Volete, ch’io mi vanti qualche volta dell’amicizia,
che mi avete dimostrata? Reprimete questo picciol
numero di Scellerati, fate, che nessuno sia oppresso, qualunque sia la sua opinione: nessuno può
essere arrestato, che in virtù della Legge18… fate
soprattutto, che le Proprietà siano rispettate.»
Firmato BONAPARTE.
P.S. Un Saccheggiatore arrestato viene sull’istante
condannato alla Galera19.
leone manifesta l’intenzione di conservare la libertà dei bolognesi, cioè di lasciare
in vita le loro istituzioni amministrative.
14. La Costituzione… organizzate: presto
avrete una Costituzione e un esercito nazionale: Bologna era destinata ad entrare
a far parte della Repubblica Cispadana
che sarebbe stata organizzata secondo il
modello della Repubblica Francese.
15. L’Anarchia… calamità: il mancato
rispetto delle leggi e dell’autorità (Anarchia) produce la guerra civile e tutti i mali che possono affliggere la società (pubbliche calamità).
16. quelli… Mondo: coloro che, volendo
rovesciare le gerarchie sociali, sono la
vergogna (obbrobrio) e la disgrazia del
mondo. Si ricordi che in Francia proprio
Napoleone era stato protagonista nella
repressione dei movimenti democratici
radicali che chiedevano l’abolizione della
proprietà privata.
17. Volete, che l’Armata… felicità?: volete
che l’Armata francese provi stima per voi e
si onori di farvi felici? Sono domande retoriche: i bolognesi non avevano certo la possibilità di rispondere di no! Bonaparte il «Liberatore» non vuole apparire il più forte,
colui che ha occupato un territorio straniero, ma l’amico, il fratello maggiore che si
preoccupa della felicità dei bolognesi.
18. Reprimete… in virtù della Legge: bloccate l’azione di questo piccolo numero di
delinquenti, fate in modo che nessuno sia
perseguitato per le sue opinioni, perché
nessuno può essere messo agli arresti se
non lo ordini la legge. Dopo l’ordine di
fermare i saccheggiatori Napoleone si
premura di ricordare alcune norme fissate nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo
e del Cittadino [s modulo L’Età dei Lumi e
delle rivoluzioni, T2], per evitare che si verifichino eccessi nella repressione.
19. Un Saccheggiatore… Galera: il cronista conclude con un esempio degli effetti
dell’intervento di Napoleone.
T5
La liberazione di Milano nell’entusiastico ricordo di Stendhal
Stendhal,
La Certosa
di Parma,
trad. di E. Tapini,
Garzanti,
Milano 1985
Stendhal (1783-1842) è l’autore di due romanzi fra i più belli e importanti dell’Ottocento, Il rosso e il nero (1830) e La Certosa di Parma (1839) [s modulo Il romanzo nel Primo Ottocento, p. 703], quest’ultimo ambientato in Italia dal momento dell’arrivo di Napoleone e del suo trionfo in Europa fino alla Restaurazione, successiva alla battaglia di Waterloo. L’autore, che si chiamava in realtà Henri Beyle
(Stendhal era lo pseudonimo che volle assumere come scrittore), era nato a Grenoble nel 1783 e a 17
anni giunse per la prima volta in Italia come sottotenente dei dragoni nell’Armata napoleonica, ma con
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incarichi amministrativi e diplomatici, per cui poté frequentare assiduamente la società colta e letteraria di Milano e il teatro alla Scala dove si appassionò al melodramma. Continuò poi a seguire, con incarichi amministrativi, Napoleone nelle sue campagne in tutta Europa; dopo la sua caduta si stabilì di nuovo a Milano e vi rimase per sette anni, ma nel 1821 dovette tornare a Parigi, sempre aspettando l’occasione di tornare in Italia, cosa che accadde nel 1830, quando divenne console francese a Civitavecchia.
Tornò a Parigi solo per morirvi, nel 1842; volle che sulla sua tomba fosse scritto: «Enrico Beyle – milanese – visse, scrisse, amò. Amò Cimarosa, Mozart, Shakespeare». Stendhal pone all’inizio della Certosa di Parma la rievocazione della liberazione di Milano da parte di Napoleone. Non si tratta di un documento storico, ma piuttosto di un atto d’amore per gli ideali che Stendhal aveva nutrito nella giovinezza, un ricordo affettuoso della città che tanto amava, una visione nostalgica per un mondo che, secondo lui, era morto con l’uscita di scena di Napoleone, sostituito da un’atmosfera grigia, priva di slanci
ideali e di atti di eroismo.
Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in
Milano alla testa di quel giovane esercito1 che
aveva passato il ponte di Lodi2 e dimostrato al
mondo che, dopo tanti secoli, Cesare e Alessandro avevano un successore3. I miracoli di coraggio e di genialità di cui l’Italia fu testimone, in pochi mesi risvegliarono un popolo addormentato.
Appena otto giorni prima dell’arrivo dei francesi,
i milanesi li consideravano nient’altro che una
banda di briganti, abituati a scappare regolarmente davanti alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale4: questo almeno era quanto continuava a ripetergli tre volte la settimana un certo giornaletto non più grande di un palmo, stampato su
carta grigiastra.
Nel medio evo i lombardi repubblicani avevano
dato prova di un coraggio non inferiore a quello
dei francesi, e si erano meritati la distruzione della loro città ad opera degli imperatori tedeschi5.
Una volta diventati fedeli sudditi, la loro grande occupazione fu di stampare sonetti su fazzolettini di
1. giovane esercito: l’Armata d’Italia,
che avrebbe dovuto esercitare un’azione
di disturbo contro l’Austria, mentre lo
scontro principale sarebbe avvenuto sui
confini segnati dal fiume Reno, tra Francia e Germania; perciò era stata formata
in gran parte di giovani chiamati da poco
alla leva.
2. aveva… Lodi: nella battaglia che aprì
loro le porte di Milano i francesi dovettero passare un ponte battuto dal fuoco nemico; lì Napoleone in persona guidò l’assalto.
3. dimostrato… un successore: quel giovane esercito aveva dimostrato al mondo
intero che dopo tanti secoli era ricomparso un condottiero, Napoleone, degno di
essere paragonato ai più grandi e geniali
condottieri dell’antichità, Giulio Cesare e
Alessandro Magno.
taffetà rosa quando si sposava qualche ragazza
nobile o ricca6. Quanto a lei, la ragazza, due o tre
anni dopo quel memorabile giorno si prendeva un
cavalier servente7: e certe volte il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, aveva un posto d’onore nel contratto di matrimonio. Tra quei
costumi effeminati e le emozioni profonde suscitate dall’arrivo imprevisto dell’esercito francese,
c’era senza dubbio un abisso. La vita cambiò, le
passioni si risvegliarono. Il 15 maggio 1796 tutto
un popolo si rese conto di quanto fosse straordinariamente ridicolo, e in certi casi odioso, tutto ciò
che aveva rispettato fino a quel giorno. La partenza dell’ultimo reggimento austriaco segnò la fine
delle vecchie idee. Rischiare la vita diventò di moda. Si capì che per poter di nuovo essere felici, dopo secoli di torpide sensazioni degradanti8, bisognava amare la patria d’un amore concreto e cercar di fare qualcosa di eroico. Il chiuso dispotismo
di Carlo V e poi di Filippo II9 li avevano sprofondati nel buio: buttarono giù le loro statue e furono di
4. alle truppe di Sua Maestà Imperiale e
Reale: di fronte all’esercito austriaco, cioè
dell’imperatore d’Austria e re di Ungheria
e della Lombardia.
5. Nel medio evo… degli imperatori tedeschi: il riferimento è alla Lega lombarda,
l’alleanza di comuni lombardi e piemontesi che si opposero a Federico Barbarossa (1123 ca.-1190), l’imperatore tedesco
che, avuto in un primo tempo il sopravvento, distrusse Milano come esempio
per le città ribelli.
6. la loro grande… nobile o ricca: qui
Stendhal prende in giro alcuni costumi
diffusi nei ceti più alti della popolazione
italiana, non solo milanese, e che stupivano molto gli stranieri; in questo caso si
tratta della moda di stampare poesie,
scritte in occasione di matrimoni, su tessuto di seta (taffetà) ricamato e tagliato in
varie forme.
7. un cavalier servente: quasi sempre i
matrimoni delle ragazze altolocate erano
il frutto di trattative tra le famiglie e spesso lo sposo era molto più anziano, per cui
nel contratto che si firmava prima della
cerimonia a volte veniva indicato già il
nome del giovane cavaliere che avrebbe
fatto compagnia alla dama senza che il
marito potesse protestare o ingelosirsi.
Quella del cavalier servente, comunemente chiamato «cicisbeo», era una consuetudine italiana che scandalizzava molto
gli stranieri.
8. torpide sensazioni degradanti: sentimenti intorpiditi e vergognosi.
9. Carlo V... Filippo II: sono i due imperatori che diedero inizio al lungo dominio
spagnolo sulla Lombardia.
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colpo inondati dalla luce. Da una cinquantina
d’anni, mentre in Francia esplodevano l’Enciclopedia e le idee di Voltaire, i preti continuavano a ripetere ai buoni milanesi che non valeva proprio la
pena di imparare a leggere o altre cose del genere,
che ci si poteva assicurare un bel posto in paradiso pagando regolarmente le decime10 e raccontando per bene al parroco tutti i propri peccatucci. Per avvilire fino in fondo quel popolo che in
passato aveva dimostrato tale energia e tanta capacità di ragionare, l’Austria gli aveva venduto a
buon mercato il privilegio di non dover fornire reclute al suo esercito.
Nel 1796 l’esercito milanese era composto di
ventiquattro poveracci vestiti di rosso, i quali presidiavano la città in collaborazione con quattro
splendidi reggimenti di granatieri ungheresi. C’era una grande libertà di costumi, ma la passione
era cosa rara. D’altra parte, oltre alla noia di dover
raccontare tutto al prevosto11, se non volevano rischiare di finir male anche in questo mondo, i buoni milanesi dovevano sottomettersi a certe piccole
imposizioni monarchiche decisamente fastidiose.
[Segue il racconto di un episodio: il 18 maggio un francese scarabocchiò una caricatura satirica del Viceré
austriaco e fu tanto l’entusiasmo per una forma di comunicazione fino ad allora sconosciuta, che il disegno
fu stampato e se ne vendettero 20.000 copie.]
Lo stesso giorno12 fu affisso l’annuncio che era
stata decisa una imposta di guerra di sei milioni.
10. decime: la parte di raccolto o di rendita che dovevano essere pagati alla Chiesa.
11. prevosto: il parroco.
Doveva servire all’esercito francese, che, reduce
dall’aver vinto sei battaglie e dall’aver conquistato venti province, aveva bisogno soltanto di scarpe, pantaloni, giubbe, cappelli.
Fu tanta la gioia, la voglia di divertirsi, che irruppe in Lombardia al seguito di quei francesi così poveri, che solo i preti e qualche nobile si resero conto di quanto fosse pesante quell’imposta di
sei milioni – a cui ben presto ne seguirono altre.
Quei soldati francesi non facevano che ridere e
cantare. Avevano meno di venticinque anni, e il
loro generale in capo13, che ne aveva ventisette,
passava per il più anziano di tutto l’esercito. La loro vivacità, la loro giovinezza, la loro libera disinvoltura erano una risposta davvero divertente alle furibonde prediche dei preti, i quali da sei mesi
avevano continuato a proclamare dal pulpito che
i francesi erano dei mostri, obbligati sotto pena di
morte a incendiare e a tagliare teste – e che ogni
reggimento marciava preceduto da una ghigliottina.
Nelle campagne, sulla soglia dei cascinali, si vedevano soldati francesi tutti intenti a cullare il
bambino della padrona di casa, e la sera c’era
sempre qualche tamburino che con il suo violino
improvvisava un ballo. La contraddanza14 era
troppo raffinata e complicata perché i soldati –
che d’altra parte non la conoscevano – potessero
insegnarla alle ragazze del paese, e allora erano le
ragazze che insegnavano ai giovanotti francesi la
monferrina, il galoppo e altri balli italiani.
12. Lo stesso giorno: il 18 maggio: i francesi non persero tempo!
13. generale in capo: Napoleone.
14. La contraddanza: ballo in voga in
Francia e fra le classi superiori di tutta
Europa.
Lavoraresuitesti
1 I due testi sopra riportati sono
molto diversi fra loro: individua e definisci
di ciascuno di essi la tipologia.
2 Rispetto agli avvenimenti narrati, quando sono stati scritti i due testi?
3 Per gli storici l’articolo della «Gazzetta di Bologna» è un documento. Fai un
elenco di tutte le notizie esplicite e implicite che da esso puoi ricavare riguardo all’ingresso dei francesi a Bologna.
4 Il passo di Stendhal è l’inizio di
un romanzo, quindi non è propriamente
un documento storico; secondo te, gli
storici possono comunque ricavare qualche indicazione utile da un testo come
questo? Considera che Stendhal visse all’epoca delle vicende narrate.
5 Mettiamoci da un altro punto di
vista: se volessimo capire cosa succedeva veramente nelle città italiane all’arrivo
dell’Armata di Napoleone potremmo servirci delle testimonianze sopra riportate?
Rispetto a questi due testi tu pensi:
a. che l’articolo di giornale racconta come
andarono le cose ed è credibile, mentre la
pagina di romanzo non è di alcuna utilità;
b. che l’articolo di giornale fornisce una visione parziale (l’articolista riporta solo alcuni fatti e ne nasconde altri), per cui risulta più significativo il racconto di Stendhal;
c. che nessuno dei due testi è attendibile
e non si potrà mai venire a conoscenza
della verità;
d. che bisogna tener conto della natura
diversa dei due documenti per ricavare da
ciascuno di essi le notizie che sono in grado di fornire.
Motiva la tua risposta.
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VERIFICAintermedia
METTI A FUOCO
23. Quali funzioni aveva, oltre a quella strettamente militare, l’esercito napoleonico?
■ Date ed eventi
1. Quando ebbe inizio la campagna d’Italia guidata da Napoleone?
2. Quando fu firmato il trattato di Campoformio?
3. Quando Napoleone condusse la campagna d’Egitto?
Con quale scopo?
4. Quando fu creata la Repubblica Partenopea?
5. Quando Napoleone fu proclamato imperatore dei francesi?
6. Quando fu istituito il Regno d’Italia di cui Napoleone fu
re?
7. Quando si aprì il Congresso di Vienna?
8. Quando vi fu la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo?
9. Chi rappresentava la Francia al Congresso di Vienna?
10. Quando fu promulgato il Codice civile napoleonico?
■ Concetti
11. Che cosa prevedeva la Costituzione dell’anno III? Quali importanti cambiamenti introdusse rispetto a quella precedente?
12. Col trattato di Campoformio quali città e territori appartenuti da secoli alla Repubblica Veneta passarono alla Lombardia?
13. Quale regime venne instaurato in Francia con la Costituzione dell’anno VIII? Quali poteri erano attribuiti a Napoleone?
14. Quali erano i fattori di debolezza delle cosiddette Repubbliche giacobine, che si formarono in Italia con l’arrivo
degli eserciti di Napoleone?
15. Descrivi la situazione dell’Europa nel 1810.
16. Perché l’Inghilterra rimase sempre il nemico più temibile per Napoleone?
17. Da chi era formata la VI Coalizione che sconfisse Napoleone a Lipsia?
18. Con quali finalità fu indetto il Congresso di Vienna? Chi
vi partecipò?
19. Che cosa si intende per Restaurazione?
20. La Francia di Napoleone fu un modello coerente di Stato centralizzato: che cosa significa?
21. Quali furono i punti di forza dello Stato voluto da Napoleone?
22. Quali importanti novità introdusse il Codice civile napoleonico?
PREPARA L’INTERROGAZIONE
24. Seguendo i punti della scaletta qui proposta, presenta
oralmente il contesto storico e il contesto sociale ed economico del periodo:
a. l’ascesa di Napoleone Bonaparte e le campagne d’Italia
e d’Egitto;
b. la nascita delle «Repubbliche sorelle» in Italia e il fallimento della Repubblica Partenopea;
c. Napoleone diventa imperatore di Francia: organizzazione
dell’Impero e suoi principali avversari;
d. la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna;
e. il modello di Stato centralizzato creato da Napoleone in
Francia;
f. le innovazioni del Codice civile napoleonico;
g. in Francia si afferma per la prima volta la leva di massa dell’esercito.
PREPARA LA RELAZIONE SCRITTA
25. Rispondendo per iscritto alle seguenti domande, affronta e illustra i contenuti fondamentali del contesto storico, sociale ed economico dell’età napoleonica.
a. Per quali aspetti Napoleone fu colui che portò avanti e diffuse gli ideali della Rivoluzione francese?
b. Per quali altri aspetti fu invece colui che la concluse e la
«tradì»?
c. Quali eredità lasciò all’Europa l’esperienza napoleonica?
26. In un testo di 20 righe spiega perché l’Inghilterra non fu
mai sconfitta da Napoleone.
27. In un testo di 30 righe esponi le cause della sconfitta finale di Napoleone.
28. Scrivi un testo di 30 righe sull’Italia nel periodo 17961815, utilizzando correttamente i termini che seguono:
entusiasmo iniziale di molti intellettuali • Campoformio •
amministrazione francese • opere d’arte • coscrizione obbligatoria
29. Esponi prima oralmente, poi per iscritto, quanto hai appreso riguardo a questo tema: «Alcuni aspetti dell’opera di
Napoleone produssero oggettivamente una modernizzazione della società e degli apparati statali e non poterono essere cancellati neppure dal Congresso di Vienna».
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l contesto
I
culturale e letterario
I CONTESTI
1 I La nascita dell’estetica
Nel corso del Settecento il pensiero attorno all’arte, al
modo di definirla, agli effetti che essa provoca ebbe un
salto di qualità: le impostazioni tradizionali, basate
sostanzialmente sulla accettazione o meno delle regole del classicismo (idea dell’arte come «imitazione»
della natura e dei modelli antichi, l’opera d’arte come
risultato sia dell’ispirazione sia dello studio e dell’esercizio, ecc.) cominciavano ad apparire non più adeguate alla completa comprensione dei processi mentali ed emotivi che l’opera d’arte (di qualsiasi arte si
tratti) «scatena» nell’individuo. La filosofia razionalista di Cartesio e dei suoi seguaci [s modulo Società,
scienza e cultura fra Seicento e Primo Settecento, p. 31] e
il pensiero empirista e sensista [s modulo L’Età dei
Lumi e delle rivoluzioni, p. 203] avevano modificato e
allargato in maniera eccezionale le conoscenze e le
ipotesi relative al modo di percepire la realtà e avevano
aperto la strada a vari tentativi di dare una definizione anche fisiologica delle emozioni, dei sentimenti,
degli atteggiamenti di fronte ai diversi fenomeni, anche quelli artistici. Tra Seicento e Settecento il dibattito su questi temi si era sviluppato e in particolare
l’indagine si era soffermata sul concetto di gusto,
quella capacità che permetteva all’artista di «produrre opere d’arte» e agli altri di «riconoscere le opere
d’arte» e di trarne un piacere. Uno dei risultati più importanti di tutto questo ragionare, cercare di capire e
dare definizioni soddisfacenti fu che nacque l’estetica
moderna, cioè si riconobbe, passo dopo passo, che
l’arte è un fenomeno che occupa uno spazio
specifico e che possiede una sua autonomia rispetto agli altri fenomeni culturali. Il nome stesso di estetica, per indicare questo settore di studio, fu inventato nel 1750 da Alexander G. Baumgarten (17141762), un filosofo tedesco che riprese il termine greco àisthesis che significava «percezione» o «conoscenza ottenuta attraverso i sensi» e lo applicò al campo
delle arti. Nella seconda metà del XVIII secolo due
tendenze si affermarono e influirono in modo diretto
sulla letteratura e sulle arti figurative, il Neoclassicismo e l’estetica del «sublime». Il teorico del Neoclassicismo fu un tedesco che visse e lavorò a Roma e
in Italia, Johann Joachim Winckelmann (17171768), mentre l’estetica del «sublime» fu elaborata
dall’inglese Edmund Burke (1729-1797), autore
della fondamentale Indagine filosofica sull’origine delle
nostre idee sul sublime e sul bello (1756). Si trattava di
visioni diverse dell’arte, ma i poeti, gli scrittori, i pittori e gli scultori dei decenni fra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento spesso le tennero presenti entrambe ed entrambe influirono sulle loro opere.
2 I Il trionfo del Neoclassicismo
Anche se la teorizzazione e lo sviluppo dell’arte che si
definì neoclassica erano iniziati nella seconda metà
del Settecento, la sua massima fioritura si ebbe verso
la fine del secolo e durante l’Impero napoleonico. Il
tedesco Johann Joachim Winckelmann (17171768) diede il contributo più importante per la diffusione dell’estetica neoclassica. Studioso appassionato e curioso dell’antichità, pubblicò nel 1755 le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, in cui trova già forte espressione
quel radicale culto per l’antichità che costituisce uno
degli assi portanti di tutto il Neoclassicismo. Nello
stesso 1755, convertitosi al cattolicesimo, Winckelmann si trasferì a Roma. Tra il 1758 e il 1762 compì
alcune visite ad Ercolano e Pompei, spingendosi fino
a Paestum, dove ammirò e studiò i resti dei templi
greci. Nel 1764 comparve la Storia dell’arte nell’antichità, opera che ebbe un’immediata risonanza europea anche perché subito tradotta in francese
e in italiano. Con questo trattato ebbe realmente inizio un nuovo modo di studiare l’arte, perché l’opera
di Winckelmann fu la prima «storia dell’arte». Per
quanto l’interesse per il passato artistico non nascesse certo con lo studioso tedesco, egli fu il primo a realizzare una ricostruzione storica di un periodo artistico mettendolo in relazione con lo sviluppo complessivo di una società e di una cultura e non solo con le
personalità individuali degli artisti. Riprendendo
concetti già presenti nell’Illuminismo, Winckelmann affermava che l’arte è espressione di un modo di
pensare che si sviluppa in determinate condizioni storiche, antropologiche e culturali. Al ritorno da un viaggio
in Germania e Austria soggiornò a Trieste, dove venne assassinato per motivi oscuri nella locanda dove
risiedeva nel 1768.
L’opera di Winckelmann diede organicità e forza
al movimento neoclassico che si riconobbe in alcuni punti fissati dallo studioso:
● l’arte è un punto di vista privilegiato per
giudicare una civiltà Winckelmann considerava
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l’arte capace di esprimere nelle forme più alte tutte
le qualità umane, individuali e collettive, tanto da
divenire la vera chiave di lettura della storia della civiltà. Fare storia dell’arte per Winckelmann significa, quindi, fare una storia dell’uomo. Sotto questo
aspetto la sua opera riveste un’importanza fondamentale per la nostra cultura, perché essa diede
l’avvio alla grande stagione delle storie particolari
(come le storie della letteratura, della filosofia, ecc.)
che poi trovarono il loro massimo sviluppo nella cultura ottocentesca e romantica;
● definizione dell’arte e del «bello»: la bellezza,
secondo Winckelmann, è il risultato dell’armonia
delle parti di cui si compone una figura, un paesaggio, ecc. L’arte, quindi, deve imitare la natura e ricrearne l’armonia. Tuttavia, egli distingue fra il bello
di natura, che si coglie attraverso i sensi e determina
una soddisfazione superficiale, e il bello d’arte, che è
il frutto di un’operazione che coinvolge sia i sensi sia
l’intelletto. L’artista, infatti, deve cercare di raggiungere e realizzare nella sua opera il bello ideale, che
non esiste in natura: egli non deve limitarsi a copiare l’esistente, ma riunire nell’opera d’arte i particolari perfetti presenti e disseminati nei diversi individui e forme che compongono la natura;
● l’arte e la civiltà greche classiche sono il mo-
dello supremo: attraverso la creazione di forme armoniche l’arte deve saper trasmettere un senso di serenità e di equilibrio, che ha come effetto la capacità
di controllare le passioni, di ricondurre anche le più
forti emozioni all’interno della razionalità. In questo
gli artisti hanno un esempio nell’arte (in particolare
nella scultura e nell’architettura) che si realizzò nell’antica Grecia, soprattutto nel corso del V secolo a.C.
È quella la forma artistica che fa trasparire «nobile
semplicità e tranquilla grandezza» [s T6].
Il Neoclassicismo europeo trionfò perché seppe
esprimere un concetto di bellezza ed eleganza che fu
accolto non solo dagli artisti e dagli scrittori, tanto
da divenire moda. A questo risultato contribuirono
in maniera decisiva gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, le città romane sommerse dalla
lava del Vesuvio nel 79 d.C. che cominciarono a tornare alla luce a partire dal 1748 e che con i loro mobili, gli ornamenti delle pareti, gli affreschi trovati
intatti fornirono modelli per gli artigiani di tutta Europa. Durante le ultime fasi della Rivoluzione francese e l’età napoleonica fiorì lo stile Impero: sedie,
tavoli, lampadari, specchiere ed anche i vestiti delle
dame assunsero forme derivate da quelle dell’antichità romana. Si può quindi dire che il Neoclassicismo divenne un gusto diffuso.
T6
La Grecia antica, patria del bello
Johann J.
Winckelmann,
Il bello nell’arte.
Scritti sull’arte
antica, a c.
di F. Pfister,
Einaudi,
Torino 1973
Winckelmann indicò nella Grecia la vera culla dell’arte occidentale, contribuendo enormemente a creare il mito della Grecia classica. Presentiamo qui alcuni passi tratti dai suoi scritti sull’arte. Come si vedrà, il discorso sulle statue e sulla rappresentazione della bellezza si intreccia continuamente, per
Winckelmann, con quello sulla letteratura, in una visione in cui tutte le forme di manifestazione artistica
concorrono a dare l’immagine di una civiltà.
Il buon gusto che si va sempre più diffondendo nel mondo1, ebbe origine in terra greca. Le invenzioni dei popoli stranieri non pervennero nella Grecia se non come un primo seme2, e presero nuova natura e nuova forma in questo paese «che si dice Minerva assegnasse come dimora ai Greci, a preferenza d’ogni altro, per le miti stagioni che
vi trovò, visto che esso avrebbe potuto produrre menti intelligenti»3.
1. Il buon gusto… nel mondo: nel Settecento predominò l’idea che l’arte stesse
rinascendo proprio grazie alla sconfitta
del «cattivo gusto», ossia delle esagera-
zioni e distorsioni che avevano dominato
nel Seicento.
2. Le invenzioni… primo seme: ciò che
giunse in Grecia dagli altri popoli (quelli
del Medio Oriente e dell’Egitto) agì solo
come uno spunto iniziale (primo seme).
3. «che si dice Minerva... menti intelligenti»: la citazione è tratta da un’opera, il
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Il gusto che questo popolo ha manifestato nelle
sue opere, è rimasto un suo privilegio; raramente si
è allontanato dalla Grecia senza perdere qualche
cosa, e solo tardi è stato conosciuto in regioni lontane.
Per noi, l’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili4, è l’imitazione degli antichi5, e
ciò che si disse di Omero6, che impara ad ammirarlo chi imparò ad intenderlo, vale anche per le opere
degli antichi, particolarmente dei Greci. Bisogna
conoscerle come si conosce un amico, per poter trovare il Laocoonte7 inimitabile al pari di Omero.
Laocoonte, II sec. a.C., Musei Vaticani, Roma
L’imitazione del bello della natura8 o si attiene ad
un solo modello o è data dalle osservazioni fatte su
vari modelli riunite in un soggetto solo9. Nel primo
caso si fa una copia somigliante, un ritratto: è il modo che conduce alle forme ed alle figure olandesi10.
Nel secondo caso invece si prende la via del bello
universale11 e delle immagini ideali di questo bello;
ed è questa la via che presero i Greci.
La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e
una quieta grandezza12, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità
del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata13.
Timeo, di Platone, il grande filosofo greco
vissuto fra il V e il IV secolo a.C.
4. inimitabili: non imitabili in quanto perfetti, o quasi.
5. l’imitazione degli antichi: per Winckelmann il concetto di «imitazione» è diverso
e distante da quello di «copiatura»; imitare gli antichi significa capire il loro modo
di concepire l’arte e di realizzarla e tentare di ricreare la ricerca della bellezza ideale e assoluta. Su questa strada i moderni
possono competere e anche superare gli
antichi.
6. Omero: l’autore dell’Iliade e dell’Odissea fu oggetto di un vero culto nella cultura settecentesca e fu considerato l’immagine stessa della poesia.
7. Laocoonte: sacerdote di Apollo ricordato nel mito relativo alla guerra di Troia.
Per far volgere al termine la guerra contro
Troia i Greci si servirono di un inganno:
un grande cavallo di legno, nel quale si
erano nascosti alcuni guerrieri guidati da
Ulisse, fu abbandonato davanti alle mura
di Troia mentre i Greci fingevano di partire con le navi. I Troiani volevano portare
il cavallo dentro la città come simbolo della loro vittoria; l’unico ad opporsi fu Lao-
coonte, che intuì l’inganno e cercò di dissuadere i suoi concittadini dal loro proposito, ma due serpenti usciti dal mare, inviati da Atena (la dea protettrice dei Greci
e nemica dei Troiani) si avventarono su
Laocoonte e sui suoi due giovani figli e li
soffocarono fra le loro spire. Così l’inganno del cavallo si poté compiere. La storia ci
è stata tramandata da vari scrittori, il più
importante dei quali è il poeta latino Virgilio, che fa raccontare l’episodio ad Enea
nel poema Eneide (libro II). Nel corso del
Cinquecento, a Roma, sul colle Esquilino,
fu ritrovato un gruppo marmoreo che
rappresenta il momento in cui Laocoonte
e i suoi due figli vengono avvinghiati dai
serpenti; l’opera destò l’ammirazione di
tutti coloro che la videro e divenne uno dei
simboli dell’arte antica. Essa risale al I secolo a.C., ma Winckelmann riteneva che
fosse molto più antica.
8. L’imitazione del bello della natura: due
sono le fonti della bellezza che si possono imitare: una è l’arte classica, l’altra è
la natura intesa non solo come paesaggio, ma anche come creatrice delle forme
umane e animali.
9. o si attiene… soggetto solo: o si limita
(si attiene) ad un unico modello, oppure si
realizza attraverso l’osservazione dei particolari più belli presenti in modelli diversi, riuniti poi in un’unica opera d’arte.
10. olandesi: si riferisce alla pittura che
oggi chiamiamo fiamminga, perché si sviluppò nei paesi fiamminghi (Olanda, Belgio) e rimane famosa per l’esattezza nella
riproduzione dei particolari anche più
minuti.
11. bello universale: una forma di bellezza rielaborata, che non esiste in natura e
che si avvicina il più possibile all’idea di
bello assoluto.
12. una nobile semplicità e una quieta
grandezza: sono le parole di Winckelmann che divennero la definizione dell’arte neoclassica. Le due coppie di nome
+ aggettivo esprimono i seguenti concetti: quello di una naturalezza (semplicità)
che non scade mai nel banale o nel volgare, ma si presenta nobile, e quello di una
grandezza, d’animo oltre che di forme,
che si accompagna alla serenità di espressione, propria di chi è consapevole della
propria forza e della propria bellezza.
13. posata: tranquilla, serena.
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Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e
non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo,
non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte
non grida orribilmente come nel canto di Virgilio14: il modo con cui la bocca è aperta
non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso. Il dolore del
corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e
sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre (…): il suo patire ci tocca il cuore, ma
noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta.
Più tranquilla è la posizione del corpo e più è in grado di esprimere il vero carattere
dell’anima.
L’anima si fa più facilmente conoscere ed è più caratteristica nelle forti passioni, ma
grande e nobile è solo in istato d’armonia15, cioè di riposo. In questo riposo l’anima deve apparire calma ma nello stesso tempo attiva, quieta ma non indifferente né addormentata.
14. non grida… di Virgilio: come lo presenta Virgilio nel libro II dell’Eneide.
15. L’anima si fa… istato d’armonia: noi
possiamo conoscere meglio l’animo uma-
no quando esprime ed è scosso da passioni violente: allora gli individui si mostrano
davvero per quello che sono; ma l’animo
mostra la sua grandezza e nobiltà quando
è in uno stato di quieta, pacificata armonia.
Lavoraresultesto
1 Secondo le parole di Platone riportate da Winckelmann, a quale fine Minerva diede ai Greci proprio quel paese da
abitare?
2 Che cosa intende Winckelmann
per imitazione degli antichi?
3 Le «fonti» del bello sono due:
quali?
4 Seguendo quale processo, secondo Winckelmann, l’artista può arriva-
re al bello universale?
5 Secondo Winckelmann, nell’opera d’arte:
a. deve essere assente ogni manifestazione di forti passioni;
b. l’espressione serena del volto deve comunicare l’assenza di passioni;
c. l’espressione delle passioni deve comunque essere composta;
d. l’espressione deve nascondere qual-
3 I I diversi esiti
dell’estetica neoclassica
Il «fenomeno Neoclassicismo» fu ben lontano dal costituire una cultura estetica chiusa entro regole rigide; la sua modernità lo rendeva un modo «aperto» di
rapportarsi all’arte e alla realtà. Fatte salve alcune
idee di fondo (l’idealizzazione del mondo antico, l’identificazione della bellezza con l’armonia esprimente una tranquilla grandezza, il recupero di forme classiche), il Neoclassicismo si prestava alle più diverse interpretazioni culturali e ideologiche. Di seguito indichiamo alcune delle tendenze artistico-culturali che
ebbero più rilievo nella seconda metà del Settecento.
siasi forma di passione.
6 A quale similitudine ricorre Winckelmann per spiegare la nobile semplicità
e la quieta grandezza dell’opera d’arte?
7 Dopo aver osservato la riproduzione del Laocoonte, prova a dire se le tue
sensazioni sono simili a quelle descritte
da Winckelmann oppure se l’opera suscita in te reazioni diverse.
● Neoclassicismo accademico e archeologico
È uno degli aspetti insieme più diffusi e meno interessanti dell’estetica neoclassica, pur essendo ravvisabile in molta parte della produzione pittorica, scultorea e architettonica europea. Il recupero della classicità dà luogo ad una produzione artistica che si limita a rilanciare temi e figure desunti dalla storia antica e dall’arte greco-romana. Negli artisti e letterati
che sposano questa linea non manca affatto il contatto con la realtà del proprio tempo, anzi, la maggior parte delle loro opere ha come soggetto la modernità, solo che il loro modo di rappresentarla è
bloccato sullo schema logico di un continuo raffronto con l’antico. Tutto quanto vi è di bello e grande
nell’oggi è rappresentabile attraverso un «travesti-
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Neoclassicismo
tendenze
artistico-culturali
accademico-archeologica
sentimentale-nostalgica
etico-civile
la modernità viene
rappresentata in rapporto
con l’antico
(i miti diventano repertorio
di immagini belle)
l’arte antica viene vista
come il prodotto di una
cultura in cui individuo
e società avevano trovato
un punto d’incontro in una
morale civile
mento» antico, che appare elemento necessario e
sufficiente per strappare l’avvenimento o il personaggio alla banalità del quotidiano e trasportarlo in
un’atmosfera austera e solenne. I miti degli dèi e degli eroi diventano un repertorio d’immagini belle [s
L’eredità del periodo, p. 461]; Napoleone è potente e
grande come un imperatore romano e quindi molti
pittori e scultori lo rappresentano nelle vesti di antico romano.
● Neoclassicismo etico-civile Con questa espressione si può indicare quell’arte e quella letteratura
che coglievano nelle espressioni artistiche dell’antica Grecia e Roma soprattutto il prodotto di una cultura in cui l’individuo e la società avevano trovato un
punto d’incontro in una morale fondata su valori civili: l’eroe, il cittadino dotato di virtù, il poeta e l’artista capaci di provocare il miglioramento della vita sociale sono le «figure» centrali di questo Neoclassicismo. Questa interpretazione del Neoclassicismo si
fonde con grande facilità e naturalezza con tutti quei
movimenti culturali e ideologici settecenteschi che si
impegnarono nella trasformazione della società, in
particolare l’Illuminismo riformista e utopista, il giacobinismo rivoluzionario e libertario, ma anche il bonapartismo e l’antibonapartismo. Non può certo
stupire che tendenze opposte si ispirassero a ideali
comuni, se si pensa che la figura di Napoleone ebbe
sempre una doppia interpretazione da parte dei contemporanei: da un lato, quale erede della Rivoluzione e distruttore degli antichi regimi feudali, quindi
il mondo antico, come
armonia tra uomo e
natura, viene percepito
come irrimediabilmente
perduto (causa la banalità
e la volgarità moderne)
fondatore di un nuovo ordine; dall’altro, quale affossatore della repubblica, oppressore delle nazioni europee e tiranno imperiale. Esempio di grande efficacia di questo Neoclassicismo è l’opera pittorica del
francese Jacques-Louis David (1748-1825), che,
in una prima fase, si fece banditore attraverso i suoi
quadri della moralità e dell’ideologia giacobina e rivoluzionaria e, nella seconda fase, divenne il pittore
ufficiale di Napoleone, che ritrasse sia in veste di condottiero, sia in veste di imperatore. Per quanto riguarda la poesia, un grande prodotto di questo Neoclassicismo furono i Sepolcri (1807) di Foscolo [s
modulo Ugo Foscolo, p. 497].
● Neoclassicismo come sentimento nostalgico di un mondo perduto L’antichità, e in particolare la Grecia, con i suoi dèi ed eroi, il suo paesaggio solare e mediterraneo che favoriva l’armonia tra
uomo e natura, assume in tutta la sua potenza la
configurazione di una patria ideale dell’uomo, irrimediabilmente perduta a causa della civiltà moderna,
della scienza, della violenta banalità e volgarità del
quotidiano. L’Ellade (nome antico della Grecia) diventa quindi l’espressione di una libertà spirituale
assoluta, oggetto di una continua tensione, ma destinata ad essere frustrata; di qui il melanconico desiderio, la «nostalgia struggente» (Sehnsucht in tedesco) per un modo di vivere che avvicinava gli esseri
umani ad una condizione semidivina. Uno dei centri di questo modo di intendere il Neoclassicismo,
che ebbe vasta risonanza anche in Europa, fu la città
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tedesca di Weimar, dove il grande Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) iniziò un rapporto d’amicizia e di collaborazione con il poeta e drammaturgo tedesco Friedrich Schiller (1759-1805). In
questa atmosfera nacquero le grandi opere «classiche» di Goethe, come la tragedia Ifigenia in Tauride
(1787), gli inni di Schiller, tra i quali il famosissimo
Gli dei della Grecia (1788), gli inni di Friedrich
Hölderlin (1770-1843), come Natura e Arte o Saturno e Giove e le sue odi Alle Parche, Canto del destino
di Iperione [s T7 e modulo La lirica romantica in Europa, p. 587], ed anche le Grazie di Foscolo.
L’aver indicato queste tre tendenze del Neoclassicismo naturalmente non significa che esse vadano
considerate in modo autonomo e separato, perché
spesso, al contrario, convivono o segnano fasi diverse dell’opera di uno stesso artista o letterato – come,
per esempio, in Foscolo – ed anche nel gusto generale si intrecciano e si influenzano reciprocamente.
T7
Il canto del destino
Friedrich
Hölderlin,
Poesie, trad.
di G. Vigolo,
Einaudi, Torino
1976
Friedrich Hölderlin (1770-1843) è, accanto a Goethe, il più alto esponente della poesia lirica tedesca
fra Sette e Ottocento. Il canto del destino è una delle liriche più note del poeta e fu composta fra il 1797
e il 1799. La visione dell’Olimpo, la sede nella quale gli dèi vivono la loro esistenza priva di affanni e di
sconvolgimenti, in un’atmosfera di luminosa serenità, si contrappone al destino degli uomini, esiliati nel
mondo e privi di speranza.
Metro: nel testo tedesco i versi sono liberi* e il traduttore ha cercato di riprodurre graficamente l’aspetto che le strofe hanno nell’originale.
Voi andate lassù nella luce
su molle suolo, beati genii!
Splendenti brezze di dèi
vi sfiorano lievi
5
come dita ispirate
le sacre corde.
1-2. Voi… genii: voi, divinità (genii) beate, vi muovete lassù, sul soffice manto del
cielo.
3-6. Splendenti… corde: vi accarezzano
leggeri venti luminosi e degni degli dèi,
come le dita ispirate del musico sfiorano
le corde della cetra, sacra al dio Apollo.
7-8. Senza… i superi: gli dèi (superi) vivono (respirano) senza che incomba su di loro il destino di morte, con la tranquillità
di un bimbo addormentato.
9-15. serbato casto… chiarità: per loro lo
spirito, mantenuto puro come un fiore
ancora in bocciolo, fiorisce in eterno e i
loro occhi beati brillano in un’atmosfera
di luce e in una calma eterne.
16-17. Ma a noi… posare: invece a noi
uomini non è concesso aver pace (posare)
in nessun luogo.
18-24. dileguano… nell’incerto giù: gli
uomini si dissolvono, cadono alla cieca
nel dolore, ora da una parte ora dall’altra, come acqua sbattuta per anni da uno
scoglio all’altro, verso un baratro di cui
non si conosce la fine (incerto giù).
Senza destino, come lattante
che dorma, respirano i superi;
serbato casto
10
in umile gemma
è in eterno fiorire
per loro lo spirito
e gli occhi beati
brillano in tacita
15
eterna chiarità.
Ma a noi non è dato
in luogo nessun posare;
dileguano, cadono
soffrendo gli uomini
20
alla cieca, da una
ora nell’altra
come acqua da scoglio
a scoglio gettata
per anni nell’incerto giù.
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Lavoraresultesto
2 L’ultima strofa comincia con un
Ma: quale segnale intende dare l’autore al
lettore con questo stacco marcato?
degli uomini corrisponde, in un certo senso, al ribaltamento del mondo divino. Fa’
un elenco degli elementi che sono in evidente contrapposizione.
4 In questa poesia Hölderlin esprime:
3 La rappresentazione del mondo
a. un sentimento di invidia per un mondo
1 Quali sono gli elementi fisici che
il poeta evoca per descrivere la situazione
di beatitudine degli dèi?
4 I L’estetica del «sublime»
A fianco del Neoclassicismo (a volte in contrasto, a
volte unendosi ad esso) si sviluppò, nel Settecento,
una concezione artistica che si identificava nella capacità di trasmettere smarrimento, inquietudine, sgomento: si metteva così a fuoco il concetto di sublime,
intendendo così individuare gli aspetti dell’arte capaci di colpire profondamente le passioni dello spettatore o del lettore. Il termine deriva da un piccolo trattato greco, Sul sublime, giunto anonimo, che già un
umanista italiano, Francesco Robortello, aveva pubblicato nel 1554, ma che fino al Settecento era passato quasi inosservato. Fu Edmund Burke a dare una
visione più completa della questione nella sua Inchiesta [s p. 443]; egli cominciò a distinguere due categorie di piacere: il piacere positivo, che si prova quando
si hanno esperienze positive e si vedono o sentono
«cose belle», e il diletto, che corrisponde alla sensazione che si prova per la cessazione di un dolore. Tra tutte le
passioni quelle che provocano maggiori emozioni e
sono più forti sono quelle che ci vengono ispirate dal
dolore o dal pericolo, mentre quelle destate dal piacere sono meno violente; da qui la definizione data da
Burke dell’origine del sublime: «Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è
in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una
fonte del sublime». L’idea che si ricava dal discorso è il
legame, istituito da Burke, fra il sentimento del sublime e una serie di esperienze che hanno come comun
denominatore il fatto che l’individuo prova terrore
quando «sente» la propria inadeguatezza, fragilità,
debolezza, di fronte a fenomeni che non può controllare. In ultima analisi, si tratta del sentimento che nasce dalla coscienza della limitatezza delle forze (fisiche e psichiche) dell’uomo nei confronti dell’infinito,
situazione che provoca la paura di essere sopraffatti e
distrutti, produce cioè un dolore. Questo è un mo-
eccessivamente felice;
b. un sentimento di estraneità verso un
mondo non umano;
c. un sentimento di nostalgia per un mondo perduto;
d. un sentimento di avversione per un
mondo dove tutto è troppo perfetto.
mento psicologicamente insopportabile, che si tramuta però in diletto allorché le esperienze non vengono vissute direttamente, ma contemplate attraverso
la rappresentazione che di tali fenomeni fornisce l’arte.
