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Antologia minima - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Antologia minima - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano
Aldo Deli
Guerra di liberazione
era necessario “un posto al sole”?
Non entro nel grave attualissimo tema
della denatalità europea: penso invece
con ironia ad Hitler che coltivava il mito
della razza pura mentre ora, in Germania, ci sono più di tre milioni di turchi..!
È proprio vero che a volte la storia fa
matte risate sulle nostre trovate, e chissà quante ancora ne farà! A scuola (rivado nei lontani tempi della mia adolescenza) non s’insegnava e nemmeno si
accennava al culto della libertà, ma si
esaltavano quelli del nazionalismo e della forza. Si diceva e si ripeteva, al canto
di “Giovinezza” (parole di Salvatore Gotta) “molti nemici, molto onore”. Vecchio
vizio se trovo che addirittura nel 1896 il
buon Cesare Selvelli (poi ingegnere) ce
l’aveva a morte con Menelik e in alcune
strofette “garibaldine” gli dava del boia,
dell’assassino, del birbaccione. Ricordo
la guerra contro l’Abissinia (1935) e mi
chiedo che cosa mai ci aveva fatto il Negus Neghesti (re dei re) Ailé Selassié.
Me lo sono chiesto in ritardo, ma allora
erano gli anni del “consenso” al fascismo e gl’italiani, troppi, molti, avevano
abbassato la testa, obbedendo al Duce.
A scuola e per ogni dove ci veniva detto
che avevamo bisogno di “un posto al
sole” perché nella penisola eravamo in
troppi e non c’era lavoro per tutti. Gli
studenti si mostravano particolarmente
sensibili al richiamo del Capo e lo mostravano facendo grandi “dimostrazioni”; da noi a Fano era così, cantando,
oltre a “Giovinezza”, “L’inno di Roma”
(che era stato musicato da Giacomo
Puccini) e dando anche saggio del “passo romano” che, benché copiato dal tedesco “passo dell’oca”, serviva o doveva
servire a dare vigore, a coltivare sogni
di gloria.
Le dimostrazioni non erano preparate
con la cartolina precetto, bastava passare la voce e spesso nel pomeriggio,
con la banda del 94° fanteria in testa,
gli studenti sfilavano per il Corso o in
Piazza ripetendo lo slogan infame che il
giornalista Mario Appelius lanciava dalla
radio: “Dio stramaledica gli inglesi!”. Ricordo che in una di quelle dimostrazioni
un cartello illustrato mostrava un balilla che faceva la pipì nella bocca aperta
del Negus, ma soprattutto ho in mente
qualche strofetta allora in voga: “Caro
Negus se permetti/ in Italia stiamo stretti/ allungheremo lo stivale/ fino all’Africa
Orientale”. E poi ricordo: “Con la barba
del Negus ci farem gli spazzolini/ ci pulirem le scarpe al Re e a Mussolini”. Quando Dio vuol perdere una persona la fa
impazzire, ma il diavolo più lieve (come
argutamente nota Salvatore Satta) la fa
ridere e la fa diventare ridicola.
E noi ridevamo molto, il diavolo era con
noi, vittime predestinate non capivamo
nulla del disvalore che il regime ci propinava. Chi riusciva a capirlo (ma erano troppo pochi) finiva in prigione o al
confino. E il posto al sole? Fu una favola
breve con brutta fine.
2004
Storie o storielle di casa nostra
Ormai sono passati sessantatre anni.
Quel giorno, nel tratto di strada fra via
Giordano Bruno e Borgo Cavour mi
apparve proprio lui, Mussolini col gran
faccione giallo incastrato fra sahariana
e berretto bianchi. Proveniva dal campo d’aviazione dove era stato ossequiato dalle autorità. I fanesi applaudivano
e lui sorrideva: l’aver da poco dichiarato
guerra a Francia e Inghilterra e ricevere tanti applausi dai cittadini di Fanum
Fortunae doveva sembrargli di buon augurio, e lui ne aveva tanto bisogno.
C’erano molti, e non tutti giovanissimi,
che per ben fissare in mente quel volto atteggiato a fierezza e paternalismo
correvano a perdifiato dietro la Mercedes che, veloce, andava su per il Corso
rimasto sgombro da capi di stato o di
governo dal maggio 1857 quando Pio IX
scarrozzò per la nostra città che, solo tre
anni dopo, gli avrebbe voltato le spalle
per re Vittorio Emanuele. A Benito,
transitante per il Corso nell’estate del
1940, capitò di peggio tre anni dopo. A
lui quel giorno non gettarono petali di
rose come a Pio IX; anzi venne giù da
una finestra del “Gafòn”, poco prima di
arrivare al Caffè Centrale, un bel mazzo
di fiori ancora tutto ben legato: gli passò
a un palmo dalla visiera!
Maragno, il segretario politico (è inutile
aggiungere che c’era solo quello fascista) detto bonariamente “Cinq e tre òtt”
per via del suo claudicare dovuto ad una
mutilazione di guerra, impallidì: forse
sospettò un attentato; caspita potevano
colpirgli la testa! Quel segretario politico era noto per essere perpetuamente
in lotta con la lingua italiana. Una volta,
dal balcone della Casa del fascio in Piazza XX Settembre, aveva lanciato tuoni e
fulmini contro gli “anglofilini e francofilini”. Più tardi, dopo la dichiarazione di
guerra agli Stati Uniti, disse con incrollabile fede: “Abbiamo messo a pecorone la
Grecia, ci metteremo anche l’America!”.
Tuttavia, benché ispirato come Nostradamus, fece piuttosto cilecca nel suo
profetare osceno.
Nelle popolaresche storie cittadine quel
segretario politico era ricordato quale
vittima di ignoti ladruncoli che nottetempo gli ripulirono il pollaio, tralasciando per ironico sfregio un gracile striminzito galletto al collo del quale appesero
un militaresco cartoncino con la scritta
“rividibile”. Era il tempo del riso amaro.
Intanto Lui, quel giorno dell’estate
1940, proseguì verso Pesaro inseguito
dal martellante “du-ce, du-ce”. Eh, sì,
purtroppo parecchi fanesi l’avevano facile quel verso. Ricordo (l’ho già scritto
qualche anno fa) che quando il principe Umberto di Savoia venne a visitare
la scuola allievi ufficiali e si affacciò alla
finestra centrale del Casermone la gente
da sotto gli gridava: “du-ce, du-ce”. Ve
l’immaginate la sua faccia?
Questi fanesi, questi fanesi!
2003
Il bombardamento del 17 aprile 1944
Nell’aprile 1944 Fano subì ventun incursioni di aerei alleati: naturalmente e
purtroppo ci furono morti e feriti fra i
civili. Oltre ai ponti sul Metauro gli alleati avevano preso di mira la stazione
ferroviaria che nei loro rapporti (è fonte documentatissima il libro di Gastone
Mazzanti “Dalle vie del cielo a quelle della città”) chiamavano “scalo ferroviario”.
Gravissimo il bombardamento del 17
aprile. Sessant’anni fa le bombe sganciate da dodici aerei Marauders sudafricani
scortati da sei Spitfires (i famosi Sputafuoco) colpirono duramente Via Nolfi.
Gli edifici centrati dalle bombe sono ora
scomparsi e sostituiti da nuove costruzioni. Furono allora colpiti: La filanda
Solazzi, la vecchia sede delle Maestre
Pie Venerini, la farmacia S. Elena aggregata all’Istituto tecnico commerciale
(ex ospedale di S. Croce) che poi verrà totalmente spianato in un successivo
bombardamento, il portico e la chiesa di
S. Croce. Fu colpita anche la chiesa di
S. Agostino che non crollò del tutto ma
vide invece crollare il soffitto reso famoso da una prospettiva secentesca del
fanese Giovanni Battista Manzi (già attribuita a Francesco da Bibiena) raffigurante S. Agostino in gloria.
Non so se nella stessa occasione dalle
bombe fu provocato uno squarcio nelle mura malatestiano-pontificie, sopra
la linea ferrata, che mise in luce, come
scrisse il Selvelli, “un paramento secolare in grossolano opus reticulatum”
(sic!), muro di origine romana del quale
successivamente, riparando le mura, il
geom. Menegoni del Genio Civile ebbe la
felice idea di lasciare scoperto un breve
tratto.
2004
Il battaglione della liberazione
“fortes in fide”
Abbiamo avuto occasione di parlare, su
questo foglio, dello sbandamento dell’8
settembre 1943 nelle file dell’esercito. In
proposito merita ricordare un episodio
che i più non conoscono. Il giorno 9 il
Ten. Col. Giuseppe Cecchini aveva esortato i militari in servizio presso la Caserma Montevecchio a rimanere uniti. L’appello cadde nel vuoto; la stessa fine fece
l’invito rivolto al Comando del Campo
d’Aviazione di Fano dalla Concentrazione antifascista di Pesaro.
Il 16 settembre il Cecchini, uomo di profonda fede religiosa, assecondato da alcuni ufficiali, soldati e civili procedette
alla costituzione di un reparto, il primo
nella provincia, che venne chiamato
“Battaglione della liberazione Fortes in
Fide”; trasposizione in campo patriottico di un motto d’origine ecclesiale sul
tipo di quelli allora usati dall’Azione Cattolica. Il reparto si andò organizzando
nella zona di Mombaroccio, Monte della
Mattera, Monte Marino: poche bombe
a mano, due pistole d’ordinanza, alcuni
fucili da caccia erano tutto lo sparuto
armamento di quegli uomini. In seguito
furono ottenute altre armi; ma lo scopo
del Cecchini e dei suoi non era quello
di passare all’attacco dei tedeschi o dei
militi della RSI (che nel frattempo si
andava organizzando) affrontando le in-
cognite di una lotta civile. Lo scopo era
quello di tenere in piedi un nucleo operativo pronto a collaborare con gli alleati
non appena fossero sbarcati.
Un altro nucleo di dieci uomini, col tenente Reali, si costituì a Pergola con lo
stesso scopo. È da pensare che anche il
citato invito della Concentrazione antifascista al comandante del campo di
aviazione fanese si muovesse nella stessa logica: e cioè di mantenere libero il
campo per gli aerei alleati. Proponimenti generosi, come si vede, ma che nascevano da una superficiale valutazione degli avvenimenti in corso. Essi denotano
come fra molti fosse diffusa la speranza,
destinata a svanire in pochi giorni, di
una rapida evacuazione dei tedeschi sotto la spinta del moltiplicarsi di sbarchi
alleati. Le mosse del Col. Cecchini, che a
fine ottobre disciolse il concentramento
pur rimanendo in contatto con i suoi uomini, non passarono inosservate. Fino
al maggio 1944 egli venne ricercato con
l’accusa di diserzione e costituzione di
banda ribelle. Dal primo rifugio nel Seminario Regionale passò via via ad altre
sedi. Dopo la liberazione fu nella prima
giunta democratica fanese; successivamente aderì al Partito Cristiano-Sociale
dell’on. Bruni.
1993
Dopo l’8 settembre a Fano
Non intendiamo fare tutta la possibile
cronaca dei giorni e dei mesi che seguirono l’8 settembre, ma solo richiamare
qualche dato che molti non conoscono o
hanno dimenticato.
La Concentrazione antifascista di Pesaro pubblica sul “Corriere adriatico”
l’11settembre 1943 un ordine del giorno
e saluta “l’esercito con il quale il popolo
si stringe in una volontà sola per la difesa della Patria”. Le cose, però, andarono
diversamente. Il 14 settembre il Comando della zona militare di Ancona sciolse i
reparti stanziati a Fano. Ad evitare future accuse di diserzione i militari furono
inviati in licenza; nei giorni seguenti i tedeschi occuparono le caserme Paolini e
Montevecchio senza trovare alcuna resistenza. Il 14 e il 15 settembre c’era
stata l’invasione della caserma Paolini,
sede della scuola allievi ufficiali di complemento. Furono asportati materiali
e suppellettili, ma non furono preleva-
te armi o munizioni perché, si sentiva 44
dire, “ormai la guerra è finita”: quello 45
che sarebbe successo non era immaginabile dai più. E qui è bene ricordare
che subito dopo l’8 settembre molti a
Fano, come altrove, pensavano con notevole ingenuità, alimentata anche dalla
scarsità delle informazioni sui tedeschi
e sugli alleati, che fosse prossimo uno
sbarco degli angloamericani. Il tenente
colonnello Giuseppe Cecchini, del 94°
Fanteria, addirittura lo ipotizzò fra Ancona e Pesaro e, conseguentemente,
operò clandestinamente in tale ottica
organizzando, a partire dal 16 settembre, un piccolo reparto da lui chiamato
“Battaglione della liberazione “Fortes in
Fide”. Tale reparto che avrebbe dovuto
unirsi agli alleati non raggiunse mai la
consistenza e la forza di un battaglione
né condusse azioni belliche contro i tedeschi: la sua fu solo una testimonianza
di amor di Patria. Non è un di più ricordare che Giuseppe Cecchini era profondamente cattolico.
A Fano un distaccamento G.A.P. (Gruppo di Azione Partigiana) fu formato con
un centinaio di uomini solo nell’aprile
1944. L’iniziativa fu del locale Comitato di Liberazione Nazionale presieduto
dall’avv. Enzo Capalozza. Detto Comitato nel periodo clandestino aveva sede
permanente poco lontano da Fenile, nella villa Simonetta, messa a disposizione
dal dott. Hageman.
Comandante del distaccamento fu Valerio Volpini affiancato da chi scrive e
da Otello Vitali. Era un distaccamento
“sui generis” perché chi ne faceva parte (quasi tutti giovani) pur tenendosi
pronto ad ogni chiamata, continuava
ad abitare con la propria famiglia. Era
strutturato in sei squadre, forzatamente
limitato nell’armamento (qualche partigiano aveva solo la rivoltella). Si rivelò
più adatto a fare opera di sabotaggio
e azioni limitate più che a scendere in
campo aperto contro i reparti tedeschi.
Prima del distaccamento operavano
nel territorio del Comune due squadre
G.A.P. composte da pochi uomini: altri
fanesi, come si sa, operarono nei distaccamenti partigiani della zona di CagliCantiano; circa sessanta si arruolarono
nell’ottobre 1944 nel Corpo Italiano di
Liberazione. Non si hanno dati orientativi sugli effettivi fanesi nell’esercito della
Repubblica Sociale Italiana.
2003
Una Pasqua clandestina:
a Monte Giove con Valerio Volpini
Correva la primavera del 1944. Quell’anno la Pasqua era stata “alta”. Noi disertori dell’esercito della R.S.I e partigiani
l’avevamo festeggiata, come tutti, un po’
in sordina. Valerio qualche giorno dopo
mi disse: “Dobbiamo ‘prendere Pasqua’
e fare la Comunione”.
Non era un problema; il Seminario Regionale, luogo sicuro per noi, era lì vicino e ci avrebbe facilmente ospitato per
una breve permanenza.
Ma Valerio continuò: “Andremo a Monte
Giove, lì ci sono solo i frati e ci staremo
per un giorno intero, così avremo anche
modo di riflettere con calma”. Si vede
che nel suo animo c’era ancora nostalgia per i ritiri spirituali tante volte fatti
lassù. Valerio era il comandante del distaccamento partigiano fanese, io ero in
qualche modo il suo aiutante: entrambi
provenivamo dalla F.U.C.I., la Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Bene,
si decise per Monte Giove. Per non dare
nell’occhio andammo, una mattina di
buonora, solo noi due. Le inseparabili
biciclette, inservibili da Rosciano in su
(la “costa” per arrivare all’eremo è piuttosto lunga), ci sarebbero invece state
utili per il ritorno e pertanto non ce ne
separammo. Mentre salivamo parlammo
a lungo delle nostre responsabilità sia
verso chi faceva parte attiva della Resistenza (un centinaio di persone) sia verso la popolazione, in grandissima parte
sfollata dalla città e sistemata nelle case
e nei villaggi di campagna. Era costante
preoccupazione di Valerio non coinvolgere i civili in atti di guerra, evitando
quei colpi di testa che provocavano da
parte tedesca, lo sapevamo da vari racconti, feroci e selvagge rappresaglie.
Suonammo alla porta dell’eremo; venne
ad aprire don Michele, il padre “cellerario”, cioè l’economo della comunità monastica; ci conosceva bene e ci accolse
con grande affabilità. Spiegammo il perché della nostra visita; ci portò subito
in chiesa e fu lui stesso ad ascoltare la
nostra confessione e a somministrarci la
Comunione.
Intanto qualche altro camaldolese, incuriosito, venne e ci propose di salire
sul campanile; così, per passare un po’
di tempo. Salimmo e dopo poco fummo
involontari testimoni di un bombardamento aereo dalle parti di Pesaro. La
città non si vedeva, ma il brontolio degli
scoppi e le dense nuvole di fumo che,
grigiastre, si alzavano verso il cielo erano troppo eloquenti: per essere liberi
bisognava sopportare i bombardamenti
dei liberatori, che strana guerra!
Con padre Michele parlammo a lungo
del fronte che lentamente avanzava e
dell’attesa degli “alleati”. Il buon padre
non sospettava che di lì a poco tempo
l’eremo (che già custodiva preziosi codici della Federiciana) sarebbe diventato
rifugio per molti, nonché il bersaglio di
qualche colpo d’artiglieria!
A mezzogiorno ci fu offerto il frugale
pranzo a base di verdura, poi ancora padre Michele ci portò nella sua cella per
una specie di ritiro spirituale.
Venne il tramonto e noi due prendemmo
la via di casa. Avevamo “preso Pasqua” e
andavamo sereni incontro al nostro destino che, per grazia di Dio, fu felice. Ma
questo lo capimmo in seguito.
2002
Come Valerio divenne un “ardito”
In occasione del conferimento “alla memoria” della “Fortuna d’oro” a Valerio
Volpini sono stato invitato a dare di lui
una testimonianza. Non ho esitato ed
ho preso uno spunto da un accenno che
Valerio (al quale fui vicinissimo nel tempo della resistenza) fece nella rubrica
“Pubblico e Privato” apparsa per parecchi anni su Famiglia Cristiana. Voglio
dire che, senza vantarsi di nulla, scrisse
di aver preso parte alla liberazione del
Nord militando tra gli arditi del IX reparto d’Assalto.
Come giunse Valerio, anzi, come giungemmo in quel famoso e focoso reparto?
Dopo che Fano venne liberata nell’agosto 1944 parecchi ex partigiani erano
convinti (altra scelta politica) che una
forte presenza italiana fosse necessaria
fra le truppe alleate che avrebbero liberato il molto che ancora restava in mano
nemica. Fu così che dopo aver ben considerato ogni scelta seguì l’arruolamento
volontario nel Corpo Italiano di Liberazione che, nel frattempo, si era articolato in cinque divisioni armate ed equipaggiate dagli alleati. Valerio ed altri fanesi
partirono alla fine di ottobre. Da Fano,
in camion si giunse a Jesi. Qui cominciò
la mala avventura (diciamo così per
sfuggire ad ogni tentazione di retorica).
Alla stazione ferroviaria ci fecero salire
su vagoni-merce su cui certamente era
stato trasportato catrame. Ce n’erano
abbondanti inconfondibili tracce. Lì rimanemmo due giorni prima di giungere
a Roma dove fummo fatti salire su un’altra tradotta di carri-merce (oh, com’era
ridotta l’Italia!) che a passi di lumaca ci
portò verso Sud per raggiungere la zona
di addestramento. Avemmo occasione
di vedere l’allucinante spettrale visione
di Monte Cassino. Finalmente dopo un
viaggio massacrante fummo portati in
un accampamento nei pressi di Caserta:
era notte ma ugualmente trovammo la
possibilità di riposare alla menopeggio
ficcandoci nelle tende piene di soldati
sbandati.
Il giorno dopo fu una vera tragedia. Non
c’era per noi la colazione: pazienza, ci
arrangiammo alla meglio. Poi, più tardi,
ci dissero che non ci avrebbero distribuito nemmeno il rancio perché non c’era,
e nessuno aveva avvertito e provveduto
al nostro arrivo.
Allora Valerio, vedendo che ci trattavano con noncuranza, se non con ostilità,
si mosse verso la “tenda-comando” per
far valere la nostra protesta.
Dietro lui, che ormai era considerato il
capo, si misero in molti.
Davanti all’ufficiale responsabile del
campo avvenne una scena che è difficile dimenticare. Valerio su tutte le furie,
urlò e protestò, si strappò il fazzoletto
che teneva al collo, poi, improvvisamente, apparve nelle sue mani un revolver. Per fortuna fu svelto a disfarsi di
quell’arma che certamente avrebbe causato guai a tutti quanti, però continuò
nella sua audace e amara filippica.
L’ufficiale, pallido e sconcertato, gli diede ragione e disse che avrebbe provveduto subito a farci portare dove ci sarebbe stato per noi tutto quello che cercavamo. Non aggiunse altro. Però è facile
immaginare il pensiero che gli attraversò la mente: “Questi ex partigiani sono
un po’ matti, adesso li sistemo a dovere!”
Vennero poco dopo due camion e ci portarono a S. Angelo sul Volturno.
Pioveva a dirotto. Nessuno di noi sapeva
che lì c’era una compagnia (la 104 per
esattezza) del battaglione arditi “Col
Moschin”, il IX Reparto d’assalto. Fu
così che, senza aver presentato alcuna
richiesta, Valerio e gli altri si ritrovarono “arditi”, quasi per scherzo. Bah, non
parliamone più.
Quella compagnia poi schierata al fronte in prima linea partecipò alla presa di
Bologna, il 21 aprile 1945. Pochi giorni
dopo (la guerra ufficialmente terminò
l’8 maggio) fu impegnata a Monte Casale, vicino al Lago di Garda, nel combattimento che in Italia fu l’ultimo della II
guerra mondiale. Cinque dei nostri morirono; a pensarci bene ci volle coraggio
e imprudenza nel mettere a repentaglio
la propria vita negli ultimi cinque minuti
di guerra. Ma andò così, proprio così.
2002
1944: i pescherecci affondati
Nel 1944, alla fine di luglio, cominciarono a farsi sentire i cannoni degli alleati
che avanzavano verso il Metauro. Poi,
oltre al rombo, arrivarono i primi proiettili; ma al di là del Metauro la sosta dei
“liberatori” fu abbastanza lunga. I pochi
tedeschi di retroguardia si difesero con
accanimento.
Nel frattempo il locale comando germanico si preparava a compiere a Fano due
atti atroci: l’abbattimento dei campanili
(ho sempre creduto che ciò fu fatto per
odio contro il Vescovo Del Signore che
s’era proposto come amministratore della città dato che nessun laico si lasciava
convincere ad assumere, come volevano
i tedeschi, tale carica) e la distruzione
della flottiglia peschereccia.
Come sappiamo, il primo intento purtroppo riuscì; il secondo, per fortuna,
no.
Una foto che mostra i pescherecci affondati nel porto ha fatto concludere a molti che i marinai stessi affondarono tutte
le loro barche per salvarle dalla totale
distruzione. Ciò solo in parte è vero.
Alcuni pescherecci furono effettivamente e scientemente affondati da certi
marinai che riuscirono ad eludere la sorveglianza nemica. “Dei natanti rimasti i
tedeschi pensavano di fare un gran falò”,
così dice il foglio “Frusaglia” pubblicato
a Fano il 15 ottobre 1955.