Burke definisce gli elementi che producono il sentimento del sublime e, di conseguenza, il diletto; molte
di queste componenti entrano a far parte del gusto
estetico nel corso del Settecento; tra queste hanno
particolare importanza l’oscurità, il sentimento di privazione, la vastità, l’infinito, la grandezza delle costruzioni, il non-finito, i colori tetri, i suoni intermittenti, gli urli degli animali, il maleodorante.
Per riassumere possiamo fissare alcuni punti che
l’Inchiesta di Burke consegnò ai critici e agli artisti
della fine del Settecento e che ebbero ampia applicazione e sviluppo:
● la distinzione fra il bello e il sublime, in base
alla diversità degli effetti che essi provocano, il primo
un piacere, il secondo un’inquietudine e uno smarrimento che confina con la paura;
● il sentimento del sublime viene prodotto non
solo dall’arte, ma anche dalla natura: i paesaggi
selvaggi, le oscurità tenebrose della notte, l’ampiezza
smisurata dei deserti, la solitudine triste dei laghi e
l’altezza aspra delle montagne fanno nascere nell’uomo un senso di sgomento che tende a trasformarsi in
un piacere, ma completamente diverso da quello che
si prova per la contemplazione della bellezza;
● collegamento tra arte e passione: la distinzione
tra bello e sublime si fonda anche sul fatto che mentre
il bello va posto in relazione con l’immaginazione (capacità di dare forma alle idee), il sublime è invece insieme effetto e causa di passione; è su questa base che
il gusto settecentesco accolse sempre più ampiamente un’idea di arte capace di suscitare passioni.
Per cogliere appieno i risultati di queste elaborazioni bisogna giungere alla metà del Settecento, periodo in cui comparvero le elegie di Edward Young
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(Il lamento: ovvero pensieri notturni sulla vita, la morte
e l’immortalità, 1742-46), che furono quasi subito
tradotte nelle più importanti lingue europee e divennero universalmente note come Le notti. In quei versi si davano i primi esempi di sublime ottenuto attraverso la descrizione di paesaggi notturni, spettrali,
espressione di una sensibilità tenebrosa che si opponeva a quella «solare» tipica della poesia classicheggiante. Di qui nacque una tendenza, quella della
poesia sepolcrale, che divenne anche una moda
europea [s modulo L’Età dei Lumi e delle rivoluzioni,
p. 217].
5 I Elementi di un’estetica alternativa:
il cosiddetto «Preromanticismo»
Tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento si mise in luce, soprattutto nella cultura tedesca e
nordica, un modo di concepire l’arte e la letteratura
che alcuni critici hanno proposto di chiamare «Preromanticismo», perché vi si colgono alcune anticipazioni della cultura romantica che dominerà la prima parte del XIX secolo [s modulo Il Romanticismo e
la formazione dell’Europa contemporanea, p. 526]. Definire il Preromanticismo è difficile; si può certamente fare un elenco di temi letterari e pittorici: poesia sepolcrale, paesaggi notturni e cimiteriali, «rovinismo» (cioè gusto per le rovine degli antichi edifici,
meglio se perduti nella solitudine della campagna),
predilezione per gli aspetti orridi e tempestosi della
natura. Allo stesso modo, è possibile individuare un
elenco di stati d’animo comuni, sentimenti e atteggiamenti irrazionali e di ribellione contro il mondo e
la società: amori impossibili, solitudine dell’individuo di fronte all’incomprensione di una società votata al denaro e alle convenzioni, nostalgia di uno stato di felicità e di purezza primordiale, visione pessimistica del destino umano, ecc. Non è comunque possibile mettere dei confini rigidi fra il Neoclassicismo e
la produzione poetica e artistica preromantica.
Fatte queste debite precisazioni, si possono indicare i principali punti di riferimento culturali che solitamente vengono chiamati in causa quando si parla di Preromanticismo.
● Esiti irrazionalistici della «poetica del sublime» In particolare, si può intravedere la presenza
di una concezione artistica e poetica sempre più distante dal razionalismo in quegli autori che della
poetica del sublime potenziarono soprattutto due
aspetti: la centralità dell’ispirazione, fino a giungere
alla idealizzazione dell’artista come creatore assoluto, al di là di ogni regola, e la predilezione per i temi
dell’orrido, del notturno, del misterioso.
● Culto del primitivo come espressione più alta
della spontaneità Si trattò di una moda che vedeva
nell’espressione poetica delle antiche popolazioni, nella fase della civiltà in cui ancora non esisteva la scrittura, l’esito di una spontaneità primitiva, di un rapporto
spesso drammatico con la natura, ma autentico ed immediato, ormai sconosciuto alla società civilizzata. La
moda prese avvio dalla pubblicazione di alcuni poemi
riuniti nel 1765 sotto il titolo I canti di Ossian, di James
Macpherson (1736-1796), un maestro di scuola
scozzese. L’autore li presentò come una rielaborazione di antichi canti dei druidi delle Highlands scozzesi,
raccolti da Ossian, figlio di Fingal; in realtà, come si
chiarì poco dopo, si trattava di poemi scritti dallo stesso Macpherson in cui egli aveva inserito frammenti di
canti popolari. La scoperta del «falso» fece decadere,
verso la fine del secolo, il prestigio dell’opera, ma ormai
la sua diffusione era stata travolgente e aveva influenzato scrittori della statura di Goethe, Foscolo, Herder.
Ma a parte questa vicenda, Ossian inaugurò una stagione di grande interesse per la poesia e la letteratura
«popolare», intesa anche come ricerca delle radici culturali della nazione: si possono citare come indizi di questa tendenza le Reliquie dell’antica poesia inglese (1765),
una raccolta di testi fatta da Thomas Percy (17291811), e i Canti popolari pubblicati dal tedesco Johann
Gottfried Herder (1744-1803) tra il 1778 e il 1779.
● «Estetica del sentimento» Si tratta di un atteggiamento culturale che rende il sentimento, il contatto con la natura, la libera espressione della personalità individuale predominanti sugli aspetti razionali e
sulla convenzionalità delle norme sociali ed artistiche. Verso la fine del secolo questa tendenza fu rappresentata in Francia e in Europa soprattutto dalla filosofia e dall’opera letteraria di Rousseau: il romanzo
Giulia o la nuova Eloisa (1761), le autobiografiche Confessioni (1781-88) sono capisaldi di una sensibilità
che spesso si manifesta in aperta polemica col razionalismo illuminista. Nel mondo tedesco questa tendenza «sentimentale» fu rappresentata soprattutto
dal poeta Friedrich Gottlieb Klopstock (17241803), che nel lungo poema in venti canti Messiade
(1748-73) sviluppò temi religiosi e morali che sfociavano in un’esaltazione dell’individuo e dell’etica della responsabilità personale, all’interno della quale
aveva un posto di grande rilievo l’idea che non si debbono soffocare i sentimenti più spontanei ed intimi,
fonte principale della vita spirituale.
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Modulostoricoculturale L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo 451
MELCHIORRE CESAROTTI
La vita e le opere Nato a Padova nel 1730, Melchiorre Cesarotti dimostrò presto una notevole
vastità di interessi; diventò esperto delle lingue e letterature antiche e conobbe i più importanti scrittori
illuministi d’Europa. Fu un grande intellettuale, fondamentale per la cultura italiana, che attraverso la
sua opera e mediazione venne a conoscenza delle più
rilevanti novità delle letterature straniere, in particolare di quelle francese e inglese.
Nel 1760 lasciò Padova per Venezia, dove compose
le sue due prime opere notevoli, i ragionamenti Sopra
il diletto della tragedia (1762) e Sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica (1762), che accompagnavano
la traduzione della Morte di Cesare e del Maometto o il
fanatismo di Voltaire. Nella prima si affronta l’analisi
psicologica del piacere che occupa lo spettatore durante la rappresentazione di un dramma, nella seconda si dibatte la questione dell’imitazione poetica.
Cesarotti intendeva combattere il cieco ossequio ai
modelli antichi, perché l’imitazione poetica non può
essere costretta entro limiti determinati, e difendeva
il «genio» poetico individuale e l’istinto fantastico come fondamenti della poesia.
Questa concezione è alla base dell’impresa poeticocritica più famosa di Cesarotti: la traduzione e illustrazione dei Canti di Ossian di Macpherson. Cesarot-
ti scelse di rendere la prosa ritmica dell’originale
(non veri e propri versi, ma sequenze con accenti che
si ripetono nelle stesse posizioni) con versi della tradizione italiana (endecasillabi*, settenari*, novenari*, ecc.) mescolandoli liberamente e facendo comparire la rima quando lo riteneva opportuno; in
realtà quella di Cesarotti più che una traduzione è
una vera riscrittura. I canti di Ossian, il «moderno
Omero», apparivano a Cesarotti esemplari di un’epica diversa da quella greca antica, ma di uguale, anzi
superiore valore estetico; l’impresa della traduzione
nasceva, inoltre, dall’intenzione di arricchire e rinnovare il linguaggio poetico italiano.
Nel 1768 Cesarotti fu nominato professore di lingua greca ed ebraica presso lo Studio di Padova. Alla sua attività di docente sono legati il Corso ragionato di letteratura greca (1781) e la versione (letterale e
in prosa) dell’Iliade di Omero. Al periodo della maturità dello scrittore appartengono il Saggio sulla filosofia del gusto (1785) e il Saggio sulla filosofia delle lingue (1800), le sue opere teoriche più importanti. Moderato estimatore della Rivoluzione francese, Cesarotti scrisse negli anni della vecchiaia alcuni opuscoli politici, fra i quali Il patriottismo illuminato (1797).
Morì nella sua villa di Selvaggiano (Padova) il 4 novembre 1808.
T8
La notte
Canti
di Ossian,
La notte, I
Il successo dei Canti di Ossian era stato travolgente e contagiò tutta Europa. Quello che colpiva fu il riemergere, dalle nebbie della storia, della civiltà celtica, che si era sviluppata in Galles, Irlanda, Scozia e
parte della Francia, di cui rimanevano scarsissime tracce, e che non aveva lasciato testimonianze scritte. Era un mondo diversissimo da quello classico: vi si trovavano non Giove, Minerva, Apollo, ma divinità come Teutates e personificazioni dei venti e delle tempeste, non paesaggi mediterranei, ma foreste, dirupi, lande battute dalla pioggia e sommerse dalla nebbia, non eroi rivestiti delle loro armature, elmi e scudi, ma selvaggi guerrieri coperti di pelli. Nella civiltà celtica la religione era amministrata da sacerdoti-maghi, i druidi, e all’interno dei clan o tribù avevano una notevole rilevanza sociale i bardi, i cantori che tramandavano le gesta degli eroi e degli dèi. I Canti, tradotti in tutte le principali lingue, ebbero
il merito di introdurre nella tradizione poetica europea un nuovo linguaggio e una serie di immagini inusuali. Essi non si presentano come un insieme organico, ma sono divisi in vari poemetti che Macpherson
pubblicò a varie riprese. I testi che costituiscono il poemetto La notte sono immaginati come canti di
cinque bardi che, riuniti in casa di un capoclan, improvvisano sul tema della notte di ottobre; alla fine c’è
un sesto canto, che è quello dell’ospite, anch’egli poeta. Qui riportiamo il primo canto.
Metro: successione di versi di diversa misura, variamente rimati. Prevalgono gli endecasillabi*, ora rimati, ora liberi.
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1. Trista: non vuol dire «triste», piuttosto, desolata, carica di oscuri presagi. –
tenebria s’aduna: le tenebre s’addensano, si radunano.
4. che metta il capo fuor delle sue porte:
che spunti dalla sua casa, il luogo misterioso in cui si rifugia la luna quando non
si vede.
5. Torbido… fortuna: il lago è limaccioso
e minaccia un fortunale, una tempesta.
6. a ruggir forte: violento nel suo ululato.
7-8. giù dalla balza… mormorio: il fiume
(rio) scorre giù dal fianco della montagna
(balza) con un mormorio sordo, quasi un
lamento.
9. tufo: qui genericamente per roccia (deve far rima con gufo!).
11-12. lungo-urlante... ferale: il gufo,
che fa un verso simile ad un lungo urlo e
che è odiato in quanto si ritiene che sia di
malaugurio (inamabil), riempie l’aria conferendole un’atmosfera lugubre (l’aer funesta) con il suo canto che annuncia morte (ferale). Spesso Cesarotti non solo mantiene il doppio aggettivo, frequente nel testo inglese, ma risolve col doppio aggettivo un paragone. L’intero periodo è caratterizzato da un’espressione sintetica che
dà rilievo ad alcune parole tematiche: funesta, ferale.
13. Ve’ ve’: guarda, guarda.
14-15. fosca... un’ombra: una forma
scura proietta la sua ombra (adombra) sul
terreno (piaggia): è uno spirito (ombra).
17-18. Per questa… morta: presto (tosto)
per questa via dovrà passare un fantasma.
19. quella... scorta: quella forma scura
che è passata (meteora, nel significato generico di fenomeno atmosferico) fa da
scorta al suo passaggio.
21. sul musco del monte: sul muschio
che ricopre il monte.
22. arborea fronte: la fronte del cervo,
con le corna ramificate come un albero.
23. spesso... spesso: si alza e si riadagia
continuamente.
24. un fesso: una spaccatura della roccia. – cavriol: capriolo.
25. tra l’ale… la testa: il francolino, un
piccolo uccello, ripara il capo sotto le ali.
27. s’inselva: si rifugia dove la selva è più
fitta.
28-29. solo… odioso: soltanto l’odioso
gufo, nascosto in una nuvola, fa sentire il
suo stridulo verso. L’accanimento contro
il gufo deriva dalla credenza che il suo canto, come quello della civetta, porti male.
31. brulla di fronde: spoglia.
34. il peregrin: il viandante.
35-36. va per... rovine: cammina in mezzo a sterpi, cespugli spinosi (bronchi), luoghi scoscesi (rovine).
44. piè: piede.
45. Fiaccasi: si spezza.
47. l’aride... vento: il vento porta via le
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Trista è la notte, tenebria s’aduna,
tingesi il cielo di color di morte:
qui non si vede né stella né luna,
che metta il capo fuor delle sue porte.
Torbido è ’l lago, e minaccia fortuna;
odo il vento nel bosco a ruggir forte:
giù dalla balza va scorrendo il rio
con roco lamentevol mormorio.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
che copre quella pietra sepolcrale,
il lungo-urlante ed inamabil gufo
l’aer funesta col canto ferale.
Ve’ ve’:
fosca forma la piaggia adombra:
quella è un’ombra:
striscia, sibila, vola via.
Per questa via
tosto passar dovrà persona morta:
quella meteora de’ suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
il cervo geme – sul musco del monte,
l’arborea fronte – il vento gli percote;
spesso ei si scuote – e si ricorca spesso.
Entro d’un fesso – il cavriol s’acquatta,
tra l’ale appiatta – il francolin la testa.
Teme tempesta – ogni uccello, ogni belva,
ciascun s’inselva – e sbucar non ardisce;
solo stridisce – entro una nube ascoso
gufo odioso;
e la volpe colà da quella pianta
brulla di fronde
con orrid’urli a’ suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
il peregrin
va per sterpi, per bronchi, per spine,
per rovine,
ché ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
dirupi di là,
teme i sassi, teme le grotte,
teme l’ombre della notte,
lungo il ruscello incespicando,
brancolando,
ci strascina l’incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
il sasso rotola, il ramo si schianta,
l’aride lappole strascica il vento;
erbe secche. In particolare, le lappole sono infiorescenze uncinate: ciò che importa è creare un’atmosfera in cui la natura
aggredisce e fa paura e quindi il vento
non fa turbinare delle foglie ma le lappole, che si attaccano ai vestiti.
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50. pregna di nembi: gravida, carica di
nubi che portano pioggia.
52. a fronte e a tergo: davanti e dietro.
53. il tuo notturno albergo: la tua casa,
dove possa trovare rifugio per la notte.
ecco un’ombra, la veggo, la sento:
trema di tutto, né sa di che.
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Notte pregna di nembi e di venti,
notte gravida d’urli e spaventi!
L’ombre mi volano a fronte e a tergo:
aprimi, amico, il tuo notturno albergo.
Lavoraresultesto
1 Il linguaggio che trovi in questa
poesia è un’invenzione più di Cesarotti che
di Macpherson; tuttavia il traduttore ha cercato le parole per rendere un’atmosfera e
delle immagini desolate e paurose. In questo testo si racconta qualcosa? Vengono
esposti dei fatti? Oppure non esiste un racconto? Cerca di dare una risposta motivata.
2 Il paesaggio è popolato di animali e, ad un certo punto, compare un
viandante. Vi sono altre presenze in questo paesaggio? Quali? Indica i versi in cui
compaiono.
3 Il gufo viene ricordato due volte:
indica con quali aggettivi si fa riferimento
all’uccello e al suo canto.
6 I «Sturm und Drang»:
l’anticlassicismo tedesco
Un movimento artistico-intellettuale, sviluppatosi
in Germania, che va sotto il nome di Sturm und
Drang («Tempesta ed impeto») caratterizzò la cultura tedesca per un paio di decenni e si può considerare concluso verso il 1785. Ne fecero parte alcuni
giovani scrittori che vollero muovere il loro assalto
agli ambienti culturali che nelle corti tedesche avevano accolto l’Illuminismo francese al punto da negare o cancellare l’originaria matrice germanica.
I punti fermi di questo movimento erano:
l’esaltazione individualistica;
la rappresentazione tragica del conflitto tra ragione e sentimento;
● la ricerca di una nuova morale autentica e non convenzionale;
● la polemica contro la società che isola e condanna ad
una sorta di esilio l’artista di genio;
● il recupero dei valori spirituali in opposizione al
materialismo.
●
●
Come si vede, confluivano in questi atteggiamenti,
in primo luogo, l’aperta ribellione all’egemonia dell’estetica classicista; in secondo luogo, la stretta correlazione tra la cultura di una nazione e i caratteri originari della nazione stessa. Perciò, se da un punto di vista strettamente artistico e letterario le cose migliori
prodotte nell’ambito del gruppo furono quelle scritte
4 Quale altro elemento compare
nel testo che contribuisce a trasmettere
un’idea di morte?
5 Prova a scrivere l’inizio di un racconto o, comunque, di un testo di qualsiasi genere, cercando di creare un’atmosfera simile a quella che ritrovi nella poesia
che hai letto.
da Goethe – come il romanzo I dolori del giovane
Werther del 1774 [s modulo Le origini del romanzo,
T5] e il dramma Götz von Berlichingen – e da Schiller (il
dramma I masnadieri, del 1782), vi furono altre opere
che ebbero una vasta risonanza nell’Ottocento romantico, perché le idee espresse in esse costituirono
un fondamento importante per la nuova cultura.
In particolare, Johann Georg Hamann (17301788) inaugurò un tipo di scrittura fortemente allusiva, fondata sulla successione di immagini e citazioni che danno al testo un carattere di oscurità profetica. L’identificazione dell’arte con l’atto di creazione del genio è il punto focale delle tesi di Hamann,
accompagnato dalla contestazione di ogni «regola»
che pretenda di porre le redini alla fantasia, allo spirito, all’immaginazione.
Ancora più rilevante l’opera di Johann Gottfried
Herder (1744-1803); amico di Goethe e di Hamann, compì un viaggio in Francia, di cui lasciò un
Diario del mio viaggio nell’anno 1769: è una ricostruzione più di un percorso spirituale e culturale che materiale, nel quale Herder espone quasi tutte le idee che
svilupperà in seguito, come la riscoperta della cultura, dei miti e della lingua dei paesi del Nord, con la visione di una Germania che diventerà la «nuova Atene». Nel 1773 uscì una raccolta di scritti di intellettuali che facevano parte del gruppo dello Sturm und
Drang o erano ad esso vicini, Intorno al carattere e all’arte tedeschi. Essa conteneva anche due saggi di Herder, uno su Ossian e la poesia popolare, l’altro su
Shakespeare, che ormai aveva assunto nella cultura
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tedesca il ruolo di emblema nella lotta contro il teatro tragico francese ispirato al classicismo. Al 1774
risale, poi, Idee sulla filosofia della storia dell’umanità,
una confutazione dell’idea illuministica di «progresso» fondato unicamente sulla ragione: per Herder la
storia degli uomini avanza per il contributo specifico
ed originale che ogni nazione riesce a dare nei diversi momenti storici; in questa impostazione viene riconosciuta l’anticipazione di quell’atteggiamento
culturale che va sotto il nome di storicismo, che costituirà uno dei fondamenti della cultura romantica
europea. In base a questa impostazione Herder rivaluta il Medioevo germanico e cristiano ed esalta la
poesia, vista come espressione dell’anima collettiva
delle nazioni. La sua distinzione tra una poesia naturale (Naturpoesie), che si identifica con quella primitiva e popolare, e una poesia d’arte (Kunstpoesie), che è
quella colta, regolata da norme intellettualistiche,
divenne un punto di riferimento per tutte le successive polemiche romantiche contro il classicismo.
7 I L’arte e la letteratura in Italia
nell’età napoleonica
Negli ultimi anni del Settecento era ormai scomparsa la generazione di grandi intellettuali illuministi
che erano stati attivi soprattutto in Lombardia, in
Toscana e a Napoli. La cultura italiana rimaneva attenta a quanto succedeva in Europa, ma risentiva
del fatto che molta parte delle novità più interessanti dal punto di vista filosofico e letterario veniva
espressa nell’area tedesca e inglese, mentre i nostri
intellettuali restavano legati alla cultura francese.
Perciò, l’estetica neoclassica ebbe una rapida e importante diffusione anche in Italia, mentre meno diretto fu il contatto con le correnti anticlassiciste e
preromantiche. Tuttavia, anche da noi la moda della poesia cimiteriale e notturna si diffuse, se pur con
risultati modesti. Fa eccezione Ippolito Pindemonte (1753-1828), un nobile veronese amico di Ugo
Foscolo che compì lunghi viaggi, soggiornando anche in Inghilterra; è a queste sue esperienze che si
deve il valore piuttosto elevato di questo tipo di produzione poetica ispirato alla poesia campestre e cimiteriale, come le Poesie campestri (1788) e l’incompiuto poemetto I cimiteri (1806).
La maggior parte degli intellettuali e degli scrittori italiani avevano accolto con favore l’arrivo in Italia dell’armata francese guidata da Napoleone; tra di
loro erano diffuse e accettate le idee illuministe e la
Rivoluzione francese aveva suscitato entusiasmo e
partecipazione in molti, in tutti interesse con qualche riserva. Per esempio Vittorio Alfieri [s modulo Vittorio Alfieri, p. 343], aveva salutato la rivolta che
aveva portato all’esecuzione di Luigi XVI come un
momento eroico, culminato nell’uccisione del «tiranno», ma le sue valutazioni erano molto più letterarie
ed estetiche che politiche, e vedendo i rivoluzionari all’opera direttamente, mentre era in Francia, si era
completamente disamorato di quel movimento che
gli pareva dominato dalla «plebaglia». Diverso fu l’atteggiamento di Giuseppe Parini [s modulo Il Giorno, p. 266]: il sacerdote che aveva accolto con moderazione e perplessità la ventata rivoluzionaria fu però
disposto a collaborare con i francesi, per ritirarsi poi
dalla vita pubblica quando si rese conto che i «liberatori» erano ben decisi a fare della sua Lombardia e
dell’Italia un paese satellite della Francia. Questo
passaggio dall’entusiasmo e dall’adesione alla disillusione e al rifiuto è ben rappresentato dalla figura
dominante nel periodo, quella di Ugo Foscolo
(1778-1827: s modulo Ugo Foscolo, p. 468). Trasferitosi assai giovane a Venezia dalla nativa isola di
Zante, si accostò con spirito passionale ed entusiasta
ai circoli repubblicani e giacobini e accolse Napoleone con l’ode A Bonaparte liberatore (1797). Foscolo,
come tanti altri giovani intellettuali italiani, vedevano nell’arrivo dei francesi l’occasione per rompere
con una società «vecchia», immobile, incapace ormai di rinnovarsi: era un’ansia che si nutriva di desiderio di riscatto, di cambiamento, ma priva sostanzialmente di un progetto politico. Tutti si aspettavano la liberazione dell’Italia, ma se era chiaro da chi e
da cosa volevano che fosse liberata, non era altrettanto chiaro che cosa l’Italia dovesse diventare; l’idea stessa d’Italia, in quel periodo, era un concetto
astratto, che nasceva più dalla tradizione letteraria
che da reali esigenze presenti nelle classi dirigenti italiane. Foscolo nel giro di pochi mesi, soprattutto dopo il trattato di Campoformio (1797) col quale Napoleone fece morire la Repubblica di Venezia consegnandola all’Austria in cambio della Lombardia,
passò dall’entusiasmo alla delusione più profonda,
vedendo in Napoleone il traditore degli ideali che aveva proclamato affacciandosi al di qua delle Alpi. Questa delusione è uno dei temi principali delle Ultime
lettere di Jacopo Ortis (1798), il primo romanzo di
pregio della nostra letteratura. Foscolo, come tanti
altri intellettuali e scrittori italiani, fu condannato ad
assumere una posizione di stallo: impossibilitato a
collaborare pienamente con i francesi che si erano ri-
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velati dei nuovi conquistatori, era nello stesso tempo
assolutamente distante da posizioni reazionarie che
ripugnavano alla sua sensibilità e cultura. Infatti, nel
momento in cui Napoleone fu sconfitto e in Italia tornarono a dominare gli austriaci, Foscolo preferì andare in esilio a Londra. Dopo le delusioni politiche, Foscolo sviluppò la sua vena artistica verso interessi di
tipo morale, che trovarono espressione nel carme Dei
Sepolcri (1807) e verso una sempre più marcata esaltazione della letteratura e dell’arte come elementi di
educazione civile, etica ed estetica, come si coglie nelle
sue odi, e nel poema incompiuto Le Grazie [s modulo
Ugo Foscolo, p. 516]. La rilevanza culturale dell’opera foscoliana, oltre che artistica, sta nel fatto che
l’autore sperimentò tutte le tendenze del periodo,
ispirandosi all’estetica del sublime, al Neoclassicismo eroico e civile e al Neoclassicismo romantico,
riuscendo sempre ad ottenere risultati di alto livello.
Inoltre, Foscolo è l’esempio più significativo dell’atteggiamento dell’intellettuale italiano di fronte alla
Rivoluzione francese prima, all’esperienza napoleonica poi e quindi alla Restaurazione.
L’altro letterato che emerse in quegli anni fu Vincenzo Monti (1754-1828). Anch’egli attraversò va-
rie fasi nella sua attività poetica: fu amico di Goethe,
fu in contatto con molti intellettuali europei, fu poeta alla corte papale di Roma, si dedicò ad una letteratura ispirata al Neoclassicismo civile, di pieno sostegno alla politica napoleonica, ma cantò anche il ritorno degli austriaci a Milano. Monti rimane nella
storia della letteratura italiana perché fu un grande
organizzatore culturale, un poeta non disprezzabile
[s T9] e soprattutto perché tradusse in maniera assai efficace l’Iliade di Omero.
La personalità italiana che ebbe maggior successo in Europa non fu un letterato, ma uno scultore e
architetto, Antonio Canova (1757-1822); la sua
statuaria divenne un simbolo internazionale del
Neoclassicismo e committenti di tutti i paesi fecero a
gara per avere le sue opere. Lavorò molto al servizio
dei papi, ma anche di Napoleone, dello zar di Russia,
sempre accolto come un maestro capace di rivaleggiare con i grandi scultori greci nel creare forme armoniose. Canova fu anche un teorico del Neoclassicismo e un grande uomo di cultura; si deve al suo
impegno se moltissime delle opere che Napoleone
aveva trafugato e portato in Francia tornarono in
Italia dopo il 1815.
VINCENZO MONTI
La vita e le opere Nato ad Alfonsine, nel Ravennate, Vincenzo Monti (1754-1828) poté studiare entrando in seminario; seguì l’insegnamento di
Medicina all’Università di Ferrara, ma la sua passione era la poesia. Con i primi componimenti si
guadagnò la protezione del cardinale Scipione Borghese che favorì il suo trasferimento a Roma. Lì conobbe il successo con un poemetto, La bellezza dell’universo (1781), scritto per le nozze del duca Luigi Braschi, nipote del papa. Capace di assimilare velocemente gli influssi e le mode che provenivano
dall’estero, Monti produsse molte opere in versi, fra
cui Sciolti al principe don Sigismondo Chigi (1783; il
termine Sciolti è riferito ai versi usati), il poemetto
Feroniade (1784), In morte di Ugo di Bassville (1793),
quest’ultima composta dopo l’uccisione di un addetto dell’ambasciata francese a Roma, atto di accusa contro le violenze promosse dalla Rivoluzione
francese. Quando era ormai famoso e sembrava avviato a diventare il poeta ufficiale della corte papale, Monti, quasi all’improvviso e di nascosto, nel
1797 partì da Roma: si era avvicinato agli ideali rivoluzionari e aveva voluto spostarsi a Milano, la ca-
pitale della Repubblica Cisalpina, dove, grazie alla
sua fama, ottenne incarichi nell’amministrazione.
Nel 1799, cacciati i francesi dall’Italia, Monti si rifugiò a Parigi, da cui tornò nel 1801, ormai affascinato dalla figura di Napoleone che lo nominò professore all’Università di Pavia. È questo il periodo in
cui il poeta si esercita nelle forme del Neoclassicismo etico-civile; di lì a poco nascono le opere elogiative nei confronti di Napoleone: il poemetto Prometeo, l’ode Per la liberazione d’Italia (1801), Il bardo della Selva Nera (1806). Risale a questi anni anche la
traduzione in versi dell’Iliade di Omero, il vero capolavoro di questo autore. Caduto Napoleone e tornati gli austriaci a Milano, Monti compose Il ritorno di
Astrea (1816) e L’invito a Pallade (1819), opere in cui
esaltava il ritorno della serenità e della giustizia dopo la tempesta napoleonica. Ma le giovani generazioni gli voltavano ormai le spalle, vedendo in lui il
rappresentante di una letteratura ormai vecchia e
superata. A questo proposito, di lui si ricorda anche
un intervento in prosa, Sermone sulla mitologia
(1825), in cui difendeva il modo di far poesia che
aveva praticato per tutta la vita.
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T9
Al signor di Montgolfier
Odi
Nel giugno del 1783 i due fratelli Montgolfier, portando a termine i loro esperimenti, fecero salire in aria
un pallone riempito di aria calda; l’effetto fu enorme e le gazzette di tutta Europa gridarono al miracolo;
solo nel dicembre dello stesso anno salì la prima mongolfiera, portando, questa volta, due uomini a bordo. Monti nel 1784 pubblicò questa ode, dedicandola a uno solo dei due fratelli, Étienne, a cui si deve
in particolare il primo volo con equipaggio umano. La poesia ebbe anch’essa un successo clamoroso,
e non solo in Italia, sia per l’elegante unione fra mitologia e cronaca, sia perché Monti seppe fare di questa ode un vero manifesto in versi del trionfo della scienza settecentesca.
Metro: ode* di quartine* di settenari*, dei quali sono in rima solo il secondo e il quarto; il primo e il terzo
sono settenari sdruccioli*.
Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti;
5
10
su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.
20
O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.
25
Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.
30
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Meravigliando accorsero
di Doride le figlie,
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.
Cantava il vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
1-4. Quando Giason… Teti: quando Giasone spinse nel mare le navi costruite con
gli abeti che nascono sul monte Pelio (in
Tessaglia) e per primo si slanciò a fendere
con i remi il seno della dea Teti, cioè il mare di cui Teti è personificazione. Giasone è
l’eroe che guidò gli Argonauti alla ricerca del vello d’oro e, secondo il mito, per
compiere l’impresa costruì la prima nave, chiamata Argo.
5-8. su l’alta… Orfeo: tutta la Grecia vide
salire sull’alta poppa della nave, assieme
al fior fiore della gioventù greca (sangue
acheo), il giovane, intrepido Orfeo. Questi,
secondo il mito, era figlio di Apollo, dio
dell’arte, della poesia e della musica, e della musa Calliope; nacque in Tracia, fu il
primo poeta e cantò l’impresa di Giasone.
9-16. Stendea… le briglie: Orfeo stendeva le dita bianche come l’avorio (eburnee)
sulla lira donatagli dalla madre, e al suo-
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.
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Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?
Deh! perché al nostro secolo
non diè propizio il fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?
Maggior del prode Esònide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.
no del poeta che veniva dalla Tracia si acquietavano l’ululato e la rabbia dei venti.
Per la meraviglia accorsero le Nereidi,
ninfe marine figlie di Nereo e di Doride, ed
anche il dio del mare Nettuno lasciò cadere le briglie dei suoi cavalli alati (alipedi, letteralmente «con le ali ai piedi»).
17-20. Cantava… il canto: il poeta dell’Odrisia (altro nome della Tracia), intanto,
cantava la gloria della nave Argo, e si sentiva il canto giungere all’anima dei Greci.
21-24. O della Senna… tragitto: o tu, che
sei come l’invincibile (invitto) Tifi, timoniere parigino (della Senna), il tuo viaggio
per l’aria superò il portento dell’impresa
degli Argonauti. Non è chiaro a chi Monti rivolga l’invocazione: se al signore di
Montgolfier, che però non compì l’ascensione, oppure a Robert, che fu uno dei
due uomini che per primi salirono su una
mongolfiera.
25-28. Tentar del mare… impero?: forse
che affrontare (Tentar) i vorticosi flutti del
mare è concepire un’impresa così grande
come entrare nel regno dei fulmini, il cielo ancora non violato?
29-32. Deh! perché… n’ha dato?: ahimè!
Perché il destino (fato) generoso non ha
(n’ha, ne=ci) concesso al nostro secolo un
nuovo Orfeo, se ci ha concesso Montgolfier? Con questa domanda retorica Monti in realtà si candida ad essere lui il nuovo Orfeo, capace di cantare le grandi imprese del pensiero umano dell’epoca.
33-36. Maggior del prode… naviglio: il figlio di Francia (Gallia), Montgolfier, superò per gloria (Maggior… surse) il coraggioso Giasone, figlio di Esone. Tutta l’Europa applaudì piena di meraviglia, davanti alla navicella volante.
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Non mai natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.
60
Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero
e ti lambîr le piante.
Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama!
65
45
50
55
De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi:
dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti:
brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.
70
75
(…)
Umano ardir, pacifica
37-40. Non mai natura… offesa: mai la
natura, sempre protesa (intesa) a difendere l’immutabilità delle sue leggi, dovette
soffrire una violenza, che però è bella, dal
potere della scienza chimica. Monti crea
un’immagine della natura «offesa» perché viene violata la legge secondo cui i
corpi che hanno una massa non si possono alzare da terra. In realtà gli uccelli dimostrano che la legge è un po’ più complessa e l’invenzione della mongolfiera
sfrutta proprio la legge naturale, in quanto il pallone sale perché riempito di aria
calda, più leggera di quella dell’atmosfera.
41-44. Mirabil arte… ti chiama: o chimica, scienza ammirevole, grazie alla quale
si innalza la fama di F. Sthal (1660-1734)
e di G. Black (1728-1799) – si tratta di
due chimici, l’uno tedesco, l’altro scozzese – possa perire (pèra) lo sciocco incredulo che ti definisce un capriccio pazzo (frenesia).
45-56. De’ corpi entro… ha vita: tu, o
scienza chimica, lanci (avventi) il tuo acuto (acre) sguardo all’interno dei corpi e invano gli elementi chimici, che non voglio-
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?
80
Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’olimpo e l’infinito.
Svelâro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressâr le timide
lor vergini fiammelle.
Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.
Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.
no essere svelati (indocili), tentano di nascondersi: tu hai tirato fuori dalle oscurità
dell’ignoranza che opponevano resistenza (tenaci tenebre) la verità scientifica e hai
posto fine alla follia di ipotesi incapaci di
spiegare i fenomeni (rauche, inefficaci): la
Scienza (Sofia, la conoscenza personificata) brillò, resa ancora più bella per lo
splendore della veste che tu le hai dato, e
apparve la vera origine da cui prende vita
il mondo.
57-60. Umano ardir… misura?: audacia
dell’umano pensiero, scienza tranquilla e
sicura dei propri risultati, quale forza, o
quale confine, potrà rivelare i limiti del
tuo potere?
61-64. Rapisti… le piante: hai rapito al
cielo i fulmini che, resi innocui (debellate)
con le ali spezzate ti caddero davanti (innante) e ti sfiorarono i piedi (piante). Il riferimento è all’invenzione del parafulmine, di Benjamin Franklin (1706-1790).
65-68. Frenò… l’infinito: i calcoli arditi
del tuo pensiero hanno dato una definizione (Frenò) al moto e alle orbite degli
astri, al cielo (olimpo) e all’infinità dell’universo. Il riferimento è alle leggi di gra-
vitazione universale del fisico e matematico inglese Isaac Newton (1643-1727).
69-72. Svelâro… vergini fiammelle: le
stelle più lontane svelarono il loro volto
sconosciuto e le loro luci, che fino ad allora si erano nascoste, quasi come vergini
pudiche, si avvicinarono ai nostri occhi.
73-76. Del sole… domasti: tu, o scienza,
hai osato separare nelle sue componenti
la luce del sole e calcolare il peso dell’aria.
Si riferisce alla scomposizione di un raggio di luce fatto passare attraverso un prisma di cristallo nelle sue componenti che,
a causa della diversa lunghezza d’onda,
assumono colori diversi; è il risultato di
esperimenti condotti da vari studiosi, fra
cui Newton. L’altro riferimento è alla misurazione della pressione atmosferica, resa possibile dal barometro del matematico e fisico Evangelista Torricelli (16081647).
77-80. Oggi… mute: oggi la tua virtù è
giunta a cavalcare sulle nuvole: con la
mongolfiera le leggi di natura giacciono
impotenti e mute.
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458 Secondo Settecento
Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il tèlo,
81-84. Che più… in cielo: che cosa ti resta ormai da fare? Spezzare la freccia con
e della vita il nèttare
libar con Giove in cielo.
cui la morte colpisce gli uomini e assaggiare in cielo, assieme a Giove, la bevanda
(nèttare) degli dèi che rende immortali.
Lavoraresultesto
1 Perché Monti evoca il mito di
Giasone e degli Argonauti? Quali analogie
trovi tra l’impresa di Giasone e quella di
Montgolfier?
2 Quali motivi spingono Monti a
introdurre anche la figura di Orfeo? Perché Giasone è stato più fortunato di Montgolfier?
3 Monti afferma che l’impresa di
Montgolfier è più grande di quella di Giasone; sai dire in quale strofa della poesia
è contenuta questa affermazione?
4 Dal verso 37 l’ode si trasforma in
un inno alla scienza; Monti lo organizza secondo lo schema illuministico: la ragione
rischiara le menti e vince le tenebre dell’i-
gnoranza che oppongono resistenza. Segnala tutte le espressioni che indicano la
resistenza della natura a svelare i suoi segreti.
5 L’utilizzazione del mito in questa
poesia aggiunge qualcosa al messaggio
che l’autore ha voluto trasmettere, oppure è solo un abbellimento esteriore?
VERIFICAintermedia
METTI A FUOCO
1. Quando fu usato per la prima volta il termine estetica nel
senso moderno, che ancora oggi gli attribuiamo?
2. In che anno fu pubblicata la Storia dell’arte nell’antichità
di Winckelmann?
3. Anni di nascita e di morte di Goethe.
4. Anno di pubblicazione dell’Inchiesta filosofica sull’origine delle nostre idee sul sublime e sul bello di Edmund Burke.
5. Data di nascita e di morte di Ugo Foscolo.
6. Data di pubblicazione dei Sepolcri di Foscolo.
■ Concetti
7. Che cosa si intende per «estetica»?
8. Quale importanza culturale ebbe la Storia dell’arte nell’antichità?
9. Che cosa intende Winckelmann quando indica il bello
universale come fine dell’arte?
10. Che cosa si intende per Neoclassicismo etico-civile?
11. Quale sentimento per l’antichità viene espresso da alcuni autori tedeschi col termine Sehnsucht?
12. Secondo Burke (e tanti altri scrittori, poeti e filosofi) quali sono le fonti del sublime?
13. Che cosa differenzia il sentimento del sublime da quello del bello?
14. Che cosa sono I canti di Ossian? A quali fenomeni culturali sono riconducibili?
15. Quali opere di Rousseau si possono considerare alla
base dell’estetica del sentimento?
16. Che cos’è lo Sturm und Drang, in cosa consiste?
17. Perché alla fine del Settecento nacque un interesse del
tutto nuovo per la poesia e le tradizioni popolari?
18. L’evoluzione dell’atteggiamento di Foscolo nei confronti di Napoleone e la conseguente posizione ideologica
di Foscolo sono comuni a tanti intellettuali italiani. Quale fu
questo mutamento?
PREPARA L’INTERROGAZIONE
19. Seguendo i punti della scaletta qui proposta, presenta
oralmente il contesto culturale e letterario dell’età napoleonica:
a. la nascita dell’«estetica» secondo la teoria di Alexander
G. Baumgarten;
b. il sentimento del «sublime» elaborato da Edmund Burke;
c. i caratteri principali del Neoclassicismo, nell’arte e in letteratura;
d. la Storia dell’arte nell’antichità di J.J. Winckelmann;
e. le alternative allo stile neoclassico: il «Preromanticismo»
e lo Sturm und Drang;
f. la letteratura italiana nell’età napoleonica: Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti;
g. l’opera di Foscolo in rapporto alle vicende politiche dell’Italia sotto Napoleone: dall’entusiasmo all’esilio.
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PREPARA LA RELAZIONE SCRITTA
20. Il Neoclassicismo fu l’estetica dominante nel periodo.
a. Si trattò di un’estetica rivolta esclusivamente al passato
o ebbe al suo interno alcuni elementi di modernità?
b. In che modo il Neoclassicismo si distingue dalla tradizione classicista?
c. In quali modi la cultura neoclassica si rapportò con il mondo antico?
d. Perché l’arte greca venne presa come modello col quale
rapportarsi?
21. Per Winckelmann l’arte era uno strumento indispensabile per conoscere una civiltà. Perché?
22. In un testo di non più di 15 righe spiega la differenza fra
bello e sublime.
23. Componi una tabella nella quale indicare i diversi esiti
dell’estetica del sublime e i loro rapporti con ciò che si definisce Preromanticismo.