E prosegue: “Tirava un forte vento da
est e logicamente bastava appiccare il
fuoco ai pescherecci posti in testa rispetto a quella direzione perché
le fiamme si propagassero alle altre imbarcazioni attraccate in fila indiana. Il
caso volle che proprio al levarsi dei primi
bagliori sorgesse altro vento con direzione del tutto contraria al precedente. Il
fuoco rimase circoscritto e si ebbero a
lamentare pochi danni. I tedeschi ricorsero allora a cariche di dinamite, sicché
i pescherecci affondarono ma senza subire danni irreparabili”.
Dopo la liberazione di Fano i marinai
cominciarono, con immensa fatica, a riportare a galla i natanti incuranti delle
risatine che i rudimentali mezzi a loro
disposizione suscitavano fra i soldati alleati i quali consigliavano di rimandare
tutto a tempi migliori.
L’ebbe vinta la tenacia dei marinai: fatto
sta che nel gennaio 1945 parecchi dei
pescherecci “affondati” ripresero finalmente il mare.
2003
All’alba del 20 agosto a Fano
strage di campanili
La mattina del 20 agosto 1944, verso
le sette, aprii la finestra (ero rifugiato in una casa colonica a Chiaruccia) e
come al solito guardai verso Fano. Per
un attimo ebbi la sensazione che la città
fosse del tutto scomparsa, sprofondata.
Da quella finestra in mezzo alla campagna mi erasempre apparsa, fra gli alberi,
la sagoma della sommità di quasi tutti
icampanili, quello di Santa Maria Nuova
in particolare; ma quella mattina avevo
davanti solo l’azzurro intenso del cielo:
mancavano i “segni crociati” della città.
All’alba i tedeschi della Wermacht, non
le SS, avevano fatto saltare i campanili più importanti e più belli: quello del
Duomo, di Santa Maria Nuova, di San
Paterniano, di Sant’Arcangelo e la torre
di piazza. Il giorno dopo la stessa sorte
toccò ai minori campanili di San Silvestro e di San Domenico (e così furono
sette!), ma toccò anche al maschio della
fortezza malatestiana, alla lanterna del
porto, alla torretta di una casa privata
tra via Froncini e via De Cuppis. Si salvarono i campanili di San Marco e di San
Francesco di Paola (alla stazione).
La cupola di San Pietro in Valle scampò
non si sa come al disastro; i tedeschi entrarono in chiesa e si accontentarono di
sparare colpi di pistola e di mitra contro
i settecenteschi angeli del transetto.
Perché tante rovine e tanto scempio di
edifici? Ancor oggi qualcuno pensa che
i campanili siano stati abbattuti perché
potevano servire da osservatorio agli alleati. E’ una tesi insostenibile.
Dal punto di vista militare poteva essere 46
valida nella prima guerra mondiale, non 47
già nel 1944 nella fase di avanzata degli
alleati abbondantemente dotati di aerei
ricognitori che tenevano sotto controllo,
notte e giorno, i vari settori del fronte.
Se i tedeschi avessero voluto distruggere possibili centri di osservazione avrebbero gettato a terra, fra i primi, i campanili di Monte Giove e del Beato Sante,
che invece non furono toccati.
Inoltre i campanili e gli altri edifici abbattuti non si trovavano su careggiate
strategicamente importanti e nemmeno
in punti di svincolo della città.
C’è poi da tener presente che nessuna
città delle Marche (tutte ricche di campanili) ebbe a soffrire lo stesso sfregio
di Fano. E allora? Ho dei sospetti sul comandante tedesco della piazza di Fano,
ten. Eberard Fischer.
Nella lettera indirizzata al vescovo per
comunicargli che sarebbero stati abbattuti “cinque” campanili (e disse una
bugia) afferma, genericamente, che l’ordine era venuto da “un comandante militare superiore”.
Ma chi era questo Fischer?
Sarebbe interessante appurarlo perché
la distruzione dei campanili, con relativo
scempio delle chiese, potrebbe essere
un atto di barbarie completamente gratuito.
Un modo con cui Fischer dimostrò rancore, rabbia e disprezzo verso la città,
verso la Chiesa e il Vescovo che si era assunto la responsabilità di rappresentare
anche civilmente la città, in mancanza di
personalità disposte a farsi avanti (chi
se la sentiva di passare per “collaborazionista” alla vigilia della liberazione?).
Insomma, a Fano potrebbe essere toccata la sfortuna di avere un comandante
tedesco “antipapista” (non dimentichiamo che in Germania il nazismo non era
stato contrastato da molti luterani, ma
prevalentemente dai cattolici) dimostratosi particolarmente spietato nel colpire
nei suoi monumenti e soprattutto nelle
sue testimonianze cattoliche una città
che, per altro, non aveva compiuto alcuna azione particolarmente clamorosa o
cruenta contro i tedeschi.
1992
20 agosto del ’44:
il Duomo fu coperto di macerie
Fra venti giorni (quando questo settimanale sarà chiuso per ferie) ricorre
il 54° anniversario del diroccamento a
mine del campanile del Duomo di Fano.
Si badi che nel 1940 il Vescovo Mons.
Del Signore aveva fatto molti e costosi
lavori nella cattedrale per celebrarne
l’ottavo centenario della costruzione.
Dopo quattro anni dovette ricominciare tutto da capo, affrontando problemi
enormi. “Non so - diceva - quanti anni
ci vorranno; ma prima di morire voglio
rivedere il Duomo a posto!”. E anche
questa volta la spuntò.
Ritornando a quel tragico 1944 le cose
cominciarono a mettersi male per la
Cattedrale nella notte fra il 15 e il 16
gennaio. Aerei alleati sganciarono alcune bombe che colpirono non gravemente il tetto. Andarono in frantumi tutte
le nuovissime vetrate comprese le sei,
molto belle, istoriate da Vittorio Menegoni. Crollarono i soffitti di alcuni locali
annessi alla sacrestia. Danni più gravi
subirono i palazzi posti poco lontano dal
Duomo.
Le funzioni religiose ridotte al minimo
furono dirottate verso la grande sacrestia ove si accedeva attraverso un cortile interno evitando la chiesa. Ed ecco
il racconto un po’ sconnesso che delle
giornate più tragiche
ha registrato il Cancelliere Vescovile
Mons. Agostino Narducci: “Venne l’ordine tassativo di abbandonare la città... Diventarono sempre più difficili le
condizioni con l’avvicinarsi delle azioni
guerresche e coll’inasprimento continuo
delle esigenze delle truppe Tedesche
che imposero lavori, requisizioni di ogni
specie senza alcun riguardo ai bisogni
della popolazione. Non fissiamo qui i
soprusi e le ruberie subìte dalla cittadinanza, ma certo le sofferenze furono
gravissime e tali da lasciare il più brutto ricordo. Si può dire che i pericoli dei
bombardamenti e delle armi passarono
in seconda linea perché superati dalle
malversazioni e prepotenze.
Il giorno 20 agosto, senza preavvisi di
sorta, anzi dopo una affermazione della
autorità tedesca qui di stanza mentre la
minaccia di atterrare i campanili della
città si supponeva rientrata, potentissime mine fatte esplodere dai guastatori
tedeschi fecero saltare il poderoso tor-
rione detto Torre di Belisario su cui era
stata innalzata la cella campanaria e la
relativa guglia del campanile del Duomo.
L’esplosione provocò oltre il crollo del
campanile, lo sfondamento del tetto e
delle volte della Cattedrale su tutto il
presbiterio e navata sinistra relativa; della prima campata della navata centrale e
della sinistra aderente al presbiterio; il
crollo del tetto e volta della Cappella di
N. Signora del Sacro Cuore e l’abbattimento del muro perimetrale della Cappella del Sacramento sino al Battistero. Conseguenza di tale inqualificabile
sacrilegio fu anche lo sfondamento e la
rovina di parte dell’Episcopio attiguo;
il crollo della Sala adibita ad Archivio
storico della Cancelleria; la rovina quasi
completa degli edifici civili fiancheggianti il Duomo per via Rainerio. Le macerie hanno ostruito la strada pubblica e
riempito in proporzioni paurose la Cattedrale. In tali bruttissime condizioni,
al rientrare della popolazione in Città,
si dovette riprendere l’ufficiatura ridotta nell’ambiente della Sagrestia. Rovine
meno ingenti, ma gravissime e deplorevolissime hanno subito in Città le Chiese
di S. Paterniano, S. Domenico, S. Maria
Nuova, il Santuario detto della Madonna di Piazza delle quali furono pure fatti
saltare i relativi campanili. Tutte sono
così rese impraticabili”. Bisogna aggiungere il campanile di S. Arcangelo.
A testimoniare la grossolana bugia dei
tedeschi, secondo cui i i campanili potavano offrire punti di osservazione, vale
ricordare che gli unici due campanili con
grande vista panoramica, cioè quello di
Monte Giove e quello del Beato Sante
non furono toccati. Senza contare che
i tedeschi sapevano benissimo che gli
alleati per spiare le loro mosse avevano numerosa aviazione da ricognizione.
Vollero fare uno sfregio al Vescovo, uno
sfregio alla Città.
1998
Il giorno della Liberazione
Di quella fine d’agosto di mezzo secolo
fa rivedo tutto, come se fosse ieri. La
città vuota, molte serrande dei negozi
sfondate, case sventrate ai due angoli
di piazza XX Settembre col Corso, altre
sventrate dal crollo di sette campanili e
del Maschio della fortezza malatestiana demoliti a mine; in tutto il Comune
i genieri tedeschi avevano fatto saltare
i ponti in muratura, di ferro, di legno
grandi e piccoli. La centrale della Liscia
era un mucchio di rovine, i moli irriconoscibili, i pescherecci affondati, la lanterna fatta saltare.
A tutto ciò bisogna aggiungere i danni
precedentemente causati dai bombardamenti alleati con la distruzione delle
chiese di S. Agostino, Santa Croce, S.
Francesco di Paola, S. Cristoforo (la
vecchia chiesa in via Petrucci), dell’Istituto Tecnico commerciale, di Palazzo
Zavarise e di parte del Gabuccini ecc.
Sembravano una beffa quelle scritte
“Vincere e vinceremo”, “Molti nemici molto onore” ancora balbettanti dai
muri in cui erano state dipinte dai fascisti; “Dio stramaledica gli inglesi” aveva
tuonato per anni la radio del regime: e
adesso, per uno di quei duri rovesciamenti di aspettative imposti dalla storia (cioé dagli uomini e, in questo caso,
dalla loro capacità di guardare in faccia
la realtà), il popolo aspettava come liberatori proprio gli “stramaledetti” di ieri.
Nell’ultima settimana del “passaggio del
fronte” gli alleati avevano infittito i bombardamenti di artiglieria: dalle colline
sulla destra del Metauro si scaricò una
pioggia di granate nella zona di Saltara e
Cartoceto, qualche colpo toccò l’Eremo
di Montegiove. Era “l’ultimo assaggio”
contro le postazioni tedesche (poche in
realtà) prima che polacchi e canadesi
varcassero il Metauro: i primi a Madonna
del Ponte, Ferriano, Falcineto, i secondi
nella zona di Montemaggiore-Calcinelli.
Ci furono scontri con morti e feriti fra
i combattenti e, purtroppo anche fra i
civili, ma non fu combattuta una vera e
propria battaglia; ci fu una grande manovra di avvicinamento alla linea gotica
che si snodava al di là di Pesaro e di Urbino. Non voglio dire altro sulle operazioni militari. Quello che ricordo più nitidamente di quei giorni è il senso di vera
e autentica “liberazione” che, pur tra le
sofferenze e le recenti macerie, aleggiava in ogni volto, in ogni discorso.
Era finito l’incubo dei rastrellamenti,
delle ruberie, delle paure, delle prepotenze varie imposte dall’esercito tedesco in ritirata. Era finito l’incubo dei
bombardamenti: finalmente si respirava!