24. In un testo di 30 righe confronta le due personalità di Foscolo e Monti, mettendo in luce analogie e diversità.
25. Cerca di descrivere il rapporto fra cultura italiana e cultura europea nell’età napoleonica.
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460 Secondo Settecento
L’eredità
del periodo
GLI
INTELLETTUALI
E LE
ISTITUZIONI
Il diritto d’autore
Il diritto d’autore è il riconoscimento legale della proprietà di un’opera di letteratura, d’arte, scientifica da parte dell’autore e dell’editore. Per estensione si definisce
così anche la percentuale che l’autore percepisce sul prezzo di copertina di un libro la cui vendita è curata dall’editore. Questo riconoscimento legale cominciò ad essere
riconosciuto, tramite una legislazione specifica, a partire dal Settecento. Fino al XV secolo, quando fu inventata la stampa a caratteri mobili, i libri copiati a mano erano talmente costosi e rari che non era neppure pensabile che l’autore percepisse un compenso per ogni copia: era l’epoca in cui artisti e letterati vivevano nelle corti, al servizio dei
re e dei signori, i quali li accoglievano ben volentieri perché davano prestigio e dignità alla corte stessa. Dopo l’invenzione della stampa le copie di un libro potevano essere moltiplicate all’infinito, ma non c’era nessun controllo e l’autore veniva pagato dall’editore
che per primo stampava l’opera, nessuno poteva però impedire che altri, in Stati diversi
o anche nello stesso, stampasse il medesimo libro e lo vendesse. L’unica protezione per
l’autore e l’editore era, in alcuni casi rari, il privilegio concesso dal re, che doveva garantire che su ogni copia del libro venduta ci fosse un compenso: questo, però, non era un
diritto, ma solo una benevola concessione, che il sovrano poteva anche non concedere.
Solo all’inizio del XVIII secolo fu emanata in Inghilterra (il paese allora più moderno, anche nell’ambito delle istituzioni culturali) una legge per tutelare i diritti d’autore (in inglese copyright), che impediva la riproduzione di opere senza la corresponsione di un
pagamento ad autori e editori. Il diritto d’autore entrò a far parte della legislazione della
Francia nei primi anni della Rivoluzione (leggi del 1791 e 1793) e venne definitivamente sancito e specificato nei Codici napoleonici, diffondendosi poi in Europa. Si trattò di
una novità rilevante nella storia della cultura letteraria e artistica: nel Settecento stava
ormai scomparendo l’uso che istituzioni come la Chiesa e le corti mantenessero gli scrittori e gli artisti; la cultura si diffondeva tra la borghesia e il diritto d’autore permise a chi
si dedicava all’attività intellettuale di mantenersi. Ben inteso, erano pochissimi gli scrittori che potevano vivere coi diritti, e quasi tutti dovevano avere un altro lavoro; inoltre,
se il vivere nelle corti o a carico delle Chiese poteva limitare la libertà dei letterati, anche
la nuova situazione non era priva di condizionamenti, perché cominciarono ad essere i
lettori a determinare il successo o l’insuccesso dei libri, e gli editori tendevano a privilegiare la stampa delle opere che, a loro parere, potevano avere una più larga diffusione.
Per di più, in assenza di accordi commerciali internazionali, il diritto d’autore aveva efficacia solo sul territorio di uno Stato, come verificò a sue spese, per esempio, Alessandro
Manzoni, l’autore dei Promessi Sposi. Quando l’opera fu pubblicata, nonostante il successo immediato, i proventi furono scarsi, perché, mentre nel Lombardo-Veneto i diritti dello scrittore erano in qualche modo tutelati, negli altri Stati italiani, come il Granducato
di Toscana, il Regno di Napoli, ecc., migliaia di copie del romanzo furono stampate a costi inferiori, e queste edizioni (che oggi definiremmo «pirata») vennero introdotte di contrabbando anche in Lombardia. Solo dopo il raggiungimento dell’unità fu adottata in Italia, nel 1865, una legge nazionale a tutela del diritto d’autore. Nel corso dell’Ottocento
e ancor più nel Novecento il copyright si è internazionalizzato. Tuttavia, negli ultimi decenni sono sorti grossi problemi per la sua reale applicazione: in un primo tempo a seguito della diffusione delle fotocopiatrici, che permettono la riproduzione di interi libri;
più di recente, anche a seguito della diffusione di Internet, la rete che permette di inse-
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GLI
INTELLETTUALI
E LE
ISTITUZIONI
rire e di scaricare qualsiasi tipo di testo. Sono fenomeni che, proprio per la loro diffusione di massa, vanificano le possibilità di controllo. L’esempio più clamoroso è rappresentato dalla lotta fra case discografiche e siti da cui si può scaricare musica gratuitamente:
i compromessi raggiunti, le sanzioni, le nuove norme hanno attualmente una dubbia efficacia ed è iniziata una fase in cui le industrie editoriali, sia di libri sia di musica, devono ripensare completamente l’idea stessa di diritto d’autore.
LE IDEE
E LE
POETICHE
La mitologia
Il fondamento del Neoclassicismo è l’assunzione come modello dell’arte e della letteratura
prodotte in epoca classica, nella Grecia dal VII al IV secolo a.C. e nell’ambito della civiltà
romana a partire dal II secolo a.C. fino al II-III d.C. La cultura classica si caratterizzava per
la presenza di una religione ufficiale politeistica, fondata sulle figure di divinità come
Zeus-Giove (la prima è la dizione greca – la seconda, latina), Era-Giunone, Atena-Minerva, Apollo, Dioniso-Bacco, Ermes-Mercurio, ecc. La convergenza tra la religione greca e
quella romana avvenne proprio partendo da una base comune, che si rafforzò quando i
Romani conquistarono la Grecia e furono sempre più influenzati dalla sua cultura. Parte
integrante di questo tipo di religione erano i miti, storie di dèi, semidèi ed eroi che furono
una presenza costante e vastissima nell’arte e nella letteratura delle due civiltà.
L’imitazione dei classici comprendeva quindi anche l’assunzione, all’interno della
letteratura settecentesca, di questo vastissimo patrimonio di storie, immagini, personaggi. Per comprendere il senso di questa operazione bisogna definire che cosa è un mito e considerare che esso affonda le sue radici in epoche assai antiche, quando non esisteva ancora la scrittura e si utilizzava il mezzo della trasmissione orale. Possiamo fare ricorso ad una
definizione di un grande studioso del mito, Mircea Eliade, che ne fissa tre caratteri fondamentali:
● il mito racconta, cioè, si presenta come «storia» di un avvenimento o di un insieme di
avvenimenti con protagonisti soprannaturali (dèi, semidèi, eroi). Nel corso dei secoli la
storia poteva essere arricchita di particolari e mostrarsi in varie versioni;
● il mito spiega e insegna: le storie mitiche hanno la funzione di spiegare l’origine del
mondo (miti cosmologici), degli dèi, degli uomini, della civiltà. Nell’antichità il mito ha
sempre un valore conoscitivo, serve a dare risposte alle eterne domande dell’uomo sul
proprio destino, sull’esistenza del male, sul rapporto fra uomo e divinità, ecc.;
● il mito rivela: ha, cioè, una dimensione religiosa, accresciuta dal fatto che, non avendo un autore preciso ed essendo tramandato da secoli, esso appare come una forma di rivelazione della divinità.
Una volta chiusa l’epoca classica, il mito greco e latino perse la dimensione religiosa e
mantenne un valore artistico e culturale. Se pensiamo al Settecento, epoca di critica razionale delle religioni e di grande entusiasmo per i progressi della scienza, l’utilizzazione
letteraria e artistica dei miti antichi poteva avvenire in due direzioni, la prima delle quali
si può individuare nella ripresa di «favole» belle, stilisticamente eleganti, già usate da
grandi poeti e scrittori per conferire decoro e nobiltà all’opera d’arte (come avvenne nell’ambito del cosiddetto «Neoclassicismo accademico e archeologico»). La seconda consisteva nel recupero del valore conoscitivo del mito: le storie e i personaggi antichi erano
considerati espressione di atteggiamenti, passioni, incertezze, dubbi, valori, problemi esistenziali e culturali che si sono mantenuti vivi nell’umanità; in questo senso il mito classico veniva rivisitato, assumeva una nuova vita, dava indicazioni riferibili all’attualità, al
momento storico contemporaneo. Per esempio, il peregrinare continuo di Ulisse, la sua
spasmodica volontà di tornare ad Itaca, la necessità di affrontare mille difficoltà e pericoli assumevano nella modernità altri significati, divenivano simboli della sofferenza per l’e-
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462 Secondo Settecento
LE IDEE
E LE
POETICHE
silio, della ricerca di una patria, della vita intesa come un viaggio infinito alla ricerca di
qualcosa. In questo modo, le storie degli antichi dèi ed eroi tornavano a parlare agli uomini, le antiche favole tornavano a esprimere le idee allora attuali. Questo secondo modo
di intendere il mito (quello adottato dagli artisti e dagli scrittori più importanti del Neoclassicismo) costituisce una delle eredità lasciate dalla cultura neoclassica all’Ottocento e
al Novecento. Ancora oggi sono molti gli artisti, anche d’avanguardia e sperimentali, che
traggono ispirazione dai miti classici, magari per modificarli, darne un’interpretazione
nuova e inaspettata, farne ancora un’occasione, per gli uomini, per riflettere sul loro destino.
Le statue «bianche» e «senza occhi»
Nell’epoca rinascimentale, quando si sviluppò la cultura che si definì classicismo e che pose alla base della produzione artistica l’imitazione dei modelli antichi, greci e romani, gli scultori cominciarono a studiare, a disegnare e a riprodurre le statue che emergevano dagli scavi soprattutto a Roma. Proprio la scultura era la testimonianza più importante delle arti figurative antiche, perché tranne quella sui vasi, la pittura era tutta perduta (solo più tardi gli scavi a Pompei e ad Ercolano fecero emergere testimonianze di rilievo di quest’arte) e i mosaici, con la loro tecnica particolare, potevano solo fornire un’idea approssimativa del modo di dipingere degli antichi. Donatello e Michelangelo (per citare solo i più grandi scultori rinascimentali) ebbero davanti agli occhi statue romane e
copie romane di statue greche di marmo bianco: il loro interesse fu concentrato sullo «stile», sul modo di rappresentare e modellare la figura umana, sulla precisione della riproduzione dei particolari anatomici, sulle proporzioni e sull’equilibrio armonico fra le varie parti del corpo rappresentato. Da questo studio nacque la grande scultura rinascimentale che utilizzò essenzialmente due materiali: il marmo bianco e il bronzo. Le statue
erano di colore uniforme (anche se il marmo presenta sempre qualche venatura) e sono
note le spedizioni di Michelangelo e di altri scultori nelle cave di marmo di Carrara alla
ricerca di blocchi «perfetti», cioè senza venature troppo evidenti né macchie. Il David, il
Mosè o la Pietà di Michelangelo sono capolavori «candidi», che presentano però una diversità rispetto alle statue antiche: tra le palpebre lo scultore riprodusse l’iride e la pupilla, mentre le statue greche e romane presentano una superficie levigata o solo un foro al
posto della pupilla che le conferisce quel particolare «sguardo vuoto». In realtà le statue
antiche erano colorate, perciò capelli, occhi, vesti venivano dipinti e apparvero come sono ora a chi cominciò a studiarle perché le intemperie e il tempo avevano cancellato la
pittura. Johann Joachim Winckelmann [s p. 443], il grande teorico del Neoclassicismo, ignorava questo particolare che emerse solo in seguito, in base a nuove scoperte archeologiche e a restauri più accurati che misero in evidenza le tracce della pittura. Perciò l’idea di Winckelmann sull’arte antica come ricerca ideale di una bellezza assoluta si
basava anche su questo errore: lo studioso tedesco teorizzava infatti che le statue greche
e romane e i templi fossero di marmo bianco, cioè privi di colore proprio perché gli artisti usavano un materiale «neutro», che non doveva distrarre l’occhio dello spettatore dalla contemplazione delle forme pure e delle linee esatte dell’opera d’arte. D’altra parte l’errore di Winckelmann si inseriva su una tradizione già consolidata dalla scultura rinascimentale e delle epoche successive che aveva creato un’«idea forte» della scultura alla
quale lo studioso non fece altro che aggiungere un spiegazione di carattere culturale ed
estetico. Resta il fatto che ancora oggi l’idea di classicità, nell’ambito della scultura e dell’architettura, rimane legata all’immagine dello splendore immacolato dei marmi e all’assenza di colori.
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Modulostoricoculturale L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo 463
L’eredità del periodo
Laboratorio Un grande mito: la storia di Prometeo
Quello di Prometeo è uno dei miti più
antichi della cultura greca. Egli era uno
dei Titani, le divinità esistenti già prima
della signoria di Zeus sugli altri dèi
olimpici, conquistata con la detronizzazione del padre; Prometeo viveva fra
gli uomini ed insegnò loro l’arte e la
tecnica. Quando Zeus volle che gli uomini gli sacrificassero un bove, Prometeo suggerì loro di dedicare al dio solo
le ossa e il grasso dell’animale lasciando per sé la carne. Zeus si vendicò su-
gli uomini togliendo loro il fuoco; Prometeo, allora, rubò una scintilla e restituì il fuoco ai mortali. La punizione di
Zeus fu terribile: Prometeo fu condannato a restare incatenato ad un monte
del Caucaso mentre un’aquila gli divorava ogni giorno il fegato che continuava a ricrescere. Solo dopo molte generazioni Zeus consentì a Ercole di uccidere l’aquila e di liberare Prometeo.
Questo mito ispirò numerosi scrittori
greci e latini, tra i quali ricordiamo il
grande tragediografo Eschilo, vissuto
ad Atene fra il VI e il V secolo a.C., che
ne fece l’argomento della sua tragedia
Prometeo incatenato.
Il mito che ha come protagonista il titano Prometeo ha dato il nome al «titanismo», un atteggiamento di aperta sfida al potere da parte di un individuo
che, pur consapevole della inevitabile
sconfitta contro forze superiori, non rinuncia a lottare in nome dei propri
princìpi.
T10
Prometeo
Johann
Wolfgang
Goethe,
Opere, a c. di
V. Santoli, trad.
di D. Valeri,
Sansoni,
Firenze 1970
Johann Wolfgang Goethe è uno degli scrittori più completi ed importanti del periodo compreso fra Sette e Ottocento [s modulo Le origini del romanzo, p. 379]. Nato a Francoforte nel 1749, visse in diverse
città tedesche, riuscendo sempre a raccogliere attorno a sé le menti e i talenti più vivaci. Il periodo più
importante della sua vita fu quello trascorso dal 1775 al 1786 a Weimar, capitale di un piccolo ducato
tedesco, dove si poté dedicare ad alcune delle sue opere più importanti. Dal 1786 al 1788 fu in Italia e
di questa esperienza rese testimonianza nel suo Viaggio in Italia, libro piacevolissimo e ricco di notazioni acute e spiritose sulla vita quotidiana e intellettuale nel nostro paese. Tornato a Weimar, strinse una
grande amicizia e un’attiva collaborazione intellettuale e artistica con Friedrich Schiller. Ormai famoso
in tutta Europa, riverito e riconosciuto come il più grande poeta vivente, Goethe si isolò a poco a poco
dal mondo. Morì nel 1832. Nella sua opera, che attraversa i più diversi generi letterari, egli ha sempre
raggiunto livelli di eccellenza, lasciando una traccia fondamentale per gli esiti letterari successivi. Basti
ricordare i romanzi I dolori del giovane Werther, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, Le affinità
elettive, le tragedie, le liriche e il suo capolavoro Faust.
Presentiamo qui una lirica in cui Goethe ripercorre il mito di Prometeo, visto come l’uomo che si ribella
ad una divinità assente e indifferente ai destini umani.
5
Zeus, puoi coprire il tuo cielo
di nembi fumanti,
e, simile al bimbo che stronca
dei cardi le cime, sfogarti
su querce e vette di monti!
Ma a me la mia terra
non devi toccare, né questa
capanna che tu non facesti,
né il mio focolare
1-2. Zeus… fumanti: o Zeus, tu puoi coprire il cielo che ti appartiene di fulmini
fumanti.
3-4. e, simile… le cime: e come un bimbo
che con un bastone spezza le cime dei
10
15
che per la sua fiamma m’invidi.
Più misera cosa non so
di voi sotto il sole,
o iddii, che la vostra potenza
penosamente nutrite
di vittime e fiato di preci;
di voi che perduti sareste,
non fossero i bimbi e i mendichi
invasi di pazza speranza.
cardi (si tratta di una pianta selvatica).
8. che tu non facesti: che è opera solo
mia.
11-13. Più misera… iddii: io non conosco nessuna cosa che esista sotto il cielo
che sia più miserevole di voi divinità.
13-18. che la vostra… speranza: voi, che
nutrite il vostro potere penosamente di
animali che fate sacrificare e del fiato delle preghiere; di voi, che sareste perduti se
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Pagina 464
464 Secondo Settecento
20
25
30
Quand’ero un ignaro fanciullo,
volgevo l’errante occhio al sole,
credendo vi fosse un orecchio
lassù, per udire il mio pianto,
e un cuor come il mio
per compatire all’oppresso. (…)
Io te onorare? Perché?
Hai tu alleviato i dolori
dell’infelice? chetato
le lagrime mai dell’afflitto?
Non m’hanno uomo costrutto
l’onnipotenza del Tempo e
l’immortale Destino
non ci fossero i bambini e i mendicanti
che sono presi da una folle fiducia in voi.
20. l’errante occhio: il mio sguardo che
vagava verso il cielo.
24. per compatire all’oppresso: per avere
pietà di chi era afflitto da qualche male.
27-28. chetato… dell’afflitto?: tu hai mai
calmato il pianto di chi soffre?
T11
Albert Camus,
L’estate, in
Opere. Romanzi,
racconti, saggi,
trad. di S.
Morando,
Bompiani,
Milano 1988
35
40
che a me e a te soprastanno?
Credi tu forse ch’io debba
odiare la vita,
fuggir nei deserti, perché
non vennero tutti maturi
i sogni del tempo fiorito?
Qui resto, qui uomini formo
a immagine mia,
un genere che mi somigli,
e soffra e si dolga,
e goda e s’allegri,
né cura si prenda di te:
com’io.
29-32. Non m’hanno… soprastanno?:
forse che chi mi ha creato uomo non sono
il Tempo onnipotente e il Destino immortale, due entità superiori che hanno potere sia su di me che su di te? Nella religione
greca Zeus è il signore degli dèi e degli uomini, ma non ne è il creatore e nemmeno
lui può opporsi allo scorrere del tempo e
alla necessità fissata dal destino.
35-37. perché… fiorito?: perché non si
realizzarono tutti i sogni nutriti in gioventù?
38-39. qui uomini formo… mia: qui insegno ai mortali ad essere uomini secondo il mio modello.
43-44. né cura… com’io: e non si curi di
te, come faccio io.
Un grande scrittore del Novecento
ripensa il mito di Prometeo
Albert Camus (1913-1960) è stato uno dei protagonisti della vita intellettuale e della letteratura successive alla seconda guerra mondiale. Nato in Algeria da famiglia francese, visse ad Algeri fino al 1940; rientrato in Francia, partecipò alla Resistenza contro i nazisti. Fu giornalista, ma raggiunse presto la fama
con i due romanzi Lo straniero (1942) e La peste (1947). Si dedicò anche all’approfondimento degli studi filosofici, scrivendo alcuni importanti saggi sulla condizione umana nel mondo industrializzato, come
L’uomo in rivolta (1951). Compose anche opere teatrali e racconti; nel 1957 fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Morì precocemente in un incidente automobilistico.
Il passo che presentiamo è tratto da una raccolta di brevi prose di vario argomento intitolata L’estate.
Qui Camus dà un’interpretazione nuova e moderna del mito di Prometeo.
Che significato ha Prometeo per l’uomo d’oggi?
Senza dubbio si potrebbe dire che questo ribelle
che insorge contro gli dèi è il modello dell’uomo
contemporaneo e che la protesta, elevata migliaia
di anni fa nei deserti della Scizia1, termina oggi in
una convulsione storica che non ha l’eguale. Ma
al tempo stesso qualcosa ci dice che questo perseguitato continua ad essere tale fra noi e che noi
1. nei deserti della Scizia: Scizia era il nome antico della regione in cui sorge la catena montuosa del Caucaso, dove Pro-
siamo ancora sordi al gran grido della rivolta
umana di cui egli dà il segnale solitario.
L’uomo d’oggi è infatti colui che soffre in masse
prodigiose2 sulla stretta superficie di questa terra,
l’uomo privato di fuoco e di cibo, per il quale la libertà non è altro che un lusso che può aspettare; e
per quest’uomo si tratta ancora di soffrire un po’ di
più, come per la libertà e per gli ultimi suoi testimo-
meteo fu incatenato.
2. che soffre in masse prodigiose: che soffre in masse enormi, mai viste prima. Ca-
mus non si riferisce soltanto al numero
degli uomini, ma ai mali della «società di
massa».
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Modulostoricoculturale L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo 465
ni si tratta ancora di scomparire un po’ di più3. Prometeo è l’eroe che amò tanto gli uomini da dare loro al tempo stesso il fuoco e la libertà, le tecniche e
le arti. L’umanità, oggi, non ha bisogno e non si cura che delle tecniche. Si ribella nelle sue macchine,
considera l’arte e quello che l’arte suppone come
un ostacolo e un segno di servaggio4. La caratteristica di Prometeo invece è di non poter separare la
macchina dall’arte. Egli pensa che si possano liberare al tempo stesso i corpi e le anime. L’uomo attuale crede che sia necessario prima liberare il corpo, anche se lo spirito debba provvisoriamente morire. Ma può lo spirito morire provvisoriamente?5
In realtà, se Prometeo tornasse, gli uomini d’oggi
farebbero come gli dèi di allora: lo inchioderebbe3. come per la libertà… un po’ di più: come si tratta di soffrire e di scomparire un
po’ di più da parte della libertà e dei pochi
uomini che sono gli ultimi testimoni della vita libera.
4. Si ribella… di servaggio: chiuso all’interno delle sue macchine l’uomo di oggi si
ribella, e considera l’arte e tutto ciò che richiede l’amore per l’arte un ostacolo da
abbattere e un segno di schiavitù. Camus
sostiene che per l’uomo moderno quello
che conta è ciò che procura un benessere
materiale, mentre l’arte viene proprio per
ro alla roccia, proprio in nome di quell’umanesimo
di cui egli è il primo simbolo6. Le voci nemiche che
allora insulterebbero il vinto sarebbero le stesse
che echeggiano alla soglia della tragedia eschilea7:
quelle della Forza e della Violenza8. (…)
I miti non hanno vita per se stessi. Attendono
che noi li incarniamo. Risponda alla loro voce un
solo uomo, ed essi ci offriranno la loro linfa intatta9. Dobbiamo preservare quest’uomo e fare in
modo che il suo sonno non sia mortale, affinché la
resurrezione diventi possibile. A volte dubito se sia
permesso salvare l’uomo di oggi. Ma è ancora possibile salvarne i figli, nel corpo e nello spirito. Si
possono offrire loro al tempo stesso le possibilità
della felicità e quelle della bellezza.
questo rinnegata.
5. Ma può lo spirito… provvisoriamente?:
domanda retorica per affermare che una
volta che lo spirito muore non può più essere richiamato in vita. Camus chiama
spirito la vita intellettuale, artistica.
6. proprio in nome… simbolo: proprio in
nome di quella cultura che pone al centro di tutto l’uomo, l’umanesimo di cui
Prometeo fu il primo simbolo. Camus intende dire che l’umanesimo contemporaneo si basa solo sulla ricerca del benessere materiale e sulla tecnica.
7. le stesse che… tragedia eschilea: quelle voci che parlano all’inizio della tragedia Prometeo incatenato di Eschilo.
8. della Forza e della Violenza: sono i due
personaggi che all’inizio della tragedia,
per ordine di Zeus, incatenano Prometeo
alla roccia.
9. Risponda alla loro… intatta: anche se
un solo uomo dovesse rispondere al messaggio contenuto nei miti, essi ci offrirebbero anche oggi intatto il loro insegnamento.
Lavoraresuitesti
1 Quali sono i motivi di rivolta del
Prometeo di Goethe e di quello di Camus?
Sono identici? Se ritieni che siano diversi,
in che cosa identifichi gli elementi di diversità?
2 Entrambi gli autori ricordano i
doni fatti da Prometeo agli uomini: quali
sono?
3 Il mito di Prometeo racconta di
una sconfitta dell’uomo? Oppure hai colto altri significati? Illustrali.
4 Quale dei doni di Prometeo rischia di cancellare l’altro, nella civiltà moderna?
5 Sei d’accordo sull’affermazione
di Camus secondo cui: I miti non hanno vita per se stessi. Attendono che noi li incarniamo? Secondo te questa affermazione
significa che:
a. i miti sono ormai morti e noi uomini moderni ne dobbiamo creare di nuovi;
b. i miti non hanno una vita autonoma, ma
restano vivi se gli uomini di qualsiasi età li
fanno vivere nella loro cultura;
c. i miti hanno valore per capire cosa pensavano e come vivevano i popoli che li
hanno inventati;
d. i miti possono avere valore per noi moderni solo se entriamo nella mentalità degli antichi.
Motiva la tua risposta.
6 Hai in mente una storia che riguarda un personaggio a te caro e che tu
consideri un mito? Raccontala brevemente e spiega perché, secondo te, è una storia «mitica» e quali insegnamenti se ne
possono trarre.
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466 Secondo Settecento
PER RIPRENDERE IL FILO DEL DISCORSO
1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso di affermazioni false, riscrivi la frase in maniera corretta.
a. La Costituzione dell’anno III limitò
fortemente i diritti democratici affermati nella
precedente fase della Rivoluzione francese.
v f
___________________________________________________
b. Napoleone cominciò a mettersi in luce
come ufficiale di cavalleria nella guerra
contro l’Austria.
v f
___________________________________________________
c. Il successo nella campagna d’Italia
del 1796-97 fu il trampolino di lancio per
l’ingresso in politica di Napoleone.
v f
___________________________________________________
d. La vittoria dell’ammiraglio Nelson a Trafalgar
sulla flotta francese non portò a risultati
importanti.
v f
___________________________________________________
e. Napoleone divenne uno dei tre consoli che
ebbero pieni poteri con un colpo di Stato.
v f
___________________________________________________
f. La Repubblica Romana fu istituita dai francesi
grazie ad un accordo col papa.
v f
___________________________________________________
g. Le repubbliche istituite in Italia furono
chiamate giacobine perché si ispiravano alle
idee e all’ordinamento democratico radicale
propri dei giacobini francesi.
v f
___________________________________________________
VERIFICAdifinemodulo
dell’università, specialmente per i settori
tecnico-scientifici.
v f
___________________________________________________
m. Nel Codice civile napoleonico venivano
riconosciuti ampi diritti ai lavoratori, fra cui
il diritto di sciopero.
v f
___________________________________________________
n. La coscrizione obbligatoria fu applicata
in Francia ma non negli altri Stati satellite che
la rifiutarono.
v f
___________________________________________________
o. Solo verso la metà del Settecento si cominciò
a cercare di definire che cosa fosse l’arte;
così nacque l’estetica.
v f
___________________________________________________
p. Winckelmann riteneva che l’artista dovesse
imitare la natura per ricrearne l’armonia, ma
dovesse perseguire un «bello ideale» che è
cosa diversa dal «bello di natura».
v f
___________________________________________________
q. Secondo gli artisti che perseguirono un’idea
accademica e archeologica del Neoclassicismo
il mondo moderno non offriva spunti e ideali
degni di elaborazione artistica.
v f
___________________________________________________
r. Secondo le teorie di Burke il «sublime»
è nettamente superiore al «bello».
v f
___________________________________________________
s. I canti di Ossian riprendono temi della mitologia
nordica, in particolare della civiltà celtica.
v f
___________________________________________________
h. L’esercito della Santa Fede che abbatté
la Repubblica Partenopea era formato
dalle truppe dello Stato della Chiesa e
appoggiato dalla flotta inglese.
v f
___________________________________________________
t. Lo Sturm und Drang si opponeva all’estetica
neoclassica e rivendicava l’origine nazionale
delle diverse culture.
v f
___________________________________________________
i. Cuoco sostiene che la Rivoluzione napoletana
era stata una rivoluzione passiva perché dopo
i primi momenti di entusiasmo il popolo
si lasciò andare all’inerzia.
v f
___________________________________________________
u. Johann Gottfried Herder è considerato un
precursore dello storicismo perché sosteneva
l’esistenza di un continuo e irreversibile
progresso nella storia umana.
v f
___________________________________________________
j. Napoleone riuscì ad essere nominato
Console a vita grazie ad un plebiscito.
v f
___________________________________________________
v. Ugo Foscolo fu un grande poeta e scrittore
che rivalutò la tradizione della nostra letteratura
senza avere contatti con la cultura europea
a lui contemporanea.
v f
___________________________________________________
k. Napoleone dichiarò guerra alla Russia
nel 1812 perché lo zar non voleva rispettare
il blocco continentale.
v f
___________________________________________________
l. Napoleone diede un notevole impulso allo sviluppo
w. Le opere di Vincenzo Monti testimoniano
la sua attiva partecipazione alle vicende
storiche del suo tempo.
v f
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VERIFICAdifinemodulo
x. Lo scultore Antonio Canova ebbe un ruolo
fondamentale nel riportare in Italia gran parte
dei capolavori trafugati da Napoleone.
v f
___________________________________________________
SAGGI BREVI
2. Prendendo in considerazione il periodo 1796-1815,
esponi quali sono state le conseguenze dell’arrivo dei francesi e del dominio napoleonico in Italia. Analizza sia gli
aspetti civili e ideologici, sia quelli culturali.
3. Prendendo come punti di partenza e di confronto i due testi Il canto del destino di Hölderlin e Al signor di Montgolfier
di Monti, illustra come entrambi possano essere messi in relazione col Neoclassicismo, ma siano assai diversi fra loro.
4. Il Neoclassicismo produsse un tipo di architettura che
Modulostoricoculturale
L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo 467
continuò ad essere diffusa nel corso di tutto l’Ottocento e
oltre: soprattutto per gli edifici pubblici l’uso di colonne, di
frontoni, di forme desunte da quelle antiche, greche e romane, rimase un punto fermo. Sapresti spiegare quali possono essere le motivazioni di tale «successo»? Se conosci
qualche edificio neoclassico o ve n’è qualcuno nella tua
città, potresti partire da lì.
5. Tenendo presente la definizione di estetica del sublime
e in particolare quelle che vengono definite da Burke le fonti del sublime e come esse agiscano sulla mente e sui sentimenti, descrivi le tue emozioni e sensazioni di fronte a
qualcosa che ha suscitato in te reazioni di tal genere. Puoi
pensare alla visione di un panorama, di un tramonto, di un
cielo stellato, ma puoi anche ragionare sul successo dei
film che hanno come soggetto «catastrofi naturali» (come
mega-tempeste, cicloni, terremoti, ecc.).
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Modulo
Autore
Ugo Foscolo
MATERIALI
T1 Sulla poesia e sull’arte, dalle Lezioni
londinesi
T7 In morte del fratello Giovanni, Poesie.
Sonetti, X
sono consegnati alla memoria, Dei Sepolcri, vv. 151-225
T2 Le prime pagine del romanzo, Ultime
lettere di Jacopo Ortis, parte I
T8 All’amica risanata, Poesie. Odi
T9 Il sepolcro come nodo d’affetti, Dei
T13 Solo la poesia può dare l’immortalità, Dei Sepolcri, vv. 226-295
T3 La bellezza e l’amore, Ultime lettere di
Jacopo Ortis, parte I
Sepolcri, vv. 1-50
T10 Una società degradata non sa dare
T4 Una riflessione senza speranza, Ultime lettere di Jacopo Ortis, parte II
degna sepoltura ai suoi figli migliori, Dei
Sepolcri, vv. 51-90
T14 La comparsa di Venere e delle Grazie agli uomini primitivi, Le Grazie, Inno
primo, vv. 82-150
T5 Alla sera, Poesie. Sonetti, I
T11 La storia del sepolcro è la storia
guida all’analisi del testo
T6 A Zacinto, Poesie. Sonetti, IX
della civiltà, Dei Sepolcri, vv. 91-150
il gusto di leggere
T15 Un ritratto ironico, da Le confessioni
di un italiano, cap. XI, di Ippolito Nievo
T12 L’identità e il futuro della nazione
CONTENUTI
✔ La vita e l’opera di Ugo Foscolo testimoniano con grande risalto il particolare momento storico tra fine
Settecento e primo Ottocento, quando alla crisi della cultura illuminista fece seguito la nascita e la diffusione della
nuova cultura romantica.
✔ Come altri intellettuali del suo tempo Foscolo visse drammaticamente il conflitto fra ansie di
rinnovamento e delusione. L’autore aderì agli ideali della Rivoluzione francese e appoggiò le imprese napoleoniche
sino alla delusione per il trattato di Campoformio (1797). La sua partecipazione agli eventi contemporanei avvenne sul
piano dell’impegno personale, ma soprattutto su quello letterario.
✔ All’origine della produzione artistica di Foscolo c’è una tensione a tradurre in immagini letterarie la
ricerca del proprio io; nella sua opera trovano eco i contrasti che caratterizzarono il passaggio dalla cultura illuminista a
quella romantica; da un lato la fedeltà al materialismo meccanicistico, dall’altro la tensione verso l’ideale.
✔ Dal contrasto tra le aspirazioni ideali dell’individuo e la realtà prende corpo per Foscolo la necessità
delle illusioni, valori che danno un senso alla vita (come l’amore, l’amicizia, la famiglia, l’idea di patria).
✔ Con il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis Foscolo diede vita al personaggio del patriota deluso,
esule e pronto a morire per la patria. Con il carme Dei Sepolcri si propose di ricoprire il ruolo di poeta civile.
✔ Nella sua poesia, Foscolo derivò dal Neoclassicismo l’idealizzazione del mondo antico, il concetto di bellezza
come armonia; dal Romanticismo, la concezione del fare artistico come creazione ed espressione. La poesia,
secondo la teorizzazione foscoliana deve parlare alle menti attraverso il meraviglioso e colpire il cuore con le passioni.
✔ Ancora oggi Foscolo attira l’interesse dei lettori con l’immagine che ha lasciato di sé: artista e scrittore in
perenne contrasto con la società.
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ModuloAutore Ugo Foscolo 469
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
labbri tumidi, arguti, al riso lenti,
capo chino, bel collo, irsuto petto.
(Ugo Foscolo, Poesie)
Foscolo
IERI E OGGI
L’autore e il suo tempo
I tempi in cui Foscolo visse furono tali da suscitare in
tanti intellettuali, artisti e scrittori un continuo conflitto fra ansie di rinnovamento e delusione. In questo Foscolo è rappresentativo di un’evoluzione che
fu comune a molti intellettuali e patrioti italiani. La
Rivoluzione francese rappresentò per lui la speranza di una vita rinnovata, più intensa e liberata
dalle polverose e antiquate abitudini che caratterizzavano il mondo sociale e culturale italiano. Giovanissimo, si schierò su posizioni giacobine (così erano
chiamate le istanze estreme nate dalla Rivoluzione),
tanto da destare i sospetti della polizia. Quando, nel
1796, con la discesa di Napoleone in Italia e la
creazione della Repubblica Transpadana nei territori
lombardi strappati all’Austria, sembrarono aprirsi
nell’Italia settentrionale prospettive repubblicanodemocratiche, lo scrittore condivise, con slancio e
personale impegno, la speranza in una rinascita della vita civile e di una società nuova. Seguì un’amara disillusione a causa del trattato di Campoformio (1797) col quale Napoleone annetteva alla
Francia il Piemonte e la Toscana e cancellava la Repubblica di Venezia data come risarcimento all’Austria. Contribuirono ad accrescere questa disillusione la caduta di tutte le repubbliche che i francesi
avevano instaurato in Italia e la svolta della politica
napoleonica nel 1802 con l’istituzione del consolato a vita che risultava, agli occhi dei contemporanei,
un tradimento degli ideali egalitari della Rivoluzione francese. La partecipazione di Foscolo a questi
eventi avvenne sul piano dell’impegno personale
(Foscolo si arruolò come volontario nel 1799), ma
soprattutto su quello letterario. Egli, trasferendo
nelle sue opere l’esperienza che andava facendo delle cose della politica, fece anche da «megafono» e da
interprete a quegli eventi attribuendosi il ruolo di
poeta civile, cioè di colui che indica i valori, che ce-
lebra gli eroi. Le testimonianze di questo modo di
sentire e di concepire il suo ruolo di scrittore furono
precocissime. Intorno al 1795, a diciassette anni,
scrisse una tragedia, Tieste, dominata da forti accenti antitirannici, che fu rappresentata con successo a
Venezia nel gennaio del 1797 e che fu, per il giovane poeta, una sorta di consacrazione letteraria. Nello stesso anno Foscolo pubblicò l’ode A Bonaparte liberatore in cui prediva all’Italia un futuro di libertà
grazie all’esercito dell’«Eroe», del «Guerriero», del
«Liberatore» che aveva portato nella penisola i valori di uguaglianza e libertà della Rivoluzione francese. Dopo la delusione di Campoformio, il romanzo Le
ultime lettere di Jacopo Ortis diede vita al personaggio
del patriota deluso, esule e pronto a morire per la patria. Il costante trasferimento nei testi letterari delle
circostanze autobiografiche, la teatralità degli interventi pubblici dell’autore, il suo stesso carattere e il
suo modo di essere gli attirarono grandi amori, ma
anche vive antipatie. Egli incarnava le figure ideali
assolute che davano vita alle sue opere letterarie: il
patriota, l’amante, l’eroe infelice e disilluso, l’esule,
il poeta vate. Tutto questo trova un riscontro e una
testimonianza nei giudizi dei suoi contemporanei:
alcuni ne esaltavano gli aneliti verso la libertà e la
grandezza, le manifestazioni di patriottismo, la generosa idealità, la decisione esemplare dell’esilio nel
1815 dopo il ritorno degli austriaci, ma c’era anche
chi ne sottolineava la vanità, l’attrazione per il bel
mondo, l’immagine dell’amante infaticabile e appassionato che passava da una nobildonna all’altra.
L’autore e il nostro tempo
Ancora oggi Foscolo attira l’interesse dei lettori, prima ancora che con la sua opera, con l’immagine che
ha lasciato di sé. Egli incarna la figura dell’artista e
dello scrittore che si sente in contrasto con la società
perché ha la coscienza di essere «eccezionale» e «diverso», sradicato, si direbbe oggi. L’irrequietezza, la
passionalità, la precarietà, furono i tratti costanti
della biografia di Foscolo. Nonostante il successo nei
salotti e negli ambienti letterari dell’Ottocento, non
ebbe mai una sistemazione sociale ed economica
stabile, e fu sempre, come poeta e letterato, alla ricerca di un ruolo. In particolare dopo il 1802, quando era difficile nell’Italia napoleonica conciliare gli
ideali di libertà e di patria con l’accettazione di compiti che comportavano una dipendenza dal potere,
Foscolo si sentì un isolato e accentuò certe asprezze
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470 Secondo Settecento
del suo carattere. Rammentiamo, in proposito, un
episodio emblematico: la lite con Vincenzo Monti, il
poeta più in auge in quegli anni. Essa ebbe origine
da un giudizio critico di Monti su Alfieri, che rappresentava per Foscolo un modello e un ideale, e scoppiò nel salotto del ministro Veneri, per proseguire
poi sui giornali, nelle recensioni, negli epigrammi.
Si opponevano due diverse concezioni del compito
della letteratura e due diverse scelte di vita: una di collaborazione, di compromesso col potere, l’altra di opposizione. Fu pertanto naturale, per la generazione
successiva, quella degli intellettuali impegnati nel Risorgimento, vedere in Foscolo il testimone della
nuova Italia che nasceva. Sono in proposito emblematiche le parole con le quali il grande critico Francesco De Sanctis nel 24 giugno del 1871 salutò il trasferimento delle spoglie del poeta dall’Inghilterra a Firenze: «Come uomo lungamente amato e desiderato che
torna in patria, l’Italia rivede Ugo Foscolo. Il grande
esule viene a prendere il suo posto accanto a Vittorio
Alfieri, nel tempio de’ suoi Sepolcri, nella città delle sue
Grazie (...). Anche oggi, se parli ai giovani di Foscolo,
non odono ragionamenti, non ammettono discussioni, credono in Foscolo, amano Foscolo, e lo amano perché lo amano, per una forza occulta, come si spiegava
tutto in una volta. È questo grido universale di simpatia, che pone oggi sul suo piedistallo il gran’uomo, affogando nell’immenso plauso le voci ostili e anche imparziali. Io stesso non mi sento libero, o per dir meglio,
mi sento attrarre da questa universale simpatia, e con
riverenza di discepolo mi accosto al gran’uomo, e lo interrogo, cerco di comprenderlo, cerco di strappargli il
segreto di una grandezza così popolare».
Oggi i giudizi sono più distaccati, ma Foscolo rimane comunque, anche per i lettori contemporanei,
una figura emblematica che riassume in sé la sensibilità e il gusto del suo tempo, un letterato e un poeta drammaticamente partecipe della realtà del
suo tempo.
Foscolo
IL PROFILO
DELL’AUTORE
La vita
A Venezia. Gli anni della formazione Niccolò
Foscolo (scelse di farsi chiamare Ugo solo nel 1795)
nasce il 6 febbraio del 1778 a Zacinto, un’isola del
Mar Ionio di sovranità della Repubblica di Venezia,
da padre veneziano e da madre greca (Diamantina
Spathis), primogenito di quattro figli. Nel 1785 la famiglia si trasferisce a Spalato, dove il padre è chiamato a esercitare la sua professione di medico. Ugo compie i primi studi nel seminario della città. Nel 1788 la
morte del padre costringe la famiglia a dividersi: Diamantina a Venezia, per curare gli affari lasciati sospesi dal marito, i figli a Zacinto, ospiti di una zia materna. Le poche testimonianze che l’autore ci ha lasciato intorno a questi anni raccontano un’infanzia
e un’adolescenza piuttosto tristi, segnate dalla precoce scomparsa del padre, ma soprattutto esaltano il
privilegio della nascita in terra greca: «Non oblierò
mai che nacqui greco da madre greca, che fui allattato da greca nutrice e che vidi il primo raggio di sole
nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’
versi con che Omero e Teocrito la celebravano».
A Venezia, dove, nel 1792, raggiunge la madre, ha
inizio la vera formazione del poeta. Frequenta la
scuola del collegio di San Cipriano e presto anche circoli, salotti, teatri, cioè tutti quegli ambienti che facevano ancora di Venezia una città dalla vita culturale
abbastanza vivace. Povero, eccentrico negli atteggiamenti, appassionato in ogni sua manifestazione, suscita l’interesse della nobildonna veneziana Isabella
Teotochi Albrizzi, che lo accoglie nel suo salotto e gli
fa conoscere i letterati più famosi del tempo. Ella ne
traccia un ritratto eloquente: «L’animo è caldo, forte,
disprezzatore della fortuna e della morte; l’ingegno è
fervido, rapido, nutrito di sublimi e forti idee; semi eccellenti in eccellente terreno coltivati e cresciuti (...).
Libertà e indipendenza sono gl’idoli dell’anima sua.
Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non
gli paressero i moti tutti del suo cuore».
È il 1795 e l’amicizia di Isabella Teotochi rappresenta nella vita del poeta l’ingresso nella società e
nella cultura veneziana e la prima significativa relazione amorosa. Di grande importanza per lui è il rapporto con Melchiorre Cesarotti, del quale segue le lezioni all’Università di Padova e che lo indirizzò alla
conoscenza della filosofia illuminista. Schierato su
posizioni giacobine, partecipa alle speranze repubblicano-democratiche che sembravano aprirsi con
la discesa di Napoleone.
La passione politica Nell’aprile 1797 si reca a
Bologna, capitale della neonata Repubblica Cispadana (che comprendeva il territorio dell’ex Ducato
di Modena e Reggio con le città di Bologna, Forlì e
Ferrara) e chiede di arruolarsi nei Cacciatori a ca-
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ModuloAutore Ugo Foscolo 471
vallo. Dopo il trattato di Campoformio (17 ottobre
1797) lascia Venezia. Ad un impegno tanto appassionato, segue una delusione altrettanto fervida: la
esprime nel romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis,
che inizia a scrivere nel 1798. Come tanti altri intellettuali e patrioti che avevano appoggiato Napoleone nutrendo speranze e ideali repubblicani, egli ritiene che nonostante il «tradimento» di Campoformio,
la Repubblica Cisalpina (che era stata appena fondata, il 29 giugno 1797, dall’unione delle due repubbliche Transpadana e Cispadana) rappresenti la situazione più favorevole, e si rifugia a Milano. Quando gli eserciti austro-russi attaccano i territori della
Repubblica Cisalpina, si arruola volontario nella
Guardia nazionale di Bologna e combatte in Emilia e poi a Genova. Intanto, dopo la svolta della politica napoleonica, resa evidente dalla istituzione del
consolato a vita (1802), la delusione storica e politica appare definitiva. Foscolo sente profondamente la precarietà e lo sradicamento della sua condizione di intellettuale rispetto a una realtà nella
quale non trova uno spazio d’azione in accordo con
i suoi ideali. A questo disagio di fondo si aggiunge
l’amore infelice per Isabella Roncioni, già promessa
sposa, e il suicidio del fratello Giovanni Dionigi. Anche il nuovo amore intrecciato a Milano con la contessa Fagnani Arese si rivela un’esperienza agitata e
per certi aspetti tormentosa.
Gli studi letterari e la poesia Per la necessità di
garantirsi uno stipendio, mantiene l’incarico di ufficiale, ma rinuncia ad un ruolo di primo piano nella
società letteraria milanese e si dedica piuttosto agli
studi e alla composizione poetica (pubblicando nel
1803 la raccolta delle Poesie). Nel 1804 su sua richiesta viene riammesso al servizio attivo e destinato al seguito del generale Pino, che sulla Manica preparava lo sbarco di Napoleone in Inghilterra. Rimane così in Francia per due anni, durante i quali si impegna soprattutto in opere di traduzione, in particolare, traduce il Viaggio sentimentale del romanziere
inglese Laurence Sterne (1713-1768).
Nel 1808 ottiene la cattedra di professore di
Eloquenza a Pavia, ma la cattedra viene soppressa dopo pochi mesi. Foscolo pronuncia comunque
l’orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della
letteratura il 22 gennaio 1809 e tiene altre sei lezioni. Erano anni difficili per chi, come Foscolo, non
fosse politicamente e culturalmente allineato, così,
dopo alcuni attacchi pubblici sui giornali milanesi,
anche gli amici gli consigliano di lasciare Milano. Si
congeda dall’amministrazione militare (del resto, da
dieci anni era nell’esercito più di nome che di fatto)
e tra il 1812-13 soggiorna a Firenze, dove frequenta il salotto della contessa d’Albany, la compagna di
Alfieri, e ha una relazione amorosa con Quirina Mocenni Magiotti. Aveva già pubblicato la sua opera
poetica maggiore, il carme Dei Sepolcri (1807).
Gli eventi tumultuosi che tra la fine del 1813 e
l’abdicazione di Napoleone fecero intravedere a molti patrioti italiani la possibilità di dar vita a uno Stato
indipendente, sono vissuti da Foscolo come un’ultima illusione a cui votarsi, più per uno slancio ideale
che per una razionale fiducia di successo. Scrive in
quei giorni: «Or dunque che in Italia il peggior partito, secondo me, si è lo starsi per avere poi il vergognoso piacere di querelarsi degli uni e degli altri ho creduto bene di risalire a cavallo, e d’avere la spada in
mano. Starò vigilando e parato. Non mi mancherà
tempo a tornare alla mia prima pace studiosa; e v’è
pur sempre la pace eterna santissima del sepolcro».
L’esilio Nel 1815 gli austriaci, tornati a Milano,
propongono a Foscolo la direzione di un giornale, la
«Biblioteca Italiana»: è il segno di una politica di
conciliazione con gli intellettuali che Foscolo, in un
primo momento, sembra poter accettare. L’Austria
chiede agli ex ufficiali napoleonici il giuramento di
fedeltà; Foscolo, dopo alcune esitazioni, nella notte
tra il 30 e il 31 marzo lascia segretamente l’Italia.
Scrive alla famiglia: «L’onore mio, e la mia coscienza, mi vietano di dare un giuramento che il presente governo domanda per obbligarmi a servire nella
milizia, dalla quale le mie occupazioni e l’età mia e i
miei interessi m’hanno tolta ogni vocazione. Inoltre
tradirei la nobiltà incontaminata fino ad ora del mio
carattere col giurare cose che non potrei attenere, e
con vendermi a qualunque governo».
Cominciano così gli anni dell’esilio, prima in
Svizzera (fino al 1816), poi in Inghilterra. Ben accolto a Londra, ha presto problemi economici e conduce una ingloriosa vita di espedienti. Non riesce a
fare della nuova realtà della sua vita una condizione
per un ripensamento ideologico e per una nuova
stagione creativa.
Muore il 10 settembre del 1827 a quarantanove
anni. Nel 1871 i suoi resti sono trasportati nella
chiesa di Santa Croce a Firenze.
Le opere
All’origine di tutta l’opera di Foscolo c’è un atteggiamento culturale ed esistenziale che possiamo defini-
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re tensione a tradurre in immagini letterarie la ricerca del
proprio io, il vissuto interiore, in relazione ai fatti dell’esperienza biografica e storica. Da un lato l’esperienza di vita dello scrittore offrì un apporto considerevole alla stesura delle sue opere, dall’altro la rielaborazione letteraria tende ad attribuire all’esperienza personale un valore e un significato universali.
Le opere poetiche Foscolo esordì giovanissimo
con versi di modesto valore; a diciannove anni si
propose come poeta civile con l’ode* A Bonaparte liberatore pubblicata a Bologna nel 1797 a spese della Giunta di Difesa come ufficiale omaggio a Napoleone, ripubblicata a Venezia prima di Campoformio
e nuovamente a Venezia nel 1799, accompagnata
da una dedica nella quale Foscolo invitava il «conquistatore» e il «despota» a cancellare dalla sua fama la macchia del trattato di Campoformio e a dare
la libertà all’Italia.
Nel 1803 si rivela poeta maturo e originale con la
pubblicazione della raccolta Poesie, che comprende
dodici sonetti* e due odi. Le due odi, A Luisa Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, sono omaggi a due donne amate dal poeta (rispettivamente la
Pallavicini, che un incidente aveva deturpato nella
sua bellezza, e Antonietta Fagnani Arese, che tornava alla vita consueta dopo un lungo periodo di malattia). Come si vede, l’occasione è legata alla vita galante di Foscolo, alla sua frequentazione dei salotti.
Tuttavia, in entrambe le odi, l’omaggio cede presto
il campo a temi più alti e generali che investono soprattutto l’esaltazione della bellezza e della poesia eternatrice della bellezza. Ma è soprattutto nei sonetti che
compare il «poeta nuovo». Nei testi che solitamente
sono citati come Alla sera, A Zacinto e In morte del fratello Giovanni [s T5-7] sono perfettamente realizzati e compiuti i tratti stilistici e tematici che caratterizzano la grande poesia foscoliana: l’amore, gli affetti familiari, la patria e l’esilio, il mondo classico, la
funzione della poesia espressi in componimenti percorsi da una forte tensione formale.
Nel 1806 compone, tra giugno e settembre, il carme Dei Sepolcri [s p. 497]. Il tema del sepolcro era
allora di moda sia come argomento letterario, sia in
conseguenza di alcune recenti decisioni in campo
politico. Nel 1804, infatti, Napoleone con l’editto di
Saint-Cloud imponeva la sepoltura al di fuori delle
mura cittadine e nel 1806 questo editto veniva esteso anche all’Italia creando grossi dibattiti al riguardo. Foscolo, però, parlando di sé in terza persona, rivendica per la sua opera significati più alti. Scrive infatti: «l’autore considera i sepolcri politicamente; ed
ha per iscopo di animare l’emulazione politica degli
italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la
memoria e i sepolcri degli uomini grandi».
Nel carme Foscolo esprime l’idea di una poesia
connessa al presente storico, portatrice di un messaggio che riguarda il senso della vita degli uomini, ma
che si rivolge anche alla coscienza politica e nazionale degli italiani, in nome di una tradizione di valori di cui è custode.
A Firenze, tra il 1812 e il 1813 lavora alla composizione delle Grazie, un poemetto* lasciato incompiuto. Le Grazie, divinità della mitologia antica,
sono, secondo Foscolo, entità «intermedie tra il cielo e la terra, dotate della beatitudine e della immortalità degli dèi, ed abitatrici invisibili fra i mortali per
diffondere sovr’essi i favori de’ Numi». Esse educano
gli uomini al dominio delle passioni, alla benevolenza e al pudore. Su tutto questo si fonda l’intento didattico del carme, che dovrebbe mostrare la funzione
civilizzatrice delle Grazie. Nelle Grazie compare l’idea
di una poesia consolatrice rispetto ad una realtà che
ha chiuso ogni strada alle illusioni. Non è tanto una
svolta nel modo di concepire la poesia, ma piuttosto
un mutamento tematico che nasce dall’ulteriore approfondirsi della visione negativa dell’uomo e della
storia, che induce a rifugiarsi in altri miti come la
bellezza e l’armonia.
La prosa narrativa L’opera narrativa più importante di Foscolo è il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis (pubblicato nel 1802) nato
dalla delusione e dallo sdegno suscitato nello scrittore dal trattato di Campoformio. Per la struttura del
romanzo Foscolo attinse a modelli settecenteschi e
in particolare all’opera di Goethe I dolori del giovane
Werther.
L’opera fu un autentico best-seller per il fascino che
aveva una così accesa e insistita esibizione di sentimenti, passioni, moti interiori che, insieme all’ambientazione nel presente e ai riconoscibilissimi elementi autobiografici, si presentava non come finzione letteraria ma come verità. Foscolo non mancò di
alimentare questa lettura. Scrive infatti all’antico
maestro Melchiorre Cesarotti: «Fra un mese avrai in
nitida edizione (...) una mia fatica di due anni, ch’io
chiamo il libro del mio cuore. Posso dire di averlo
scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe
[prendilo quindi come fosse la mia stessa carne]»; e lo
stesso concetto ribadisce in una lettera a Isabella Teotochi: «Vi mando le Ultime Lettere – io vi prego di serbarle religiosamente. Scriverò meglio forse come Autore – ma l’Uomo non scriverà più come in quel libro».
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Nel 1813 pubblica la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorik di Laurence Sterne che risaliva agli
anni 1804 e 1806 e vi aggiunge in appendice la Notizia intorno a Didimo Chierico, nella quale costruisce
un personaggio a cui Foscolo attribuisce la traduzione dell’opera di Sterne. La figura di Didimo è una
sorta di ritratto autobiografico antitetico a quello
precedentemente consegnato alla figura di Jacopo
Ortis.
Un altro interessante saggio di prosa narrativa
d’argomento autobiografico è il Sesto tomo dell’Io,
una serie di frammenti in cui è riflessa la vita dello
scrittore tra il 1799 e il 1800.
Le tragedie Ancora giovanissimo, intorno al
1795, Foscolo scrisse sul modello della tragedia alfieriana, il Tieste, rappresentata a Venezia nel 1797.
Solo dopo quindici anni tornò al teatro tragico con
Ajace, composta tra il 1809 e il 1811, rappresentata alla Scala con la regia dello stesso autore e subito
proibita in tutti i teatri del regno. Dietro la trama e i
personaggi della tragedia gli spettatori del tempo potevano facilmente cogliere allusioni ostili al regime
napoleonico. L’ultima tragedia Ricciarda, incentrata
sulla figura femminile della protagonista, fu scritta
a Firenze e messa in scena Bologna nel 1813.
Gli scritti di critica letteraria Foscolo fu autore
di studi critici importanti, che segnarono un rinnovamento negli studi letterari italiani; fra questi si deve citare il discorso che egli pronunciò nel 1809 come inaugurazione del corso universitario che non
poté in realtà tenere: Dell’origine e dell’ufficio della letteratura. Nel discorso Foscolo afferma che la letteratura, con l’esercizio della parola, arriva ai sensi, unisce passione e ragione e di qui fonda la sua capacità
di persuadere. Entro questa idea di letteratura, la
poesia secondo Foscolo continua anche nei versi dei
i temi e le opere di Foscolo
Ortis
il mito dell’eroe infelice
Sonetti
Sepolcri
Odi
il mito della bellezza
Grazie
il messaggio etico-filosofico
Sepolcri
poeti moderni a conservare la memoria storica, a indicare agli uomini i valori, a educare i sentimenti e
le passioni. Negli anni dell’esilio a Londra, lontano
dalle polemiche letterarie che opponevano in Italia
classici e romantici, Foscolo scrisse alcuni dei suoi
saggi più significativi tra i quali ricordiamo: Saggio
sullo stato della letteratura contemporanea in Italia
(1818), Saggi su Petrarca (1821), Epoche della lingua
italiana (1823), Discorso sul testo del poema di Dante
(1825).
Foscolo
IL PENSIERO
E LA POETICA
Nella visione del mondo e nell’opera di Foscolo trovano eco tutte le tensioni ideologiche che caratterizzarono il passaggio dalla cultura illuminista a quella romantica. Dopo che la cultura illuminista aveva
sviluppato l’analisi razionale della realtà nei suoi
vari aspetti valorizzando la forza conoscitiva della
ragione, una nuova tensione verso l’ideale riproponeva le grandi domande e con esse la riscoperta dei
valori dello spirito, la ripresa della visione religiosa
dell’uomo e del mondo.
Foscolo è un emblematico protagonista di questo
momento di transizione tra due culture. Egli eredita e fa propri i princìpi del materialismo meccanicistico settecentesco, una concezione che parte
dal presupposto che tutto è materia e considera la
natura una grande macchina dominata da un moto incessante di trasformazione che non ha uno scopo, né un disegno preordinato. Ma nella sua esperienza intellettuale questa concezione contrasta con
il bisogno di grandezza e di idealità dell’individuo, si
scontra con la tensione verso l’ideale, con l’ansia, a volte drammatica, di andare oltre le spiegazioni razionali. La «ragione» degli illuministi, che associava alle concezioni materialistiche e meccanicistiche l’accettazione serena dei limiti dell’uomo, è infatti per Foscolo vera ma disperante.
A partire da queste considerazioni, possiamo individuare alcune linee fondamentali del pensiero di
Foscolo.
L’individualismo e il pessimismo della ragione
Come abbiamo visto, Foscolo fa propri i princìpi del
materialismo meccanicistico elaborati dalla cultura
settecentesca sottolineandone tuttavia gli aspetti
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che portano a una visione pessimistica del mondo.
All’idea di un fatale meccanicismo che governa la
natura si associa la teorizzazione, sempre di derivazione illuminista, di una società dominata dalla forza nella quale prevalgono le ragioni dell’utile. Entrambe queste concezioni contrastano con i bisogni
di grandezza e di ideali dell’individuo e pertanto lo
condannano all’infelicità. Su queste basi prende
corpo il contrasto tra le aspirazioni dell’individuo e la realtà, e il solo modo in cui può manifestarsi l’affermazione individuale sembra essere il
conflitto con il mondo, con la società, che porta all’isolamento aristocratico, all’individualismo ribelle.
La necessità delle illusioni Dal contrasto tra la
realtà, regolata dal meccanicismo e dal principio
dell’utile, e le aspirazioni dell’uomo, nasce la necessità, per Foscolo, delle illusioni. Create dal sentimento in conflitto con la ragione, le illusioni sono
costruzioni dell’uomo, valori ideali che rendono
possibile la vita e le danno un senso: si tratta dell’amore, della bellezza, dell’amicizia, della famiglia, della patria, della compassione: valori che
sono il centro tematico della produzione letteraria e
poetica foscoliana.
Anche nell’ambito della riflessione sulla poesia
Foscolo rielaborò le molteplici tendenze che si manifestarono fra Sette e Ottocento. Dal Neoclassicismo
derivò l’idealizzazione del mondo antico, l’identificazione della bellezza con l’armonia, ma non l’utilizzo dei temi e delle figure della classicità come repertorio di
immagini belle. Del Neoclassicismo rifiutò invece i
princìpi di regolarità, ordine, modello, mentre pose
al centro della sua produzione poetica la concezione
romantica del fare artistico come creazione originale ed espressione delle passioni dell’animo
umano.
I concetti fondamentali intorno ai quali Foscolo
costruisce il suo ideale di poesia sono il mirabile e il
passionato.
Il mirabile Con il termine mirabile Foscolo intende l’elemento meraviglioso, mitologico, favoloso
con il quale la poesia ha la facoltà di colpire i sensi.
I poeti antichi trovavano il mirabile nella loro stessa
religione, che si presentava come raffigurazione
mitica di valori, princìpi e realtà del mondo fisico e
in quanto tale costituiva il fondamento stesso della
poesia. Il poeta moderno, invece, ha la necessità di
crearsi un proprio «meraviglioso». Questo deve avere la stessa capacità d’espressione del meraviglioso
degli antichi, non deve cioè essere invenzione «falsa», bensì espressione di una verità. Attraverso il
meraviglioso, vale a dire l’immagine, la figura inventata, la poesia trasmette valori e princìpi,
idee e significati. Su questo concetto si misura la distanza tra l’ammirazione degli scrittori neoclassici
per la mitologia antica e la presenza di figure mitologiche nella poesia foscoliana. Quando Foscolo introduce nei suoi versi l’immagine di Venere che sorge dalle acque del mare o quella di Ulisse che bacia
la sua terra dopo il lungo esilio, fa ricorso a figure
della mitologia e dell’epica classica, ma le riempie
di un significato del tutto attuale, le carica di idee e
valori moderni. La poesia deve, infatti, parlare alle
menti col meraviglioso e colpire al cuore con le passioni.
Il passionato È questa l’altra qualità che Foscolo
chiede alla poesia: il passionato, la capacità, cioè,
di «risvegliare» il cuore con le passioni. Di qui la centralità, nella poesia di Foscolo, dell’immagine: le immagini, le figure poetiche, mentre trasmettono dei
significati coinvolgono emotivamente il lettore. Anche il passionato deve fondarsi sulla verità, il che vale a dire che le passioni espresse debbono avere il loro fondamento nella società stessa.
L’idea di poesia che abbiamo tracciato si realizza
soprattutto nell’esperienza lirica della scrittura dei
sonetti e delle odi. Dopo il 1803, anno di pubblicazione delle Poesie, Foscolo non scrisse più poesia lirica. In varie occasioni tornò a riflettere sulla poesia
degli antichi e in particolare sul mirabile, sulla possibilità di trarre dal presente l’elemento meraviglioso
necessario alla poesia. Si affaccia così l’idea di una
poesia che abbia i caratteri dell’epica ma che attinga al presente e sia portatrice di un messaggio
etico-filosofico che riguarda il senso della vita degli uomini. In particolare pensa ad una poesia che
sappia rivolgersi anche alla coscienza politica e nazionale degli italiani in nome di una tradizione di cui
essa è custode. Ciò non implica semplicemente un
intento didascalico, poiché non viene meno l’esigenza del mirabile, dell’immagine e della fantasia,
ma questi strumenti sono visti come strettamente
legati all’impegno dimostrativo e alla persuasione.
Queste convinzioni che possiamo sintetizzare nell’esigenza di attribuire alla poesia anche una funzione etico-civile approda alla composizione dei Sepolcri.
Con l’esilio si interrompe anche il dialogo con la
situazione politica e culturale italiana: da Londra
Foscolo non interverrà nel dibattito fra classicisti e
romantici e non presterà nemmeno la sua parola
poetica al nascente movimento risorgimentale.
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la poetica di Foscolo
●
●
●
idealizzazione del mondo antico
identificazione della bellezza con l’armonia
la poesia deve creare immagini
(il mirabile)
●
concezione del fare artistico come
creazione originale
concezione del fare artistico come
espressione delle passioni
la poesia deve parlare al cuore
(passionato)
T1
Sulla poesia e sull’arte
Lezioni
londinesi
Nei primi anni dell’esilio londinese Foscolo tenne una serie di conferenze a pagamento sulla lingua e la
letteratura italiana che vanno sotto il nome di Lezioni londinesi. Ritenne necessario iniziare con due testi che formulassero le premesse teoriche delle sue analisi; questi furono i Princìpi di critica poetica con
speciale riferimento alla letteratura italiana e le Origini e vicissitudini della lingua italiana. Come per le
successive lezioni, anche per queste l’autore preparò un testo in italiano che venne affidato ad un traduttore per la pubblicazione. Il passo che presentiamo, tratto dai Princìpi, pur appartenendo all’ultima
fase della riflessione foscoliana sulla poesia, rende con precisione l’ambito concettuale in cui si delinea
l’idea di poesia e di letteratura che sta alla base di tutta l’opera di questo autore.
Tutte le arti d’immaginazione, e soprattutto la poesia, che è la più antica e l’origine di
tutte le altre1, nacquero dal bisogno di abbellire e variare e aggrandire2 tutti gli oggetti ed i sentimenti che attraggono irresistibilmente i sensi, il cuore e la fantasia de’ mortali. Il poeta, il pittore e lo scultore non imitano copiando, – ma scelgono, combinano
e immaginano, perfette e riunite in una sola, molte belle varietà che forse realmente
esistono sparse e commiste a cose volgari e spiacevoli, ma che non esistono, o almeno
non si veggono mai né perfette né riunite in natura3 (...).
Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e, quel che è peggio, ci annoia; però la
poesia crea per noi oggetti e mondi diversi. E se imitasse fedelissimamente le cose esistenti e il mondo qual’è4, cesserebbe d’essere poesia, perché ci porrebbe davanti agli occhi la fredda, trista, monotona realtà. Or che necessità, che desiderio abbiamo noi di vederla dipinta e descritta, se già ne siamo assediati, volere o non volere5, dì e notte? La immaginazione dell’artista corregge idealmente la Natura anche quando sa cogliere e rappresentare la gioventù e la bellezza nel più bel punto della lor maggior perfezione. (...)
1. che è... altre: detto in polemica con i
tanti che affermavano che le prime arti
erano state quelle della scultura e della
pittura; tutto questo rientra nel settecentesco dibattito sulla differenza fra le varie
arti. Foscolo ribadisce, qui e in altri passi
del testo, la superiorità e la primogenitura della poesia.
2. aggrandire: ingrandire.
3. Il poeta, il pittore... in natura: tutto il
passo, necessario passaggio del ragionamento, è una perfetta riproduzione dell’idea fondamentale dell’estetica neoclassica. Foscolo non introduce alcun elemento nuovo nella poetica dell’armonia e nella proclamazione della superiorità del-
l’arte sulla natura, già teorizzate dal Neoclassicismo.
4. qual’è: è una grafia caduta in disuso;
oggi bisogna scrivere «qual è», senza apostrofo.
5. volere o non volere: che ci piaccia o no.
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Esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela di ritrovare come necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza; e quanto più trova sì fatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano ad esaltarsi e a purificarsi, e quindi la sua ragione si perfeziona. Questa armonia nondimeno di cui
l’esistenza è sì evidente, e di cui la necessità è sì fortemente esperimentata più o meno da
tutti i mortali, vedesi (come tutte le cose che la natura offre all’uomo) commista6 a una
disarmonia di cose, le quali cozzano e si attraversano7, e spesso si distruggono fra di loro. Però8 nella musica più che nelle altre arti appare evidentemente che l’immaginazione umana trovò il modo di combinare i suoni, ch’esistono in natura onde produrre melodia ed armonia, sottraendone tutti i suoni rincrescevoli o discordi9. Il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia. L’effetto dell’armonia che la musica produce all’anima per gli orecchi, per mezzo di suoni
uniti con diversi modi e gradi, vien pure egualmente prodotto dalla scultura, dalla pittura, e dalla architettura per la via degli occhi e per mezzo di forme, di tinte e di proporzioni che armonizzano fra di loro. Ma la poesia unisce l’armonia delle note musicali per
mezzo della melodia delle parole e della misura del verso; e l’armonia delle forme, de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni. Vero è che la specie
d’armonia propria a ciascuna delle altre arti è più espressa, e conseguentemente più efficace10; tuttavia l’efficacia della poesia è più potente, tanto a cagione della riunione di
tutti i generi d’armonia, quanto per la simultaneità e rapidità del loro progresso11.
6. vedesi... commista: si vede mescolata,
la vediamo continuamente unita.
7. cozzano e si attraversano: si scontrano
e si contrastano.
8. Però: perciò.
9. rincrescevoli o discordi: che disturbano, spiacevoli; oppure dissonanti, disar-
monici.
10. Vero è... efficace: è pur vero che il tipo particolare proprio di ogni singola arte (in quanto legata a uno solo dei sensi)
risulta più compiutamente realizzato e,
di conseguenza, ha un’efficacia più immediata, più diretta. Come dirà subito
dopo, l’efficacia della poesia è forse meno
acuta, ma è più «potente», ha potenzialità più vaste.
11. quanto... progresso: quanto anche
per la contemporaneità e la velocità con
cui si sviluppano e diventano «efficaci»,
in grado di provocare gli effetti dell’armonia sui sensi e sul pensiero.
Analisideltesto
La natura e la poesia
Del complesso ragionamento che Foscolo
sviluppa in queste pagine dei Princìpi, abbiamo isolato alcuni momenti decisivi. In
primo luogo compare l’affermazione che
gli uomini hanno bisogno della bellezza e
che l’arte, la poesia in particolare, risponde
a questo bisogno. L’autore riprende, poi, il
concetto di imitazione elaborato dal
Neoclassicismo, secondo il quale l’arte
imita, sì, la natura, ma rendendo perfetto
ciò che in natura è imperfetto, in quanto il
bello naturale non è mai assoluto ma convive col meno bello o addirittura col brutto.
Da una parte, quindi, la Natura, la realtà
che affligge l’uomo, dall’altra la poesia
che «crea... mondi diversi» capaci di consolare. Lo stesso concetto viene espres-
so col termine di «armonia», nel quale Foscolo sintetizza nuovamente la capacità
dell’arte di dar vita a qualcosa di assoluto che non esiste in natura. La poesia, infine, rispetto alle altre arti, ha degli strumenti in più, poiché può contare sull’armonia del suono, della struttura, delle immagini. Solo la poesia parla nello stesso
tempo ai sensi, al cuore e alla mente.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Prendi in considerazione le prime righe,
nelle quali Foscolo dice che la poesia soddisfa il bisogno di bellezza degli uomini.
Compaiono parole quali attraggono, sensi, cuore, fantasia. Ritieni che questi termini si riferiscano ad un bisogno astratto, in-
tellettualistico, o ad una esperienza fisica
(visiva, auditiva)?
2. Rintraccia in altri momenti del discorso foscoliano l’impiego di parole che riconducono il valore della bellezza, dell’armonia, della poesia, a esperienze del sentimento e dei sensi, vale a dire ad un’esperienza che, se pure espressa in termini di-
versi, corrisponde alla fruizione che noi
tutti possiamo avere della musica, dell’arte, della poesia.
Analisi
1. Con quali sinonimi potresti sostituire il
termine immaginazione che compare nel
testo?
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VERIFICAintermedia
METTI A FUOCO
12. Coerenza o contrasto tra l’immagine di sé stesso come eroe
infelice e le esperienze biografiche.
■ Date ed eventi
1. Nascita e morte di Foscolo.
2. Il trattato di Campoformio.
3. Anno d’inizio della composizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
4. Napoleone istituisce il consolato a vita.
5. Anno di pubblicazione delle Poesie.
6. La pubblicazione dei Sepolcri.
7. Il governo austriaco offre a Foscolo la possibilità di collaborare alla politica culturale.
8. Anni dell’esilio.
IL PENSIERO E LE OPERE
13. Collega i temi sottoelencati all’opera foscoliana nella quale
trovano una maggiore espressione.
L’eroe infelice ...........................................................................
Il tradimento della patria ...........................................................
La poesia e la sua funzione etico-civile.....................................
14. Sotto quale aspetto il pensiero di Foscolo è erede dell’Illuminismo?
PREPARA L’INTERROGAZIONE
LA FIGURA DELL’AUTORE
15. Seguendo i punti elencati nella scaletta, esponi oralmente
la concezione della poesia di Foscolo e la sua evoluzione:
9. Gli esordi di Foscolo nella società veneziana.
10. L’illusione repubblicana e giacobina. Ripercorri le tappe
principali di questa esperienza.
11. Foscolo professore a Pavia.
a. individualismo e pessimismo della ragione;
b. la necessità delle illusioni;
c. i concetti di mirabile e passionato;
d. la funzione etico-civile della poesia.
Foscolo
LE OPERE
E I TESTI
ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS
La struttura Nella storia artistica di Foscolo le Ultime lettere di Jacopo Ortis occupano un posto di
particolare rilievo. Quando furono pubblicate, nel
1802, ebbero un grande successo di pubblico e suscitarono una vasta eco intorno al giovane autore. Foscolo amava questa sua opera al punto che ne curò
una nuova edizione, nel 1816, alla quale aggiunse
una lettera dai toni fortemente antinapoleonici.
L’autore finge che il romanzo sia composto da lettere scritte dal protagonista all’amico Lorenzo Alderani, che le pubblica dopo il suicidio di Jacopo. La scelta della struttura epistolare conferisce al protagonista il massimo rilievo: non ci sono altre voci al di fuori di Jacopo e il destinatario delle sue lettere, che ha
solo una funzione di «spalla», interviene esclusiva-
mente per rendere comprensibili alcuni salti nel racconto. Questa soluzione dà largo spazio alla riflessione del protagonista. Al centro del racconto sta Jacopo, non la narrazione degli eventi, che siano privati
o storici. Il romanzo presuppone una concezione del
racconto inteso unicamente come vicenda e analisi di un individuo eccezionale: il riflesso che gli
eventi storici hanno su di lui è più importante della
storia stessa.
Temi e soluzioni narrative I temi fondamentali
del romanzo sono l’amor di patria e l’amore per
Teresa. Entrambi sono amori infelici e, in quanto tali, si inscrivono nella più ampia tematica dell’intera
opera foscoliana. Jacopo è un eroe isolato, che vive in
conflitto con la realtà nella persuasione che tutto è
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illusione tranne la morte. Egli si dibatte entro questa
condizione esistenziale di pessimismo che, però, non
si traduce in passività: Jacopo sente fortemente i valori della bellezza, polemizza con la mediocrità e il
perbenismo borghese, vive l’esaltazione dei forti sentimenti, la grandezza dell’infelicità; ma proprio per
l’eccezionalità del suo animo non può accettare i
compromessi che aiutano a vivere e deve di necessità
giungere al suicidio. Le soluzioni narrative si accordano efficacemente con questa tematica poiché la
scansione del romanzo in lettere dà spazio a stati d’animo diversi e a volte contrapposti: l’esaltazione per
un momento di illusione, la drammaticità della riflessione sui destini dell’Italia, la struggente nostalgia di un ricordo. Tutti questi moti dell’animo, questi
pensieri, sono racchiusi in una narrazione che fin
dalla prima pagina indica la morte come unica soluzione liberatoria per il protagonista.
Lingua e stile L’esperienza eccezionale di Jacopo
trova adeguata espressione in una prosa dai toni alti, caratterizzata da scelte lessicali che privilegiano
termini «forti», che appartengono prevalentemente
alla sfera del sentimento, anche se il discorso si riferisce ad un fatto politico. Non a caso Jacopo usa le
stesse parole per esprimere la passione politica e
quella amorosa, e sono parole che connotano la sua
vita interiore ai livelli dell’enfasi, dell’eccitazione, di
un sentire troppo forte per essere dominato dalla ragione. Alle stesse esigenze espressive risponde una
sintassi concitata e caratterizzata da continue variazioni di ritmo. Si tratta di un linguaggio lirico in prosa, di un modo di raccontare che procede a sobbalzi,
seguendo i moti alterni della commozione di Jacopo.
La trama La storia raccontata nel romanzo (diviso
in due parti) si svolge tra l’ottobre 1797 e il marzo
1799 ed è racchiusa in 62 lettere che il protagonista,
Jacopo Ortis, indirizza all’amico Lorenzo Alderani.
Nella prima parte Jacopo, studente veneziano di sentimenti democratici e repubblicani, dopo il trattato di
Campoformio è costretto ad abbandonare la patria e
a rifugiarsi sui Colli Euganei, dove conosce Teresa, figlia di un altro rifugiato e già promessa sposa a
Odoardo. Nasce così un amore ricambiato ma infelice, che Jacopo tenta inutilmente di soffocare fino a
quando la realtà non impone le sue leggi: il matrimonio tra Odoardo e Teresa, voluto per ragioni di interesse, è un impegno cui la fanciulla non può sottrarsi.
Comincia così la seconda parte del romanzo, occupata quasi interamente sia dal racconto del peregrinare di Jacopo e dalle riflessioni che i luoghi raggiunti e gli incontri sollecitano in lui, sia dall’espressione
delle due passioni che lo consumano, l’amore per la
patria e quello per Teresa. Il giovane torna infine a
Venezia per salutare la madre e l’amico Lorenzo e qui
rivede brevemente Teresa, già sposa. Si uccide la notte del 25 marzo con un pugnale, dopo aver affidato a
Lorenzo le sue ultime volontà, tra le quali la preghiera che il ritratto di Teresa sia sepolto con lui.
T2
Le prime pagine del romanzo
Ultime lettere
di Jacopo
Ortis, parte I
La finzione narrativa vuole che le lettere di Jacopo siano pubblicate dopo la sua morte dall’amico Lorenzo, al quale erano indirizzate; pertanto il romanzo si apre con le parole che Lorenzo rivolge al lettore
per spiegare le ragioni che lo inducono a far conoscere la storia infelice dell’amico. Seguono le prime
lettere di Jacopo, che annunciano la sua condizione di esule e di patriota deluso.
Al lettore
Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta
di spargere su la sua sepoltura1. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino2 stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.
Lorenzo Alderani.
1. che ora mi si vieta... sepoltura: anche Lorenzo è esule per ragioni politiche.
2. eglino: essi.
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Da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797.
Il sacrificio della patria nostra è consumato3: tutto è perduto; e la vita, seppure ne4
verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.
Il mio nome è nella lista di proscrizione5, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi
m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?6 Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica7, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu
mi fai raccapricciare8, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo,
noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua9 che può.
Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la
morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà
sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e
le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
13 ottobre.
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere10 più. Ho deliberato di non allontanarmi da
questi colli. È vero ch’io aveva11 promesso a mia madre di rifuggirmi12 in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore13: e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con l’esilio? Oh quanti de’ nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che potremmo aspettarci noi se non
se indigenza e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? In Italia? terra
prostituita premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro14
che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d’ira? Devastatori de’ popoli, si
servono della libertà come i Papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente disperando di
vendicarmi15 mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
E questi altri?16 – hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando17 con l’oro
quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. – Davvero ch’io somiglio un di que’ malavventurati18 che spacciati morti19 furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita20, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi ritorcela21 per sempre? e infamemente!
3. Il sacrificio... consumato: le trattative
di Campoformio si conclusero il 17 ottobre, ma la notizia della cessione di Venezia all’Austria era già nota.
4. ne: ci.
5. lista di proscrizione: l’elenco di coloro
che erano condannati all’esilio per la loro partecipazione alla nascita della Repubblica democratica veneziana.
6. mi commetta... tradito?: mi consegni
ai francesi, i traditori di Campoformio?
7. solitudine antica: il podere paterno sui
Colli Euganei.
8. Tu... raccapricciare: si finge che l’amico gli abbia inviato una lettera nella qua-
le dà notizia dei primi provvedimenti contro i patrioti. È un espediente che Foscolo
usa spesso, anche se le lettere di Lorenzo
non compaiono nel romanzo.
9. segua: accada.
10. non ribattere: si finge che Lorenzo insista perché Jacopo abbandoni i Colli Euganei per un più sicuro rifugio.
11. aveva: avevo; la forma «aveva» della
prima persona singolare dell’imperfetto
era consueta nella lingua del tempo.
12. rifuggirmi: rifugiarmi.
13. non... cuore: non ne ho avuto il coraggio; intende il coraggio di sopportare
il dolore di allontanarsi ancora di più dal-
la patria, anche se ciò comporta per lui
dei gravi rischi.
14. coloro: i francesi.
15. disperando di vendicarmi: poiché
non posso sperare di vendicarmi.
16. questi altri: gli austriaci.
17. racquistando: riconquistando.
18. Davvero... malavventurati: sono
proprio come uno di quegli sventurati.
19. spacciati morti: dati per morti.
20. disperati... vita: senza la speranza di
potere mai rivedere la dolce luce vitale.
21. ritorcela: riprendercela.
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480 Secondo Settecento
Analisideltesto
Biografia
e trasfigurazione letteraria
«Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto»: inizia con queste
accorate parole la lettera di apertura del
romanzo. Il giovane Jacopo, vinto dalle
lacrime della madre ha lasciato Venezia,
per sfuggire alle persecuzioni dei patrioti
e si è rifugiato sui Colli Euganei in una
proprietà di famiglia. Da lì, nonostante le
pressioni dell’amico Lorenzo, deciderà di
non muoversi, benché si tratti di un rifugio pericoloso. La prospettiva dell’esilio,
di una vita nella condizione di profugo, lo
spaventa più della morte.
Intanto, nella sua solitudine, Jacopo consuma la delusione per il tradimento dei
francesi, che prima hanno portato la libertà, e poi hanno svenduto Venezia agli
oppressori austriaci.
Nelle prime lettere emerge uno dei temi
dominanti del romanzo: l’amore per la
patria e il sacrificio dell’esilio. Nell’opera è ben riconoscibile un nucleo autobio-
grafico, in quanto lo stesso Foscolo dovette lasciare Venezia nel 1797, anche se,
a differenza di Jacopo, arruolandosi nell’esercito napoleonico, accettò una forma di compromesso.
Tener conto delle circostanze storiche,
oltre che delle vicende private che fanno
da sfondo al romanzo, è indispensabile in
quanto, fin dalle prime pagine, risulta
chiaro che ciò che è perduto non è solamente la libertà di Venezia, ma l’illusione
di una collaborazione tra intellettuali e
potere politico, che era sembrata possibile all’indomani della creazione delle Repubbliche italiane; da ciò deriva un’accentuazione della condizione di «sradicato» che caratterizza lo stesso autore.
La contaminazione tra vita e letteratura nell’Ortis, non deve però ingannarci. L’opera
non va letta come un’autobiografia del giovane Foscolo, anche se egli ha attinto largamente dalla propria esperienza personale, in quanto Jacopo è un personaggio
letterario, una creazione dell’autore.
Di fronte al disinganno di Campoformio,
Foscolo lascia Venezia per Bologna e qui
cerca qualche forma di inserimento; Jacopo vede come unica soluzione la morte, concepita, fin dalle prime pagine, non
solo come esito negativo, ma come forma di sopravvivenza nella memoria e di
possibile ritorno alle radici nella terra dei
padri.
Un linguaggio «eccitato»
Caratteristico di tutta l’opera, e già evidente nelle prime lettere, è lo stile enfatico, quasi oratorio. Si noti la presenza di
frasi brevi, secche, intervallate dal frequente ricorso alla punteggiatura, l’incalzare delle interrogazioni retoriche («Ma
dove cercherò asilo? In Italia?»), la presenza di antitesi* in funzione persuasiva
(«vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?»).
Più che della pagina di un romanzo sembra trattarsi del monologo di un eroe tragico.
lavoraresultesto
Comprensione
Analisi
Produzione
1. Perché Foscolo intitola il romanzo Le
1. Da quali elementi testuali risulta chiaro
che si tratta di un romanzo epistolare?
1. Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto: con queste parole
Jacopo annuncia il trattato di Campoformio. Per quali ragioni storiche lo definisce
sacrificio consumato?
2. Trascrivi le espressioni che a tuo parere caratterizzano, fin da queste prime pagine, il protagonista.
ultime lettere di Jacopo Ortis?
2. Chi è Lorenzo Alderani?
3. Quali sono gli elementi autobiografici
del romanzo?
Sintesi
1. Elenca gli argomenti con i quali Jacopo sostiene di non aver più ragioni per vivere.
T3
La bellezza e l’amore
Ultime lettere
di Jacopo
Ortis, parte I
Dopo l’incontro con Teresa, Jacopo cerca di soffocare l’amore che sta nascendo e per questo si trasferisce a Padova, dove rimane un mese sentendosi estraneo e indifferente a tutto. Torna da Teresa e decide di non tentare più di reprimere l’amore che sente per la fanciulla. Intanto Odoardo è assente per affari e Jacopo, che passa molto tempo con Teresa, ne ottiene un bacio che segna il momento culminante dell’esaltazione amorosa del giovane.
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26 ottobre.
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla1; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto2. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a
un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava3, mi diss’ella, che
voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina4 le
corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signore
T***5: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto6 di lui.
Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò.
Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto
lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi.
Io tornava a casa col cuore in festa. – Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad
addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori?7 vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente
in tempesta, non è tutt’uno?
14 maggio [1798], ore 11.
Sì, Lorenzo! – dianzi io meditai di tacertelo – or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa – d’un suo bacio – e le mie guance sono state innondate dalle lagrime di Teresa.
Mi ama – lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l’estasi di questo giorno di paradiso.
14 maggio, a sera.
O quante volte ho ripigliato la penna, e non ho potuto continuare: mi sento un po’
calmato e torno a scriverti. – Teresa giacea sotto il gelso – ma e che posso dirti che non
sia tutto racchiuso in queste parole: Vi amo? A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi
sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea
ch’egli si spalancasse per accoglierci! deh! a che18 non venne la morte? e l’ho invocata. Sì, ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave;
le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli
elementi e gli esseri esultavano nella gioja di due cuori ebbri di amore – ho baciata e ribaciata quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le
mie – ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per
afferrar le sue vesti – ma non ho ardito di rattenerla19, né richiamarla. La sua virtù –
e non tanto la sua virtù, quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io primo eccitata20 nel suo cuore innocente. Ed è rimorso – rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! – Me le sono accostato tremando. – Non posso essere vostra mai! – e pronunciò queste parole dal cuore profondo e con una occhiata con
1. la divina fanciulla: Teresa, figlia del signore T***, amico di Lorenzo Alderani.
2. miniando... ritratto: dipingendo la miniatura del suo ritratto; l’occupazione di
Teresa riflette una moda ed una consuetudine in voga tra le fanciulle aristocratiche.
3. non si sperava: non sperava.
4. Una ragazzina: Isabellina, sorella di
Teresa.
5. il signore T***: anche il padre di Teresa
è esule e pertanto la finzione del romanzo impone che non si riveli il suo nome.
6. sovvenuto: ricordato.
7. lo spettacolo... dolori?: la domanda introduce il tema della bellezza che ha la facoltà di rasserenare gli animi; un tema
che s’incontra più volte nell’opera foscoliana e appartiene alla cultura del tempo.
18. a che: perché.
19. non ho... rattenerla: non ho osato
trattenerla.
20. di averla... eccitata: di averle, per primo, suscitato questa passione.
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482 Secondo Settecento
cui parea rimproverarsi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi
guardò più; né io avea più cuore21 di dirle parola. Giunta alla ferriata22 del giardino mi
prese di mano la Isabellina e lasciandomi: Addio, diss’ella; e rivolgendosi dopo pochi
passi, – addio.
Io rimasi estatico: avrei baciate l’orme de’ suoi piedi: pendeva un suo braccio, e i suoi
capelli rilucenti al raggio della Luna svolazzavano mollemente: ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti che da lontano ancor biancheggiavano; e poiché l’ebbi perduta, tendeva l’orecchio sperando di udire la sua voce. – E partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all’astro di Venere: era anch’esso sparito.
15 maggio.
Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole23. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei
sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri24 fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più
gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno25 è tutto bellezza e armonia26. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano
dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con
le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese27: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà28, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice
condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza
del quale tutto sarebbe caos e morte29. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli
animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione
universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie
sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. –
O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti30: mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando31 sommovono l’erba, e allegrano i
fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi
veggo dinanzi le Ninfe32 ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse33 e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti
le Najadi34, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo35. – Or non è tutto
illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del
cielo36; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore del21. cuore: coraggio.