Ne ebbi una prova certissima il 25 agosto. Quel giorno attraversai il Metauro
nella zona della “passerella” tedesca,
sotto le Caminate; una pattuglia polac-
ca mi rilevò per portarmi al comando
operativo; salimmo su per una “costa”
dov’erano attendati molti che avevano
dovuto lasciare all’improvviso le case
dov’erano sfollati, c’erano parecchi fanesi. Si trovavano in condizioni precarie,
sembrava un accampamento di nomadi
eppure, questo è meraviglioso, erano
tutti contenti, sorridenti, vocianti e ciarlieri come se fossero a una scampagnata.
“Il più é fatto”, dicevano, “Presto si torna a casa”, “Bisogna ricostruire tutto”,
“Non ne potevamo più”, “En ne pudemi
più!!”.
Quando leggo certi discorsi di carattere
riduttivo o assolutorio sulla guerra voluta dal fascismo mi tornano subito in
mente gli occhi raggianti, i volti felici di
quegli uomini e di quelle donne attendati alla campagna sotto il sole d’agosto:
erano felici perché avevano la certezza
che tedeschi e fascisti se n’erano andati,
per sempre!
Senza retorica, senza forzature ideologiche possiamo essere certi che quelli
furono giorni di autentica Liberazione.
1994
La pace fra gli uomini: ne sono capaci?
La prima bomba atomica fu lanciata il
6 agosto 1945 sulla città giapponese di
Hiroshima: quella data è ricordata da
pochi. Allora molti plaudirono perché
la bomba atomica praticamente poneva fine alla sanguinosa seconda guerra
mondiale. Ricordo che solo “L’Osservatore Romano” prese le dovute distanze
da quell’orribile ordigno.
Erano le otto e un quarto del mattino e
le sirene dell’allarme nemmeno suonarono poiché solo due aerei statunitensi volavano sopra la città di Hiroshima
abituata a vedere sul proprio cielo grossi
stormi di velivoli.
Poi qualcosa si staccò da uno degli aerei e giunto a qualche centinaia di metri dal suolo scoppiò e come un lampo
abbagliante investì la città. Era entrata
nella storia la bomba atomica: un nuovo
potente strumento di morte si trovava
nelle mani dell’uomo.
Morirono all’istante 71.000 persone;
le case presero fuoco; verso le quattro
del pomeriggio l’ evaporazione prodotta
dal gigantesco incendio si trasformò in
torrenziale pioggia. Una moltitudine di
urlanti ustionati aveva cercato illusorio
rimedio gettandosi nell’acqua dei canali.
Solo allora arrivarono i primi soccorsi:
erano i gesuiti (ma chi lo sa?) che abitavano in una vicina collina; tra essi c’era
padre Pedro Arrupe, destinato a diventare Generale della Compagnia di Gesù.
Di loro parlò poi con ammirazione la relazione ufficiale giapponese.
Mi sembra opportuno aggiungere quanto sul quel tragico avvenimento scrisse
Valerio Volpini attingendo da Robert
Jungk che aveva avuto un colloquio con
uno dei pochi superstiti di quel tragico
sei agosto. Si chiamava Kazuo e quando scoppiò la bomba aveva quattordici
anni. Quel ragazzo nove giorni dopo lo
scoppio e la scomparsa di Hiroshima gridando come un pazzo “tutti gli uomini
sono degli imbecilli (Otona, Wa Bo-ka)”
fece a pezzi ciò che aveva di più caro: il
suo libro di lettura.
Dopo quello che aveva visto a che servi-
va pensare e sapere?
48
La scena, evocata da Volpini ha valore 49
anche per noi che predichiamo sulla
pace fra gli uomini; ma essi ne sono capaci?
2007
I brani qui riproposti sono stati stralciati
da “I merli di Fano”, raccolta di articoli scritti da Aldo Deli per il settimanale
‘Il Nuovo Amico’. Il libro, curato da Enzo
Uguccioni, è stato edito dalla Fondazione
Cassa di Risparmio di Fano nel dicembre
2008.
• Il fungo atomico sviluppatosi sulla
città di Nagasaki il 9 agosto 1945. Tre
giorni prima toccò a Hiroshima. I due
bombardamenti, che causarono secondo
stime oltre 120.000 morti all’istante,
costrinsero il Giappone alla resa il 15
dello stesso mese.
Angelo Sferrazza
La busta gialla
Il 25 luglio del figlio del maresciallo
La memoria di un bambino cattura, inconsapevolmente, eventi importanti e li
conserva nitidi per sempre. Capita quasi a tutti: c’è chi afferma di ricordare addirittura cose di quando aveva due anni!
Nel luglio del 1943 di anni ne avevo sette
e mezzo. Finita da poco la II elementare
alla Corridoni e tesserato d’ufficio come
“figlio della lupa”. Ho indossato la divisa
una sola volta, all’asilo Manfrini perché
scelto (una mia zia ne era la direttrice!)
a montare la guardia in occasione della
visita del Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai a Fano. Le foto
di quell’evento furono in mostra nella
vetrina del fotografo Eusebi per molti
mesi. Mio padre, nonostante le mie continue richieste, si rifiutò sempre (lo capii qualche tempo dopo), di comperare
una copia di quella che mi immortalava
mentre facevo il noto saluto al Ministro
dell’Educazione Nazionale, che mi accarezzò e disse “che bel bambino”. Raccontai la cosa a casa, mia madre fiera,
mio padre fece finta di non capire, ma
dalla sua bocca uscì qualche parola, che
non riuscii a sentire: sono sicuro in siciliano, lingua che utilizzava quando si
arrabbiava! Vivevo allora nel deposito
militare di Piazza d’Armi, di cui non è
rimasto nulla, fra l’Adriatica e la ferrovia. Si entrava da una strada, ora chiusa,
che portava alla fornace, (dalla Nadia ci
sono esposte bellissime foto di quel periodo) e che percorrevano gli ortolani e i
carrettieri, grandi bevitori e robusti bestemmiatori, che andavano a caricare la
“breccia”. Mio padre, maresciallo del 94°
Reggimento Fanteria, era responsabile
del deposito da tutti chiamato “magazzeno militare” e abitavamo in una casetta all’interno del complesso, rete e filo
spinato, con un cane nero (femmina di
lupo belga) Diana, addestrata a Firenze
al centro cinofilo dell’Esercito che, non
so come facesse, riusciva a distinguere
un militare in divisa da un “borghese”,
contro il quale si lanciava ferocemente!
In una parte del deposito erano alloggiati 7 od 8 soldati, “sedentari” come venivano chiamati perché non idonei alla
guerra, tutti di paesi vicino a Fano, Fossombrone, Fratterosa, San Michele, per
lo più agricoltori o di “campagna” come
si diceva allora, bravissimi, che mi insegnarono tanto sulle piante, gli animali e
a togliere la pelle (preziosa nel periodo
dell’autarchia) al coniglio morto. Di loro
racconteremo parlando dell’8 settembre. Quasi cinque anni, come in caserma! Giocavo sempre da solo spesso nel
“magazzeno” fra armi, elmetti, “buffetterie” per muli ed altro, ma con a disposizione un telefono della Teti con il quale,
chiedendo la linea alla centralinista, potevo chiamare degli zii, unici parenti con
telefono. Il telefono era installato dentro
il piccolo ufficio di mio padre, senza derivazione nella casa e quindi inutile dalle
19 alle sette del mattino. Quel telefono
restò inesorabilmente muto il 25 luglio
e l’8 settembre! La sera del 25 luglio, era
una domenica caldissima eravamo stati
dagli zii, a cena, forse si festeggiava una
prima comunione. Tornammo a casa a
piedi verso le dieci. Un po’ tardi per il
coprifuoco e l’oscuramento, ma mio padre essendo militare poteva circolare.
Sul ponte in fondo ai passeggi, al termine della via Flaminia, lo zio fu salutato
da due agenti di polizia in borghese e
chiese loro cosa facessero. Risposero
che aspettavano il passaggio di alcune
macchine della “famiglia” dirette in Romagna. Cosa che accadde. Andammo
a letto. Mio padre non accese la radio,
quindi non sentì l’ormai famoso comunicato di Badoglio trasmesso poco prima
di mezzanotte! Dormivamo tutti insieme
nella stessa stanza per timore dei bombardamenti, come se questo ci avesse
potuto salvare da una bomba! Nella notte, forse le tre, mio padre fu svegliato.
Un sergente armato, assieme ad altri
due soldati, consegnò a mio padre una
busta gialla da ufficio. Mio padre, un
po’ preoccupato, con il Reggimento che
combatteva in Montenegro e per altre
ovvie e comprensibili ragioni, gli chiese
cosa contenesse. Il sergente rispose di
non saperlo, poi lo sentii bisbigliare “Maresciallo, è caduto Mussolini”. Mio padre
disse “era ora”, poi aprì la busta, la lesse,
la piegò, si vestì, radunò i soldati che già
festeggiavano, (lo avevano già saputo
da quello della pattuglia), li fece armare
e li dispose ai quattro lati dell’area del
deposito. Non so cosa ci fosse scritto in
quel foglio, ma da quanto fecero, immagino fosse l’ordine di difendere il deposito, pieno di armi ed altro importante
materiale bellico, stivato e mai inviato al
Reggimento al fronte! Ricordo centinaia
di elmetti disposti in fila per terra nel pavimento, mi impressionavano. Si temeva
forse una reazione della Milizia od altro.
Non successe niente. Non ricordo nessuna ispezione di qualche ufficiale, tutto
sembrava tranquillo. “La guerra continua” continuava a spaventare la gente.
Quando qualche giorno dopo uscimmo
mia madre ed io (mio padre non poteva
lasciare naturalmente il deposito), trovammo una città tranquilla, solo pattuglie armate che circolavano, soprattutto
vicino alla stazione ferroviaria. Agosto
passò noioso e caldo come sempre ed io
segregato più che mai all’interno del deposito fino all’8 settembre. Ma questa è
un’altra storia, tragica e seria, da raccontare. Protagonisti i soldati del deposito,
alcune famiglie che abitavano nelle piccole case popolari aldilà dell’Adriatica e
i treni, i treni con i vagoni “tappezzati”di
giovani che cercavano di tornare a casa
…
8 settembre: la grande paura
Altri ricordi del figlio del maresciallo
Non avevo mai visto mio padre in abiti borghesi, sempre in divisa: accadde
qualche giorno dopo l’8 settembre, una
data che fu certamente più traumatica
di quella del giorno della caduta di Mussolini e del suo fascismo. Non ci furono
buste gialle, nessun ordine e il telefono
rimase silenzioso. Mio padre l’usò spesso per chiamare il centralino del comando del Reggimento, senza ottenere
risposta. Allora prese la bicicletta (il 9,
il 10?) e si avvio da Piazza d’Armi alla
caserma Montevecchio. Restò fuori più
di un’ora, i soldati erano molto nervosi
e preoccupati. Rientrò e comunicò che
nella caserma non c’era più nessuno,
solo il rumore di migliaia di fogli di ufficio che il vento faceva volteggiare nel
cortile. Tutti erano scappati (qualcuno
sembra con la cassa del Reggimento…),
dimenticandosi di avvertire un povero
maresciallo e i suoi 8 soldati che ancora fedelmente presidiavano un deposito colmo di armi e tante altre cose di
valore militare! Ricordo che mio padre
disse ai soldati di andarsene (abitavano
tutti nelle vicinanze di Fano) nel timore
che arrivassero i tedeschi, che ancora a
Fano non si erano visti. Cinque di loro
se ne andarono subito, tre rimasero.