22. ferriata: cancello.
23. compassionevole: la compassione è il
segno della solidarietà tra gli uomini, la
virtù somma, l’unica capace di dare consolazione.
24. zefiri: venti primaverili; tutto il periodo è costruito con materiale della più
consueta tradizione lirica.
25. ingegno: mente, anima.
26. bellezza e armonia: armonia e bellezza sono inscindibili e l’amore le rivela.
27. O Amore... imprese: l’Amore, in
quanto ha rivelato l’armonia del mondo,
è padre delle arti e ha dato per primo al
mondo la poesia, l’unico nutrimento degli animi generosi che dalla propria solitudine fanno giungere fino alle generazioni future i loro canti che ispirano
grandi imprese. Sono qui sintetizzati due
concetti fondamentali del pensiero foscoliano: la poesia è espressione di armonia
e celebra i valori più alti dell’uomo.
28. Pietà: concetto non dissimile da quello di compassione.
29. piacere... morte: il piacere che è fonte
di vita per ogni essere vivente, senza il quale ci sarebbero solo il caos e la morte; Foscolo riprende questo concetto dalla filosofia
del Settecento ma lo ritrovava anche in un
poeta latino a lui molto caro, Lucrezio.
30. lago de’ cinque fonti: il luogo già descritto in una precedente lettera.
31. alitando: spirando dolcemente.
32. Ninfe: divinità dei boschi.
33. Muse: divinità protettrici delle arti e
della poesia.
34. Najadi: le ninfe delle fonti.
35. il filosofo: vale a dire, la ragione.
36. Beati gli antichi... del cielo: nella tradizione classica sono numerosi i miti che
riferiscono di unioni tra uomini e divinità.
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la divinità su le imperfezioni37 dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se
questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo
caccerò come un servo infedele.
37. imperfezioni: le divinità antiche erano antropomorfe, avevano sembianze umane.
Analisideltesto
La storia d’amore
L’esaltazione amorosa
La storia d’amore tra Jacopo e Teresa ha
uno sviluppo narrativo assai scarno: l’incontro, una gita ad Arquà, alcune ore passate assieme a leggere o a passeggiare, il
bacio, l’addio. La parte più cospicua è invece rappresentata da quello che Jacopo
scrive del suo amore: dalla confessione di
uno stato ora di esaltazione, ora di mesta
malinconia, ora di cupa disperazione. Con
Jacopo si affaccia nella nostra letteratura
l’amore che sconvolge, che occupa totalmente l’anima, che ha continuamente
bisogno di effondersi in lacrime, parole,
gesti irrazionali. Compare anche il tema del
dissidio tra sentimento e ragione come
una delle forme in cui si manifesta il contrasto tra individuo e società. Ma il tema amoroso offre soprattutto la possibilità di esprimere una individualità forte, una capacità
di sentire che trasporta ogni esperienza ad
un livello di assoluta eccezione.
Nelle pagine che abbiamo letto Jacopo
vive un momento di esaltazione; lo spettacolo della bellezza, unito alla grazia, è
sentito come conforto e oblio dalla vita
dolorosa. Compare qui Il tema della «bellezza serenatrice» che è uno dei miti della poesia foscoliana e che sarà sviluppato in particolare nelle Odi.
L’amore è teorizzato come forza positiva,
capace di mettere Jacopo in uno stato di
armonia con il mondo, ricomponendo
quella lacerazione con la realtà che si è
creata dopo il fallimento politico e la disillusione ideale. Dalla passione Jacopo
trae slancio e vitalità, dall’amore nascono
le arti e la poesia, si riaccendono le virtù e
benché l’amore, come le immagini mitologiche delle Ninfe, delle Muse, delle
Naiadi evocate dalla fantasia del poeta,
siano riconosciute come illusioni, senza
di esse il mondo sarebbe «caos e morte».
Le illusioni create dal sentimento, in
contrasto con ciò che grida il filosofo (la
ragione), altro non sono se non una via di
salvezza necessaria all’uomo, per rendere meno amara e crudele la vita, per
dare un senso a una realtà che appare altrimenti dominata unicamente dalla forza
e dalla ricerca dell’utile, da un meccanismo che travolge tutte le cose e piega
nell’indolente inattività la volontà degli
uomini. Il linguaggio appassionato con
il quale Jacopo si esprime segue le oscillazioni del suo animo e della sua mente,
ora abbandonandosi all’illusione, ora allontanandola come non vera. All’esaltazione che caratterizza la confessione e il
ricordo, si contrappone l’immagine tutta
letteraria di Teresa, che nei gesti, nei
comportamenti, nelle stesse virtù astratte della benevolenza e del pudore che
Jacopo le attribuisce, rimane un personaggio privo di spessore e di realismo.
lavoraresultesto
2. Perché Jacopo, nella lettera del 26 ot-
Comprensione
1. Considerando le prime due lettere, ricostruisci in ordine cronologico ciò che
avviene tra Jacopo e Teresa dal primo incontro al fatidico bacio.
tobre, definisce sé stesso un’anima perpetuamente in tempesta?
3. In che modo Jacopo vive la sua esperienza amorosa con Teresa?
Analisi
1. Sottolinea nel testo tutte le esclamazioni e le costruzioni interrogative.
2. trascrivi le espressioni più appassionate.
T4
Una riflessione senza speranza
Ultime lettere
di Jacopo
Ortis, parte II
Nelle sue peregrinazioni per l’Italia, Jacopo giunge a Ventimiglia, al confine con la Francia, dove, secondo le insistenze dell’amico e della madre, dovrebbe cercare un rifugio più sicuro. Invece, proprio qui, Jacopo decide di tornare e di morire nella sua patria. La lettera è divisa in due parti; nella prima, che non
riportiamo, Jacopo difende e giustifica la sua decisione di suicidarsi. Compare, anche se appena accennata, la tematica del sepolcro inteso come luogo della memoria della grandezza del passato e come stimolo per gli uomini del suo tempo.
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484 Secondo Settecento
Ventimiglia, 19 e 20 febbraio [1799].
Alfine eccomi in pace! – Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura1. Ho vagato per
queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi2; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati. – Là
giù è il Roja3, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle
Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V’è un ponte
presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho
spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell’Alpi altre Alpi di
neve4 che s’immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde – da quelle spalancate Alpi5 cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno
tutti i viventi.
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni6. Ove sono dunque i tuoi figli?7 Nulla ti manca se non la
forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma
che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando8 la libertà e la gloria degli avi, le quali
quanto più splendono tanto più scoprono9 la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà
forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce, sarem fatti simili
agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri, e vedremo i nostri
padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dall’antico letargo10.
Così grido quand’io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi
intorno io cerco, né trovo più la mia patria. – Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno
fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a’ destini11. Noi argomentiamo su gli
eventi di pochi secoli12: che sono eglino13 nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale, pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali
pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia14. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori vendetta; ma
la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre a’ mari e a’ deserti nuovi imperi da devasta-
1. Alfine... sepoltura: allude alle meditazioni espresse nella prima parte della lettera e alla decisione di morire.
2. bronchi: sterpi.
3. Roja: torrente che nasce sul col di Tenda e sfocia vicino a Ventimiglia.
4. imposte... neve: sovrastare le cime
(cervici) delle Alpi altre cime coperte di
neve.
5. spalancate Alpi: i burroni di cui ha appena detto.
6. sono... nazioni: ma sono ancor oggi valicati dall’avidità delle nazioni straniere.
7. Ove... figli?: è un primo interrogativo
che introduce il duro giudizio sulla igna-
via degli italiani, sulla loro incapacità di
reagire. Questa stessa domanda riecheggia nella canzone All’Italia di Leopardi,
che aveva in mente la pagina foscoliana.
8. memorando: ricordando.
9. quanto più... scoprono: quanto più esse (la libertà e la gloria degli antichi) risplendono, tanto più rendono evidente,
per contrasto, lo stato di sottomissione a
cui è sottoposta l’Italia.
10. i nostri... letargo: la grandezza del
nostro passato genera in noi superbia e
non ci stimola a ridestarci dalla ignavia.
11. Pare... destini: sembra che gli uomini siano artefici del loro destino, ma non
è così; le sciagure derivano da una legge
universale che li sovrasta e il genere umano ubbidisce ciecamente al destino e lo fa
con orgoglio perché non si rende conto di
questa sua condizione. È l’approdo a una
concezione pessimistica che lascia dietro
di sé le fiducie del pensiero settecentesco.
12. argomentiamo... secoli: noi ragioniamo sulla base degli eventi di pochi secoli.
13. eglino: essi.
14. L’universo si controbilancia: basta
allargare la prospettiva da cui si guarda
per rendersi conto che i grandi eventi si
controbilanciano secondo un equilibrio
di azioni e di reazioni.
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re, manomettevano gl’Iddii de’ vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi15, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri, li ritorceano contro le proprie viscere16. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi
strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda17.
Così Alessandro rovesciò l’impero di Babilonia18, e dopo avere passando arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse un altro universo. Così gli Spartani tre
volte smantellarono Messene19 e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur
Greci erano e della stessa religione e nipoti de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli
antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli
la regina del mondo divenne preda de’ Cesari, de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali,
e de’ Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America20, oh quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un
dì vendicato e si rovescerà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età21.
Oggi sono tiranne, per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano
dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una
foresta di belve. La fame, i diluvj, e la peste sono ne’ provvedimenti della Natura come
la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla
sicurezza di chi comanda, e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma
potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola22 del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia
a sé stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un’altra forza non la
distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici23, e sovente come malfattori, decapitati: che se
poi vengono patrocinati24 dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che in somma
non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni i quali dal
loro orgoglio e dalla stupidità de’ volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e
sono cieche ruote dell’oriuolo25. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de’ loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l’umana schiatta26 non trova né felicità né giustizia gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de’ conquistatori; e opprimono le
genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare27.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli o sventurati; in
noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu, o Compassione28, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje29.
15. quando i Romani... liberissimi: Foscolo, qui e in altre pagine, manifesta una
concezione negativa dell’imperialismo romano.
16. li ritorceano... viscere: qui si allude
alle guerre civili di Roma.
17. Così... Giuda: gli Israeliti hanno occupato con la violenza la Palestina e a loro volta sono stati conquistati con la violenza dai Babilonesi.
18. Alessandro... Babilonia: Alessandro
Magno, che spinse le sue conquiste fino a
Babilonia.
19. Spartani... Messene: fa riferimento
alla lunga guerra condotta dai Dori contro la Messenia.
20. Oh... America: allude alle stragi dei
«conquistadores» in Messico e in Perù.
21. hanno le loro età: hanno i momenti
di vittoria e quelli di sconfitta.
22. invola: ruba.
23. frenetici: pazzi.
24. patrocinati: favoriti.
25. cieche... oriuolo: ingranaggi di un
meccanismo che è governato non da loro
ma dal destino.
26. umana schiatta: la stirpe umana.
27. gli Dei... regnare: anche la religione
viene usata come strumento di potere.
28. Compassione: è il sentimento di solidarietà che può unire gli uomini nella consapevolezza della comune infelicità [cfr.
anche nota 23, p. 482]. Dalla compassione nasce la pietà per il vinto, per i morti, e
su essa si fonda una civile convivenza.
29. usuraje: interessate.
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Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure dell’umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu
ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la
morte: qui cadrai forse, e niuno30 avrà compassione di te; e tu senti pure nel suo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal
Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui –
va, prostrati; ma all’are domestiche31.
O Natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano?32 Ma se tu ci hai
dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle sue infermità33 ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo
dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle34.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai
troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento35 io forse i disastri, le infermità,
e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre36, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel
dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro
posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o mie selve, udirete il
mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le
passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di
quella celeste fanciulla37 ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e
il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.
30. niuno: nessuno.
31. non t’ascolta... all’are domestiche:
poiché il cielo non ascolta, non essendoci
per Jacopo il conforto della religione, l’ultima speranza è la religione degli affetti
familiari.
32. a che vivano?: per quale scopo vivano, quale senso o utilità abbia la loro esistenza.
33. sì che... infermità: in modo che l’uomo non soccomba sotto il peso delle sue
debolezze e dei suoi dolori.
34. ristorarle: sanarle.
35. presento: presagisco, prevedo.
36. sacre terre: Venezia per Jacopo, Zante per Ugo.
37. celeste fanciulla: Teresa.
Analisideltesto
Il pessimismo di Jacopo
La lettera si apre con la lunga descrizione
di un paesaggio aspro e lugubre: sterpi,
rocce e croci in cui si proietta, secondo la
sensibilità romantica, lo stato d’animo
del protagonista.
Alla descrizione fa seguito una meditazione filosofico-politica sul destino dell’Italia, sul meccanismo di forza e violenza che domina la storia delle nazioni, riducendo la Terra a «una foresta di belve»,
sull’inutilità di ciò che chiamiamo virtù,
sulla creazione di eroi e capipopolo che
credono di aver raggiunto il potere per i
propri meriti, mentre sono anch’essi strumenti di un cieco ingranaggio.
A queste desolanti considerazioni fa da
spettatrice una Natura malvagia, che,
interrogata dal protagonista sul senso
della vita, non risponde.
La requisitoria contro l’ottimismo illuministico termina con la speranza della
morte, intesa ancora una volta come possibilità di sopravvivere nel ricordo dei vivi: gli amici, compagni di sventura, e la
donna amata.
«Le passioni vivono dopo il sepolcro»: è
questo ciò che resta, l’ultima illusione che
si contrappone all’annullamento totale,
alla distruzione di tutte le cose: il ricordo
del defunto sopravvive solo nella memoria dei vivi.
La prospettiva dalla quale Jacopo ragiona è sempre quella di un estremo individualismo, che tra l’altro permette all’autore di mettere insieme tanti pensieri senza che questi si dispongano necessariamente secondo uno sviluppo logico coerente. Eppure il carattere di questa lettera è soprattutto filosofico, e ciò si riflette
anche in una maggiore pacatezza di linguaggio.
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conforto possibile in cui cercare rifugio.
Quale?
Comprensione
Analisi
ra virtù? in noi pochi deboli o sventurati... Quale tema viene riproposto in questo passaggio delle riflessioni di Jacopo?
1. Ricostruisci le argomentazioni intro-
Produzione
1. Una delle conseguenze che Jacopo
trae dalla sua concezione pessimistica
della storia è l’impossibilità della virtù.
Una sola virtù è ancora possibile per gli
uomini. Quale?
2. La fuga da una realtà tanto crudele è
inutile, perché ogni luogo è dominato dalla violenza delle stesse leggi. C’è un unico
2. Lorenzo, sai tu dove vive ancora la ve-
dotte da Jacopo per dimostrare che la
storia delle nazioni e quella degli uomini
sono dominate dalla forza e dalla sopraffazione.
1. Indica in un breve testo in che modo le
riflessioni di Jacopo uniscono il dato personale al giudizio storico-politico.
POESIE
Composizione Con il titolo Poesie Foscolo pubblicava nel 1803 una piccola raccolta formata da
due odi* (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, già
pubblicata nel 1800, e All’amica risanata) e dodici
sonetti*, tre dei quali, quelli definiti «maggiori», fino
a quel momento inediti. Nei testi della raccolta compaiono caratteri di forte originalità e trova realizzazione una poesia che riassume in sé il mirabile e il
passionato [s p. 474], vale a dire l’idea di poesia
che lo scrittore aveva elaborato in quegli anni. La
pubblicazione venne curata dallo stesso autore, che
con questa edizione dei suoi versi intese, secondo le
sue parole, «rifiutare tutti gli altri da me per vanità
giovanile già divolgati».
Struttura e temi Incontrando, dopo aver letto
l’Ortis, questi testi, e in particolare i sonetti «maggiori»che qui antologizziamo, si rimane innanzitutto colpiti dalla diversità con cui gli stessi temi del romanzo si realizzano in poesia. L’amore infelice, la
delusione di fronte a un presente che spegne ogni
speranza di grandezza, l’esilio, la nostalgia della patria e degli affetti, l’esaltazione della bellezza e della
poesia sono alcuni dei temi comuni all’Ortis e ai sonetti, ma in questi ultimi invece di essere declamati
con l’enfasi del romanzo, sono distanziati in una
contemplazione che li riconduce entro un atteggiamento di riflessione. La voce che parla nei sonetti
non riproduce più il lamento, le lacrime, lo sdegno,
la disperazione di Jacopo; esprime piuttosto la dolo-
rosa constatazione che quegli stessi mali appartengono al destino dell’uomo. Ciò non rende
meno incisivo il carattere autobiografico dei sonetti rispetto all’Ortis, piuttosto lo approfondisce, facendone la condizione esistenziale che conferisce
verità alla riflessione. In questo modo Foscolo introduce contenuti impegnativi, mostrando di considerare la poesia una voce alta, un’espressione che investe la vita più intima dell’autore ed è pertanto legata alla verità e all’autenticità dei grandi temi.
Lingua e stile Lo scrittore sente la necessità di
staccarsi dalla tradizione di una poesia costruita secondo ritmi armoniosi, melodie facili e cantabili, per
recuperare invece al ritmo* la funzione espressiva di
potenziamento e creazione di significati. Si tratta di
una poesia percorsa da forti tensioni formali. Il ritmo
supera sistematicamente la misura del verso con frequentissimi enjambement*; l’andamento stesso dell’endecasillabo* trova soluzioni diverse e insolite nella successione degli accenti; la sintassi è complessa e
ha andamenti assai vari.
L’altro carattere che si impone all’attenzione del lettore è l’uso delle immagini. Foscolo le ritiene una
componente essenziale del linguaggio poetico: nelle sue poesie le immagini sono solitamente isolate,
poste in forte rilievo, poiché tendono ad assumere
significati simbolici e a presentarsi come nuovi miti
carichi di significato, così come lo erano i miti dell’antichità.
T5
Alla sera
Poesie,
Sonetti, I
Scritto negli ultimi mesi del 1802, il sonetto riprende un tema caro alla tradizione della poesia lirica: l’invocazione del sonno che porta oblio e pace. Negli anni in cui Foscolo scriveva questi versi, erano di mo-
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da i temi notturni introdotti dai poeti inglesi, che furono accolti con successo anche in Italia, ma il nostro
autore, più che alle suggestioni di questa poesia, sembra attingere alla memoria dei poeti latini e di quelli italiani del Cinquecento.
Metro: sonetto con rime che seguono lo schema ABAB, ABAB; CDC, DCD.
4
Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
8
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
11
Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
14
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
1-2. Forse... immago: forse perché tu sei
l’immagine della pace che ci è destinata
dal fato, cioè la morte; l’uso di quïete per
dire morte è di derivazione classica.
3-8. E quando... tieni: sia quando ti accompagnano come in un corteo festoso
(ti corteggian liete) le nubi estive e le brezze di una giornata serena, sia quando
conduci sulla terra (all’universo meni) dal
cielo nevoso notti lunghe che danno inquietudini e timore, sempre giungi da me
invocata e occupi (o percorri) dolcemente le vie più intime del mio cuore. I versi
riecheggiano immagini del poeta latino
Virgilio: «Insomma, cosa porti il tardo vespero, di dove il vento sospinga le nubi del
bel tempo, cosa prepari l’Austro piovoso»
(Georgiche, I, 461-462). Innumerevoli le
memorie poetiche sulle quali nascono le
altre immagini; ad esempio l’invocazione
alla notte, il motivo delle lunghe notti che
la sera porta agli uomini dall’universo.
9-10. Vagar... eterno: mi fai andare col
pensiero verso la strada (orme) che conduce alla meditazione sul nulla eterno.
10-12. e intanto... si strugge: e intanto
trascorre questo tempo malvagio, colpevole (reo) di darmi il dolore in cui vivo, e
insieme a lui si allontanano, passano, i
molti e affannosi pensieri (le torme delle
cure) in mezzo ai quali (onde) esso (il tempo) si consuma (si strugge) insieme con
me. Foscolo intende dire che il tempo,
scorrendo, consuma sé stesso e contemporaneamente gli affanni del poeta, con i
quali lo affligge distruggendo la sua vita;
per il fatto che il tempo è portatore di affanni, il poeta lo definisce colpevole.
13-14. e mentre... rugge: e mentre contemplo la tua pace, o sera, si acquieta
quello spirito travagliato dalle passioni
che mi ruggisce dentro.
Analisideltesto
La sera come immagine
della morte
Nella prima parte del sonetto si annuncia
il tema della morte, identificata nella sera, che il poeta descrive in due differenti
momenti stagionali. Nella seconda parte
il poeta chiarisce perché la sera, in quanto immagine della morte, gli sia cara e
quasi invocata. La morte rappresenta infatti l’annullamento dei conflitti interiori,
il superamento delle sofferenze («le torme delle cure»). Essa è intesa, secondo
la concezione materialistica della vita,
come approdo al «nulla eterno», come
raggiungimento di una pace interiore in
cui finalmente si placa «quello spirto
guerrier ch’entro mi rugge». Il tema della
sera, che racchiude in sé quello del fluire del tempo verso la morte, non è certo nuovo nella nostra tradizione letteraria; tuttavia Foscolo ne dà una interpretazione inedita, soprattutto perché l’invocazione alla sera come immagine della morte che si conclude con una esplicita dichiarazione di materialismo, annulla la possibilità di vedere nella sera il
momento dell’oblio, della consolazione
che nasce da una temporanea sospensione degli affanni, vale a dire i sentimenti che più solitamente erano espressi dal tema. Inoltre sono del tutto assenti la nostalgia, la meditazione sulla vanità
delle cose umane che accompagnavano
tradizionalmente l’immagine dello scorrere del tempo.
L’andamento ritmico
e le scelte lessicali
Il sonetto presenta una struttura formale
armonica organizzata in due blocchi
tematici e sintattici, conclusi dal punto, che corrispondono alle due quartine* e alle due terzine*. La sintassi e l’uso frequente degli enjambements* (ben
nove) creano un andamento ritmico ampio, che tende a dominare i contenuti
drammatici del testo. Il lessico* è caratterizzato dalla ricerca dell’espressione
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sintetica che fissa nell’immagine, nell’aggettivo, un contenuto di pensiero e
di esperienza. Ad esempio «fatal quïete», «inquïete tenebre», «reo tempo», so-
no qualificazioni assolute di una condizione di vita che Foscolo presenta come
immutabile, vista appunto nella prospettiva del nulla eterno. Elaborata anche la
tessitura dei suoni: si noti ad esempio la
ripetizione della lettera «r» (allitterazione*), che richiama la tormentata interiorità del poeta.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Perché Foscolo definisce reo il tempo
in cui vive? A quale contesto storico si riferisce?
Analisi
1. Nei versi 1-2 il poeta definisce la sera
fatal quïete. Di che figura retorica si tratta?
2. I temi principali del sonetto, la pace
della sera e il tormento interiore, sono
sottolineati anche dagli effetti fonici delle
parole. Verifica quali vocali prevalgono
nelle prime due quartine, quali consonanti nelle due terzine, e che effetto producono.
Produzione
1. Il sonetto si chiude con un verso nel
quale la ripetizione della lettera r vuole
sottolineare il significato del verso stesso.
Commenta brevemente.
GUIDAall’Analisideltesto
T6
A Zacinto
Poesie,
Sonetti, IX
Composto tra l’agosto del 1802 e i primi mesi del 1803, il sonetto è dedicato a Zacinto, l’isola natale
da cui il poeta si sente diviso per sempre. Ma la celebrazione della terra natìa è per Foscolo un punto
d’incontro di molte esperienze: gli affetti, l’esilio, il rapporto con la cultura classica vissuto come parte significativa della propria vita, come eredità che lo aiuta a vivere e a capire il presente. Compaiono
anche qui le immagini del sepolcro e appare, inoltre, il mito di Ulisse, personaggio che in Foscolo è
assunto come mito per eccellenza della condizione dell’esule.
Metro: sonetto con rime che seguono lo schema ABAB, ABAB; CDE, CED.
1-11. Né più mai... Ulisse: il lungo periodo va così ricostruito e inteso: Non toccherò mai più le tue sacre rive dove il mio
corpo, nell’infanzia, riposò in culla, o mia
Zacinto (oggi Zante), che ti specchi nelle
onde del mare greco nel quale nacque
giovinetta (vergine) Venere, che rendeva
fertili quelle isole col suo primo sorriso,
per cui (onde) celebrò (non tacque) il tuo
cielo (limpide nubi) e la tua natura verde (le
tue fronde) l’illustre poesia (inclito verso) di
colui (Omero) che cantò le peregrinazioni
per mare volute dal destino (acque... fatali),
e l’errare in luoghi diversi (diverso esiglio)
grazie al quale Ulisse, reso illustre dalla fama e dalla sventura (bello di fama e di sventura), giunse a baciare la sua Itaca petrosa.
Secondo il mito Venere nacque dalla spuma del Mar Ionio e successivamente fu sospinta da Zefiro verso Cipro. Omero è qui
indicato come autore dell’Odissea e quindi
come il poeta che ha cantato il lungo viaggio, contrastato dagli dèi, di Ulisse verso la
sua patria, l’isola di Itaca. L’aggettivo diverso (v. 9) è un latinismo col significato di
«sospinto or qua or là»; l’espressione si
trova anche in Virgilio (Eneide, III, 4), ed è
1
2
3
4
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
5
6
7
8
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
9
10
11
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
12
13
14
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
pronunciata da Enea: «diversa exsilia». Il
gesto di Ulisse che bacia la sua terra è nell’Odissea (XIII, 353-354): «Allora gioì
Odisseo costante, glorioso / salutando la
patria, baciò le zolle dono di biade». An-
che Omero chiama Itaca «irta di sassi».
12-14. Tu non altro... illacrimata sepoltura: tu, o terra che mi sei madre, avrai
soltanto il canto del tuo figlio; a me il fato
ha destinato una sepoltura senza lacrime.
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490 Secondo Settecento
L’analisi verrà condotta seguendo questo schema:
1. Comprensione del testo
a. Lessico
2. Aspetti principali del testo
a. Metro, ritmo, suono
b. Il ruolo ritmico-espressivo della sintassi
3. Approfondimenti
a. Il tema dell’esilio
b. L’eroe infelice
1. Comprensione del testo
a. Lessico
Focalizziamo l’attenzione su alcune parole o espressioni che hanno un rilievo particolare nel testo:
v1. Né più mai: la triplice negazione, superflua dal punto di vista logico, ha un forte valore espressivo; infatti:
la ripetizione rende più intensa la negazione;
la negazione iniziale Né sembra la ripresa di un discorso precedente che continua, ma che è taciuto al
lettore;
● più mai, che non vanno lette come semplice inversione di «mai più» ma come due negazioni autonome:
esprimono prima l’allontanamento, la nostalgia di un
passato che non tornerà (più) e poi la consapevolezza
ineluttabile del distacco definitivo (mai).
●
●
v1. toccherò: il verbo introduce il tema della terra natale in termini di una forte affettività che si esprime simbolicamente nel desiderio di un contatto fisico con la
terra madre.
v1. sacre sponde: la patria lontana, prima di comparire
nel testo col nome proprio, è chiamata sacre sponde:
sacre come anticipazione del mito di Venere nata in
quel mare, ma anche come sottolineatura affettiva;
● sponde perché si tratta di un’isola, ed è importante
che ciò venga detto subito poiché l’impossibile ritorno
in patria del poeta deve essere legato al ritorno di Ulisse nella sua patria, l’isola di Itaca. Inoltre il termine
sponde annuncia il motivo del mare, un elemento decisivo nella geografia mitica del sonetto.
●
v2. il mio corpo... giacque: il verbo «giacere» evoca diversi significati; da una parte il giacere del corpo rimanda al una condizione di morte, dall’altra anche il bimbo
nelle braccia della madre «giace» e il contesto della poesia comprende l’idea della terra madre che ha accolto
l’infante ma non accoglierà le spoglie del poeta.
v7. limpide nubi: l’aggettivo suggerisce la trasposizione di un attributo proprio dell’acqua al cielo sereno di
Zacinto.
vv8-9. acque... fatali... diverso esiglio: l’aggettivo fatali racchiude l’interpretazione della figura di Ulisse ramingo per l’opposizione del fato; diverso esiglio ricorda, come abbiamo segnalato in nota, un verso virgiliano pronunciato da un altro esule famoso, Enea, che ha
dovuto fuggire da Troia.
v10. bello di fama e di sventura: le due determinazioni (di fama e di sventura ) con valore causale, uniscono
strettamente i concetti di fama e di sventura, entrambe
portatrici di bellezza. Questi significati si iscrivono nel
tema caro a Foscolo dell’eroe infelice.
Segnaliamo infine alcuni termini che appartengono
alla tradizione alta del linguaggio lirico come l’aggettivo inclito (inclito verso v. 8); «cantare» nel significato di
«far poesia» (cantò v. 9 e canto v. 12), e prescrisse (al
v. 13) nel significato di «impose».
2. Aspetti principali del testo
a. Metro, ritmo, suono
L’invenzione fondamentale di questo sonetto sta nella
forte tensione che Foscolo crea tra metro e ritmo vale
a dire in una costruzione nella quale il ritmo creato dalla
sintassi non coincide con le misure del verso e delle
strofe. Il dato più vistoso è la scansione in due periodi
assai diseguali, il primo che comprende i vv. 1-11, il secondo i vv. 12-14. È una scelta che non solo contrasta
con la regolarità e la tradizione del sonetto ma che va oltre; infatti Foscolo non tiene conto della naturale divisione in due momenti segnati dal passaggio dalle quartine
alle terzine ma preferisce una struttura assai differente
ed audace che si fonda su un lunghissimo crescendo
rispetto al quale la terzina finale risulta isolata. Le due
parti, in relazione alla diversità dei temi, hanno anche un
andamento ritmico del tutto differente.
I primi 11 versi sono caratterizzati da un continuo rinnovarsi della spinta dinamica che accompagna lo sviluppo tematico; di conseguenza le misure metriche del
verso sono sempre travalicate dagli enjambements*. In
parallelo il ritmo dei versi tende ad assumere misure
assai ampie costruite su alcune pause poste all’inizio
dei versi 3, 5, 9 («Zacinto mia», «Venere», «cantò fatali»), dopo le quali ogni volta il ritmo cresce e aumenta
la cadenza. Il lunghissimo periodo ritmico-sintattico
culmina nell’affermazione del verso 11 («baciò la sua
petrosa Itaca Ulisse») che ha un forte carattere conclusivo sia per l’enjambement che mette in rilievo il predicato («baciò»), sia per la posizione del soggetto stesso
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(«Ulisse»), che giunge dopo l’aspettazione creata dal
verso precedente («bello di fama e di sventura», v. 10).
Nella seconda sequenza (vv. 12-14) infine, la tensione ritmica si scioglie, per lasciare spazio all’apostrofe
rivolta a Zacinto, la terra perduta d’origine: l’invocazione «o materna mia terra» (v. 13) divide in due tempi ritmici, ognuno concluso in sé, le due affermazioni. Questo deciso mutamento ritmico ha la funzione di rendere ineluttabile e definitiva la conclusione.
b. Il ruolo ritmico-espressivo della sintassi
Un elemento decisivo del ritmo, oltre che della costruzione del significato, è l’organizzazione sintattica; i primi 11 versi sono occupati da un solo lungo periodo che,
escludendo ogni premessa, imbocca decisamente il tono solenne. La recisa negazione iniziale, seguita dall’invocazione, costituisce la proposizione principale, dopo
la quale il periodo si snoda attraverso una serie di nessi
prevalentemente relativi (v. 2 «ove», v. 3 «che», v. 5 «e»,
v. 6 «onde», v. 8 «di colui che», v. 10 «per cui») che legano strettamente le dipendenti fra loro. Il rapporto sintattico di subordinazione determina uno sviluppo nel quale ogni successiva dilatazione del discorso nasce dall’affermazione precedente, in modo da creare una spirale logica che delude ogni volta l’aspettativa del lettore di una conclusione. L’effetto di tensione, di sospensione e di attesa creato da questa organizzazione del
periodo è cercato anche entro le singole proposizioni,
con la posposizione del soggetto e delle vocazioni: «Né
più mai toccherò... Zacinto mia» (vv. 1-3); «vergine nacque / Venere» (vv. 4-5); «non tacque... l’inclito verso» (vv.
6-8); «baciò la sua petrosa Itaca Ulisse» (v. 11).
Del tutto diversa la sintassi dell’ultima terzina, che allinea due affermazioni che devono suonare ineluttabili,
come prosciugate nella forma di responsi, di sentenze
stabilite dal fato. Ma con la terzina finale Foscolo intende anche ritornare ai primi versi e chiudere così il componimento entro una struttura circolare. Riprende
quindi il tema da cui è partito, e cioè l’impossibile ultimo ritorno a Zacinto, costruendo contemporaneamente una trama di parallelismi che legano, anche a livello
di forma, i primi con gli ultimi versi: l’attacco affidato ai
suoni monchi di monosillabi o bisillabi («Né più mai», v.
1; «Tu non altro», v. 12), l’uso del futuro («toccherò», v.
1; «avrai», v. 12), la ripetizione della vocazione («Zacinto mia», v. 3; «o materna mia terra», v. 13), e lo stesso
cambio del pronome, dall’io che domina i primi due
versi al «Tu» che apre il v. 12.
3. Approfondimenti
a. Il tema dell’esilio
Il tema dell’esilio e della sepoltura in terra straniera, che
percorre l’intera opera foscoliana, in questo sonetto si
sviluppa attraverso una successione di rievocazioni del
mondo classico. L’insieme di riferimenti mitologici,
però, non ha un significato ornamentale, come in altri
componimenti neoclassici, ma si lega al vissuto del
poeta: lo rivelano i vv. 9-11, nei quali si stabiliscono i
rapporti di somiglianza e differenza tra Zacinto-Itaca,
Foscolo-Ulisse, Foscolo-Omero.
La figura di Ulisse, l’eroe classico, sta al centro delle
evocazioni del sonetto e viene interpretato come eroe
dell’esilio che ha concluso la sua parabola nel momento in cui è riuscito a tornare a Itaca. L’equivalenza tra Ulisse e il poeta diventa esplicita, sotto forma di opposizione, nella terzina finale: «Tu non altro che il canto avrai del
figlio». Foscolo, l’eroe romantico, non potrà rivedere la
sua patria, Zacinto, poiché l’esperienza dell’esilio che
accomuna i due protagonisti, non ha lo stesso esito: nel
primo caso il fato concede a Ulisse il ritorno, nel secondo lo nega. Omero potrà quindi cantare il ritorno di Ulisse, mentre a Foscolo, cantore del non-ritorno, non resterà che il canto, cioè la poesia, a sostituire e risarcire il
mancato ricongiungimento con la «materna... terra».
b. L’eroe infelice
Nel tema del destino avverso, così come in quello dell’eroe esule ed errante, possiamo rintracciare la condizione del personaggio romantico in lotta contro il
mondo, contro una società che non corrisponde agli
ideali e alle aspirazioni dell’io. Dalla sofferenza, dalla
lotta contro il destino avverso, l’eroe antico traeva anche la sua superiorità rispetto all’uomo comune; Ulisse baciava la sua terra «bello di fama e di sventura»;
Foscolo solo dalla poesia può trarre la consolazione di
un parziale ricongiungimento con la patria.
T7
In morte del fratello Giovanni
Poesie,
Sonetti, X
Il sonetto, composto tra il 1802 e il giugno del 1803, è dedicato alla memoria del fratello Giovanni Dionigi, morto a Venezia l’8 dicembre del 1801. Anch’egli arruolato nell’esercito della Cisalpina, forse si era
ucciso per debiti di gioco, oppure, come ebbe a scrivere lo stesso Foscolo in una lettera al poeta Vin-
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cenzo Monti, «morì d’una malinconia lenta, ostinata, che non lo lasciò né mangiare né parlare per quarantasei giorni». Il sonetto, che più di ogni altro testo poetico foscoliano è legato all’esperienza biografica dell’autore, è anche quello più ricco di reminiscenze letterarie, a partire dalla stessa genesi del componimento. Nato certo in relazione all’evento tragico che ha colpito il poeta, esso riflette, però, anche la
suggestione della lettura di tre elegie scritte dal poeta latino Catullo (I sec. a.C.) in memoria del fratello
morto, e delle quali Foscolo parla in un’opera di traduzione che appartiene a quegli stessi anni. I versi
foscoliani riecheggiano, comunque, anche altri poeti, fra i quali Virgilio e Petrarca.
Metro: sonetto con rime che seguono lo schema ABAB, ABAB; CDC, DCD.
4
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
8
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e se da lunge i miei tetti saluto,
11
sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quïete.
14
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
1-4. Un dì... caduto: un giorno, se io non
andrò sempre esule di popolo in popolo,
mi vedrai seduto sulla tua tomba, o fratello mio, a piangere la tua giovinezza
(gentili anni) troncata. Un poeta latino del
I secolo a.C., Tibullo, suggerisce a Foscolo il gesto del sedersi sulla tomba del fratello: «fuggirò alla tua tomba e sederò
supplice», mentre la metafora del fiore reciso, per alludere alla morte in giovane
età, si legge nell’Eneide di Virgilio (IX,
435-436): «così il fiore che l’aratro ha tagliato languisce morendo», ma è presente anche in Tibullo e poi in Petrarca.
5-6. La Madre... muto: ora la madre, alla
quale non resta che trascinare il peso della sua vecchiaia (or sol suo dì tardo traendo), parla di me con le tue spoglie mute.
Nella poesia di Catullo di cui Foscolo parla (carme CI) si legge: «Per molte genti e
per molti mari condotto, sono giunto, o
fratello, a questo triste rito, perché ti dessi
il dono estremo dovuto alla morte e parlassi, inutilmente, alla tua cenere muta».
7-8. ma io... saluto: ma io tendo invano
le mani (deluse... palme) verso di voi e se
da lontano saluto la mia patria. Tetti, che
indica i luoghi, cioè Venezia, dove si trova la madre, è una sineddoche* (in questo caso la parte, i tetti, indica il tutto, la
città di Venezia). Ancora una reminiscenza virgiliana, quella dell’estremo gesto
con cui nelle Georgiche (IV, 498) Euridice
saluta Orfeo che l’ha persa per sempre: «e
tendo verso di te – ahi non più tua – le mani senza forza», un gesto rituale che ripe-
te anche Anchise quando nell’Eneide (VI,
685) vede il figlio Enea giunto negli Inferi: «protese vivacemente ambedue le palme».
9-11. sento... quïete: sento le avversità
del destino e gli intimi travagli (cure è un
latinismo) che tormentarono la tua vita,
e invoco anch’io la pace nel tuo stesso
porto, cioè la morte.
12. Questo... resta!: questo soltanto oggi
mi resta di tanta speranza! Eco del verso
petrarchesco «questo m’avanza di cotanta spene» (Canzoniere, CCLXVIII, 32).
13-14. Straniere... mesta: o genti straniere, quando ciò avverrà, rendete almeno il mio corpo al petto della madre dolente.
Analisideltesto
Il tema autobiografico
La prima quartina del sonetto introduce i
temi dominanti: il tema dell’esilio e quello della morte, collegati fra loro dalla rima
tra i gerundi («fuggendo»,«gemendo»).
La presenza ripetuta di pronomi personali e aggettivi possessivi mette in risalto i
due protagonisti: l’«io» del poeta, che domina i primi versi e l’immagine del fratello, del quale si piange la prematura scomparsa.
Nella seconda quartina un terzo personaggio, la madre, si pone come elemento di unione tra i due. È l’immagine di una
donna sola e stanca che riunisce nella
sua figura gli affetti e le memorie della famiglia, al di là dell’esilio e della morte.
Nella prima terzina la personale vicenda
di sradicamento, di eroe senza patria,
tormentato da un destino avverso si ricollega nuovamente a quella del fratello de-
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funto, realizzando quasi una compenetrazione tra i due destini, sottolineata, ancora una volta, dalle frequenti ripetizioni
di pronomi personali e aggettivi possessivi: «viver tuo», «anch’io», «tuo porto».
Il componimento si chiude con l’immagine della madre addolorata, alla quale il
poeta spera siano restituite almeno le ossa. Il ritorno in patria, impossibile in vita,
si potrà attuare nella morte, intesa come
approdo alla pace, a un porto di quiete,
dopo gli affanni della vita.
La memoria letteraria
Un elemento caratterizzante del sonetto è
la presenza di molte reminiscenze lette-
rarie, vere e proprie citazioni di poeti latini. In primo luogo un carme del poeta latino Catullo (vissuto nel I sec. a.C.), nel quale il poeta si rivolge al fratello morto e gli dice che dopo aver a lungo vagato per terra
e per mare, è giunto alla sua tomba per
compiere il rito della pietà dovuto ai defunti. Nei versi latini compaiono espressioni
che Foscolo riprende con puntualità, ad
esempio: «per molte genti e per molti mari condotto, son giunto, o fratello, a questo triste rito, perché ti dessi il dono estremo dovuto alla morte e parlassi, inutilmente, alla tua cenere muta». Anche la
metafora* del fiore reciso, presente in Virgilio e in Petrarca, è una citazione classi-
ca, e così il gesto di tendere le mani per
un estremo saluto. Foscolo utilizza quindi delle immagini, degli aggettivi attinti
dai classici, ma li colloca entro significati
diversi. Non si tratta solo della predilezione per parole e immagini poetiche rese
più belle e nobili dalla grande tradizione
classica, ma di un procedimento per il
quale quelle parole e quelle immagini divengono nutrimento della nuova sensibilità del poeta moderno. Non siamo di
fronte a un classicismo utilizzato come
elemento di forma, ma a una adesione, a
un amore per i testi del passato che diventano un autentico nutrimento dell’esperienza del poeta.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Sottolinea nel testo le azioni e i sentimenti attribuiti ai vari personaggi: io-Foscolo, fratello, madre, straniere genti.
Evidenzia poi sul tuo quaderno il sistema
dei personaggi, secondo lo schema: soggetto, sentimenti, azioni.
Analisi
1. Il rapporto tra il destino del poeta e
quello del fratello è stabilito attraverso il ricorso ad alcune metafore*: tempesta,
porto, quïete. A partire dal significato letterale di queste parole, spiega il valore che
assumono nel testo.
2. Dal sonetto emerge, insieme al compianto per il fratello, l’immagine che il poeta vuole dare di sé stesso, secondo la tipologia dell’eroe romantico. Quali temi
emergono? Li hai già incontrati in altre
opere di Foscolo?
Produzione
1. La figura della madre assume nel testo
un significato che va al di là del dato biografico. Rifletti sul valore simbolico di
questa figura.
T8
All’amica risanata
Poesie, Odi
Foscolo scrisse quest’ode tra la primavera del 1802 e l’aprile del 1803; con essa intendeva salutare la
guarigione di Antonietta Fagnani Arese che dopo un lungo periodo di malattia ritornava alla vita consueta, ma il dato occasionale è presto travalicato da uno sviluppo tematico che si risolve in inno ed esaltazione della bellezza e della poesia.
Metro: ode composta di 16 strofe ciascuna formata da sei versi (cinque settenari e un endecasillabo);
il secondo e il quarto settenario sono sdruccioli, gli altri piani. Le rime seguono lo schema abacdD.