Ricordo che dissero a mio padre “Ma-
resciallo, sapete cosa dobbiamo fare
prima”. Mio padre rispose”Sì”. Intanto
alcune persone che conoscevamo e che
abitavano in piccole case popolari aldilà
dell’Adriatica vennero a prenderci (mia
madre, mia sorella e me) e ci portarono a casa loro dove restammo chiusi per
alcuni giorni. Un gesto da non dimenticare, una manifestazione di solidarietà
e bontà. Mio padre lasciò il deposito nel
tardo pomeriggio. Solo allora i tre soldati se ne andarono: uno a Fossombrone,
uno a Fratterosa e l’altro mi sembra a
Monterado. Dei primi due ricordo il cognome, curiosamente lo stesso anche se
non erano parenti. Quello che ricordo è
che erano comunisti e io a sette anni e
mezzo lo sapevo. Un volta (prima del 25
luglio) uno di loro prese una falce e un
martello, li posizionò come il simbolo e
mi disse quando sarai grande, comanderemo noi”. E’ chiaro che mio padre mi
impose di non raccontare niente, anche
a mia madre che sarebbe sicuramente
svenuta! Chiesi a mio padre la sera cosa
avessero fatto. Mi rispose “l’inventario”.
Era vero. Mio padre prima di chiudere il
magazzeno aveva stilato l’elenco di tutto
quello che c’era, elenco che conservò e
consegnò a Iesi al comando di raccolta
del rinato Esercito Italiano subito dopo
lo scioglimento nel settembre 1944 del
CIL (Corpo Italiano di Liberazione).
Qualche mese dopo fu richiamato in
servizio fra i primi, non avendo aderito
alla Repubblica Sociale. Rividi così di
nuovo mio padre in divisa, una curiosa
divisa che nulla aveva in comune con
la precedente: era un mix di indumenti
inglesi ed americani. Ricordo un giaccone invernale verde, americano, che
assomigliava a una giacca da casa, calda e comoda, ma certo poco marziale.
Solo dopo la guerra mi disse che con i
tre soldati avevano reso inutilizzabili le
armi, mitragliatori e mitraglie. Gli otturatori, messi in casse furono gettati in
mare, dove oggi c’è il go kart. Abbandonammo così la casa con tutto quello che
c’era dentro. Un momento tristissimo fu
dover lasciare Diana, la fedele sentinella, a cui mio padre era affezionatissimo.
Anche lì trovammo solidarietà. La prese
un contadino che abitava non lontano
dal campo sportivo. Mio padre ed io l’accompagnammo. Fu legata alla catena.
Guaì a lungo quando la lasciammo, guaiti che sentimmo a lungo, nel silenzio di
quelle notti. Quando tornammo a Fano
nella seconda quindicina del settembre
’44, una delle prime cose che mio padre
fece fu di andare a ricercare Diana. Ci
dissero che era morta qualche settimana
dopo che la lasciammo: non mangiava.
Era abituata a mangiare solo nella ciotola che le veniva data da uno in divisa!
Il problema a questo punto era nascondersi. Fu risolto dal marito della mia
balia, che io amavo come una seconda
madre. Commerciava in pollame, uova e
tutto quello di commestibile che ancora
si poteva trovare. Aveva un camioncino
e il suo punto di riferimento era Corinaldo. Trovò lì una famiglia (straordinaria)
che ci ospitò per un anno. Eravamo sfollati! Partimmo una mattina all’alba. Un
ultimo sguardo al deposito, alla nostra 50
casetta, alla casa cantoniera, all’oste- 51
ria della Ilde, dove i vecchietti chiamavano Hitler, Ilter e in barba al cartello
che pendeva in una parete, “qui non si
sputa per terra, non si bestemmia e non
si parla di politica” facevano al contrario gioiosamente le tre cose! Quando
partimmo non passavano più i treni dei
primissimi giorni dopo l’8 settembre, carichi fin sopra il tetto delle carrozze, di
soldati che cercavano di mettersi in salvo e a cui molte donne lanciavano abiti
civili. A Corinaldo restammo un anno.
Con un particolare di non poco conto.
Mani amiche, a cui va una grandissima
riconoscenza, fornirono alla nostra famiglia autentici documenti “falsi”. Un altro cognome, carte d’identità per i miei
genitori ed altro. Ovviamente se questi
documenti a un normale controllo potevano reggere, non erano sufficienti per
ottenere sussidi per gli sfollati, carte annonarie, iscrizione alla scuola … Fu un
anno difficile e di fame … ma per me un
anno senza scuola, in giro per i campi, a
tirare con la fionda e ad imparare il corinaldese. Ma fu anche un anno di paure,
paure dei repubblichini, dei tedeschi e
delle spie. Molti sapevano che mio padre era un militare, ma nessuno lo disse.
Per tutti era un impiegato con una malattia renale, era il signor M. Ma anche
questa è un’altra storia: di cannonate e
morte, di preti e giovani coraggiosi, di
persone buone e solidali, che sapevano
di rischiare (per primi i nostri padroni
di casa), di qualche squallido fascistello,
non solo maschio, di qualche opportunista, ma anche della dolcezza della mamma di santa Maria Goretti, vicina di casa,
di preghiere e di attesa, un’attesa che
durò troppo a lungo: ma gli alleati dov’erano? Anche se di notte da radio Londra
giungevano i famosi messaggi che mio
padre ed altri (chi erano?!) ascoltavano con attenzione: “ la pipa del nonno è
spenta”, i “garofani sono fioriti”…
(Da http://www.fanocitta.it, blog
di cultura, arte e sport su Fano e
dintorni.)
• A fianco, 8 settembre 1943, grandi
emozioni per il ritorno a casa di soldati
italiani. Ma la guerra non era ancora
finita, il peggio doveva ancora venire.
Mario Omiccioli
Valerio Volpini
Due liriche
Cronaca partigiana
Nuvole e ceneri nel vento
A Omar Conti
Tornano le urne come pallide nuvole
vengono e si murano
ceneri di cemento su vecchi mattoni
ocra
- nuvole su scogliere di silenziose
montagne.
Ormai è spento il ricordo
nessuno sa più il colore degli occhi
la camminata e le speranze dei morti,
in quali case abbandonate
di queste onde di colli vissero,
se avevan spose e figli,
moto, bicicletta o calesse.
C’è chi sa che fu l’ultima
- ultima per noi guerra terribile
la falce della loro breve vita,
sa che una spada acuminata
trapassò il cuore delle madri,
e non la cercavano gli uomini
come cancellate di giardini,
per dare ferro alla patria;
brillavano gemme nelle ciglia delle
madri
e non le volevano le gazze nere
che cercavano l’oro per la patria.
Ora son tornati i figli
consumati, piccoli, in un cestino di lana,
e già dormono le madri sotto le pietre:
nessuno vede nelle loro mani
l’anello di ferro con l’antico segno
dell’oro.
Nulla è accaduto,
tutto è senza pietà, calmo, ordinato,
una pietra in più e in meno,
un fiore vivo e uno appassito,
le nuvole e la cenere nel vento
e uno squarcio di cielo sereno.
Due pensieri e due amori
Ci sono due pensieri, due amori
e sono due case e due fuochi,
quelli del carceriere e del carcerato,
c’è una pallottola per ognuno dei due
e qualcuno ha sparato,
c’è una corona di fiori
due corone di fiori.
C’è una madre piangente
e, tra le dune del mare, un’altra silente,
c’è una donna sperante
ed una sola disperata,
c’è un lungo gemito d’amore
e un grido febbrile di dolore
per tutti i venti del cielo.
Ci sono due pensieri, due contrasti,
il mare in tempesta guarda il cielo
sereno,
c’è l’ombra dei più, la spada dei meno:
i prati non hanno lo stesso confine
i fiumi non gli stessi colori
la vita non uguale la fine,
ci sono due idee di lotta, due amori,
c’è una corona di fiori
due corone di fiori ...
• A fianco, Mario Omiccioli e Valerio
Volpini. Due tra i protagonisti fanesi
della cultura della Resistenza. Laico il
primo, cattolico il secondo.
• Sopra, Omar Conti, perseguitato
politico antifascista, nativo di Pieve di
Cento, ma fanese di adozione da quando
il padre si trasferì con la famiglia a
Fano come capostazione FS. Studiò
ingegneria a Torino. Subì carcerazioni
e lunghissimi anni di confino a Ustica,
a Ponza, a Corigliano Calabro, in cui
strinse amicizie con antifascisti illustri
come Pertini e Amendola.
Non li aspettavo; quel giorno avevo deciso di recarmi alla casetta bianca di Cesarin verso i Tre Ponti per vedermi anche con Aldo che stava, poco distante,
da Tartàn. La mia base invece era alla
Croce di Falcineto. Tino, Libero e Nelio
giunsero che già stavo gonfiando la bicicletta. A loro, ai tre moschettieri, andava sempre l’acqua per l’orto e m’irritava
che facessero sempre tutto facile, sempre molto alla garibaldina.
“Dobbiamo andare a prendere un fucile
mitragliatore e alcune cassette di munizioni vicino a casa mia”.
Aveva parlato Libero che stava sfollato
in una casa lungo il fiume all’altezza di
Lucrezia. Era abitudine non chiederci
dettagli sulle informazioni e chi o perché. Io funzionavo da “comandante “
e cercavo di fare le cose per bene e di
passare sempre attraverso il rischio minore e di non mettere nei guai, ma a volte temevo che questo potesse sembrare
timore o incertezza al loro giudizio.
Ero il “ comandante “ del GAP ma anche
il più ragazzo di tutti e questo, in realtà,
mi metteva in uno stato di soggezione
più che non mostrassi.
“Ma non ci si può andare stanotte? Se
andiamo in cinque , con quel che c ‘è in
giro. E poi dove sono queste armi?”·
“No, bisogna andarci subito e tutti perché è roba che pesa”.
“Prima ci fermiamo a casa a mangiare la
frittata. Mia moglie ha trovato le uova e
abbiamo anche il vino”· Libero era di tutti il più euforico, Tino il più sicuro di sé,
Nelio il più lucido.
Di giorno preferivamo andare isolati e
incontrarci solo nel momento necessario. Di soldati tedeschi ce n’erano molti
perché uno dei guadi sul Metauro era
propria alla Chiusa.
A cento metri dalla casa di Libero ci
incrociò una pattuglia; ci guardarono
appena; erano preceduti da una topolino mimetizzata con a bordo due in abiti
civili: gli altri erano con le biciclette a
mano o a piedi come noi.
“Ragazzi è meglio non fermarci in casa;
mi sa tanto che a quelli abbiamo dato
nell’occhio. Se andiamo in casa potremo far la fine del sorcio. E’ meglio che ci
sparpagliamo e fra un’ora ci rivediamo,
tanto le armi aspettano”·
“Ma mia moglie prepara da mangiare e
abbiamo fame; quelli ormai chissà dove
sono andati”.
Sulla porta feci un altro e poco convinto
tentativo di dissuaderli. “Ma se te non
hai fame vai sotto l’ombra a dormire”·
Non potevo imporre un comportamento
che, dopotutto, era discutibile.
Non avevamo fatto in tempo a sedere
che risentimmo la topolino. “Ve l’ho detto; disgraziati, ve l’avevo detto sì o no?
Usciamo e facciamo finta di niente”·
Io, Nelio e Loris uscimmo di fianco casa.
Libero e Tino passarono, da dentro, nella cantina.
Pensare di mettersi a sparare era assurdo; c’erano le famiglie dei contadini e non
avremmo fatto altro che far ammazzare
tutti. Dovevamo recitare a soggetto. Ma
non avevamo fatto in tempo a fare qualche metro all’aperto che con la topolino
arrivarono gli altri. Ci puntarono contro
le armi urlando che ci avvicinassimo con
le mani alzate. Non eravamo più lontano
di una quindicina di metri. Quando vidi
che Loris e Nelio obbedivano fingendo di
essere stupiti capii che erano spacciati;
Loris aveva in tasca la “Berretta-lunga”
che gli prestava Otello e Nelio una bomba a mano. lo avevo la “Berretta corta”·
Non pensai di sparare, ma neppure di
alzare le mani come loro. Non avrebbero
potuto scamparla in ogni modo e tanto
valeva che cercassi di scappare. Io ero
discosto da Nelio quattro-cinque metri
e con un balzo presi l’angolo della casa.
Cominciarono a sparare all’impazzata e
a urlare alt alt. Mi abbassai dietro la capanna degli attrezzi e mi tolsi le scarpe.
Sentii i proiettili delle raffiche conficcarsi per terra con quel rumore ovattato
che ricorderò sempre come i soffi della
morte. Lo scoppio delle raffiche e le grida dei tedeschi mi parevano d’un altro
mondo. In istanti come questi credo che
anche l’istinto si metta in moto come un
compiuter per aiutare a scegliere la soluzione migliore. In me il terrore lo aveva messo in moto. Ormai avevo dato già
morti gli altri e io non dovevo pensare
che a salvarmi. Oltre la capanna c’erano
venti-venticinque metri di scoperto e poi
cominciava un fittissimo filone di granturco alto (era la fine di luglio) e se fossi
riuscito ad arrivarci potevo avere qualche speranza. Ricominciai la corsa frenetica e dal compiuter subcoscienziale
tornò la scheda di una lettura di ragazzo;
i fumetti di Cino e Franco (i cinquanten-
ni li ricordano) che mitragliati avevano 52
pensato di correre a ziz-zag; corsi a zig- 53
zag alla disperata mentre avvertivo ormai solo i sibili delle raffiche a un metro
o a un dito dalla testa. Davanti c’era il
verde e la luce accecante della giornata
estiva. Entrai galoppando nel granturco
che mi fasciò e mi coperse con la buona
sensazione del nascondimento alla morte che alla bestia braccata deve dare la
propria tana. Ancora l’istinto nell’informe e totale invocazione alla Madonna di
Loreto; era una preghiera senza parole,
fatta con tutte le fibre della coscienza.
Quei dannati continuavano a spararmi
freneticamente. Sentivo cadere tagliate
le piante di granturco intorno, ma ormai
sparavano alla cieca perché io mi misi a
correre fra solco e solco per non scoprire, col movimento delle piante, la mia
posizione.
Mi accucciai verso la fine e mi tolsi la camicia chiara che mi distingueva troppo
e fui di nuovo allo scoperto. Dietro una
casa mi specchiai nei volti esterrefatti
di alcune persone immobili (c’era, poi
me lo raccontò, anche quell’Omiccioli
capomastro che dirigeva la Cooperativa
del Metauro) mentre io spremevo le mie
ultime energie di mediocrissimo centometrista per trovare dove proseguire e
allontanarmi ancora.
Smisi di correre quando non ne potevo
proprio più. Ormai le raffiche erano cessate; non mi vedevano. Tornò la ragione
e la logica. I sentimenti e una incredibile indescrivibile gioia fisica... Sono vivo.
sono vivo, non mi hanno ammazzato...
Ma poi anche e subito il tormento per gli
altri quattro che erano morti. E il rimorso: “io non ho fatto niente per aiutarli
e non sono morto con loro”. Comunque
dovevo muovermi; dovevo andare alla
base e poi riferire subito a Cesarìn.
Lungo un filare incontrai un anziano
contadino che sbroccava le viti. Gli chiesi se aveva sentito la sparatoria; “Ostia,
se l’ho sentita”·
Era a torso nudo coi soli pantaloni; mi
sfilai i miei e gli chiesi i suoi. Dovevo
cambiare connotati così se quei maledetti mi avessero cercato potevo cavarmela. Quel contadino che non mi chiese
nulla era Ruscin, il padre di Manlio, fidanzato di una mia cugina dov’eravamo
sfollati e dove avevo la base.
Prima di avvicinarmi a casa mandai una
ragazza, che avevo incontrato, a vedere
se c’erano tedeschi; dovevo essere stra-
lunato ed eccitato perché cominciò a
tremare e poi di lontano mi fece cenno
di proseguire.
Raccontai a mia madre quel che era successo. Ci aveva visti andar via in cinque;
“gli altri li hanno ammazzati e io non so
ancora come ho fatto a uscir vivo”·
Dovevo comunque andarmene subito;
dopo ogni azione era sempre meglio
scomparire. Mi rivestii, tagliai di fuga la
barba che m’ero fatto crescere da qualche settimana (oh l’incosciente) senza
bagnarmi la faccia e - potete credermi
- senza fare il contropelo. Dovevo andarmene e cambiare pelle.
Presi a braccetto mia sorella quattordicenne (che m’aveva aiutato più d’una
volta, come staffetta e persino recapitando qualche sporta di bombe a mano)
per arrivare da Cesarin. Se mi avessero
incontrato i tedeschi sarei passato per
un innamorato che non ha nessun pensiero della guerra. A Bellocchi rimandai
indietro mia sorella.
Cesarìn si scomponeva sempre poco e
pareva che prendesse gusto ad essere
freddo e ironico in tutte le occasioni.
Credo che talvolta facesse il duro apposta. Non si scompose neppure al racconto che gli feci. Sottolineai il mio comportamento poiché ora sentivo il rimorso
del superstite. “Sei stato bravissimo a
farcela; no, sei stato solo fortunato”·
“Ma gli altri quattro son morti e non mi
dici che questo?”.
“Mo, o testa de c .. , vlevi murì anca te?”
e mi piantò una di quelle risatine beffarde a mezza bocca che lui solo era capace
di fare.
“Adesso resti qui; fino a domani non ti
devi muovere”.
Ero solo con la stanchezza e il dolore per
gli altri quattro; ero spossato dall’emozione e questo giocava sui nervi e mi pareva una colpa il non essere morto con
loro. Le parole di Cesarìn non mi avevano convinto.
Loro avevano anche famiglia e figli.
“Chissà che avranno pensato di me?
Chissà come mi avranno giudicato?”. Mi
sentivo proprio a terra e non riuscii a
chiudere occhio tutta la notte per quanto mi fossi buttato a riposare su un mucchio di sacchi vuoti assai comodi. Fu
una delle mie notti più lunghe; sentivo
il fischio del trenino sulla Metaurense e
non pensavo che avrei dovuto far saltare
di nuovo i binari. Fino ad ora non avevo
mai visto la morte così vicino e non ave-
Ricordo di Giannetto Dini
vo mai sofferto per quella degli altri di
cui mi sentivo corresponsabile. “Dovevo
impormi, dovevo obbligarli a fare quello
che dovevo comandare; ero stato un debole e li avevo condannati”.
La sera dopo tornai alla base. C’era stato
un seguito: poco dopo che m’ero squagliato con mia sorella i tedeschi, quei
tedeschi, avevano circondato la casa e
con grande eccitazione l’avevano perquisita da cima a fondo. Mia madre capì
che erano proprio quelli di cui sapeva.
Rovistando trovarono della roba della
drogheria che Esposto (la drogheria di
via Giordano Bruno) aveva sfollato. Presero alcune bottiglie di liquori e si diedero una calmata; così mia madre cercò di
sapere “ tirando a scartare”.
Le mostrarono la pistola e una bomba
che ci avevano tolto: “Partigiani, partigiani molti, bosco, e le sembrò di capire
che fossero scappati tutti e che non erano riusciti a fare caput a nessuno.
E dopo un paio di giorni (per rassicurarmi su una bagatella del genere non se
la sarebbe presa calda) Cesarìn venne a
dirmi che non era morto nessuno, che
io ero un po’ troppo pessimista e che
all’indomani dovevamo incontrarci con i
due-tre capisquadra, con Aldo e 0tello,
per vedere di stabilire quel che si poteva
ancora fare.
Era andata così: disarmati e messi al
muro c’era stata una gran confusione; le
donne e i bambini che piangevano, i sol-
dati tedeschi sconcertati; alcuni erano
intenti a spararmi altri a prendere posizione sulla strada. Quelli che dovevano
sparare su Loris e Nelio esitarono e loro,
quando videro che il maresciallo che li
comandava stava per strappare la pistole-machine ad un soldato per incaricarsi
dell’esecuzione, fecero civetta e scattarono verso la macchia del fiume sul
davanti della casa. Con loro erano stati
più precisi nel tiro perché Nelio trovò un
buco nella camicia. Evidentemente anche i tedeschi avevano una gran paura
di essere circondati; con tutte quelle piante intorno erano convinti che chissà
quanti partigiani dovevano esserci. E si
affrettarono a cambiare aria.
Il mistero che non sono riuscito a sciogliere è come avessero fatto ad arrivare
alla mia base. Non era pensabile che fosse stato per caso; di abitazioni di contadini tra Lucrezia e Falcineto ce n’erano
a centinaia e, d’altro canto, non avevo
mai subito perquisizioni, nessuno s’era mai fatto vivo. Non ho mai capito se
quei due in abiti civili entro la topolino
fossero gli stessi che un paio di volte si
erano spacciati per venditori ambulanti
di filo e di sale e che invece di vendere
facevano domande curiose sui partigiani
e sui tedeschi, domande alle quali naturalmente mia madre e gli altri si erano
guardati bene dal rispondere. Lei li conosceva di vista, ma non mi curai più,
dopo la liberazione, di farmeli indicare.
Io ti ricordo quando assieme a Sandro,
a Max, a Drago, a Serjosa, a Mario, agli
altri stavamo davanti al gran fuoco nella casa di Giovanni di Dindi Boja, lassù,
in montagna fra la neve. Parlavamo di
tutto. Cose solite e cose nuove, che avevamo poste alla nostra meditazione con
amore ed entusiasmo: libertà, giustizia,
diritto del lavoro ...
Allora c’era una specie di voluttà nel
sentirsi braccati a causa di quella Verità,
per via di quella lotta dalla quale doveva
sorgere il nuovo mondo scevro dai falsi
idoli. Ed era bello che ancora una volta
dal dolore e dalla fatica dei giovani sorgessero gli uomini della libertà.
Quante cose dovrei ricordare di te Giannetto! Che eri il più coraggioso, che seppure il più giovane, il più “uomo” ... ma
lasciamo stare, dal momento che più di
tutti hai dato è naturale che eri più di
tutti ... E ti hanno ucciso per questa tua
Fede che è la nostra e che non potevano uccidere perché era più forte del loro
odio. Sei caduto per quelle parole, le nostre parole, per quel mondo che tu sentivi come sentivi nelle tue vene il sangue
ribelle.
E tu hai dato per tutti noi, per ognuno
di noi che non ha saputo dare come te ...
per Sandro comunista, per Max ebreo,
per Drago slavo, per me democraticocristiano, per tutti gli uomini nei quali riconoscevi la tua stessa umanità e che al
di sopra di ogni singola idea ci fa fratelli.
Vorrei dirti ancora, ma ho paura di poter falsare ... io ti ricordo così davanti al
fuoco, era gennaio, parlavi poco e poco
ridevi ed il tuo sguardo era oltre.
(Valerio Volpini, “Costruire”,
5 aprile 1946)
La Resistenza: cinquant’anni dopo
Ci sono certamente dei rischi nel ricordare la Resistenza e la Liberazione e prima di tutto quelli di lasciarsi prendere
dall’empito della memoria privata e dalla
retorica. Ma sono rischi che bisogna pur
correre e senza indulgere a nessuna sorta di trionfalismo, rendere testimonianza
ai fatti della verità storica ed a quanti di
quegli eventi storici sono stati protagonisti. La memoria storica è la coscienza
dei popoli ed una componente della loro
stessa civiltà. In particolare negli ultimi
decenni - di parte o di contro-parte che
sia - si è molto discusso (e polemizzato)
su quello che è stata la Resistenza.
Tentativo di rivoluzione politica, guerra
civile, liberazione. Non credo di dire cosa
originale che a seconda di chi ha vissuto
la Resistenza stessa c’è stata un’intenzione diversa ma erano modi che avevano un innegabile denominatore comune
e cioè l’intento di liberare l’Italia e l’Europa dalla occupazione nazista. C’era insomma la volontà di sconfiggere Hitler
e l’Europa dalla occupazione nazista.
opporsi alla sua volontà di dominio fondato sull’aberrante principio dell’odio
razzista ed in parte attuato attraverso
la distruzione fisica degli ebrei e di altri gruppi di uomini e donne considerati
esseri “inferiori” da cui purificare l’Europa medesima. Non si può dimenticare
la mostruosità dell’Olocausto quando si
parla di Resistenza perché solo di fronte
ai fatti che la soluzione finale si può capire e far capire che la Resistenza è stata
prima di tutto la ribellione dell’Europa e
del mondo, il rifiuto degli uomini della
vecchia Europa di annullare millenni di
civiltà e in primo luogo il senso del sacro
rispetto per l’uomo. Sarebbe troppo lungo in questa sede descrivere quello che
tra il 1939 e il 1945 ha rischiato di essere
distrutto in umanità e verità.