5
Qual dagli antri marini
l’astro più caro a Venere
co’ rugiadosi crini
fra le fuggenti tenebre
appare, e il suo viaggio
1-12. Qual... mortali: le due strofe sviluppano un paragone tra la stella Lucifero
che sorge dal mare e l’amica risanata. Come (Qual) il pianeta Venere (la stella più
cara a Venere, e cioè quella che ha il suo
orna col lume dell’eterno raggio,
Sorgon così tue dive
membra dell’egro talamo,
e in te beltà rivive,
stesso nome) appare al mattino fra le tenebre che stanno dileguandosi (fuggenti
tenebre) con i suoi raggi cosparsi di rugiada come fossero capelli (rugiadosi crini) e
adorna il suo cammino con la luce che
viene dal sole (eterno raggio) (oppure: orna
nel suo cammino il cielo col lume del suo
eterno splendore), allo stesso modo il tuo
corpo divino sorge dal letto dove è giaciuto durante la malattia (dall’egro talamo:
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10
15
l’aurea beltate ond’ebbero
ristoro unico a’ mali
le nate a vaneggiar menti mortali.
Fiorir sul caro viso
veggo la rosa, tornano
i grandi occhi al sorriso
insidiando; e vegliano
per te in novelli pianti
trepide madri, e sospettose amanti.
35
40
20
25
30
Le Ore che dianzi meste
ministre eran de’ farmachi,
oggi l’indica veste,
e i monili cui gemmano
effigiati Dei
inclito studio di scalpelli achei,
E i candidi coturni
e gli amuleti recano
onde a’ cori notturni
te, Dea, mirando obbliano
i garzoni le danze,
te principio d’affanni e di speranze.
per metonimia, dal letto della malattia) e
in te ritorna a splendere la bellezza, quella preziosa (aurea) bellezza grazie alla quale ebbero l’unica consolazione ai loro mali le menti degli uomini destinate ad inseguire vane illusioni (nate a vaneggiar). Il
pianeta Venere all’alba è chiamato Lucifero (portatore di luce) in quanto appare
prima del sole, Espero al tramonto. La
comparazione è mutuata da Virgilio che
la riferisce al giovane eroe Pallante: «qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda /
quem Venus ante alios astrorum diligit
ignes, / extulit os sacrum coelo tenebrasque resolvit» («tale è Lucifero, quando
grondante dell’acque dell’Oceano, / stella
a Venere cara fra tutti gli astri fiammanti,
/ alza il sacro volto nel cielo e dissolve le tenebre»: Eneide, VIII 589-591).
13-14. Fiorir... rosa: vedo ritornare sull’amato viso il colorito roseo. Innumerevoli le memorie poetiche echeggiate da
questi versi; ricordiamo la più vicina, da
un componimento di Giuseppe Parini [s
modulo Il Giorno, p. 266] intitolato L’educazione: «Torna a fiorir la rosa / che pur
dianzi languìa».
16. insidiando: tendendo insidie amorose.
16-18. vegliano... amanti: non hanno
riposo e si tormentano in rinnovati pianti, a causa tua, madri in trepidazione e
amanti sospettose.
19-20. Le Ore... farmachi: le Ore (personi-
45
50
O quando l’arpa adorni
e co’ novelli numeri
e co’ molli contorni
delle forme che facile
bisso seconda, e intanto
fra il basso sospirar vola il tuo canto
Più periglioso; o quando
balli disegni, e l’agile
corpo all’aure fidando
ignoti vezzi sfuggono
dai manti, e dal negletto
velo scomposto sul sommosso petto.
All’agitarti, lente
cascan le trecce, nitide
per ambrosia recente,
mal fide all’aureo pettine
e alla rosea ghirlanda
che or con l’alma salute april ti manda.
Così ancelle d’Amore
a te d’intorno volano
invidïate l’Ore,
ficate, secondo il mito, in ventiquattro fanciulle) che prima, rattristate per la tua malattia (meste), erano somministratrici di medicine, scandivano cioè i tempi delle cure.
21-26. oggi... recano: oggi invece ti portano la veste di seta (indica, cioè indiana,
intendendo dire che proviene dall’Oriente) e i gioielli che (cui, complemento oggetto) ingemmano, ornano (gemmano
usato transitivamente) dèi incisi, opera
mirabile di cesellatori (scalpelli) greci, e
gli stivaletti bianchi (i coturni erano le
calzature dalla suola altissima che portavano gli attori greci nelle rappresentazioni delle tragedie; qui Foscolo ha bisogno
di un termine illustre) e vari ornamenti.
27-30. onde... speranze: e per tutte queste cose (onde) nei balli (cori) notturni i
giovani (garzoni) guardando te, o dea (che
sei simile ad una dea), te che sei l’origine
di affanni e di speranze (cioè dei turbamenti amorosi) dimenticano le danze.
31-37. O quando... Più periglioso: la costruzione di questa strofa e della successiva è: i giovani dimenticano le danze
quando... o quando; in realtà il poeta intende fermare alcune immagini nelle
quali la donna appare più bella ed affascinante. Quando suoni l’arpa donandole
bellezza (l’arpa adorni) sia con insolite
melodie (novelli numeri) sia con le linee
flessuose (molli contorni) del tuo corpo
che la stoffa preziosa e morbida del tuo
vestito (facile bisso) modella, segue, mettendole in risalto; e intanto fra i sommessi sospiri dei tuoi ammiratori il tuo canto
si innalza più pericoloso.
37-42. o quando... petto: o quando balli
sembri disegnare le figurazioni della danza e affidando il tuo corpo all’aria, bellezze solitamente nascoste (ignoti vezzi) appaiono dagli abiti e dai veli che si scompongono sul petto palpitante e che tu trascuri di ricomporre (negletto). Anche
questa immagine è costruita sul modello
di un’ode di Parini (Il pericolo: «E a le nevi
del petto, / chinandosi, da i morbidi / veli
non ben costretto, / fiero dell’alme incendio! / permetteva fuggir?»).
43-48. All’agitarti... manda: col movimento della danza a poco a poco (lente) si
sciolgono le trecce brillanti per gli unguenti profumati che da poco (ambrosia
recente) vi sono stati sparsi, non trattenute (mal fide) dal pettine dorato e dalla
ghirlanda di rose che insieme alla vivificante salute aprile ti manda. L’ambrosia
è propriamente il cibo degli dèi, ma ciò
che conta per Foscolo è l’ascendenza mitologica e divina del termine, al di là del
significato specifico.
49-51. Così... l’Ore: in questo modo le
Ore, suscitando l’invidia delle altre donne (invidïate l’Ore), scorrono leggere intorno a te quali ministre d’amore.
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meste le Grazie mirino
chi la beltà fugace
ti membra, e il giorno dell’eterna pace.
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Mortale guidatrice
d’oceanine vergini
la Parrasia pendice
tenea la casta Artemide
e fea terror di cervi
lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.
Lei predicò la fama
olimpia prole; pavido
diva il mondo la chiama,
e le sacrò l’Elisio
soglio, ed il certo telo,
e i monti, e il carro della luna in cielo.
Are così a Bellona,
un tempo invitta amazzone,
die’ il vocale Elicona;
ella il cimiero e l’egida
or contro l’Anglia avara
e le cavalle ed il furor prepara.
75
80
85
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95
E quella a cui di sacro
52-54. meste... pace: le Grazie guardino
male, maledicano, chi ti ricorda la fugacità della bellezza e il giorno della morte.
55-60. Mortale... i nervi: hanno inizio i
tre miti che devono dimostrare le virtù
eternatrici della poesia. Una volta creatura mortale, la casta Artemide che guidava alla caccia vergini oceanine abitava le
pendici del monte Parrasio (in Arcadia) e
faceva risuonare di lontano il fischio delle
corde (nervi), che erano motivo di terrore
per i cervi, dell’arco costruito a Cidone
(località dell’isola di Creta famosa per suoi
archi). Le vergini oceanine sono le sessanta ninfe che la dea chiese a Giove.
61-66. Lei... in cielo: la fama generata
dai poeti (cfr. v. 69) la proclamò figlia di
Giove; reverente (pavido) il mondo la
chiamò dea e le consacrò il trono (soglio)
dei Campi Elisi (col nome di Persefone o
Proserpina è venerata come regina degli
Inferi), il dardo infallibile (certo telo) e i
monti (col nome di Diana è venerata come dea della caccia), e il governo del carro della luna in cielo (col nome di Selene
è identificata con la luna).
67-69. Are... Elicona: analogamente a
mirto te veggo cingere
devota il simolacro,
che presiede marmoreo
agli arcani tuoi lari
ove a me sol sacerdotessa appari
Regina fu, Citera
e Cipro ove perpetua
odora primavera
regnò beata, e l’isole
che col selvoso dorso
rompono agli euri e al grande Ionio il corso.
Ebbi in quel mar la culla,
ivi erra ignudo spirito
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando sui flutti spira
suonano i liti un lamentar di lira;
Ond’io, pien del nativo
aer sacro, su l’Itala
grave cetra derivo
per te le corde eolie,
e avrai divina i voti
fra gl’inni miei delle insubri nepoti.
quanto (così) avvenne per Diana, il canto
dei poeti (vocale Elicona: il monte abitato
dalle Muse che risuona del canto dei poeti) fece sì che fossero dedicati altari a Bellona (dea della guerra), che un tempo,
prima di essere divinizzata, era solo
un’invincibile amazzone.
70-72. ella... prepara: ella ora prepara
contro l’avida (avara) Inghilterra l’elmo,
lo scudo (egida), la cavalleria e il furore dei
combattenti. I versi alludono ai preparativi militari di Napoleone per una spedizione in Inghilterra (1802), preparativi che
non ebbero seguito; l’Inghilterra, secondo le linee della pubblicistica napoleonica
anti-inglese, è detta avida di conquiste.
73-84. E quella... il corso: e colei (Venere) della quale ti vedo cingere devotamente la statua (simolacro) con corone di
sacro mirto (il mirto era consacrato a Venere), statua che, nel suo marmo, domina le tue stanze più segrete (arcani tuoi lari) nelle quali tu, soltanto a me, appari
come sacerdotessa (di un rito amoroso
sublimato nell’omaggio alla statua), fu
regina, regnò beata su Citera (l’attuale
Cerigo), e Cipro dove una perpetua pri-
mavera sparge profumi (odora), e sulle
isole che coi loro monti ricoperti di selve
interrompono il corso ai venti (Euro è lo
scirocco) e al grande Mare Ionio.
85-90. Ebbi... lira: Nacqui in quel mare
(l’isola di Zacinto); e lì va errabonda, in forma di nudo spirito, la fanciulla amante di
Faone (perifrasi che indica Saffo, la poetessa che, secondo la leggenda, innamorata
vanamente di Faone si uccise gettandosi
in mare dalla rupe Leucade), e se la brezza
notturna soffia dolcemente, il litorale risuona di un musicale lamento di lira.
91-94. Ond’io... eolie: per cui (per tutto
ciò che ho appena detto, cioè l’essere nato in Grecia per essermi imbevuto di quella poesia), io, pieno dello spirito sacro dei
luoghi nativi, trasferisco in tuo onore i
modi della poesia eolica (la poesia di Saffo
e di Alceo, che erano dell’Eolia) nell’austera tradizione italiana (Itala grave cetra).
95-96. e avrai... nepoti: e tu, diventata divina, avrai insieme col canto che io ti dedico (inni miei) il culto delle future donne
lombarde (insubre da Insubria, il nome latino che indicava l’Italia settentrionale).
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496 Secondo Settecento
Analisideltesto
Il superamento
della poesia d’occasione
●
● vv. 37-48: il ballo, le trecce che si allen-
Un discorso che procede
per immagini
La poesia d’occasione, scritta per celebrare un evento o come omaggio, era assai diffusa nel Settecento. L’ode foscoliana indirizzata alla Fagnani Arese sembrerebbe rientrare in questa tradizione per la
circostanza in cui nacque; tuttavia fin dalla prima solenne ed ampia similitudine
(vv. 1-12), si rivela estranea alla poesia
d’occasione ed invece erede del modello
delle Odi di Giuseppe Parini [s modulo
Il Giorno, p. 266], il poeta che Foscolo
ammirava come suo ideale maestro. Infatti, anche sul piano tematico, il motivo
occasionale della ritrovata salute di Antonietta Fagnani Arese si sviluppa subito in
contenuti più alti e generali, e l’omaggio
poetico, lontano dall’avere un qualsiasi
carattere di galanteria, si avvia a celebrare non tanto la bellezza dell’amica quanto il valore della bellezza e poi, per passaggi successivi, la poesia eternatrice. Si
tratta insomma di un testo arduo e complesso che già per questo si stacca decisamente dalla poesia d’occasione.
tano, le vesti che si scompongono.
Segue la strofa (vv. 49-54) che ha la funzione di segnare una svolta: nessuno,
ammonisce il poeta, deve insinuare il
pensiero della fugacità del tempo e della
bellezza; è un espediente attraverso il
quale Foscolo proietta sulle immagini che
ha appena concluso l’idea della finitezza,
della caducità delle cose, ma nello stesso tempo anticipa il tema successivo della possibile eternità, che solo nelle ultime
strofe trova tuttavia un compiuto sviluppo.
Il secondo tempo dell’ode è infatti occupato da esempi di divinità femminili (come
Artemide, Bellona, Venere) che sono divenute «immortali», grazie al canto dei poeti, ed anche Antonietta sarà resa immortale dai versi di Foscolo. Il motivo celebrativo è quindi posto alla fine dell’ode, quando però l’accento si è decisamente spostato su un piano assai più alto e il tema
vero non è tanto l’omaggio reso all’amica
ma l’esaltazione della poesia. C’è infatti nel susseguirsi degli argomenti un dato
importante, e cioè il legame tra Venere, il
mare greco, Saffo, Zacinto, Foscolo che
costituisce il percorso attraverso il quale
è costruito il vero tema delle ultime strofe.
Con questi esempi Foscolo afferma che i
miti sono inizialmente creati dai poeti, e
da qui nasce ed è testimoniata la capacità
della poesia di vincere la finitezza delle
cose umane per trasformarle in eterne.
La strategia compositiva che Foscolo
sceglie per dire tutto questo è il procedere per immagini, evitando tuttavia di far
coincidere i quadri di cui si compone l’ode con le strofe. Al contrario spesso la
struttura sintattica travalica lo spazio di
una strofa, come ad esempio nella similitudine iniziale e nelle strofe VI e VII, strettamente unite dall’enjambement*, e ancora nelle strofe XIII e XIV. Costante è comunque la cura a non creare un andamento ritmico facile o ripetitivo. Ma ciò
che più caratterizza l’ode è la scelta di
trasfigurare il dato realistico e l’esperienza in un piano assoluto e mitico. Gli strumenti di cui Foscolo si serve sono diversi
e tutti riconducibili al suo classicismo: la
preferenza accordata ai latinismi, alle forme grammaticali proprie della lingua latina, al mito, e il gusto di impreziosire il linguaggio con riferimenti letterari presi soprattutto dalla tradizione greca e latina.
Anche il quotidiano viene mitologizzato,
o comunque ricondotto entro scelte
espressive che lo privano di realismo.
Del tutto particolare il ricorso al mito, che
corrisponde alla poetica del «mirabile» e
del «passionato», poiché tende a esprimere dei contenuti attraverso le immagini
reinventando, quando è necessario, il significato del mito antico e nello stesso
tempo utilizzando gli elementi favolosi e
affascinanti che esso porta con sé.
Uno sviluppo in due tempi
Le sedici strofe sono scandite in due momenti principali; nel primo tempo, costituito dai vv. 1-48, si succedono ampi quadri descrittivi ognuno occupato da un’immagine di forte rilievo:
● vv. 1-18: il rifiorire della salute che è fonte di ansietà per madri e amanti;
● vv. 19-30: i riti dell’adornarsi;
vv. 31-37: il canto;
lavoraresultesto
Comprensione
1. Sintetizza la similitudine* con cui l’ode
inizia.
2. La metafora* rugiadosi crini (v. 3) che
cosa indica? La metafora rimanda ad un
particolare dell’immagine di Antonietta.
Quale?
3. Nei versi che ritraggono la toilette della donna circondata dalle Ore-ancelle, le
scelte lessicali tendono a mitizzare gesti e
oggetti. Trascrivi le parole che a tuo parere hanno questa funzione.
4. Quale rapporto istituisce Foscolo tra
sé e la poetessa Saffo?
Analisi
1. Qual è il tema principale dell’ode?
2. Che cosa accomuna Artemide, Bellona e Venere?
Produzione
1. In un breve testo commenta la tua reazione di giovane lettore moderno di fronte
a questi tipo di poesia.
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DEI SEPOLCRI
La struttura L’opera maggiore di Ugo Foscolo, il
carme Dei Sepolcri venne scritto in breve tempo, tra
giugno e settembre del 1806 e pubblicato nel 1807.
La struttura è quella dell’epistola* in versi, un tipo di
componimento che prevede un interlocutore – il destinatario della lettera –, l’uso del vocativo (il nome
proprio dell’interlocutore) e il «tu». Foscolo mantiene questa struttura, ma il registro del carme è assai
lontano dall’essere colloquiale. All’origine dei Sepolcri concorsero occasioni esterne che spiegano la
scelta del tema e la stesura insolitamente rapida.
L’argomento, già presente nella riflessione foscoliana (nell’Ortis e nei sonetti), era stato al centro della
poesia inglese detta appunto «sepolcrale». Il tema del
sepolcro era anche oggetto di un dibattito ideologico
e politico: soprattutto negli ambienti degli intellettuali francesi, veniva riproposta una sorta di religione laica del sepolcro in nome del giusto riconoscimento del valore e dei meriti dei grandi e, più in generale,
come forma di rispetto per la memoria dell’individualità della persona, come segno dei vincoli affettivi tra vivi e defunti. Si segnalava anche il culto delle
sepolture come elemento costante nelle diverse civiltà e la funzione civile-patriottica che può avere il
monumento sepolcrale. Inoltre, la regolamentazione delle sepolture, prima da parte di Giuseppe II, poi
di Napoleone (con l’editto di Saint-Cloud), aveva alimentato un vivace dibattito che implicava sia argomentazioni di ordine igienico-sanitario, sia considerazioni critiche sull’egualitarismo.
La trama È possibile ricostruire una vera e propria
trama del carme, che ne mette in risalto le idee e la
concatenazione degli argomenti. La struttura logica
fondamentale è costituita dall’opposizione tra una
prima negazione del valore della tomba e la successiva dimostrazione dei significati e delle funzioni positive dei sepolcri. La negazione di ogni possibile significato o utilità della tomba occupa i primi 22 versi e
si fonda sulla concezione che tutto è materia e che
dopo la morte non c’è alcuna forma di sopravvivenza per l’uomo. La tesi a favore del culto delle tombe si
sviluppa, invece, in uno spazio ben più ampio, che
occupa tutta la parte restante del carme (vv. 23295) e che tocca ambiti diversi.
L’argomentazione in difesa della tomba prende l’avvio dal riconoscimento, nell’uomo, del bisogno di
credere a una forma di sopravvivenza che si concretizza nel ricordo di chi, parente o amico, rimane in vita. Tale rapporto, che Foscolo definisce «corrispon-
denza d’amorosi sensi», è reale dal punto di vista affettivo-sentimentale, anche se è solo un’illusione di sopravvivenza. Esso è possibile soltanto per chi «lascia
eredità d’affetti» ed è rafforzato, facilitato, dalla presenza fisica di una tomba che è contemporaneamente segno, ricordo del defunto e oggetto delle cure e
della pietà del vivo. Per questo, secondo Foscolo, la
legge funeraria, che ostacola questi riti regolamentando rigidamente le sepolture, non solo è ingiusta,
ma rispecchia un degrado morale della società. L’esempio più clamoroso lo offre la società milanese,
che non ha dato degna sepoltura a Parini. D’altra
parte, il significato del sepolcro risalta con evidenza
se si ripercorrono le fasi della storia degli uomini. L’istituzione dei riti funebri coincise con il passaggio
dallo stato di ferinità a forme di civile convivenza:
modelli di una serena accettazione della morte e segni di una superiore civiltà sono i culti funebri dell’antichità greca e latina e i cimiteri inglesi. Con questi argomenti l’autore passa dalla considerazione del
sepolcro come nodo di affetti privati all’istituzione
del sepolcro nell’ambito dei costumi di una civiltà.
Da qui prende le mosse per esaltare la funzione politica che può avere la tomba, enunciando la tesi che i
sepolcri degli uomini grandi non hanno solo un valore affettivo, ma spingono coloro che hanno un animo grande all’emulazione. Pertanto, è privilegiata
Firenze, che custodisce nella chiesa di Santa Croce i
sepolcri degli italiani illustri. Nell’elogio di Firenze e
di Santa Croce il poeta ha modo di esaltare, in ritratti che ne sintetizzano l’opera, le figure di Dante, Petrarca, Machiavelli, Michelangelo, Galileo, e di fondare su queste figure la linea di una grande civiltà
italiana dalla quale trarre le tradizioni e l’idea di patria. Altre immagini legano la tomba dei grandi agli
ideali e ai valori di patria: per esempio, quella di Maratona, dove le tombe che Atene consacrò ai suoi
prodi conservano la memoria storica di quel fatto
d’armi e il suo significato. Ancora più forte della tomba è la poesia, che ha la capacità di far sopravvivere
anche quello che il tempo distrugge fisicamente. La
tomba di Elettra, donna mortale amata da Giove che
le concesse la fama, fu simbolo e altare per la civiltà
troiana, ma venne resa eterna dalla poesia di Omero, poiché solo la poesia può dare una sopravvivenza
che duri quanto l’umanità.
Il messaggio dei Sepolcri Secondo la sua concezione materialistica e pessimistica, Foscolo non può
che considerare il sepolcro come privo di valore, ma
la storia delle civiltà, con i diversi riti funebri che si so-
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no succeduti, gli mostra il contrario e su queste basi
il poeta restituisce alla tomba un ruolo non giustificabile sul piano razionale, ma vero su quello storico.
Queste due concezioni sono tra loro in contrasto,
contrasto che Foscolo denuncia e mette in evidenza
davanti ai lettori. Tuttavia, rivolgendosi non alla loro
mente ma «alla fantasia del cuore», egli offre non una
composizione di ciò che razionalmente è inconciliabile, ma una nuova morale, in grado di dare alla vita
un senso, anche entro una concezione materialistica. Egli recupera un valore e un significato alla vita
attraverso la morte, confidando nella «memoria»
che assicura quel poco di immortalità che gli uomini
possono conquistare con la grandezza delle loro azioni. Tutto ciò vale certamente su un piano personale e
privato, ma è vero anche per i popoli e per le nazioni.
Soluzioni metriche Per i Sepolcri Foscolo adotta
l’endecasillabo sciolto*, cioè una successione di versi
endecasillabi non rimati tra loro. L’endecasillabo
sciolto vantava una recente e importante tradizione
poiché era stato impiegato da Parini, Alfieri, Monti.
Si tratta di un metro che l’autore predilige perché, secondo le sue stesse parole, ricalca l’andamento «naturale» della lingua italiana, ma soprattutto perché
ritiene che la rima sia un elemento ingombrante,
troppo rigido, che si oppone all’esigenza fondamentale di far aderire il suono al senso. È questo, invece,
il criterio che guida la costruzione dei versi foscoliani: creare un suono, un andamento ritmico dei versi
che si accordi e quindi dia una efficacia e una forza
espressiva maggiore al significato.
I personaggi-simbolo Foscolo popola il suo carme di personaggi che trasforma in simboli da proporre alla fantasia e al cuore dei lettori. In ognuno di essi isola un carattere e un significato che presenta in
termini assoluti, così che il personaggio reale diventa simbolo e la poesia riesce a creare intorno ad esso
un mito: ad esempio, il personaggio-simbolo di Omero riassume in sé l’idea stessa di poesia e della potenza del canto del poeta.
T9
Il sepolcro come nodo d’affetti
Dei Sepolcri,
vv. 1-50
Alla negazione del valore del sepolcro e di qualsiasi sopravvivenza dopo la morte si contrappone la commossa evocazione del dialogo di affetti nel quale l’amico estinto continua a vivere nel nostro ricordo.
Basta questa illusione a rendere sacra la tomba e a giustificare i riti di pietà che su di essa si compiono.
Metro: endecasillabi sciolti.
Deorum Manium iura sancta sunto*
5
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
Il sonno della morte è forse meno inesorabile all’ombra dei cipressi e dentro le tombe sulle quali i
parenti versano il loro pianto? Quando per me il sole non darà più nutrimento sulla terra alla bella natura, animali e piante, e quando il futuro non avrà per me alcuna attrattiva, né da te, dolce
* Deorum... sunto: «Siano rispettati i diritti degli dèi Mani», dei defunti. La norma era contenuta nelle Dodici Tavole, secondo la tradizione, il più antico insieme
di leggi scritte di Roma.
1-3. All’ombra... duro?: il ricorso alla do-
manda retorica (la cui risposta implicita
è ovviamente negativa) contribuisce a
dare solennità a questo attacco. Una domanda di simile significato si trova nell’Elegia scritta in un cimitero di campagna
(1751) di Thomas Gray, che era stata tra-
dotta nel 1772 da Cesarotti, ai vv. 65-70.
3. Ove: quando.
7. l’ore: le ore personificate, danzano ed
esercitano seduzione solo su chi può
aspettare il tempo che seguirà.
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né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri, e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
amico, potrò più udire le tue poesie e l’armonia triste che le pervade, e nel mio cuore non avrà più
voce l’ispirazione poetica e l’inclinazione amorosa, unici princìpi ispiratori della mia vita di continuo esilio, quale ricompensa sarà per la vita perduta una lapide che distingua le mie ossa dalle infinite altre che la morte dissemina per terra e per mare?
È ben vero, o Pindemonte! anche la Speranza, unica divinità rimasta agli uomini, fugge dalle
tombe, sparisce di fronte alla morte; e la dimenticanza avvolge ogni cosa nella sua oscurità, e la natura con il suo movimento continuo fiacca trasformando ogni forma vivente, e il tempo rende irriconoscibili gli uomini, le loro tombe, e anche l’ultimo aspetto e ciò che rimane dell’intero universo,
terra e cielo, al termine di questa trasformazione continua.
Ma perché l’uomo prima del tempo si priverà di quella illusione che, già morto, tuttavia gli permette di restare sulla soglia del regno dell’Oltretomba, di non dissolversi completamente nella dimenticanza e nel nulla? Egli anche quando è ormai sepolto, e per lui la bellezza della vita e della luce non potrà più farsi sentire, non continuerà forse a vivere se con il tenero culto per la tomba può
ridestare il senso della sua vita nella mente dei suoi cari? Questa capacità di corrispondere senti-
8. dolce amico: il poeta Ippolito Pindemonte, al quale è indirizzato il carme.
10-11. spirto delle vergini Muse: l’ispirazione poetica.
12. vita raminga: l’aggettivo, prediletto
da Foscolo, sta ad indicare l’errare dell’esule.
16-17. Speme, ultima Dea: Foscolo, in
un suo commento all’opera del poeta
greco Callimaco, ricorda il mito secondo
il quale tutti gli dèi, sdegnati con gli uomini, si ritirarono sull’Olimpo, e solo la
Speranza accettò di restare tra i mortali;
tuttavia, la speranza di vivere per sempre,
di conservare nel tempo la propria identità, si spegne con la morte, al di là della
quale c’è il nulla.
17. involve: avvolge.
19. forza operosa le affatica: l’espressione indica la natura concepita come continua trasformazione di materia, forza
inarrestabile. Tutto il passo esprime idee
desunte dalla concezione meccanicistica
e sensistica, ispirata al materialismo settecentesco cui razionalmente il Foscolo
aderisce. Il termine affatica conferisce un
significato negativo, di fatica, di dolore
alla trasformazione continua della materia.
23-24. Ma perché... invidierà: l’espressione ricalca una costruzione latina.
25. pur: tuttavia. – Dite: Dite era uno dei
nomi del regno dei morti nella mitologia
classica.
26. ei: egli.
28. destarla... soavi cure: controversa
l’interpretazione di destarla: nella spiegazione data il pronome «-la» rimanda ad
armonia del giorno; altri intende riferirlo a
illusïon (v. 24), che grammaticalmente è
ipotesi corretta, ma non dà un senso pieno di questi versi, in quanto l’illusione allude non a un generico sentimento ma
precisamente alla tomba. Cure è un latinismo che qui indica le attenzioni, i riti
ispirati dall’affetto.
30. amorosi sensi: sentimenti d’amore.
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celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’Iddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
menti d’amore è divina, ed è una prerogativa divina degli uomini e spesso grazie a lei si continua a
vivere assieme all’amico morto e il morto resta nella nostra mente, a patto che la terra che lo aveva accolto bambino e gli aveva fornito il nutrimento con un senso di pietà religiosa gli accordi nel
suo grembo di madre l’ultimo riparo, la tomba, e renda così i suoi resti mortali inviolabili dagli insulti dei fattori atmosferici e dall’irriverente piede di chi non rispetta le sepolture, a patto che una
lapide conservi il nome del defunto e un albero amico, odoroso di fiori, faccia cadere sui resti mortali come una consolazione una dolce ombra.
Soltanto colui che non lascia un ricordo di sé tale da essere rimpianto non prova consolazione
al pensiero che una tomba conservi i suoi resti, e se anche immagina la sua sorte dopo la morte, vede il suo spirito vagare tra il pianto dei dannati dell’Inferno o rifugiarsi sotto le grandi ali del perdono divino: ma abbandona i suoi resti alle ortiche di una terra deserta, dove nessuna donna innamorata si recherà a pregare e dove il solitario pellegrino non sentirà il sospiro che la Natura fa giungere ai vivi dalla tomba.
32. per lei: grazie a lei.
33. pia: l’aggettivo rimanda ad una idea
di religione laica, una religione degli affetti.
36. le reliquie: i resti mortali. Il termine
reliquie rimanda, però, a quella religione
degli affetti alla quale si ispira l’intero
passo.
37. nembi: tempeste.
39. odorata arbore: arbore, femminile come il latino «arbor»; odorata è un latinismo e sta per odorosa.
40. molli: dolci; l’aggettivo è proprio del
linguaggio lirico.
41-46. Sol... Iddio: in questi versi Foscolo
afferma che anche chi crede in un mondo
ultraterreno, se non lascia una eredità di
affetti nei vivi, non può ricevere consolazione dal fatto di avere una tomba.
44. templi Acherontei: una denominazione dell’Aldilà che Foscolo riprende dal
poeta latino Lucrezio.
46. polve: polvere, resti.
47. gleba: terra.
Analisideltesto
Un testo argomentativo
Il carme Dei Sepolcri si può considerare
per struttura e sviluppo tematico un
esempio di testo poetico argomentativo.
Foscolo in una famosa lettera all’abate
Guillon che aveva criticato il carme, dice
che la sua poesia procede «afferrando le
idee cardinali, lascia a’ lettori la compiacenza e la noia di desumere le intermedie». In effetti anche dalla lettura di questi
primi versi possiamo constatare che la
struttura del carme non ha uno sviluppo lineare, ma una orchestrazione complessa
che investe sia gli argomenti che lo stile. In
particolare i passaggi da un tema all’altro
avvengono attraverso una rete di legami
fatta di materiali diversi: analogie*, passaggi da affermazioni proposte in negativo ad un rovesciamento positivo, stacchi
e successive riprese, sentenze che interrompono la narrazione, esempi usati in
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funzione dimostrativa, irruzioni improvvise dell’io dell’autore. Facciamo qualche
esempio tratto dai versi che abbiamo appena letto. Rileggiamo i vv.1-29: alle due
domande retoriche che corrispondono
ad una negazione, corrispondono altre
due domande che aprono discorsi del
tutto opposti:
ragioni dell’intelletto
(piano filosofico, assoluto)
vv. 1-3 All’ombra de’ cipressi...?
vv. 3-15 Ove più il sole...?
ragioni del cuore
(piano storico, umano)
vv. 23-25 Ma perché pria del tempo...?
vv. 26-29 Non vive ei forse...?
vv. 16-22 Vero è ben, Pindemonte!
Funziona da legame logico l’avversativa
«Ma» che oppone le affermazioni iniziali
di materialismo alla rivendicazione della
possibilità di negare le amare verità del
materialismo stesso, il che corrisponde
alla contrapposizione tra le ragioni dell’intelletto e quelle del cuore.
Tuttavia l’opposizione che lega i due blocchi logici è più complessa: introdotto dal
«Ma», il discorso si sposta su un piano diverso nel quale le verità non hanno una
natura logica, ma sentimentale e illusoria;
le idee razionali si scontrano pertanto con
le ragioni del cuore, le cosiddette illusioni
che sono necessarie, secondo Foscolo,
per l’animo umano. Tra le due coppie di interrogazioni Foscolo inserisce dunque la
sconsolata e colloquiale allocuzione a
Pindemonte che introduce il mutamento
di prospettiva dal piano filosofico e assoluto, al piano relativo, storico e umano.
Procediamo un poco nella rilettura per segnalare un altro aspetto rilevante del carme, cioè la forza dimostrativa delle immagini. Prendiamo come esempio i vv. 41-42
che suonano come una sentenza «Sol chi
non lascia... dell’urna»; essi sono incastonati tra due scenari, quello positivo della
tomba fatta segno di omaggio e di cure (vv.
33-40) e quello negativo della polvere lasciata alle ortiche (vv. 42-49): che si sviluppa e si trasforma in immagine (vv. 41-49).
La forma dell’epistola
Con l’epistola Foscolo sceglie di rivolgere il suo discorso ad un interlocutore, Ippolito Pindemonte, e quindi, secondo le
convenzioni del genere, usa il vocativo, il
nome proprio dell’interlocutore e il «tu»;
questi elementi solitamente conferiscono
all’epistola in versi un tono colloquiale che
non ritroviamo nel testo foscoliano. È vero che in alcuni momenti del carme l’evocazione dell’amico («Vero è ben Pindemonte!», al v. 16; «né da te, dolce amico»,
al v. 8) introduce una nota di amicale colloquio, ma ogni volta il tono si innalza subito, sia nella costruzione sintattica che
nel lessico fortemente segnato dalla presenza di termini elevati che rimandano alla tradizione della poesia classicheggiante. Si veda ad esempio nei versi che abbiamo letto l’iniziale citazione in latino delle XII Tavole, tratta da Cicerone, il ricorso
ai miti, la presenza di latinismi e di termini
letterari: «soavi cure», «odorata arbore»,
«Speme», «spirto», «cure», «molli».
lavoraresultesto
meno due e trascrivili.
Comprensione
2. Segna nei primi 15 versi, con vari colo1. Riassumi schematicamente le argomentazioni contenute in questi versi.
2. Trascrivi tutte le parole di cui, prima di
leggere le note, non conoscevi il significato.
ri, le pause determinate dalla punteggiatura e gli enjambements*.
3. La sintassi dei vv. 17-21 riveste una forte funzione espressiva; commenta.
Analisi
Produzione
1. Uno degli strumenti retorici prediletti
1. I valori di cui parla Foscolo (l’importan-
da Foscolo è l’iperbato*. Individuane al-
za della tomba, il ricordo del defunto, l’i-
T10
Dei Sepolcri,
vv. 51-90
dea laica di una sopravvivenza nella memoria dei vivi) si possono ancora riconoscere come valori attuali? Prova a riflettere sulle occasioni e sulle motivazioni che
spingono anche noi a celebrare i defunti.
Una società degradata non sa dare degna sepoltura
ai suoi figli migliori
Dopo la rivendicazione del valore della tomba come luogo che facilita l’illusione di una continuità di affetti, Foscolo passa a considerazioni di ordine politico-morale. La legge che regolamenta rigidamente le sepolture non solo è ingiusta, ma rispecchia una degradazione morale della società. L’esempio più clamoroso lo offre la società milanese che non ha dato degna sepoltura a Parini. Giuseppe Parini (1729-1799)
nelle sue opere (in particolare nel poemetto* Il Giorno e nelle Odi) criticò severamente la società milanese
ergendosi a difensore e custode della moralità. È questa l’immagine nella quale Foscolo sintetizza la figura dello scrittore facendone il simbolo del poeta che vanamente si oppone alla decadenza del suo tempo.
Metro: endecasillabi sciolti.
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Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d’ozi bëato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
Eppure la nuova legge impone che i morti vengano sepolti lontano dagli sguardi pietosi dei loro cari, e cerca di impedire la conservazione della loro fama. E senza tomba giace il poeta che fu tuo sacerdote, o Talia, il quale alzando il suo canto in tuo onore, fece crescere, con una dedizione che durò
tutta la vita, nella sua povera casa un alloro e ad esso appendeva corone per te; e tu, Talia, lo ricompensavi rendendo belli con il riso pungente della satira i suoi canti, i quali mettevano alla berlina il
ricco lombardo vizioso e scioperato, per il quale l’unica cosa piacevole è il muggito delle mandrie di
buoi che dalle rive ricurve dell’Adda e dal Ticino lo rendono felice di passare la vita tra gli ozi e i banchetti. O bella Talia, dove sei? Io non sento diffondersi il profumo d’ambrosia che rivela la presenza
della tua divinità fra questi alberi dove siedo e sospiro per il rimpianto della mia patria. E tu ti accostavi al poeta e gli sorridevi sotto quel tiglio che ora, con le fronde che esprimono tristezza e lutto,
sembra fremere di sdegno perché, o Dea, non può coprire la tomba del vecchio poeta al quale aveva sempre procurato tranquillità e ombra. Forse cerchi vagando tra le tombe della gente comune
dove riposi il capo del Parini che si dedicò tutto a te? In sua memoria la città che si compiace di attirare sfacciatamente cantanti evirati, non collocò all’interno delle sue mura piante né lapide con
51. nuova legge: l’editto di Saint-Cloud.
53-54. tuo sacerdote, o Talia: Talia era la
Musa della commedia e della satira. Qui,
dunque, Parini viene ricordato come
poeta satirico per il poemetto Il Giorno,
nel quale, fingendo di dare insegnamenti
ad un giovane della nobiltà milanese, in
realtà costruisce un quadro ferocemente
satirico della classe nobile. Parini è sacerdote di Talia in quanto poeta dedito alla
poesia satirica.
55. educò un lauro: educò è un latinismo
che significa: «fece crescere». L’alloro è il
simbolo della gloria poetica che Parini
raggiunse.
56. t’appendea corone: nell’immagine le
corone sono i versi che Parini componeva e che offriva a Talia.
58. Sardanapalo: Sardanapalo era un re
assiro che, secondo le testimonianze degli storici greci, era famoso per la sua effeminatezza e per il lusso sfrenato.
60. antri abdüani: rive ricurve del fiume
Adda.
63. indizio del tuo Nume: l’ambrosia è il
segno che indica la presenza della divinità.
Il termine Nume indica l’essenza divina.
67. dimesse: tristi. L’aggettivo è qui insolitamente riferito non a persone ma ad
un elemento naturale. Frondi è forma
meno consueta di fronde.
72. tuo: il possessivo qui vuole sottolineare la dedizione di Parini alla poesia.
74. evirati cantori: l’accenno a Milano
come centro del teatro melodrammatico,
in cui cantavano uomini castrati in giovane età perché conservassero la voce da
soprano, è un richiamo all’ode pariniana
La musica, nella quale si esprime una vibrata condanna morale per quel costume.
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col mozzo capo gl’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerea campagna,
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
non sorge fiore ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.
un’iscrizione commemorativa e forse il ladro, che scontò col taglio della testa sul patibolo i suoi misfatti, insanguina col capo mozzato le ossa di Parini. Senti tu, o Talia, la cagna randagia che raspa
tra i mucchi di pietre e gli sterpi vagando sopra le tombe e la senti ululare per la fame e senti uscire
dal teschio, dove fuggiva la luce della luna, l’upupa, che svolazza sulle croci disperse per la campagna funebre e senti quell’uccello immondo maledire col suo sinistro verso simile ad un singhiozzo
di pianto i raggi che le stelle fanno pietosamente cadere sulle sepolture dimenticate da tutti. Invano, o Dea, invochi la squallida notte che faccia cadere la rugiada sulla tomba del tuo poeta. Ahimè!
sulle sepolture non spunta nessun fiore là dove il luogo non sia onorato con l’elogio e il pianto di chi
conserva un sentimento d’amore per essi.
78. bronchi: cfr. nota 2, p. 484.
Analisideltesto
La figura di Parini
A causa della nuova legge che impone le
sepolture fuori dai centri abitati e in tombe senza nome, il corpo del poeta Giuseppe Parini giace dimenticato in una
fossa comune e le sue ossa si mescolano
a quelle di ladri e malfattori.
Dopo un avvio discorsivo («Pur nuova
legge...» v. 51) che fa riferimento all’occasione in cui è nato il carme, il tono s’innalza. Parini è il primo personaggio che incontriamo nel carme e, come gli altri che
incontreremo nei versi successivi, diventa un simbolo che Foscolo propone al
Approfondimento
cuore e alla riflessione del lettore. Con un
procedimento di enfatizzazione, presenta la poesia e la vita di Parini come l’emblema della funzione moralizzatrice della
letteratura in quanto voce critica che si alza a giudicare il suo tempo. I milanesi
hanno dimenticato il loro poeta, che con
i suoi versi aveva voluto sferzare i comportamenti viziosi della nobiltà, perché
nella società milanese i nuovi valori sono
ormai la ricchezza, l’ozio e il lusso.
Nei versi che abbiamo letto si susseguono i toni alti, con i quali vengono rievocati la figura di Parini ritratto nei gesti ritua-
li di devozione alla Musa e le parole sferzanti di polemica antinobiliare e antimilanese. Si notino infine le note lugubri e la
ricerca di effetti orrorifici che erano propri della poesia sepolcrale del Settecento (un vero e proprio «genere» diffuso
nella letteratura europea del XVIII secolo, che traeva la sua ispirazione da luoghi e paesaggi desolati, macabri) qui
rappresentata dall’immagine della cagna che raspa tra mucchi di pietre e sterpi, e da quella dell’upupa che esce da un
teschio e svolazza sulle croci disperse
nella campagna.
L’USO DELL’IPERBATO
Uno strumento che Foscolo predilige è l’iperbato*,
vale a dire l’inversione del normale ordine delle parole nella proposizione. Con l’iperbato crea sospensione,
attesa, o mette in forte rilievo la parola più densa di significato. Ad esempio l’aggettivo, che è al centro dell’attenzione foscoliana per il lessico, è posto abitual-
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mente prima del sostantivo, quindi in posizione meno
consueta e per questo rilevata: «mesta armonia», «deserta gleba». Quando viceversa l’aggettivo è nella posizione più consueta, dopo il nome, solitamente si tratta di un aggettivo che contiene una forte carica
espressiva: «forza operosa», «arbore amica». Sono frequenti anche le inversioni più complesse che ridisegnano l’intera frase nella ricerca di una intonazione
alta: «bella d’erbe famiglia e d’animali», «serbi un sasso il
nome», «di fiori odorata arbore amica», «la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice». Con criteri analoghi Foscolo impiega largamente la preposizione «di» usata
in modo del tutto regolare per marcare specificazione,
appartenenza, causa, ma comunque preferita a possibilità alternative che magari richiederebbero il verbo al posto del sostantivo; spesso il complemento specifica l’aggettivo («vaghe di lusinghe») in espressioni
che associano a questa inconsueta costruzione anche
l’iperbato: «d’ozi bëato e di vivande», «di calma era cortese e d’ombre», «meste d’effigïati scheletri».
lavoraresultesto
3. Quali sono i caratteri della poesia di Parini che vengono ricordati ed esaltati?
Comprensione
1. In quale occasione Foscolo scrive il
carme Dei Sepolcri?
2. Che cosa imponeva l’editto di SaintCloud? Sottolinea nel testo i versi in cui si
fa riferimento ad esso.
siva rivestono?
Sintesi
Analisi
1. Sottolinea nel testo le invocazioni e le
1. Sintetizza per punti lo sviluppo dell’argomentazione.
forme interrogative. Quale funzione espres-
T11
La storia del sepolcro è la storia della civiltà
Dei Sepolcri,
vv. 91-150
L’istituzione del sepolcro e la pietà per i morti segnarono nella storia dell’umanità il passaggio dallo stato ferino alla convivenza civile, e i momenti in cui fu più alta la civiltà sono contrassegnati dalla cura con
la quale si conservava e si coltivava la memoria dei defunti.