Non è necessario fare il calcolo ragionieristico di quanto la Resistenza ha dato
alla liberazione perché quello che conta è stato il soprassalto morale di fronte
all’infuriare della “matta bestialità nazista”. E non è certamente giusto distinguere fra chi ha opposto la difesa arma-
ta da chi nei campi di concentramento 54
nazista ha resistito senza piegarsi alle 55
lusinghe dei carcerieri.
Bisogna infatti considerare che la Resistenza non è stato un fenomeno italiano
ma una scelta degli europei che hanno
poi saputo trarre nella loro lotta per il
destino del mondo anche altri popoli.
Non si può dimenticare che l’Europa è
segnata di bianche croci di giovani caduti giunti a sostenere in nome della comune dignità il feroce duello dell’uomo
contro il non-uomo. E naturalmente non
è neanche il caso di ripetere che nel ricordo della Resistenza c’è l’impressione
di una comune pietà per tutti coloro che
hanno patito, che hanno sofferto fame e
paura, che hanno avuto strappi non rimarginabili negli affetti.
In fondo Resistenza era opporre pietà,
fraternità contro l’odio. Una forte scommessa sull’amore nel quale entrano anche la comprensione per quanti in buona fede e ingenuamente rappresentavano purtroppo il potere degli aguzzini.
A cinquant’anni deve essere chiaro alla
mente ed al cuore quel che ha significato la Resistenza non certo per provocare
nuove divisioni ma anche senza confondere il vero con il falso.
(Valerio Volpini, “Il nuovo Amico”,
31 luglio 1994, Editoriale)
• Sotto, partigiani della 5a Brigata
Garibaldi Marche al disarmo in Urbino.
Al centro, col cappello, il comandante
Giuseppe Mari (Carlo).
Marco Ferri
Remo Rovinelli si racconta
Io sono uno di quelli che per la questione
… dei comunisti … dal 1920 in avanti io
sono stato sempre così ma è dopo il 1920
che abbiamo … c’erano diverse cose appunto brutte … c’erano i fascisti, così io
ero preso di mira, ero preso di mira e un
bel momento, la sera del primo gennaio
1922, sono venuti a Fano non so quanti fascisti e nella notte hanno cercato i
sovversivi perché noi ci chiamavano sovversivi e ci hanno presi, a me e un altro
compagno che si chiama … che abita …
mah! Verrà fuori … e quella notte dicevo
mentre nasceva mio fratello sono venuti
a prendere me. Io ero in convalescenza,
ero soldato, era l’ultimo giorno di convalescenza … insomma ci hanno … e di lì
poi è venuta una cosa sempre più brutta
… ad esempio io avevo un libretto marittimo e non ho più potuto averlo. Me
l’hanno requisito. Così ero un uomo …
senza più niente, senza … prima avevo
fatto il marinaio, ero stato in Grecia, nel
1919, ma dal 1926 in avanti sono stato
sempre sotto le grinfie dei fascisti. Non
sono riuscito a espatriare. Tanti andavano all’estero. Io non ci sono mai riuscito.
Dicevano che eravamo in molti a Fano,
un paio di cento dicevano. C’erano i giovani. E facevamo un giornale: “La Scintilla”. Il povero Venturini doveva fare il
… come si dice, lui aveva buttato giù …
il pezzo! Il pezzo … perché Nesti e Petrolati avevano la possibilità di stampare. E avevano con loro un uomo che noi
non conoscevamo bene. Allora il partito
comunista era a cellule e ogni cellula
era composta di tre persone. Non come
oggi. Ebbene, questa persona la chiamavano Landrù. Landrù!
Questo Landrù andava a casa di Petrolati e siccome era povero gli davano gli
abiti vecchi, i vestiti dei figli, non era
molto considerato … ed è stato lui a
portare il foglio al capitano dei fascisti
che si chiamava … mah! Comunque …
questo capitano ha portato la faccenda
alla lunga per un mese, voleva prenderci tutti anche se, come dico se loro
avevano le loro spie non è che noi ignoravamo tutto … difatti, a me vengono a
dire, dice: siamo traditi. E da chi, chiedo
io. Eh, dice, uno che si chiama Landrù
ci ha traditi. Naturalmente quella sera
parliamo con Nesti e Petrolati. Gli dico:
guarda, così e così, ormai siete pedinati. Da un momento all’altro vi prendono.
Non c’è via di scampo. Eh, dice, vedrai
che noi ci sappiamo fare … insomma,
dico io, guardate che quando vi prende
la polizia non si sa come va a finire …
così ci hanno presi tutti. Un centinaio,
tra Fano e Pesaro. E siamo rimasti in
tredici davanti al tribunale speciale. Io
ho avuto sette anni. Altri ne hanno avuti
dieci. Altri meno, perché nel 1932 c’era
stata l’amnistia. Allora ho detto … quando non potevo lavorare, rompevo i sassi
con i martelli, per portare la ghiaia sulle
strade. Ebbene, un bel momento hanno detto a quello che faceva … come si
dice, che prendeva il materiale, gli hanno detto che non doveva prendere più
roba da me … ecco, l’appaltatore! Che
dice: guarda, hai tre o quattro o cinque
metri di roba. Questa te la prendo ma
dopo non posso più prenderla. Così facevo tanti lavori. Cercavo …
inverno 1977
Il racconto è pubblicato in “Noi che
siamo uomini ancora gustosi” di Marco
Ferri e Paolo Talevi, Nuove Carte, Fano
1978.
• Sotto, Remo Rovinelli, al centro,
mentre spiega le vicende della sua
vita agli amici.
La foto è di Paolo Talevi.
56
57
La guerra sul corpo delle donne
Dopo l’armistizio, il secondo conflitto
mondiale assunse le caratteristiche di
guerra civile e di guerra totale. In questo arco di tempo il coinvolgimento della
popolazione e delle donne in particolare
crebbe enormemente. Gli schemi che
regolavano la normale convivenza civile saltarono, lasciando spazio a varie
forme di violenza, soprattutto laddove
l’occupazione tedesca si protrasse più
a lungo: nei fronti di guerra come la Linea Gotica. L’atmosfera di emergenza
e precarietà provocò un allentamento
delle inibizioni che a volte si tradusse in
libidine violenta o stupri.
Questa drammatica esperienza fu vissuta da molte
donne, alcune la subirono senza potersi
difendere, altre, più fortunate, riuscirono in qualche modo a salvarsi. Ques’ultima è anche la storia della fanese Elsa
Volpini, che lei stessa ci racconta in un
libro dedicato alla sua vita: «... due tedeschi spalancarono a calci la porta
di casa, entrarono nella grande cucina e cominciarono a cercare in ogni
angolo. Spaventatissima, corsi per le
scale che portavano al piano di sopra
e mi nascosi sotto il letto della nonna, nella stanza che dava sul retro
della casa. Ma anche loro vennero su,
capirono subito dov’ero e coi fucili
puntati mi urlarono di uscire. Erano
armati fino ai denti e mai più potrò
dimenticare quel giovane viso triangolare che mi squadrava freddamente nel momento in cui uscivo da sotto
il letto e mi rialzavo. Dai suoi occhi
compresi benissimo quali fossero le
sue intenzioni e mi sentii morire. Inconsapevolmente ebbi però una reazione fulminea: sapevo che la finestra
era aperta e così mi slanciai di scatto
in quella direzione e mi gettai di sotto
[...], poi un altro salto e via in mezzo al granoturco, che in quell’estate
del ‘44 era cresciuto bello alto» (Volpini, 2004 p. 113). Elsa si salvò, ma la
sua famiglia visse molte ore di angoscia:
infatti i tedeschi, infuriati dall’essersi
fatti scappare la ragazza, minacciarono
di morte i suoi genitori nel caso lei non
fosse tornata. Li fecero poi scendere in
una buca scavata precedentemente dal
padre come rifugio antiaereo e li coprirono con un tavolo, lasciandoli lì per un
tempo imprecisato. Solo alle prime luci
dell’alba, quando non si sentivano più
rumori, i due uscirono dalla buca: «Uno
spettacolo agghiacciante si presentò
ai loro occhi: la casa bruciava e le
fiamme avevano già raggiunto il tetto; e tutt’intorno bruciavano le altre
case coloniche in uno scenario apocalittico a cui nessuno aveva mai immaginato di dover assistere. Bruciò il
corpo della nonna – già asfissiata dal
denso fumo che aveva avvolto la sua
stanza – bruciarono le ultime bestie
rimaste e bruciarono tutte le nostre
masserizie» (E. Volpini, 2004 p.115).
Fonte: Istituto regionale per la storia del
movimento di Liberazione nelle Marche,
Ancona.
A ulteriore commento si può solo qui
aggiungere che le molestie sul corpo
delle donne avvengono tuttora anche
in contesti diversi da quelli bellici,
purtroppo. E’ certo che la guerra rende questa sopraffazione, se possibile,
ancora più terrificante. Ed è doveroso non circoscrivere questo tipo di
barbarie alla sola soldataglia tedesca,
che di sicuro non può trovare scusanti. In seguito le donne tedesche subiranno, per contrappasso dai vincitori sovietici occupanti, la stessa sorte
a prezzo gravato di alto interesse. Ma,
per restare in Italia, anche fra le truppe alleate ci fu chi si macchiò dello
stesso tipo di crimine, basti ricordare, ad esempio, lo splendido film di
Vittorio De Sica, “La Ciociara”.
Come dire che il peggio della natura
umana è trasversale più di quanto si
possa essere portati a credere. (D.P.)
• Sopra, una drammatica immagine
del film “La Ciociara” che racconta la
vicenda di madre e figlia adolescente,
violentate da un plotone di marocchini,
del Corpo di spedizione francese alleato,
risalente la penisola verso Roma, nel
1944. Sophia Loren ottenne l’Oscar per
la recitazione. Nella realtà è stato stimato
che il numero di stupri e violenze
carnali, compiuti tra Campania, Lazio e
Toscana ammontò a oltre 60.000.
Giuseppe Perugini
Tribunale italo - tedesco:
condanna e morte del diciottenne
Giovannino Contigiani
“L’episodio che ci piace riportare è quello riferitoci da Mons. Giuseppe Amici
Rettore del Pontificio Seminario Regionale, che ha avuta tanta parte nel tragico svolgimento del medesimo.
Nel luglio 1944 i tedeschi avevano già,
qui a Fano, il tribunale militare nella villa di Giannetto Montanari al Viale Margherita (ora Bruno Buozzi) n. 10, con
la prigione per i condannati, nei relativi
sotterranei.
Nel pomeriggio del giorno 15 luglio, in
questo tribunale si svolse il processo a
carico del diciottenne Giovannino Contigiani. Era il Contigiani uno studente universitario, orfano di padre, oriundo di
Gaeta e sfollato a Roma con la mamma e
la sorella, dove era anche impiegato per
guadagnare un po’ di sostentamento per
sé e per i suoi. A Roma, in un momento
di entusiasmo, tutto proprio dell’ età giovanile, decise di arruolarsi con le truppe
tedesche e servire nelle loro file, ma ben
presto se ne pentì; disertò e fu arrestato. Pochi giorni innanzi alla sua cattura
fu comandato di accompagnare le bestie razziate da Ascoli Piceno a Cesena,
e, durante questo lungo tragitto, passò
anche per Fano. Fatta questa “corvée”
ritornò indietro per rientrare al reparto
in cui era assegnato e nel ripassare per
Fano venne a sapere che Perugia, perduta dai nazisti, era stata occupata dagli
Alleati.
Il ragazzo già tanto pentito del suo arruolamento, decise subito di scappare,
raggiungere Perugia per poi ritornare a
Roma fra le braccia della mamma e della
sorella.
Fu arrestato e condotto immediatamente nella prigione di Viale Margherita. Fu
processato, giudicato e condannato a
morte quale disertore.
Erano le ore 20,30 di quel brutto giorno
quando una macchina si fermò dinanzi
al Seminario Regionale in Via Flaminia;
scese un soldato tedesco e domandò di
un sacerdote.
Senza tanto esitare, il Rettore Mons.
Amici accettò l’invito e salì sulla macchina, recando con sé la SS. Eucarestia,
presumendo che si dovesse dare i conforti religiosi a qualche moribondo.
Non sapendo, però, dove dovesse andare, chiese all’autista: “Per dove: per
chi? per un italiano? per un tedesco?”.
“Per un disertore italiano condannato a
morte che ha chiesto i conforti religiosi”
rispose il tedesco. E portò il sacerdote
nella prigione alla villa Montanari.
Appena giuntavi, il giovane condannato
gli si buttò con le braccia al collo e se lo
strinse forte forte al petto come per non
separarsi più. Poi chiese ed ottenne di
restare soli nella prigione.
Il tribunale militare, qui a Fano, era
composto di tre ufficiali: due tedeschi
ed uno italiano.
Il sacerdote per non fare spegnere l’ultimo barlume di speranza, si avvicinò
all’ufficiale italiano e supplicò per poter
salvare il povero ragazzo. “Non è possibile, non è possibile, non si può, lei faccia su di lui quello che può e vuole, non
si può fare di più” rispose l’ufficiale in
tono freddo.
Il Contigiani si confessò, si comunicò e
gliene venne nell’animo tanto conforto,
da essere rassegnato.
Durante la notte, e fino all’ultimo istante
prima dell’esecuzione, avrebbe voluto
essere continuamente assistito dal sacerdote. Costui provò di restare ancora;
non gli fu permesso.
All’indomani, 16 luglio, alle ore 4,30, una
macchina tedesca si presentò di nuovo
di fronte al Seminario Regionale; doveva
riportare Mons. Rettore nella villa Montanari.
Giuntavi, e sceso nella prigione, trovò
Giovanni Contigiani addormentato. Dal
lato sinistro della branda, sopra uno
sgabello, aveva collocato l’immagione
dell’Ecce Homo e, da una parte e dall’altra, le fotografie della mamma e della
sorella.
Quel figliolone, un allievo dei Salesiani,
si svegliò e con gli occhi assonnati si accostò, con un sospiro di sollievo, al sacerdote. Erano le 4,45 ed il colloquio fra
i due si protrasse oltre le 5,30, ora in cui
furono avvertiti esser giunto il momento
di salire in macchina per andare al luogo
del supplizio.
Vi salirono in quattro, il condannato e il
sacerdote nel sedile posteriore e l’autista e un altro tedesco armato, davanti.
Dalla villa Montanari si diresse verso
l’Arco di Augusto, vi passò sotto, e proseguì per il viale Cristoforo Colombo;
arrivò in fondo alla spiaggia, voltò a destra, continuando ancora, lungo il viale
Adriatico, giunse dinanzi alle due case
abbinate n. 84 e n. 86. Qui era il luogo
del supplizio, dove già alcuni militari e
il plotone di esecuzione (dodici soldati)
attendevano per lo svolgimento del tragico epilogo.
Il condannato, fatto avvicinare accanto
ad un albero smozzato, cui doveva essere legato, rimase lì, immobile ad attendere la sua triste sorte.
Il plotone se lo vedeva di fronte e all’intorno altri, tra soldati, ufficiali, l’ufficiale
medico, una quarantina di persone in
tutto.
Al disertore, già vicino al palo, fu posto
dalla parte del cuore, appuntato nel taschino della giubba, uno straccetto bianco, indicante il punto da essere preso di
mira nel far fuoco.
Mons. Amici, dopo di aver consegnato all’infelice ragazzo un bel Crocifisso
d‘argento, rimase al suo fianco. L’ufficiale tedesco prima di comandare il fuoco,
chiese all’infelice se avesse qualche cosa
da dire. Ecco un repentino colpo di scena: Lui, il primo attore della tragedia,
parlò subito e chiese di vedere il soldato
che lo aveva arrestato, poiché già riconosciuto tra quelli del plotone di esecuzione. L’ufficiale in lingua tedesca disse:
«Chi ha arrestato questo giovane si faccia avanti». Dal plotone si staccò un soldato con il mitra tra le mani, e si accostò
alla vittima che gli buttò subito le braccia
al collo e lo baciò con grande effusione
da una parte e dall’altra del volto. Il soldato tedesco confuso, esterrefatto, non
fece alcun gesto; restò impassibile; e, in
quel momento supremo: “Ti perdono, ti
perdono”, ripeté più volte il condannato.
Mentre gli sbirri legavano il morituro al
palo, il sacerdote sempre vicino, gli dette l’assoluzione.
Prima di fare fuoco lo bendarono.
L’ultima assoluzione, l’ultimo colpo di
rivoltella da parte dell’ufficiale e il Contigiani spirò.
Mons. Amici avrebbe voluto interessarsi
di dare alla salma una regolare sepoltura, ma un’altro ufficiale, con un rigido e
brusco gesto di mano, ordinò all’autista
di caricare il sacerdote sulla macchina,
lì accanto, per riportarlo al Seminario
Pontificio Marchigiano”.
(Giuseppe Perugini,
Fano e la seconda guerra mondiale,
Bologna, 1949, pagg. 180-185).
Giuseppe Perugini
Giuseppe Perugini: chi era?
Scalza, sulle stoppie del grano,
senza avvertire dolore
Il cronista fanese di guerra
più citato che conosciuto
Dal racconto dell’allora ventiduenne
Ester Angelucci su quanto le accadde
la mattina del 5 agosto 1944. (Giuseppe Perugini, Fano e la seconda guerra mondiale, Bologna, 1949, pagg.
188-189).
Nell’elaborazione di questa sintetica
ricerca su aspetti dell’ultimo conflitto
mondiale, in particolare per quanto essi
abbiano interessato la città di Fano, ho
trovato, al pari di altri studiosi, grande
utilità e una miniera di fonti di riferimento, nella lettura del libro “Fano e la
seconda guerra mondiale” di Giuseppe
Perugini. Questa introvabile pubblicazione, edita a Bologna nel 1949, di cui
raccomanderei la ripubblicazione magari annotata da precisazioni a commento
espresse da Enzo Capalozza, mi è stata
prestata da Carlino Bertini che l’aveva
avuta da Tom Storer quando questi era
ancora in vita. Si tratta della cronaca
più ampia e coscienziosa, esistente a
tutt’oggi, sugli avvenimenti riguardanti
Fano, correnti fra gli anni 1938 -’947.
Quindi un resoconto fondamentale. Ho
chiesto in giro, tra la popolazione fanese
anziana, notizie biografiche sull’autore
ma pochi hanno saputo dire qualcosa e
peraltro in modo vago e confuso. Il fatto
mi ha un po’ meravigliato spingendo la
mia curiosità ad andare più a fondo nel
tentativo di dare un volto e una più precisa identità alla persona in questione. I
dati di partenza risultano dalla sua narrazione quando, subita un’intrusione da
parte di due soldati tedeschi nella propria abitazione e accusato di essere una
spia degli inglesi, a causa della raccolta
di notizie che conservava in preparazione della sua fatica letteraria, si mette a
spiegare, di fronte al mitra spianato - a
quindici cm. dallo stomaco (sic)- in
preda a comprensibile agitazione, di essere un ufficiale in congedo dell’esercito
italiano e mostrando la tessera dell’appartenenza all’Associazione mutilati e
invalidi di guerra. Questo bastò a convincere della sua sincerità il caporale tedesco, che, grazie a Dio, parlava un buon
italiano (pp.185-187). Altra affermazione diretta: abitava in una zona non sottoposta all’obbligo di sfollamento perché
al di là della circonvallazione delle mura
del centro storico.
Al cimitero urbano dove mi sono recato
per continuare la mia minimale indagine, il caso mi ha fatto incontrare la gentilissima custode Rita – la ringrazio viva-
“... l’altro tedesco mi fa cenno di seguirlo. A pochi passi di distanza, scendendo un piccolo greppo, sotto due grosse
quercie, scorgo due capanni e in uno di
quelli mi fa cenno di entrare: la paura
andava sempre più crescendo poichè
non vedevo vicino nessuna probabilità
di salvezza. Mi sono messa a piangere,
dicendo che non vi sarei entrata; allora
mi sono sentita puntare contro il fucile;
ma, vedendo che nemmeno quello m’intimoriva, mi ha presa per un braccio e
mi ha spinta dentro; appena entrata mi
ha fatto cenno che mi dovevo spogliare;
nel vedere quel gesto ho detto che non
l’avrei fatto; allora ha caricato il fucile e
poi me lo ha nuovamente piantato addosso. Tanta fu la ripugnanza che, piuttosto che cedere preferivo morire; pensavo fra me: che cos’è un colpo di fucile?
Le sofferenze sarebbero state poche.
Giorni prima avevo letto le gesta della
dodicenne Maria Goretti di Corinaldo
(Ancona) che si è fatta martirizzare
piuttosto che essere contaminata; tale
pensiero mi dava aiuto per prepararmi alla morte piuttosto che cedere. Ho
chiesto aiuto al Signore proferendo queste parole: «Signore, io muoio per salvare la mia purezza, fate rassegnare quelli
di casa, aiutatemi». Le forze le avevo
ormai perse; il tedesco è stato un poco
silenzioso, poi ha detto: «adesso chiamare altro camerata», e poi è uscito in
direzione di dove era il compagno.
Non ho fatto in tempo a vederlo uscire
dal campo che una forza, datami certamente dall’Alto, mi ha ispirata a fuggire,
lasciando nel capanno gli zoccoli, poiché, data la minima distanza, mi avrebbero potuto udire. Benchè corressi scalza per la prima volta sul campo dove
avevano mietuto il grano, non sentivo
alcun dolore. Ringraziando Dio sono riuscita a raggiungere la casa più vicina
senza essere veduta”.
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mente – peraltro portatrice dello stesso
cognome del nostro scrittore (la coincidenza la incuriosiva molto al pensiero
di possibili parentele) che consultando
i registri e facendo sopralluoghi fra le
tombe di vari omonimi mi ha fatto trovare, addossata al muro, la sua sconosciuta fotografia e quella della di lui moglie.
La grigia lapide porta la data di nascita
13 agosto 1883 e di morte 5 marzo 1966.
La consorte, Ione Cavallini, 1883/1949.
Dalle relative schede di sepoltura risulta che entrambi erano nativi di Cingoli e
residenti a Fano in via Alessandro Nini,
n. 21. Dunque nei pressi dell’Ospedale,
fuori dall’allora circonvallazione. Il conto mi tornava perfettamente. Si sposarono a Cingoli nel 1913. La signora Ione
apparteneva alla nobile famiglia dei Cavallini. Al momento null’altro. Mi pare
comunque un minimo per restituire visibilità alla figura fisica dello schivo cronista al quale il Sindaco di Fano, Silvio
Battistelli, inviò la lettera di cui lo stesso
Perugini pubblicò uno stralcio in apertura del suo libro:
... Il suo lavoro “Fano e la seconda
guerra guerra mondiale” risulta diligente e accurato da incontrare un
generale favore. Mi è grato, pertanto,
esprimerLe il più vivo compiacimento di quest’Amministrazione Comunale per la sua nobile fatica nell’intento di consacrare alla storia le vicende della nostra Città duramente
provata nel recente conflitto mondiale... (D.P.)
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