Metro: endecasillabi sciolti.
95
Dal dì che nozze e tribunali ed are
dier alle umane belve esser pietose
di sé stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi
Dal giorno in cui matrimoni legittimi, leggi e religione fecero in modo che gli uomini, i quali vivevano in una condizione simile a quella delle bestie, cominciassero a provare sentimenti di pietà per
sé stessi e di solidarietà per gli altri, i vivi sottraevano agli agenti atmosferici che provocano la corruzione dei cadaveri e ai morsi delle belve i resti miserevoli che la Natura, con continui mutamenti di stato destina a forme, diverse dall’originaria, di vita materiale.
Le tombe erano testimonianza di nobili imprese e per i figli erano sacre come altari; e dalle tom-
92. dier: diedero, fecero in modo che.
94. etere maligno: l’etere sta per «gli
agenti atmosferici»; viene chiamato mali-
gno perché provoca la corruzione dei corpi.
96. veci eterne: con continue trasforma-
zioni. – sensi altri: altre, diverse forme.
97. fasti: nobili imprese.
98. quindi: di lì, dalle tombe.
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de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigïati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del loro caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
i puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapìan gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
be uscivano i responsi delle anime dei defunti, venerati come Lari, e il giuramento fatto sulla tomba degli avi fu considerato sacro e si aveva paura a non rispettarlo.
Spirito, sentimento religioso che, pur nella diversità dei rituali e delle usanze, le virtù patriottiche e civili e l’affetto che i parenti hanno per i loro morti fecero continuare attraverso la lunga serie degli anni e dei secoli.
Non da sempre fu praticata l’usanza di seppellire i morti in chiesa, facendo delle lapidi sepolcrali il pavimento degli edifici destinati al culto, né il puzzo dei cadaveri, mescolato al profumo dell’incenso, appestò quelli che si recavano a pregare, né l’aspetto delle città fu reso lugubre dalle raffigurazioni di morte.
Le madri, prese da cupo terrore si svegliano di soprassalto e balzano dal letto, e protendono le braccia nude sopra il capo del loro figlioletto, affinché non lo svegli il lungo lamento del morto che, dalla
chiesa dove è sepolto, chiede agli eredi che facciano recitare preghiere a pagamento. Ma cipressi e cedri, riempiendo l’aria di puri profumi, protendevano i loro rami sempreverdi sulle tombe, segno di
una memoria che non si estingue, e preziosi vasi raccoglievano le lacrime versate dai parenti e dagli
amici in omaggio votivo al morto. Gli amici rapivano al Sole una scintilla per illuminare l’oscurità
del sepolcro, perché quando un uomo muore i suoi occhi cercano istintivamente la luce del sole e tut-
99. Lari: divinità protettrici della casa, a
cui si chiedevano oracoli e aiuti.
103. tradussero: fecero continuare; è un
latinismo.
108. effigïati scheletri: le raffigurazioni
della morte che si vedono nelle pitture e
nelle lapidi.
109. esterrefatte: per gli spettacoli di
morte disseminati nelle città.
113. venal prece: preghiera a pagamento. Secondo la dottrina cattolica le preghiere dei vivi possono abbreviare il periodo in cui l’anima del morto è costretta
a purgarsi prima di salire in Paradiso. Foscolo qui depreca l’usanza diffusa di condizionare nel testamento l’assegnazione
della propria eredità alla garanzia che gli
eredi facessero recitare un certo numero
di messe. Tutto questo riduce quella che
dovrebbe essere una «corrispondenza d’amorosi sensi» a un mercato. Nel passo si
mescola anche il ricordo della superstizione popolare, che favoleggia di morti
che tormentano i vivi quando questi non
assolvono alle promesse fatte.
114. Ma: il ma avversativo, che logicamente va collegato col Non sempre di v.
104, vuol dire: ma non fu sempre così. Proseguendo, infatti, Foscolo mostra come la
morte, presso gli antichi, non sia sempre
stata un fatto lugubre.
117-118. prezïosi vasi: in tutte le tombe
antiche gli archeologi hanno trovato i
vasetti a cui qui si allude, che in passato
furono erroneamente definiti «lacrimatori». Oggi si sa che essi non servivano
per raccogliere lacrime, ma per contenere profumi e unguenti resinosi.
119-122. Rapìan... Sole: passo intessuto di riferimenti classici. Il «rapimento» di
una favilla al Sole richiama il mito di Pro-
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Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte e a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentìa qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
che tronca fe’ la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite geste
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto il ricco e il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello Italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.
ti i cuori mandano il loro ultimo sospiro alla luce che fugge per sempre. Le fonti, versando acque limpide e adatte ai riti di purificazione, facevano crescere sulla tomba amaranti e viole; e chi sedeva accanto al sepolcro per versare latte come offerta votiva al morto e per raccontare le proprie pene ai defunti, sentiva attorno un profumo simile a quello che è nell’aria dei Campi Elisi, dove risiedono le anime elette. Inganno della ragione dettato dalla pietà che rende cari i giardini dei cimiteri suburbani
alle giovani donne inglesi che in quei luoghi pregarono i Numi tutelari della patria perché fossero benevoli e concedessero il ritorno all’eroe che tolse l’albero maestro alla nave nemica su cui aveva riportato il trionfo, e con quello si fece costruire la propria bara. Ma là dove l’aspirazione ardente di
compiere nobili imprese non è viva e i princìpi informatori della vita civile sono la ricchezza improduttiva e la paura, lapidi e monumenti di marmo sorgono soltanto come segno esteriore ed inutile
lusso e come raffigurazioni male auguranti della morte. Già adesso i letterati, i possidenti e i nobili
italiani che si definiscono tali ma sono soltanto un volgo, ornamento e classe dirigente del bel regno
d’Italia, ancora vivi sono in realtà dei morti seppelliti nelle reggie e nei palazzi nobiliari dove domina
l’adulazione, e i loro stemmi sono il loro unico motivo di vanto. Per me la morte possa apprestare un
ultimo rifugio nel quale possa trovare riposo, quando finalmente il destino cesserà di riservarmi colpi, e l’insieme degli amici potrà raccogliere una eredità non di ricchezze materiali ma di sentimenti
sinceri e l’esempio di una poesia ispirata alla libertà e che ispira libertà.
meteo, il semidio che donò il fuoco agli
uomini disobbedendo a Zeus, e che per
questo fu punito. L’atto degli amici è anch’esso una sfida contro le leggi della natura. L’ultimo sguardo del morente verso
la luce viene solitamente messo in relazione con i versi dell’Eneide (IV, 690-692)
nei quali Virgilio descrive la morte di Didone: «Tre volte poggiando sul gomito
tentò di sollevarsi, tre volte si rovesciò sul
giaciglio, e con gli occhi erranti cercò nell’alto cielo la luce e gemette al trovarla».
124. lustrali: tanto pure da essere adatte
ai riti di purificazione.
129. Elisi: i Campi Elisi venivano immaginati dagli antichi come il luogo fiorito e verdeggiante nel quale erano accolti coloro
che avevano vissuto con giustizia e si erano
segnalati per le proprie azioni o per ingegno.
130. Pietosa insania: inganno della ragione dettato dalla pietà.
131. avelli: propriamente tombe; qui sta
per «cimiteri».
134. Geni: i numi tutelari della patria.
134-136. prode... bara: l’ammiraglio
Nelson, che dopo la vittoria di Abukir
(1798) si fece fare la bara con il legno dell’albero maestro della nave Orient.
140. Orco: un diverso nome di Plutone,
signore del regno dei morti (non, quindi,
dei Campi Elisi), luogo desolato in cui le
anime giacciono senza che ne rimanga
memoria.
147. una volta: finalmente.
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Analisideltesto
La forza argomentativa
delle immagini
Nella seconda parte del carme (vv. 91150) il poeta sviluppa una riflessione etico-politica che si snoda secondo un
procedimento logico:
● le tombe e la pietà per i defunti hanno
segnato il passaggio dallo stadio primitivo, ferino, alla civilizzazione dell’uomo e
rappresentano valori presenti, seppure in
forme diverse, in tutte le società;
● intorno alle tombe si raccolgono i valori fondamentali di un popolo, quindi il culto dei morti è un criterio per misurare il
grado di civiltà raggiunto in una società.
Foscolo propone quattro esempi: il Medioevo, quando c’era l’usanza negativa
di seppellire i morti sotto il pavimento delle chiese; la civiltà classica, che ha tenuto in gran conto i defunti (sulle tombe gli
antichi giuravano, nelle case si adoravano gli antenati come dèi); l’Inghilterra moderna, assunta come modello di società,
in cui i cimiteri sono luoghi ordinati, dove
ci si reca a pregare per i propri cari e per
gli eroi nazionali; infine, l’Italia napoleonica, dominata da una classe dirigente che
vive rinchiusa nella paura e si piega ad
adulare i dominatori.
Ad essa Foscolo contrappone il proprio
esempio: quello di una poesia ispirata alla libertà e che ispira libertà.
La lunga riflessione contenuta in questi
versi è resa efficace dalla potenza delle
immagini che Foscolo sa costruire. Si
veda, ad esempio, la rievocazione della
paura che circondava il ricordo dei defunti nel Medioevo e la descrizione dei
cimiteri inglesi. Ciò che interessa al poeta, anche a costo di semplificazioni della verità storica, è la forza dimostrativa
che la poesia è in grado di dare alle sue
idee. Un altro elemento che ci riconduce
al procedimento del carme, che si sviluppa, per dirlo con le stesse parole dell’autore, «afferrando le idee cardinali», è
il passaggio dalla rievocazione storica
all’io del poeta, al suo destino, e alla sua
poesia. Passaggio determinante, questo, per lo sviluppo argomentativo dei
versi che seguono.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Il discorso sul sepolcro viene ora affrontato da una nuova prospettiva. Quale?
a. come evoluzione dei modi di praticare
la sepoltura;
b. come elemento significativo, istituzione importante, capace di qualificare, in
positivo o in negativo, una civiltà;
c. come problema politico.
2. Per sostenere la sua tesi, Foscolo
T12
Dei Sepolcri,
vv. 151-225
prende degli esempi dalla storia. Sottolinea un esempio di usanza positiva del culto dei morti e uno di usanza negativa.
3. Anche nei Sepolcri ritorna l’immagine
dell’eroe romantico, proposta nell’Ortis e
nelle Poesie: sai individuare in quali versi?
mento. Ricercala, in questi versi e segnala quali elementi contrappone.
Sintesi
1. Sintetizza per punti lo sviluppo tematico di questi versi.
Analisi
1. La congiunzione avversativa «ma» è
spesso usata da Foscolo per organizzare,
attraverso opposizioni, il suo ragiona-
Produzione
1. Fai la parafrasi scritta dei versi 142150.
L’identità e il futuro della nazione
sono consegnati alla memoria
L’esaltazione di Firenze e delle tombe di Santa Croce costituisce il momento in cui il significato politico
del carme è posto in primo piano. L’idea di Italia (l’identità nazionale) risiede nella memoria, nel passato, nella figura dei grandi italiani. Da loro, non dalla meschinità dei tempi presenti, possono derivare una
lezione di magnanimità e l’esempio per dare un futuro di libertà all’Italia.
Metro: endecasillabi sciolti.
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
O Pindemonte, le tombe dei forti ispirano gli spiriti forti a compiere imprese di eccezionale valore; e
quelle tombe rendono la terra che le accoglie bella e sacra per il visitatore. Io quando vidi (a Firen-
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che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
più mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento;
te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
lieta dell’äer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idïoma
desti a quel dolce di Calliope labbro
ze, nella chiesa di Santa Croce) il monumento nel quale giace il corpo di quel grande ingegno (Machiavelli) che fingendo di insegnare ai principi il modo di rafforzare il potere, in realtà rimuove l’alone di gloria che lo circonda, e svela ai popoli come quel potere grondi di lacrime e di sangue; (e
quando vidi) la tomba di quel grande (Michelangelo) che a Roma innalzò a onore di Dio la cupola,
tanto maestosa da essere un Olimpo cristiano; e (quando vidi la tomba) di colui (Galileo) che osservò sotto la volta del cielo il movimento dei diversi pianeti, e il sole illuminarli fermo al centro del
sistema, per cui per primo aprì la strada dello studio delle leggi che regolano i moti dell’universo all’inglese Newton, che poi dimostrò in quel campo tutta l’altezza del suo genio; gridai, felice te, per
il tuo clima mite che favorisce la vita della natura e per le acque che l’Appennino fa giungere a te
dai suoi monti.
La luna, allietata dalla tua atmosfera, veste di luce limpidissima i tuoi colli, che sono in festa per
la vendemmia, mentre le vallate, ricche di case e di uliveti, mandano verso il cielo i profumi di innumerevoli fiori: e tu, Firenze, per prima sentisti la poesia che placò l’ira del ghibellino cacciato in
esilio, Dante; e tu desti i genitori e la lingua fiorentina a Petrarca, poeta tanto dolce da essere con-
154. ricetta: accoglie.
156. temprando lo scettro: rafforzando il
potere, qui simboleggiato dallo scettro.
Naturalmente si fa riferimento al Principe. Intorno a questi versi c’è una questione annosa: alcuni critici (meno numerosi) affermano che essi vadano interpretati nel senso che Machiavelli, insegnando
ai prìncipi l’arte di governare, ne rivela la
vera natura e mostra quanto quell’arte
sia dura e costi dolori e fatiche a chi la
esercita; interpretazione che ci pare poco
convincente, o almeno, meno persuasiva
di quella più diffusa, e che abbiamo fornito, anche perché la lettura del Principe come testo che, sotto la finalità dichiarata,
ne mostra un’altra opposta (quella di
rendere chiara la violenza connaturata
con l’esercizio tirannico del potere e di denunciarla), è interpretazione che ebbe
largo spazio nel Sei e nel Settecento, fu ripresa dall’Alfieri e fatta propria ancora
da intellettuali vicini a Foscolo.
159. nuovo Olimpo: nuovo rispetto a
quello della religione pagana.
161. etereo padiglion: la volta del cielo.
174. Ghibellin fuggiasco: l’idea che Firenze abbia udito per prima la poesia della Divina Commedia deriva dall’opinione,
oggi ritenuta inattendibile, che Dante l’avesse iniziata prima dell’esilio. La definizione di Dante come Ghibellin ha probabilmente origine in una memoria poetica
di alcuni versi del Monti; d’altra parte, se
è vero che il poeta fu guelfo bianco nella
lotta politica interna al Comune fiorentino, è anche vero che nel corso dell’esilio
assunse posizioni del tutto analoghe a
quelle dei ghibellini, come si vede nel De
Monarchia.
175. i cari parenti e l’idïoma: Petrarca
nacque da genitori fiorentini che erano
stati banditi dalla città e, giustamente,
Foscolo ricorda l’importanza, per tutta la
cultura italiana, del fatto che il poeta abbia adottato il fiorentino per le sue opere
in volgare.
176. Calliope: la Musa della poesia.
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che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sì! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtù greca e l’ira. Il navigante
siderato la bocca delle Muse, il quale, rivestendo del velo della pudicizia l’amore, cantato in maniera profana e sensuale dai poeti greci e romani, lo ricollocò in grembo alla Venere spirituale.
Ma ancora più felice perché conservi, raccolte nella chiesa di Santa Croce, le glorie d’Italia, forse le uniche rimaste da quando le Alpi mal difese, e il destino umano che, onnipotente, avvicenda
momenti di gloria e momenti di decadenza, ti depredavano delle armi, delle ricchezze, degli altari,
della possibilità di essere liberi e di tutto, tranne della memoria dell’antica condizione.
Così che, qualora torni a risplendere una speranza di azioni gloriose nelle menti coraggiose di
pochi e poi nell’Italia intera, proprio da lì, da Santa Croce, noi potremo trarre gli auspìci benaugurali per le imprese che si compiranno.
D’altra parte alle tombe di Santa Croce venne spesso a chiedere ispirazione Vittorio Alfieri. Adirato contro i Numi della patria, andava errando in silenzio dove le sponde dell’Arno sono più deserte, scrutando i campi e il cielo, acceso di una segreta speranza; e poiché nessuna forma di vita che
scorgeva riusciva ad addolcirgli l’angoscia, quell’uomo di animo forte e integerrimo veniva qui per
cercare sollievo, e sul suo volto si mescolavano il pallore quasi mortale e la speranza di un avvenire diverso.
Ora è sepolto con questi grandi, per sempre, e le sue ossa hanno ancora un fremito d’amor patrio. È ben vero! da quella pace che ha un carattere sacro parla il dio che ispira l’amor di patria: e
quello stesso dio alimentava il valore dei Greci e la loro voglia di annientare gli invasori Persiani a
Maratona, là dove Atene elevò tombe considerate sacre ai suoi eroi.
177-179. che Amore... Celeste: nella
tradizione classica era presente l’opposizione tra «amore sacro», inteso come forza spirituale che pervade l’intero universo, simboleggiato da una Venere celeste,
e «amore profano», soddisfazione dei sensi, simboleggiato da una Venere terrena.
L’opera di Petrarca viene qui esaltata come quella che ha ridato un carattere ca-
sto e spirituale alla poesia d’amore.
182. mal vietate: latinismo, non abbastanza vietate (difese), perciò attraversate dagli stranieri invasori.
186. Che: «perché». Altri suggerisce un
senso consecutivo, come conclusione di
tutto il discorso.
190-195. Irato... speranza: il ritratto di
Alfieri si basa tutto su alcuni tratti (irato,
muto, austero, pallor) desunti dall’immagine fisica e morale che lo stesso Alfieri
volle dare di sé attraverso l’autobiografia
e le rime.
199. Maratona: la battaglia di Maratona
vinta il 12 settembre 490 a.C. da 10.000
Ateniesi e 1000 Plateesi sotto il comando
di Milziade, contro 110.000 Persiani.
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che veleggiò quel mar sotto l’Eubèa,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzi si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube,
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
e se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
Il navigante che fece vela su quel mare vicino all’isola di Eubea, attraverso la vasta oscurità della notte vedeva lampeggiare scintille prodotte dal cozzo di elmi e spade, e le cataste di legna su cui
bruciavano i morti emanare un fumo fiammeggiante, e vedeva ombre di guerrieri rilucenti per le
armi di ferro cercare la battaglia; e nell’orrido e spaventoso silenzio della notte si spargeva per i campi un incessante tumulto di schiere di combattenti, un suono di tube, e un rumore di incalzante galoppo di cavalli che si slanciavano e scalpitavano sugli elmi dei moribondi, e il pianto dei vinti, i canti di vittoria e, sopra tutto, il canto delle Parche. Te felice, Ippolito, che nella giovinezza hai potuto
percorrere il vasto regno dei venti! e se il timoniere alzò le vele facendo rotta al di là delle isole Egee,
certo sentisti le sponde dell’Ellesponto risuonare e avrai sentito il moto delle onde ribollire e gemere mentre trascinavano le armi di Achille sulla tomba di Aiace: la morte rende con giustizia ai valorosi la gloria meritata; né la mente astuta, né la protezione dei re potevano conservare ad Ulisse,
re di Itaca, le armi di Achille, premio difficile da conquistare, perché l’onda, suscitata dagli dèi dei
morti, le strappò dalla poppa della nave di Ulisse che vagava per i mari.
202. Eubèa: l’isola che è di fronte alla
pianura di Maratona.
206. larve guerriere: ombre di guerrieri.
207. pugna: latinismo per «battaglia».
209. tube: specie di trombe con le quali si
davano i segnali per la battaglia.
212. Parche: le dee che decidono il destino degli uomini.
217-218. dell’Ellesponto i liti: le coste
dell’Asia Minore dove sorgeva Troia.
219-220. armi d’Achille... Aiace: Fosco-
lo riprende in questi versi il mito di Aiace,
al quale già si era ispirato per la composizione dell’omonima tragedia. Durante la
guerra di Troia, dopo l’uccisione di Achille da parte di Paride, le armi del più grande eroe greco dovevano essere assegnate
a colui che, dopo Achille, si era dimostrato il più forte fra i Greci. Erano in lizza
Aiace Telamonio e Ulisse. Agamennone e
Menelao, i re capi dell’esercito greco, non
vollero assegnare le armi ad Aiace che le
meritava per la sua forza e il suo valore, e
le concessero ad Ulisse. Sconvolto per
l’ingiustizia subìta, Aiace impazzì. Fece
strage di greggi scambiandole per i suoi
rivali, quindi si uccise, e fu sepolto sul
promontorio Reteo. Gli dèi protettori dei
morti, però, fecero sì che il mare raccogliesse le armi di Achille dal naufragio
della nave di Ulisse e le portasse sulla
tomba dello sfortunato eroe.
223. ardue: difficili.
225. inferni Dei: gli dèi dei morti.
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Analisideltesto
I «grandi»
Nella terza parte del carme, Foscolo considera la funzione civile del sepolcro nella sua dimensione storica.
Il ricordo delle tombe dei grandi personaggi sepolti in Santa Croce (Machiavelli, Michelangelo, Galilei) dura nei secoli e
stimola anche nel periodo attuale a compiere imprese valorose.
Da queste tombe, dall’esempio di un passato glorioso, gli italiani potranno trarre la
forza per riscattarsi dalla decadenza e
dall’asservimento in cui sono caduti. Per
questo lo stesso Alfieri amava recarsi nella chiesa di Santa Croce, dove ora riposa,
e la sua sepoltura ispira ancora ai visitatori amore per la patria.
A partire da questo collegamento, Foscolo prosegue ripercorrendo i miti di
Aiace e di Elettra.
Tutto il passo risente di modelli letterari,
in particolare nell’uso di ricordare i personaggi attraverso la figura retorica dell’antonomasia*, cioè senza citarne il nome,
ma elencando i tratti più significativi della loro personalità. Ma ciò che è notevo-
le, in questi versi, è soprattutto la capacità di sintetizzare e di racchiudere in immagini il significato ultimo delle personalità dei grandi che vengono ricordati. Fedele alla sua idea che la poesia lirica
«canta con entusiasmo le lodi de’ numi e
degli eroi», Foscolo costruisce qui e nei
versi successivi dei personaggi che trasforma in simboli. E proprio nei «grandi»
sepolti in Santa Croce la poesia esercita
pienamente la sua funzione di memoria e
di celebrazione dei valori di cui sono portatori gli «eroi».
lavoraresultesto
2. Il mito di Aiace è condensato in una
Comprensione
Sintesi
sorta di massima. Quale?
1. L’attacco (vv. 151-154), che rappresenta una nuova svolta nel tessuto di argomentazione del carme:
a. esprime un’ipotesi;
b. è un’affermazione netta;
c. esprime una speranza e un augurio.
Approfondimento
1. Utilizzando l’apparato delle note ricostruisci in sintesi il mito di Aiace.
Analisi
1. Evidenzia nel testo l’inizio e la fine di
ogni periodo.
Produzione
1. Elenca i grandi che sono celebrati in
questi versi.
L’ENJAMBEMENT NELLA POESIA DI FOSCOLO
Nel carme gli enjambements sono numerosissimi; Foscolo usa questo strumento retorico per annullare la
cantabilità dei versi e creare misure ritmiche ampie,
mobili, duttili. Con l’enjambement spezza legami sintattici e di significato a volte assai forti, isolando parole-chiave all’inizio del verso successivo, oppure
crea effetti di «legato». Rileggiamo ad esempio i vv.
182-185:
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
L’enjambement, annullando la pausa di fine verso,
crea un tempo e uno spazio ampio nel quale il polisindeto* intensifica la visione drammatica della storia italiana.
T13
Solo la poesia può dare l’immortalità
Dei Sepolcri,
vv. 226-295
Il grande tema della poesia chiude il carme: solo la voce dei poeti può superare l’oblio e vincere il silenzio dei secoli, e la figura di Omero è l’emblema e il simbolo di questa facoltà che Foscolo invoca anche
per i suoi versi. La costruzione del personaggio-simbolo del poeta greco è preparata da lontano e presuppone il racconto epico-lirico che si sviluppa attraverso le figure di Elettra, della discendenza troiana, di Cassandra. Qui avviene il passaggio logico conclusivo nel quale il poeta proclama la superiorità
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della poesia. La poesia è un elemento civilizzatore capace di conservare in eterno memorie e idealità,
più della tomba che, al contrario, è soggetta al tempo.
Metro: endecasillabi sciolti.
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E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con le sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplée fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tróade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove die’ Dàrdano figlio
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: «E se – diceva –
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
Per parte mia, possano le Muse, che danno vita al pensiero umano, chiamare me, che la meschinità del momento e il desiderio di onore costringono a un continuo vagare in esilio tra genti diverse, per immortalare con la poesia gli eroi. Le Muse siedono a custodia delle tombe degli eroi, e quando il tempo con le sue ali fredde spazza via perfino le rovine di quei sepolcri, le Muse fanno lieti con
il loro canto i deserti, e la bellezza del canto sopravanza il silenzio della morte di mille secoli. E ancora oggi nella regione in cui sorgeva Troia resa sterile perché non più coltivata, ai viaggiatori appare splendente per la sua eterna gloria un luogo, consacrato all’eternità grazie alla Ninfa (Elettra)
alla quale si unì Giove, e al dio diede un figlio, Dàrdano, da cui discese la stirpe che fondò Troia, e in
particolare Assaraco e i cinquanta figli sposati di Priamo, fino alla gente Giulia che fondò l’Impero
di Roma. (E questo avvenne) perché, quando Elettra sentì che la Parca la chiamava dall’atmosfera
piena di vita della luce per avviarla ai Campi Elisi, dove le anime intrecciano danze, rivolgendo a
Giove l’ultima implorazione diceva: «Se mai ti furono cari i miei capelli, il mio viso e le dolci notti
d’amore, e il volere del destino non concede a me in quanto mortale una sorte migliore, l’immorta-
227. ir: andare. Ritorna il motivo foscoliano del «reo tempo», dell’età colpevole,
che costringe chi voglia conservare dignità e dirittura morale a non scendere a
compromessi e ad andare in esilio.
228-229. ad evocar... animatrici: il compito che Foscolo si augura è quello di evocar gli eroi, eternare nella memoria, tramite l’arte, il ricordo degli spiriti eletti. Le Muse, secondo il pensiero mitico greco, erano
appunto figlie di Mnemosine, la memoria.
232. Pimplée: epiteto delle Muse, alle
quali era sacro il monte Pimpla, in Mace-
donia.
235. inseminata: non più coltivata e
quindi resa sterile.
237-240. Ninfa... gente: Foscolo si attiene a una delle tante genealogie dei
Dardànidi, i mitici fondatori della civiltà
troiana, ai quali si ricollegarono i poeti e
gli storici di Roma antica per nobilitare
l’origine della loro città. Da Dardano discese Erittonio, quindi il figlio Troo (da
cui deriva uno dei nomi della città di
Troia); da questi nacquero Ilo (dal quale
deriva Ilio, l’altro nome di Troia), Gani-
mede (che fu rapito in cielo perché fosse
coppiere degli dèi) e Assaraco: da Ilo deriva la stirpe regnante della città che termina con Priamo, da Assaraco il «ramo
cadetto» al quale apparteneva Anchise
che, unitosi a Venere, generò Enea, da cui
proviene la successiva generazione dei
Romani.
241. Parca: Atropo, quella delle tre Parche che tagliava il filo della vita.
243. cori: danze; cori è un grecismo.
246. assente: consente.
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onde d’Elettra tua resti la fama».
Così orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio; e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dì mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: «Oh se mai d’Argo,
ove al Tidìde e di Laérte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura opra di Febo
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
lità, almeno dall’alto del cielo continua a mostrare la tua benevolenza verso l’amica morta, in modo che rimanga la fama della tua Elettra». Pregando così, moriva. E Giove Olimpio se ne addolorava e, facendo con il capo immortale un cenno d’assenso alla preghiera, faceva piovere dai suoi capelli l’ambrosia sul corpo della Ninfa, rendendolo sacro assieme al suo sepolcro. Qui ebbe sepoltura Erittonio e vi dormono le spoglie mortali di Ilo il giusto; qui le donne troiane si scioglievano i capelli cercando di allontanare, ahimè, invano, dai loro mariti il destino di morte che incombeva su
di loro. Qui venne Cassandra, quando il Nume di Apollo che abitava in lei la spingeva a predire la
fine di Troia; e cantò alle anime dei Troiani un carme profetico ispirato all’amore di patria, e guidava i nipoti su quelle tombe, e insegnava ai giovinetti il canto funebre che esprimeva amore di patria. E sospirando diceva: «Oh se mai il cielo permetterà a voi di tornare qui da Argo, dove accudirete i cavalli di Diomede, figlio di Tidèo, o di Ulisse, figlio di Laerte, invano cercherete la città vostra
patria. Le mura, costruite da Febo (Apollo), saranno fumanti sotto le loro rovine. Ma i padri fondatori di Troia e i suoi eroi continueranno ad avere la loro sede in queste tombe; giacché è una concessione dei Numi tutelari della patria conservare nobile fama anche nella sventura.
E voi palme e cipressi che le mogli dei figli di Priamo piantano, e che purtroppo crescerete assai
251-252. accennando... ambrosia: il
cenno di Zeus è un tema mitologico già
presente in Omero. Il primo degli dèi, con
un semplice movimento del capo o del sopracciglio, faceva tremare il mondo, e così esprimeva la volontà definitiva della divinità. Si ricordi che l’ambrosia, nella mitologia classica, è una prerogativa degli
dèi, difficilmente definibile: è insieme cibo
e bevanda che, se gustati, danno l’immortalità, ma è anche unguento e profumo di
cui gli dèi si cospargono i capelli e il corpo.
254-255. Ivi posò... cenere d’Ilo: la tom-
ba di Elettra diventa per la stirpe troiana
ciò che per l’Italia è Santa Croce, il luogo
sacro dove vengono sepolti i grandi e gli
eroi e da dove si traggono gli auspìci per
le azioni gloriose, perché vi abitano i Numi tutelari della patria. Non a caso ritornano in questi versi termini che erano
già comparsi nel carme proprio in relazione a Santa Croce (posò, dorme).
256. deprecando: allontanando.
258. Cassandra: Cassandra era una figlia di Priamo. Apollo, innamoratosi di
lei, le fece dono delle facoltà profetiche
grazie alle quali prevedeva il futuro ma,
sdegnato per essere stato rifiutato dalla
giovane, la condannò a non essere mai
creduta nelle sue profezie.
263. Argo: qui Argo è citata come indicazione generica di tutte le città greche
da cui provenivano gli eserciti che avrebbero distrutto Troia.
267. opra di Febo: le mura di Troia sono
definite opra di Febo perché, secondo il mito, esse furono edificate da Apollo (Febo)
e Nettuno.
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proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i Prenci Argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceano.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane».
presto innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei antenati: e chi rispettoso delle leggi religiose terrà lontana la scure e non vi abbatterà, meno si dovrà dolere di sciagure familiari e potrà
accostarsi agli altari toccandoli con mani pure (voi, palme e cipressi), un giorno vedrete aggirarsi
sotto le vostre antichissime ombre un cieco mendico (Omero), ed entrare brancolando nei sepolcri,
ed abbracciare le tombe, e interrogarle. Le cavità più nascoste del sepolcro risuoneranno d’una voce lamentosa e ogni tomba svelerà la storia di Troia, rasa al suolo per due volte e per due volte risorta sopra le strade rese deserte dalla precedente rovina, ancora più splendida, per rendere più bello il definitivo trionfo dei Greci strumenti del fato. Il poeta, sacro cantore della civiltà umana, placando col suo canto il dolore di quelle anime afflitte, renderà eterna la memoria dei re e degli eroi
greci per tutte le terre che sono circondate dall’Oceano, gran padre del mondo. E nello stesso tempo tu, o Ettore riceverai l’onore del compianto, fino a quando sarà considerato sacro e degno di lacrime il sangue versato per la patria, e fino a che il Sole splenderà sopra le sciagure degli uomini.
278. toccherà l’altare: la preghiera prevedeva che si poggiassero le mani sull’ara del dio che si invocava.
282. avelli: gli edifici costruiti o le came-
re scavate nella roccia, dove si collocavano le tombe vere e proprie.
288. Pelidi: la stirpe di Pelèo, quella di
Achille, l’eroe più forte, e di suo figlio Pir-
ro, che prese il suo posto dopo che Achille fu ucciso.
292. Ettore: l’eroe troiano per eccellenza, simbolo del valore sfortunato.
Analisideltesto
La poesia
«vince di mille secoli il silenzio»
Il carme approda all’esaltazione della
poesia, un tema centrale nella riflessione
foscoliana. L’opera distruttrice del tempo
e della natura distruggerà anche i sepolcri; spetta allora alla poesia dare voce agli
eroi e alle loro imprese e renderne eterno
il ricordo, come fece Omero cantando la
storia di Troia. La figura-simbolo del poe-
ta greco chiude il carme in un crescendo
di intensità; in essa Foscolo riassume l’idea stessa della poesia e ne esemplifica
la potenza: dove un tempo sorgeva Troia
ora c’è un deserto, ma il luogo resterà famoso in eterno, così come l’esempio del
valoroso Ettore, morto per salvare la patria, si tramanderà nei secoli, attraverso i
versi del poeta. La poesia che qui viene
esaltata come modello non canta solo le
grandi imprese dei vincitori, ma ha il compito anche di serbare il ricordo degli
sconfitti e delle loro sofferenze, quindi di
stimolare i posteri sia ad azioni gloriose
che alla pietà e alla compassione per i
vinti.
Il vecchio cieco che interroga la tomba di
Ilio, nodo di affetti e di amor patrio, non
solo è la poesia antica, ma l’ideale di
poesia cui Foscolo si ispira, tanto è vero
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che l’intero episodio è introdotto dall’invocazione dei vv. 226-228 («E me che i
tempi... me ad evocar gli eroi chiamin le
Muse»), quasi a suggerire un parallelo tra
l’immagine potente di Omero e Foscolo
che, scegliendo di cantare il sepolcro,
chiede alle Muse di essere chiamato al
grande ufficio della poesia di tutti i tempi.
In questa ultima parte del carme ritornano in maniera implicita, attraverso la narrazione e le immagini, tutti i temi che Foscolo ha in precedenza costruito intorno
al valore del sepolcro: il significato affettivo della tomba nelle parole di Elettra, la
funzione educativa e civile delle tombe
dei grandi nel lamento di Cassandra e infine la poesia che dà eternità.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Omero è il personaggio-simbolo che
riassume l’idea stessa di poesia. Come
viene rappresentato in questa parte del
carme? In quale sonetto Foscolo parla ancora di Omero, e come lo rappresenta?
2. In uno scritto (Lettera a Monsieur Guillon), inviato al letterato francese che aveva criticato i Sepolcri, Foscolo parla di Ettore come del «più nobile e men fortunato
dagli eroi». Chi era Ettore? Secondo te,
per quale ragione, tra tanti eroi vincitori, il
poeta ha scelto la figura di un vinto?
a. Perché Ettore è il personaggio preferito da Omero;
La critica
b. perché l’eroe infelice genera nel lettore
più commozione;
c. perché la figura dell’eroe infelice, vittima del destino, si inscrive nella sua concezione pessimistica della vita;
d. perché la figura dell’eroe infelice era in
sintonia con la propria esperienza e con
l’immagine di sé costruita in tanta parte
della sua opera.
Analisi
1. Rileggi i vv. 226-229. Ritornano motivi
già espressi nel carme e in altre opere foscoliane. Quali?
2. In questi versi ritorna ripetutamente
l’attacco «E» a inizio di periodo. Quale funzione espressiva riveste?
Sintesi
1. Elenca i personaggi evocati in questi
versi.
Produzione
1. Per Foscolo la poesia vince l’oblio del
tempo e della morte. Secondo te, attraverso quali opere o forme di espressione
l’uomo contemporaneo può essere ricordato?
IL VALORE DELL’ILLUSIONE
Antonino Pagliaro spiega che Foscolo, nel porsi il problema del significato della tomba, parte da una negazione del
suo valore sul piano filosofico; questo presupposto razionale non gli impedisce, però, di cogliere l’importanza che comunque essa ha per l’uomo e per il suo destino. L’uomo è
proteso a negare Ia sua mortalità, a tentare, in qualche modo, di sconfiggerla, e la tomba lo «aiuta» in tal senso, consentendogli di crearsi un’illusione che è condizione essenziale
del suo vivere. Del resto, su delle illusioni si fondano i princìpi religiosi e morali cui l’uomo deve attenersi per garantirsi
una possibilità di convivenza civile con gli altri.
Partendo da presupposti filosofici di tipo materialistico, Foscolo finisce col superarli, pur senza negarli mai, e a poco valgono, rispetto alla sua opera, i rilievi critici che, muovendo da
posizioni diverse, non sanno coglierne la logica interna e la
profonda malinconia che ne garantisce il livello poetico.
Lo schema del carme si attiene con assoluto rigore al
tema della tomba e della sua rivendicazione come
valore umano, nei confronti delle leggi napoleoniche che lo misconoscevano. La tomba viene assunta
per quello che è nel costume, una realtà che ha un
suo rilievo di ordine affettivo, sociale e storico, nella
vita di tutte le comunità civili: il suo posto è all’ombra dei cipressi; è adorna di fiori ed è confortata dalle visite e dal pianto dei vivi. Questa realtà, sul piano
della verità assoluta, che coincide nel pensiero di Foscolo con la verità della natura-materia, quale ci appare dall’osservazione e dalla indagine, non ha valore, perché non può dare stabilità e durata al caduco
(la speranza cristiana nella risurrezione non soccorre), ed essa stessa, come ogni altra cosa, è travolta dal
moto incessante e irresistibile che spezza e confonde
perennemente le forme di tutto ciò che esiste. Il vero
assoluto è per Foscolo la natura, più propriamente,
questa forza cosmica che trascina l’universo in un
incessante divenire, in cui le forme della materia appaiono come realtà transeunti1 e caduche.
Sullo sfondo di questa negazione, che è un vero e proprio presupposto, per quanto generico, di credo filosofico, la tomba si pone come cosa assai importante
1. transeunti: passeggere.
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nei confronti dell’uomo e del suo destino. Infatti, il valore che ognuno vi annette è in ragione del desiderio,
presente in lui come in tutti, di ritardare il proprio perdersi, come consistenza di persona, nella notte dell’oblio. Tale sentimento di ciascuno si integra nella prerogativa pure generale, ma propria ed esclusiva dell’uomo, di potersi intrattenere sul piano della memoria anche con chi non appartiene più alla realtà fisica
ed esiste solo come immagine riflessa nella coscienza
di chi lo ha conosciuto vivente. Questa facoltà è celeste, quasi soprannaturale, perché consente di stabilire un campo di rapporti, al di sopra della legge della
materia ed eludendo il suo rigore: la tomba è la condizione, l’istituto per dire così, di un tale corrispondere.
Il concretarsi all’esterno, in istituto, di questa facoltà
dell’uomo va di pari passo con il suo togliersi dallo stato ferino e l’affermarsi di quelle forme civili del vivere,
che impongono affetti e rispetti, fuori e oltre le forme
concrete dell’esistere materiale.
Perciò la tomba è un dato della storia, una facoltà
umana che si atteggia in concreto con una sua libertà e intorno alle cui modalità diverse si può dare
un giudizio di valore sulla base della conformità al
suo fine (oppure giudizio di simpatia, diremo noi).
Rispetto ai valori, di cui si costituisce la storia, ha
funzione preminente, giacché contribuisce a mantenere la tradizione e ad elevarla con il ricordo di coloro che più hanno contribuito a sottrarre l’umanità al
predominio della materia e farla vivere nel modo che
più le è proprio. La tomba fornisce un punto di riferimento per l’esaltazione dei grandi e di quegli eroi
che, come Ettore rispetto a Troia, forniscono con il lo-
ro valore e il loro sacrificio un’espressione eroica della devozione a quella continuità ideale, che costituisce la patria.
Tutto ciò, di fronte a quella forza cosmica che tutto
annienta e trasforma, di fronte all’assolutezza della
sua disperata verità, si qualifica come illusione; ma
questo illudersi è condizione ed essenza dell’essere
uomini. (...)
I Sepolcri sono un documento del pensiero del Foscolo;
pensiero che è potuto diventare poesia, perché affonda le proprie radici nell’intimo della coscienza, come
essa sente, ama «l’armonia del giorno». Sullo sfondo
dell’amarezza del morire fisico, che si sistema a nozione del trasformarsi incessante di tutte le cose, si erge
una visione virile della vita, additata come l’unico rimedio, poiché in qualche modo appaga l’ansia di esistere oltre di sé. Non c’è dubbio che tale visione, in cui
domina il valore della tradizione e della patria, come
forme essenziali del sopravvivere terreno, muove non
da secchi presupposti razionali, bensì da un sentire
che si immedesima con tutta la personalità del poeta.
Di essa egli non dà, né ha bisogno di dare, una giustificazione razionale; anzi è disposto a considerarla come
illusione, quando si guardi alla sua relatività rispetto
all’assoluto dell’eterno finire. Ma nell’ambito dell’uomo, e delle facoltà che a lui solo la stessa natura ha
conferito, tale relatività diventa per lui assolutezza: la
vita raggiunge la propria assolutezza nelle forme eroiche dell’agire, così come la raggiunge nell’arte, che dà
realtà duratura a momenti di superiore creatività.
[A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, D’Anna, MessinaFirenze 1956]
LE GRAZIE
La struttura e la composizione Le Grazie si presentano come un’opera che non solo non è conclusa, ma non ha unitarietà, in quanto si compone di un
insieme di frammenti poetici che hanno come elemento comune l’esaltazione di immagini di bellezza
e temi di carattere mitico-allegorico. La composizione delle Grazie comincia nel 1803 quando inizia ad
affacciarsi in Foscolo l’idea di una poesia d’argomento mitologico. Intorno al 1809 già pensava a un
componimento intitolato alle Grazie secondo quanto testimonia una lettera inviata al Monti il 12 dicembre del 1808 nella quale, parlando dei suoi progetti poetici, parla anche di una serie di «inni italia-
ni» di cui uno, rivolto alle Grazie, «ove saranno idoleggiate tutte le idee metafisiche sul bello». Riprese a
lavorare al progetto solo tra l’agosto e il settembre del
1812, a Firenze, dove fu colpito dalla statua della Venere di Canova che era stata collocata nel maggio del
1812 nella galleria degli Uffizi. Prese corpo in questi
mesi una prima redazione composta per altro di
frammenti. Nella primavera del 1813 ritornava a lavorare all’opera maturando l’idea di scrivere non un
solo inno ma un «Carme tripartito», composto cioè
di tre inni dedicati rispettivamente a Venere, Vesta e
Pallade. Questo progetto non prese mai una vera e
propria forma e Foscolo continuò a lavorare sui
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frammenti composti e a scrivere nuove parti. L’insieme di questi testi furono trascritti sul cosiddetto
«Quadernone» dove compare la divisione in tre inni.
Un filo narrativo Le Grazie, scrive Foscolo, sono
entità «intermedie tra il cielo e la terra, dotate della
beatitudine e della immortalità degli dei, ed abitatrici invisibili fra i mortali per diffondere sovr’essi i favori de’ Numi»; esse educano gli uomini al dominio delle passioni, alla benevolenza e al pudore. Su tutto
questo si fonda l’intento didattico del carme che dovrebbe mostrare la funzione civilizzatrice delle Gra-
Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812-16, marmo, San Pietroburgo,
Ermitage
zie. Questo aspetto è rilevabile nello sviluppo narrativo di cui diamo conto per quanto riguarda i frammenti contenuti nella redazione del «Quadernone».
Il primo inno è dedicato a Venere e narra la nascita
delle Grazie che emergono dal mare e diffondono tra
gli uomini l’armonia; il secondo, dedicato a Vesta,
racconta i riti che tre donne (la fiorentina Eleonora
Nencini, la bolognese Cornelia Martinetti, la milanese Maddalena Bignami) offrono in onore delle
Grazie sulla collina di Bellosguardo. La prima donna
suona l’arpa, la seconda porta in dono un favo simbolo della poesia, la terza danza. Il terzo inno è dedicato ad Atena. Controversa la datazione dei Versi del
velo che raccontano la tessitura di un velo che Pallade dona alle Grazie per proteggerle dalla passione degli uomini. Tutti e tre gli inni sono dedicati allo scultore Antonio Canova.
I temi In quanto opera non conclusa, Le Grazie
hanno dato origine a interpretazioni divergenti: come svolta, rinuncia rispetto agli ideali della poesia
precedente, o come continuazione, se pure in forme
differenti, dello stesso impegno di poeta. L’opera foscoliana per il fatto di essere la più vicina al neoclassicismo, sarebbe da leggere come una sorta di rinuncia alla poesia d’impegno civile che si era
espressa nei Sepolcri, una involuzione verso forme
pure, levigate ed eleganti ma non più nutrite da contenuti ideali e morali.
In realtà le Grazie non segnano una svolta nelle idee
estetiche foscoliane e tanto meno una rinuncia a
quell’ideale di poesia lirica che abbiamo fino ad ora
esposto e testimoniato, ma piuttosto un mutamento tematico che nasce dall’ulteriore approfondirsi
della visione negativa dell’uomo e della storia. La novità è pertanto nell’identificazione della bellezza come valore supremo e del bello morale con l’armonia,
anche perché queste scelte tematiche rimarcano polemicamente il suo giudizio negativo sulla storia e
oppongono la poesia alla realtà.
T14
La comparsa di Venere e delle Grazie agli uomini primitivi
Le Grazie,
Inno primo,
vv. 82-150
Il passo che riportiamo è tratto dall’Inno primo intitolato a Venere; ne diamo la versione attestata nella
redazione del cosiddetto «Quadernone» (vv. 82-150). È la scena in cui la divinità si mostra agli uomini e
si fa riconoscere per i suoi miracolosi effetti e rende manifesti i suoi poteri. L’episodio è un sapientissimo intreccio di quadri che si alternano, al fine di evidenziare, per contrasto, la perfezione delle dee e l’orrore dello stato primitivo dell’umanità.
Metro: endecasillabi sciolti.
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Poi come l’orme della Diva e il riso
delle vergini sue fer di Citera
sacro il lito, un’ignota violetta
spuntò a’ piè de’ cipressi, e d’improvviso
molte purpuree rose amabilmente
si conversero in candide. Fu quindi
religione di libar col latte
cinto di bianche rose, e cantar gl’inni
sotto a’ cipressi, e d’offerire all’ara
le perle e il fiore messagger d’Aprile.
L’una tosto alla Dea col radiante
pettine asterge mollemente e intreccia
le chiome dell’azzurra onda spumanti:
l’altra sorella a’ zefiri consegna
a rifiorirle i prati a primavera
l’ambrosio umore ond’è irrorato il seno
della figlia di Giove: vereconda
la terza ancella ricompone il peplo
su le membra divine, e le contende
di que’ selvaggi attoniti al desìo.
Non prieghi d’inni o danze d’imenei
ma de’ veltri perpetuo l’ululato
tutta l’isola udia, e un suon di dardi
e gli uomini sul vinto orso rissosi
e de’ piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l’aratro
a que’ feroci, invan d’oltre l’Eufrate
chiamò un dì Bassaréo giovine dio
a ingentilir di pampini le balze:
il pio stromento irruginìa su’ brevi
solchi sdegnato; divorata innanzi
1-3. Poi come... lito: poi, non appena il
contatto del piede di Venere (Diva) e il sorriso delle sue Grazie (vergini) resero santo
il lido dell’isola di Citera. – ignota: fino ad
allora mai vista, mai spuntata prima.
5-6. molte... in candide: molte rose rosse
si tramutarono in bianche per partecipare al nuovo spirito di purezza. Il passaggio
dal rosso, emblema della passionalità, al
bianco, colore della castità, è chiaramente simbolico.
6-10. Fu quindi... d’Aprile: da qui (quindi) nacque la tradizione rituale (religione)
di versare in offerta alla divinità (libar)
latte circondato da rose bianche e di cantare inni sotto i cipressi e di portare come
offerta sull’altare di Venere perle (sacre
appunto a Venere) e viole (il fiore messagger d’Aprile).
11-13. L’una tosto... spumanti: subito
una delle tre Grazie col pettine splendente
(radiante, raggiante) dolcemente pulisce
(asterge) ed intreccia i capelli della dea ancora bagnati dalla spuma delle azzurre onde.
14-17. l’altra... Giove: l’altra Grazia
sparge al vento (a’ zefiri consegna) le stille
(umore) di ambrosia di cui è (ond’è) ancora bagnato il petto di Venere, figlia di Giove, perché faccia per lei rifiorire i prati a
primavera.
17-20. vereconda... al desìo: la terza delle Grazie, ancella della dea, spinta dal pudore (vereconda) ricompone i lembi del peplo sul corpo di Venere, e ne impedisce la
vista (contende) a quei selvaggi storditi da
quella visione e invasi dal desiderio.
21-23. Non prieghi... udia: per tutta l’isola non si sentivano inni di preghiera né cori e danze per celebrare matrimoni (Imenèo era un dio protettore delle nozze e per
estensione il termine indicava anche il rito nuziale), ma si sentiva continuamente
il latrare dei cani da caccia. Religione e legami matrimoniali sono fonti di civiltà; si
ricordi il passo dei Sepolcri: «Dal dì che
nozze e tribunali ed are / diero alle umane
belve esser pietose...» (vv. 90 e sgg.).
24-25. e gli uomini... grido: (ma si sentiva) la lotta degli uomini che si litigavano
l’orso abbattuto e le grida dei cacciatori
feriti (piagati) dagli animali inferociti.
26-29. Cerere... balze: senza risultato
Cerere, la dea delle messi, aveva donato a
quegli uomini belluini l’aratro, e invano
un giorno aveva chiamato dall’Asia (d’oltre l’Eufrate, dalla Mesopotamia) Bacco
(Bassaréo, epiteto del dio dalla città asiatica di Bassara dove era venerato), il dio
giovane (non solo Bacco era rappresentato come un giovane, ma, originario di
culti orientali, era anche l’ultimo degli
dèi che si erano aggiunti all’Olimpo greco), perché rendesse feconde (ingentilir)
dei pampini della vita gli aspri fianchi dei
monti. Secondo la mitologia classica sia
l’agricoltura che il vino furono dono degli dèi agli uomini perché abbandonassero il primitivo stato ferino.
30-33. il pio... d’autunno: l’aratro, strumento sacro (perché dono di una dea),
trascurato (sdegnato), arrugginiva sui solchi appena accennati e subito interrotti
(brevi); e la vite veniva divorata prima che
maturasse (imporporasse) i grappoli al sole autunnale. L’immagine dei grappoli di-
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che i grappoli novelli imporporasse
a’ rai d’autunno, era la vite: e solo
quando apparian le Grazie i predatori
e le vergini squallide e i fanciulli
l’arco e il terror deponeano ammiranti.
Con mezze in mar le rote iva frattanto
lambendo il lito la conchiglia, e al lito
pur con le braccia la spingea le molli
Nettunine. Spontanee s’aggiogarono
alla biga gentil due delle cerve
che ne’ boschi Dittei schive di nozze
Cintia a’ freni educava; e poi che dome
aveale a’ cocchi suoi pasceano immuni
di mortale saetta. Ivi per sorte
vagolando fuggiasche eran venute
le avventurose, e corsero ministre
al viaggio di Venere. Improvvisa
Iri che segue i Zefiri col volo
s’assise auriga, e drizzò il corso all’Istmo
del Laconio paese. Ancor Citera
del golfo intorno non sedea regina:
dove or miri le vele alte su l’onda
pendea negra una selva, ed esiliato
n’era ogni Dio dai figli della terra
duellanti a predarsi: i vincitori
d’umane carni s’imbandian convito.
Videro il cocchio e misero un ruggito
palleggiando la clava. Al petto strinse
sotto il suo manto accolte le gementi
sue giovinette, e, O selva ti sommergi,
Venere disse, e fu sommersa. Ah tali
vorati anzi tempo può far pensare alle vigne non curate e assalite da uccelli e altri
animali, ma forse sono gli stessi bruti
umani a mangiarli, incapaci di distinguere il buono dal cattivo.
34-36. quando... ammiranti: all’apparire delle Grazie i feroci cacciatori, le giovani donne che non avevano cura del loro
corpo (squallide) e i fanciulli deponevano
l’arco e cessavano di essere preda del terrore (di essere attaccati dagli altri), presi
com’erano dall’ammirazione. Le Grazie
fanno sì che l’uomo cessi di essere «lupo»
per l’altro uomo.
37-40. Con mezze... Nettunine: intanto
la conchiglia, che faceva da cocchio a Venere, andava lungo la spiaggia con le
ruote mezze sommerse nel mare, e le
Ninfe del Mare (Nettunine), molli della
sua acqua, la spingevano verso il litorale
solo (pur) con la spinta delle braccia. Il
cocchio non era cioè ancora trainato da
alcun animale.
40-45. Spontanee... saetta: spontaneamente si sottomisero al giogo della nobile
(gentil) biga due cerve, mai accoppiatesi
(schive di nozze) che Diana (Cintia, perché
nata, assieme al fratello Apollo, sul Monte Kynthos) allevava (educava) nei boschi
del Monte Ditte perché si abituassero ai
finimenti (freni); e dopo che la dea le aveva abituate ad essere attaccate ai suoi
cocchi, pascolavano rese invulnerabili
(immuni) dalle frecce degli uomini. Come
spiegò Foscolo, questa immagine delle
cerve di Diana che si sottomettono al cocchio di Venere simboleggia la resa della
caccia che «cede a studi più umani».
45-48. Ivi per sorte... Venere: per caso,
vagando (vagolando, intensivo presente
anche nei Sepolcri, v. 71: s T10) in fuga,
quelle cerve che si erano allontanate dai
luoghi loro abituali (avventurose), erano
giunte lì e si slanciarono per favorire (ministre, aiutanti) il viaggio di Venere.
48-51. Improvvisa... paese: improvvisamente Iride (la messaggera degli dèi,
identificata anche con l’arcobaleno), che
vola veloce come i venti (i Zefiri), si sedette sul cocchio come auriga e indirizzò il
cammino verso l’istmo che collegava Citera con la Laconia.
51-52. Ancor... regina: a quel tempo Citera non era ancora un’isola, non stava come una regina nel mare del golfo; Foscolo
immagina che Citera fosse collegata al Peloponneso, di cui la Laconia è una regione,
da una striscia di terra, un istmo.
53-57. dove or... convito: dove adesso vedi (miri) le vele innalzarsi sulla superficie
del mare, una oscura selva si stendeva (pendea) sul fianco dei monti e ogni Dio, ogni
sentimento religioso, era ignoto (esiliato/
n’era) agli uomini di quella terra, occupati a
duellare per strapparsi la preda: i vincitori
imbandivano, per nutrirsi, i corpi dei vinti.
58-59. Videro... clava: quegli uomini ferini videro il cocchio di Venere e fecero ondeggiare tra le mani le clave. Il verbo «palleggiare» venne usato più volte dal Foscolo
nelle sue traduzioni da Omero per tradurre
il verbo greco pàllein, che indicava appunto
lo scuotimento dell’asta nella mano prima
del lancio per meglio assestare la presa.
59-61. Al petto... giovinette: Venere
strinse al petto, sotto il suo manto, le sue
tre Grazie che gemevano per la paura.
61-62. O selva... sommersa: di fronte al-
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fors’eran tutti i primi avi dell’uomo!
Quindi in noi serpe miseri un natio
delirar di battaglie e se pietose
nol placano le Dee, cupo riarde
ostentando trofeo l’ossa fraterne;
ch’io non lo veggia almeno or che in Italia
fra le messi biancheggiano insepolte!
la ferinità che non si vuole arrendere alla grazia civilizzatrice non rimane che la
distruzione per intervento divino; terminando così l’invenzione precedente Foscolo spiega come Citera, sacra a Venere,
sia diventata un’isola.
62-67. Ah tali... fraterne: ahimè, forse
tutta la prima progenie umana era così selvaggia e feroce! e per il fatto che noi discendiamo tutti da quella (Quindi) in noi mise-
ri uomini serpeggia un primigenio (natio)
istinto che ci fa esaltare insensatamente
(delirar) per la lotta e se le Grazie, avendo
compassione per noi, non placano tale
istinto (nol, non lo), esso torna a infiammarsi di nuovo e ci porta a mostrare (ostentando) come un glorioso trofeo di vittoria le
ossa di altri uomini, nostri fratelli.
68-69. ch’io... insepolte: che io, almeno,
non veda tutto questo (lo, indica quanto
detto al v. 67) adesso che in Italia ossa insepolte biancheggiano nei campi su cui
crescono le messi. Nel momento in cui Foscolo scriveva questi versi, 1813, erano in
corso guerre napoleoniche, ma non in
Italia; quindi il riferimento non può essere considerato puntuale, relativo cioè ad
un contemporaneo fatto d’arme, ma una
considerazione generale sulla violenza dei
tempi che aveva toccato anche l’Italia.
Analisideltesto
La bellezza
porta la civiltà agli uomini
Il tema principale di questi versi è l’effetto
della comparsa di Venere e delle Grazie
sugli uomini primitivi; tema che, necessariamente, da un punto di vista concettuale, si intreccia con quello dell’esaltazione
della divinità. La tesi è quella solita del Foscolo: solo la bellezza serenatrice placa le
passioni istintive e belluine e avvia l’uomo
verso la civiltà; tesi illustrata anche attraverso la rappresentazione dell’inutilità degli sforzi degli altri dèi, Cerere e Bacco, di
riscattare il genere umano dallo stato di
ferinità (cfr. vv. 26-36) con il dono dell’aratro e della vite. Particolare tutt’altro che
inutile, perché da questi versi viene chiarito il pensiero del Foscolo, cioè che la nascita della civiltà è travagliata e difficile,
impedita non tanto dalla ignoranza degli
uomini, alla quale le scoperte possono
porre rimedio, ma dal fatto che secondo
Foscolo la società umana è sorta e vive
nella violenza. Questo vizio è tanto radicato negli uomini che l’apparizione delle
Grazie non basta a eliminarlo, ma, come
viene detto nei vv. 65-66, occorre la presenza continua e costante della bellezza
per mantenere allo stadio di latenza la ferocia umana, per impedirle di mostrarsi.
Dall’immagine all’allegoria
I versi che abbiamo letto mettono in luce
le scelte poetiche di Foscolo nel momento in cui scrive le Grazie. Nei versi del poemetto si nota la perfetta corrispondenza
tra l’idea e l’immagine poetica che la rappresenta: questo garantisce la perfetta
coerenza di pensiero e parola, la compattezza stilistica che è uno dei pregi maggiori delle Grazie. Il mito, le antiche figure,
i gesti dei personaggi richiamano situazioni letterarie, spesso preziose, colte e
rare, che il Foscolo attingeva dai testi
classici. Ma il carattere specifico della sua
poesia è che i testi antichi non «entrano»
in quello nuovo, non sono fonte di semplici citazioni; piuttosto forniscono una fisionomia ai singoli personaggi che viene utilizzata dal poeta per caricare la rappre-
sentazione della scena di significati simbolici.
I versi riportati, infatti, sono ricchi di particolari desunti dalla mitologia classica
quasi insignificanti; si consideri ad esempio il dato che la viola è uno dei fiori simbolo della primavera incipiente e per questo legato tradizionalmente alle divinità
fecondatrici della terra ed anche a Venere; notizia che utilizzata così come si riceve dalle testimonianze classiche darebbe
origine solo ad una «nota di colore», ad
una citazione. Ma Foscolo vivifica tutto
questo semplicemente con l’aggiunta di
un aggettivo: «un’ignota violetta / spuntò»,
per cui quella di cui parla non è più una
viola qualsiasi, ma «la prima viola», sconosciuta fino a quel momento; ecco dunque che il fiore acquista tutta la sua valenza simbolica di bellezza nascosta, fragile,
che nasce appartata, ma che per il suo
apparire precoce rispetto all’esplosione
della primavera (la chiama «fiore messagger d’Aprile» al v. 10) rappresenta il momento originario del trionfo della vita.
lavoraresultesto
Comprensione
1. Qual è il metro delle Grazie?
2. Dividi in «scene» distinte l’apparizione
di Venere e attribuisci un titolo ad ognuna.
3. All’apparizione di Venere si contrappone la vita selvaggia di Citera. Quali aspet-
ti mette in risalto il poeta?
4. Come e perché Citera diventa un’isola?
presente. Quale? Hai trovato lo stesso tema in altre opere foscoliane?
Analisi
Produzione
1. Alla fine del passo che abbiamo letto
Foscolo approda ad una riflessione sul
1. Commenta l’espressione natio / delirar
di battaglie (vv. 64-65).
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IL GUSTO
DI LEGGERE
T15
Un ritratto ironico
Ippolito Nievo,
Le confessioni
di un italiano,
cap. XI
Ippolito Nievo (1831-1861), nel suo romanzo Le confessioni di un italiano [s modulo Le confessioni di
un italiano, p. 805], ricostruisce insieme alla storia dei suoi personaggi, anche le vicende dell’Italia, dalla crisi della società settecentesca fino al Risorgimento. All’interno di questo lungo arco di tempo è raccontato con ampiezza quanto avvenne a Venezia tra la notizia dell’arrivo delle truppe napoleoniche e il
trattato di Campoformio. La pagina che presentiamo ricostruisce un episodio storicamente testimoniato: una riunione segreta tra patrioti, nobili veneziani e il segretario della legazione francese in Venezia,
Joseph Villetard, finalizzata ad ottenere l’abdicazione del governo oligarchico della città e la costituzione di una repubblica democratica prima dell’ingresso di Napoleone. Così avvenne: il 12 maggio il Maggior Consiglio della Serenissima Repubblica di San Marco abdica e subentra una Municipalità provvisoria. Il 16 maggio le truppe francesi entrano in Venezia.
Nievo, pur rimanendo sostanzialmente fedele ai documenti, racconta la riunione notturna con qualche
libertà, ad esempio introducendo tra i partecipanti anche personaggi d’invenzione. Alla riunione, secondo la ricostruzione del romanzo, partecipa anche il giovane Foscolo, che esordisce richiamando alla
memoria Bruto – il figlio adottivo di Cesare che fu organizzatore della congiura delle Idi di marzo – come difensore delle libertà repubblicane contro il nascente impero di Cesare e di Ottaviano. La circostanza è inventata, poiché Foscolo in quella data si trovava a Milano, ma a Nievo interessa presentare qui
un ritratto non proprio benevolo del grande poeta per sottolinearne gli atteggiamenti eccessivi, teatrali e politicamente immaturi.
Restammo noi pochi, l’eletta, il fiore della democrazia Veneziana. Il Dandolo era quello che parlava di più, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s’era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta,
e disse quasi pensando a voce alta:
«Temo che faremo un bel buco nell’acqua!».
«Come? – gli diede sulla voce il Dandolo. – Un buco nell’acqua ora che tutto arride
alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d’Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall’abiezione ove eravamo caduti?».
«Io sono medico; – soggiunse pacatamente Lucilio. – Indovinare i mali è mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo».
«Cittadino, non disperar della virtù al pari di Bruto! – uscì a dire come ruggendo un
giovinetto quasi imberbe e di fisionomia tempestosa. – Bruto disperò morendo; noi siamo per nascere!».
Quel giovinetto era un Levantino di Zante, figliuolo d’un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli
fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel Gennajo allora decorso sul Teatro di Sant’Angelo avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte che non avea fiatato in tutta la sera si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che so-
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migliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c’era l’invidia dell’ingegno, la più fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s’accorgeva di restar soperchiato, e credeva
ricattarsi coll’accrescer veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d’uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l’orecchio, o se gli dava qualche zaffata era più per noja che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il più strano e comico
esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran
principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto al tu per tu
una lettera di consiglio all’Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle
sue tirate lugubri e de’ suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto
rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano così facilmente né all’apatia né alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta.
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VERIFICAdifinemodulo
ModuloAutore
Ugo Foscolo 523
PER RIPRENDERE IL FILO DEL DISCORSO
1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso di affermazioni false, riscrivi la frase in maniera corretta.
a. La vera formazione di Ugo Foscolo avvenne
a Venezia dove studiò e dove frequentò gli
ambienti che facevano di Venezia una città
dalla vita culturale vivace.
v f
____________________________________________________
b. Ugo Foscolo partecipò agli eventi del suo
tempo solo sul piano dell’impegno personale. v f ____________________________________________________
c. Dopo il trattato di Campoformio Foscolo
rifiutò qualsiasi incarico pubblico.
v f
____________________________________________________
d. Il personaggio di Jacopo Ortis reinterpreta
idealmente l’esperienza dell’autore.
v f
____________________________________________________
e. Il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis
ebbe scarso successo soprattutto per il cupo
pessimismo che lo pervade.
v f
____________________________________________________
f. La pubblicazione della raccolta intitolata Poesie
rappresenta una data decisiva nella storia della poesia
foscoliana per la novità e l’originalità dei testi. v f ____________________________________________________
g. Nei sonetti foscoliani che hai letto, l’autore
tende a realizzare una poesia costruita
secondo ritmi armoniosi, melodie facili.
v f
____________________________________________________
h. Foscolo definisce il suo ideale di poesia intorno
a due concetti: il mirabile e il passionato.
v f
____________________________________________________
i. Per diversi anni Foscolo insegnò come
professore di eloquenza all’università di Pavia. v f ____________________________________________________
j. Col carme Dei Sepolcri Foscolo si propone come
poeta civile, capace di indicare valori e ideali
attraverso personaggi che assumono
nel carme la funzione di simboli.
v f
plessa che si sviluppa soprattutto attraverso immagini,
evocazioni di miti e di personaggi-simbolo. Ricostruisci le
tesi esposte nel carme.
LEGGERE LE OPERE
E COMPRENDERE L’AUTORE
2. La figura di Vittorio Alfieri esercitò un forte fascino su Foscolo che scrisse tragedie sul modello alfieriano e che dall’opera e dalla vita di Alfieri trasse il modello di un individualismo ribelle, aristocratico, insofferente delle regole, in perenne contrasto con la miseria del suo presente. Ricostruisci
questo aspetto della personalità letteraria di Foscolo attraverso le opere che conosci.
3. A proposito dell’Ortis Foscolo scrive: «Posso dire di averlo
scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe (prendilo quindi come fosse la mia stessa carne). Da quello conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtù, le mie passioni, i miei
vizi e la mia fisionomia». Queste parole testimoniano l’interpretazione che Foscolo volle dare dell’Ortis come del tutto autobiografico, come «romanzo del suo cuore». Commenta.
4. Il carme Dei Sepolcri ha una struttura argomentativa com-
RAFFORZAMENTO DEL LESSICO
5. Nel linguaggio di Foscolo, come solitamente accade per
i grandi autori, ricorrono espressioni e parole che assumono sfumature e valenze particolari per il contesto tematico
e culturale in cui sono usate. Ti chiediamo di precisare il significato delle seguenti:
cuore _____________________________________________
affetti _____________________________________________
struggere __________________________________________
compassione ______________________________________
incontaminato _____________________________________
furore _____________________________________________
fremito ____________________________________________
petto _____________________________________________
ardere ____________________________________________
ingegno ___________________________________________
esaltazione ________________________________________
VERSO L’ESAME
6. Analisi del testo.
Ti proponiamo un sonetto (VII) tratto dalle Poesie.
4
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;
8
giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:
11
talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:
14
di vizj ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.
■ Comprensione
a. Dopo aver fatto la parafrasi riassumi il contenuto della lirica in non più di dieci righe.
b. Quando fu pubblicata la raccolta? La tematica del sonetto è vicina a quale altra opera di Foscolo?
■ Analisi
c. Esamina il testo a livello metrico-ritmico (tipo di versi, rime, tipo di componimento).
d. Analizza il lessico.
■ Approfondimento
e. Contestualizza la lirica in rapporto all’esperienza biografica di Foscolo e all’immagine di eroe romantico che il poeta ha voluto dare di sé.
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Primo Ottocento
Lo scenario
GLI EVENTI
1815
1820-1822
1830-1831
1832-1844
1837
1848
1848-1849
1852
1853-1856
1859
1860-1861
1861-1876
1866
1870-1871
Si chiude il Congresso di Vienna; Austria, Russia
e Prussia formano la Santa Alleanza.
Moti per la Costituzione in Spagna, a Napoli e in
Piemonte.
Rivoluzione in Francia: monarchia costituzionale
di Filippo d’Orléans; rivoluzioni in Belgio (resosi
indipendente dall’Olanda), in Polonia e moti in
Italia (repressi).
Tentativi insurrezionali mazziniani in Italia.
Sale al trono della Gran Bretagna la regina
Vittoria, che regnerà fino al 1901.
Rivoluzioni in Sicilia, a Parigi (nasce la Seconda
Repubblica), Vienna, Praga, Budapest, Berlino,
Venezia, Milano. Carlo Alberto concede la
Costituzione (Statuto albertino).
Manifesto del Partito comunista di Marx ed
Engels.
Prima guerra d’Indipendenza; Carlo Alberto
abdica; Vittorio Emanuele II re di Sardegna.
Luigi Bonaparte imperatore dei Francesi col
nome di Napoleone III.
Cavour Primo ministro del Regno di Sardegna.
Guerra di Crimea; alleanza franco-piemontese.
Seconda guerra d’Indipendenza; annessioni al
Regno di Sardegna di Lombardia, Emilia
Romagna, Toscana.
Spedizione dei Mille; proclamazione del Regno
d’Italia.
Governi della Destra storica in Italia.
Guerra austro-prussiana; l’Italia ottiene il Veneto.
Guerra franco-prussiana; proclamazione
dell’Impero germanico.
Comune di Parigi.
Roma capitale d’Italia.
al punto di vista sociale ed economico,
l’Ottocento è il secolo della definitiva
affermazione della borghesia, che guida il
processo di modernizzazione della società
europea. La rivoluzione industriale, che era
iniziata in Inghilterra, si diffonde presto in
Europa, con il parallelo sviluppo di
un’economia di tipo capitalistico. Il processo di
industrializzazione modifica profondamente i
costumi, gli stili di vita, i rapporti familiari,
l’aspetto delle città. Le tensioni sociali presenti
nella vita di fabbrica danno origine alle prime
organizzazioni sindacali e ai partiti di
ispirazione socialista.
Alle trasformazioni sociali ed economiche
dovute all’industrializzazione corrisponde, sul
piano politico, il crollo dell’ancien régime e la
nascita di una nuova Europa, dominata dalla
classe borghese. Napoleone aveva imposto alle
nazioni comprese nell’Impero da lui creato la
legislazione francese e un modello di Stato
moderno centralizzato, contribuendo in questo
modo a rinnovarne profondamente le strutture
sociali e politiche. Le forze conservatrici
protagoniste della Restaurazione cercarono di
ripristinare, dopo la caduta di Napoleone,
l’ordine dell’ancien régime, riportando le
vecchie dinastie sui rispettivi troni. Ma ben
presto l’ordine restaurato con il Congresso di
Vienna cominciò a vacillare: i moti del ’20-21
e del ’30-31, seguiti dal grande
sommovimento rivoluzionario del ’48 («la
primavera dei popoli»), mostrarono come fosse
impossibile, ormai, arrestare i processi di
trasformazione in atto. Da un lato si
affermavano i movimenti liberali (favorevoli a
una monarchia costituzionale, sul modello
inglese) e repubblicani (contrari a ogni forma
di monarchia); dall’altro prendevano vigore le
rivendicazioni di indipendenza e unità
nazionale (per esempio in Belgio, Italia e
D
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Germania), che determinarono la nascita di
nuovi Stati nazionali.
Un’analoga rottura rispetto al passato avviene
nell’ambito culturale: la moderna letteratura che
si andò formando fu quella romantica, che in
maniera polemica si volle distaccare
dall’orientamento neoclassico: l’esaltazione della
sensibilità individuale e dell’arte frutto di
un’ispirazione libera da condizionamenti, il
recupero delle radici cristiane e medievali della
cultura europea, il rifiuto delle regole retoriche e
stilistiche tradizionali furono i capisaldi del nuovo
modo di concepire l’arte e la letteratura. I
romantici vollero contrapporsi al freddo
razionalismo settecentesco per decretare la
superiorità dei sentimenti. Il Romanticismo si
fece portavoce degli ideali di libertà e
indipendenza e divenne la bandiera delle giovani
generazioni di intellettuali nella lotta contro il
«vecchio»: le concezioni di popolo, di patria, di
nazione, che presero corpo nell’Ottocento col
significato che ancora oggi conservano, furono
prodotti della cultura romantica. Per questo la
cultura romantica esaltò il ruolo e le funzioni
della storia, intesa come fonte di comprensione
della realtà sociale e recupero della dimensione
nazionale. Affermatosi in Germania, Inghilterra e
Francia, il Romanticismo trovò maggiori
resistenze in Italia, dove era più consolidata la
tradizione classicista, ma, a partire dal 1816,
nacque un movimento romantico anche in Italia,
soprattutto a Milano, che già nel Settecento era
stato il centro più aperto al confronto con la
cultura europea.
I CONCETTI
Società industriale Nasce con l’industrializzazione, nel
senso che l’organizzazione del lavoro in fabbrica influisce in
maniera determinante sull’organizzazione sociale, sulla
mentalità, sui costumi e anche sulla produzione di cultura.
Essa è caratterizzata dalla crescita di una classe operaia, di
un ceto medio e di una classe di capitalisti: fra queste forze si
sviluppa lo scontro sociale e politico, ma anche culturale, per
tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento.
Lotta di classe Secondo le teorie di Marx, è quella che ha
provocato e continua a provocare i grandi cambiamenti di
civiltà; nella società industriale la classe operaia deve avere
come obiettivo la sconfitta della borghesia capitalista per la
conquista del potere, conquista che deve produrre il
passaggio allo Stato dei mezzi di produzione.
Romanticismo È il movimento culturale che, sviluppatosi in
Germania dagli ultimi anni del Settecento, dominò nella
cultura occidentale per tutta la prima metà dell’Ottocento.
Inizialmente si qualificò in antitesi con la cultura e le estetiche
settecentesche, rivalutando il ruolo del sentimento in
opposizione allo strapotere della ragione, ma in seguito diede
origine a una concezione dell’arte assai forte e articolata,
fondata sull’esaltazione del genio individuale, della piena
libertà di espressione, dell’abbattimento di ogni regola che
limitasse l’ispirazione. Componenti essenziali del
Romanticismo furono lo storicismo e il concetto di nazione.
IN QUESTA SEZIONE
Modulo Storico-culturale
• Il Romanticismo e la formazione dell’Europa contemporanea / L’eredità del periodo
Autori
• Giacomo Leopardi / dall’autore al tema Fare l’Italia e fare gli
italiani: il problema dell’identità nazionale
• Alessandro Manzoni
Opera
• Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo
Generi
• La lirica romantica in Europa
• Il romanzo nel Primo Ottocento
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Modulo
Storicoculturale
IellaRomanticismo
formazione
dell’Europa
contemporanea
MATERIALI
T1 Carlo Alberto consegna Milano agli
austriaci, da Dell’insurrezione di Milano nel
1848 e della successiva guerra, cap. XII, di
Carlo Cattaneo
T2 L’arrivo dei Mille in Sicilia raccontato
da un giornale borbonico, dal «Giornale del
Regno delle Due Sicilie», 13 e 18 maggio 1860
T3 Il ruolo storico della borghesia, dal
Manifesto del Partito comunista di Karl Marx
e Friedrich Engels
l’eredità del periodo
T4 Lo Statuto albertino
T5 La Costituzione della Repubblica Italiana
T6 Antichi e moderni, poesia ingenua e
poesia sentimentale, da Sulla poesia ingenua e sentimentale di Friedrich Schiller
T7 La poesia «viva» è romantica, da Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo al suo
figliolo di Giovanni Berchet
T8 Manzoni difende il Romanticismo, da
Lettera sul Romanticismo di Alessandro Manzoni
l’eredità del periodo
T9 Un esempio di realismo ottocentesco, da Papà Goriot di Honoré de Balzac
T10 Una strana descrizione di una stanza ipotetica, da Le cose di Georges Perec
CONTENUTI
✔ La Restaurazione fallisce, in quanto l’ordine europeo uscito dal Congresso di Vienna non si regge sulla concordia
tra le potenze che hanno sconfitto Napoleone.
✔ Il 1848, l’anno delle rivoluzioni, si chiude con il ripristino della situazione precedente, ma le condizioni sociali e
politiche sono in realtà mutate e segnano il trionfo definitivo della borghesia.
✔ Il Risorgimento come processo della formazione dello Stato unitario in Italia.
✔ Capitalismo liberista e socialismo sono le due ideologie che si confrontano nel corso del secolo.
✔ La nascita e i caratteri del Romanticismo, dalle sue prime manifestazioni in Germania alla diffusione in Europa e
in America.
✔ Varie tendenze del Romanticismo, convivenza in questa cultura di espressioni ispirate al lirismo più spinto con il
realismo ottocentesco.
✔ La polemica fra classicisti e romantici e i caratteri del Romanticismo italiano.
✔ La poesia italiana della prima metà dell’Ottocento, limiti e peculiarità; la straordinaria e isolata esperienza di
Giacomo Leopardi.
✔ La narrativa italiana e la funzione artistica e culturale di Alessandro Manzoni.
✔ Il dibattito ideologico in Italia.
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Modulostoricoculturale Il Romanticismo e la formazione dell’Europa contemporanea 527
l contesto
I
storico-politico
I CONTESTI
1 I Il fallimento della Restaurazione
La Restaurazione dell’Europa, progettata dal Congresso di Vienna, si rivelò un «ordine» destinato a
non durare. C’era una spaccatura fra le potenze europee dovuta alla loro diversità: la Russia viveva la
contraddizione fra alcuni aspetti di modernità e la
concezione autocratica (divina e assoluta) del potere
dello zar; l’Impero d’Austria spendeva la maggior
parte delle sue forze per mantenere un posto di rilievo in Germania e il proprio dominio su molte etnie
(slavi, ungheresi, italiani, cechi, slovacchi, croati,
polacchi, ecc.), in un’epoca in cui i popoli tendevano a formare uno «Stato nazionale» indipendente
[s L’eredità del periodo, p. 547]; la Prussia seguiva
una strada tutta sua (peraltro efficace) di modernizzazione e di egemonia sul mondo tedesco basata sull’autoritarismo e sulla forza militare. Con queste potenze poco avevano da spartire l’Inghilterra, già
avviata da tempo a rafforzare il regime parlamentare e liberale, e la Francia, che non poteva certo eliminare con un colpo di spugna i modi e le abitudini
di vita civile e politica assunti dalla Rivoluzione in
poi; lo stesso Luigi XVIII, il Borbone rimesso sul trono dalle potenze vincitrici di Napoleone, instaurò
una monarchia costituzionale (anche se i poteri del
Parlamento erano limitati) e mantenne in vita i Codici napoleonici, riconoscendo gran parte della legislazione precedente.
Riassumiamo alcuni passaggi che portarono di
fatto al superamento della situazione fissata dal
Congresso di Vienna.
● Le insurrezioni del 1820-21 per la «Carta
costituzionale» Numerosi moti insurrezionali furono promossi, in questo periodo, da alcune società
segrete, la più importante delle quali era la Carboneria, diffusa soprattutto in Spagna e Italia, che
raccoglieva alcuni aristocratici liberali [s p. 535],
professionisti, qualche artigiano e, in maggior numero, ufficiali degli eserciti che si erano formati ed
avevano iniziato la carriera nelle armate napoleoniche. L’obiettivo era quello di trasformare le monarchie assolute in monarchie costituzionali, perciò spesso i carbonari ebbero rapporti ambigui con gli stessi
principi, come avvenne nel Ducato di Modena, dove
Francesco IV inizialmente appoggiò i tentativi di cospirazione sperando di trarne vantaggi territoriali. I
moti iniziarono quasi sempre con l’ammutinamento di unità degli eserciti e in principio ebbero successo, nel senso che i re di Spagna, del Portogallo, delle
Due Sicilie furono costretti a concedere la Costituzione; nel Regno di Sardegna e nel Ducato di Modena si
arrivò allo scontro armato. Ben presto, però, intervennero le forze delle potenze che formavano la Santa Alleanza (composta da Austria, Russia e Prussia;
l’Inghilterra si era rifiutata di aderirvi: s modulo
L’Età napoleonica e il trionfo del Neoclassicismo, p.
429) e i re poterono restaurare i regimi assoluti. Iniziò una fase di dura repressione, condotta in Italia
dall’Austria nel Lombardo-Veneto e dai Borboni a
Napoli e in Sicilia, cosa che ebbe l’effetto di approfondire il solco che ormai divideva la borghesia
imprenditoriale e liberale dalle dinastie al potere.
● L’indipendenza della Grecia e la spaccatura
della Santa Alleanza Quando, nel 1821, gli insorti greci tentarono di creare uno Stato indipendente
dall’Impero ottomano e di cacciare i turchi, Francia
e Inghilterra, interessate ad accelerare la crisi della
compagine turca per aprirsi nuovi mercati nel Mediterraneo orientale, appoggiarono apertamente ed
anche militarmente la rivolta; la Russia si mantenne
sostanzialmente neutrale, mentre l’Austria non intervenne, poiché mirava a mantenere la supremazia
dell’Impero ottomano nella zona come argine all’espansionismo economico e militare di Francia e Inghilterra. Il riconoscimento dell’indipendenza greca
(pace di Adrianopoli, 1829) segnò la vittoria delle monarchie costituzionali inglese e francese, e la divisione interna alla Santa Alleanza fra Russia e Austria.
● La «Rivoluzione di luglio» in Francia La
spaccatura della Santa Alleanza si rese evidente con
la Rivoluzione di luglio, nel 1830, quando il popolo e
le classi borghesi e della nobiltà liberale si ribellarono
in Francia al tentativo di Carlo X, successore di Luigi
XVIII, di imporre una monarchia assoluta. Al suo
posto fu messo Luigi Filippo d’Orléans, re «dei francesi
per volontà della nazione», formula che dice chiaramente che la sua monarchia era costituzionale. Il
fronte delle potenze europee che avevano vinto Napoleone era di fatto rotto: da una parte le monarchie
assolute, dall’altra Francia e Inghilterra. Questa situazione ebbe riflessi immediati: il Belgio, che con il
Congresso di Vienna era stato annesso all’Olanda,
nel 1830 dichiarò la propria indipendenza; l’Olanda
chiese l’intervento delle altre potenze, ma la Francia
di Luigi Filippo e l’Inghilterra si opposero decisamen-
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528 Primo Ottocento
te e bloccarono l’azione di Austria, Prussia e Russia:
il Belgio fu riconosciuto indipendente. Le due monarchie costituzionali dimostrarono di costituire un
blocco con linee politiche ed interessi ormai decisamente contrastanti rispetto a quelle assolute.
2 I Il ’48, l’anno delle rivoluzioni
Nel 1848 l’Europa continentale andò «a fuoco»:
quasi dappertutto scoppiarono rivoluzioni che, almeno inizialmente, videro alleate le masse cittadine
degli operai e degli artigiani con la borghesia liberale e progressista; le insurrezioni avevano l’intento di
rovesciare i regimi assoluti e autoritari e in certi casi di ottenere l’indipendenza. Diamo brevemente
conto dei principali avvenimenti.
12 gennaio 1848: rivolta a Palermo contro i
Borboni per ottenere la Costituzione, ma anche con
forti tensioni autonomiste da Napoli; Ferdinando II di
Borbone deve concedere la Costituzione.
● Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, annuncia
la concessione dello Statuto [s T4] una Costituzione assai limitata e moderata; segue immediatamente il suo esempio Leopoldo II di Toscana e, un poco più
tardi, papa Pio IX, suscitando così un clima di entusiasmo e di aspettativa tra i patrioti di tutta Italia.
● 22 febbraio: scoppia a Parigi la rivoluzione contro la monarchia di Luigi Filippo; questa si era ormai
trasformata in un regime semiautoritario che favoriva gli interessi di una ristretta cerchia di ricchi borghesi ed era avversata dai liberali, come dai democratici, dai socialisti e dai nostalgici del potere napoleonico. Luigi Filippo è costretto a fuggire e a Parigi si forma un governo che per la prima volta comprende due
membri socialisti; si preannunciano elezioni a suffragio universale maschile per dar vita ad un’Assemblea
costituente che crei la Seconda Repubblica (la prima era quella nata dalla Rivoluzione del 1789).
● 13 marzo: studenti e lavoratori scendono in piazza a Vienna; l’imperatore è costretto a licenziare il
primo ministro Metternich, l’ideologo della Restaurazione.
● 15 marzo: rivolta a Budapest, capitale dell’Ungheria; a capo del movimento si pongono i patrioti
democratico-radicali guidati da Lajos Kossuth che
prima fanno eleggere a suffragio universale un Parlamento, quindi si muovono per dichiarare la piena
indipendenza dall’Austria.
● 17 marzo: una grande manifestazione di popolo
●
a Venezia ottiene dalle autorità austriache la liberazione dei detenuti politici, in particolare di Daniele
Manin, che si pone a capo della rivolta; il 23 marzo
viene proclamata la Repubblica Veneta.
● 18-23 marzo: le Cinque Giornate di Milano, durante le quali borghesi e popolani combattono contro le truppe austriache del generale Radetzky, guidati da democratici come Carlo Cattaneo [s T1] e da
gruppi di liberali. Il 22 marzo anche alcuni aristocratici si uniscono ai rivoltosi e si forma un governo
provvisorio; il giorno dopo Radetzky abbandona Milano e si ritira con l’esercito nel Quadrilatero, il territorio delimitato dalle quattro città fortificate di Verona, Legnano, Mantova e Peschiera. Lo stesso 23 marzo Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria ed entra
in Lombardia; il suo intento, però, è assai diverso da
quello dei patrioti lombardi che mirano a creare una
repubblica autonoma in Lombardia e Veneto, perché
il re piemontese spera di annettere le due regioni al
suo regno. Anche i patrioti degli altri Stati italiani sono in grande fermento e manifestazioni popolari costringono i sovrani a schierarsi con Carlo Alberto:
Ferdinando II delle Due Sicilie, Leopoldo II di Toscana e lo stesso Pio IX sono costretti a dichiarare guerra all’Austria e a inviare contingenti in Lombardia.
● 18 marzo: scoppia una rivolta a Berlino, la capitale della Prussia, e il re Federico Guglielmo IV deve
concedere la Costituzione e permettere l’elezione di
un Parlamento; intanto la rivolta si estende a molti
Stati che costituiscono la Confederazione Germanica; successivamente, i rappresentanti di questi Stati
si riuniscono in un’Assemblea costituente per avviare
un processo di unificazione tedesca.
● Aprile: si forma a Praga un governo provvisorio,
inizialmente orientato a chiedere all’Austria solo
una maggiore autonomia, ma dopo gli atti repressivi dell’esercito austriaco la lotta diviene cruenta.
3 I Le rivoluzioni falliscono:
la fine dell’alleanza fra classe
operaia e borghesia liberale
Da questo quadro sembrerebbe che le rivoluzioni
siano state un’ondata inarrestabile, capace di trasformare in pochi mesi l’intero assetto europeo; invece, con una velocità pari a quella con cui si accesero, vennero represse o fallirono. Possiamo riassumere in alcuni punti le cause di questa evoluzione
negativa dei movimenti rivoluzionari, elencandone
gli elementi di debolezza.
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