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L`immagine del diverso in Homero e in Victor Hugo
1 Liceo ginnasio statale Orazio – Roma Mario Carini L’immagine del “diverso” in Omero e in Victor Hugo Testo pubblicato in: “Miscellanea di Saggi e Ricerche”, n. 5, Liceo Classico “Orazio”, Roma 2009, pp. 9-42 Tutti i diritti riservati Riproduzione vietata 2 Mario Carini L’immagine del “diverso” in Omero e in Victor Hugo. 1. Personaggi letterari divengono miti dell’immaginario, allorché le loro figure assumono forti valenze simboliche, e questi simboli divengono universali, creando una tradizione letteraria che dall’antichità si perpetua fino ai nostri giorni. Così alcuni di questi personaggi, appartenenti alle letterature di tutti i tempi, sono divenuti emblematici caratteri, figure mitiche dell’immaginario collettivo occidentale, simboli di virtù e difetti dell’uomo o specchio del misterioso e tragico rapporto tra l’uomo e il suo destino: pensiamo a Giobbe, a Edipo, a Circe, e, più vicini a noi, ad Amleto, a Romeo e Giulietta, a don Chisciotte, a don Giovanni. Ognuna di queste figure ha, talvolta inaspettatamente, trovato i suoi ritorni, le sue reincarnazioni in altri personaggi di testi successivi, che, presentando vistose analogie nell’aspetto, nel carattere e nel comportamento, ne hanno ricalcato in qualche modo l’immagine, l’esperienza di vita e il destino.1 Scopo di questo lavoro è un’indagine sulla costituzione, sul carattere e sulla funzione di una particolare figura letteraria, quella del “diverso”, contestualizzata alle origini dell’antichità, e in particolare nel mondo greco che fa da sfondo ai poemi omerici, e riecheggiata, molti secoli dopo, nell’età romantica. Premettiamo che non intendiamo trattare di un “diverso” connotato in senso sessuale (giacché è notorio che nel mondo antico, prima della rivoluzione morale operata dal Cristianesimo, la bisessualità e perfino l’omosessualità non erano oggetto di riprovazione sociale, al contrario venivano tollerate se non ammesse, al punto che si è potuto parlare di “cultura bisessuale” dei due popoli),2 quanto in senso fisico e morale. La figura del “diverso”, ossia di colui che appare difforme per l’aspetto fisico e/o per i valori etici che incarna, dalla comunità alla quale appartiene, è un τόπος della tradizione letteraria occidentale. Il diverso, proprio in quanto “diverso” fisicamente e poi eticamente, si pone dialetticamente al di fuori della comunità di appartenenza, verso la quale appare come un sovversivo outsider, un elemento di disturbo, perturbante (non solo in senso sociale, ma anche psicologico, nel senso che la sua apparizione genera sorpresa nei presenti e soprattutto nel lettore), assumendo un ruolo di protesta verso idee, giudizi e valori che non condivide e che gli appaiono sommamente ingiusti. È un contestatore ante litteram del sistema vigente nel tempo in cui vive, ossia di quanto vi sia di ingiusto, cattivo e sbagliato nella mentalità dei suoi compagni e concittadini, camuffato magari con i nobili ideali della virtù, della gloria, del coraggio. Può essere definito un “pensatore d’urto”, perché porta con le sue parole idee diverse e Nota: il presente lavoro vuole essere una prima messa a fuoco della problematica sulla figura del “diverso” nel mondo antico, relativamente alla figura di Tersite. Non pretende pertanto di essere esaustivo né nelle considerazioni né nelle conclusioni né nella bibliografia citata e prelude a un successivo e più approfondito svolgimento dell’argomento qui trattato. Per l’ambito didattico, l’accostamento di personaggi delle letterature antiche e moderne in una ideale continuità di caratteri ha prodotto la suggestiva raccolta di testi di Claudia Caffi – Elena Corbellini – Marzio Porro, Figure.I miti dell’immaginario collettivo occidentale, Thema Editore, Bologna 1992. 2 Rimandiamo per tutta la problematica dell’omosessualità nel mondo greco-romano (costume ammesso per gli uomini, in quanto legato a una funzione pedagogica, ma riprovato nelle donne) all’ampio saggio di Eva Cantarella, Secondo natura.La bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988, rist. 1 3 costringe gli altri, quelli si sono conformati a una mentalità e a un sistema di valori comunemente accettati, a confrontarsi con lui. Ma questo confronto si traduce assai spesso in scontro, soprattutto quando il “diverso” osa attaccare alle radici i rapporti di potere che la società ha generato e mettere in discussione l’operato, se non la legittimità stessa, di chi detiene il potere sovrano. E lo scontro è sempre devastante, perché il “diverso” e il potere che guida la società appaiono come due termini in opposizione irriducibile: esso può raramente risolversi in una vittoria del “diverso” sul potere, ma più spesso termina con la sconfitta, con il danneggiamento, con l’annientamento (la morte fisica o anche simbolica, ad esempio attraverso il ridicolo) di chi, coraggiosamente non rinunciando alla propria “diversità” morale, di cui quella fisica è riflesso, ha osato sfidare il potere e/o la morale dominante. 2. Per la prima volta la figura del “diverso”, del brutto nella letteratura occidentale appare in Omero, nell’Iliade, ed è incarnata da Tersite. Rispetto agli eroi omerici, Tersite è soltanto un’ombra effimera, racchiusa nello spazio di 67 versi su un totale di 15.693 esametri. Ma questa oscura parvenza lascia, a nostro avviso, un’impronta indelebile nella mente del lettore. Ricordiamo rapidamente l’episodio in cui appare questo personaggio, compreso nel libro II dell’Iliade (vv.211-277). Zeus invia ad Agamennone, mentre dorme nella sua tenda, un sogno ingannatore, che gli appare nella forma di Nestore e lo esorta ad armare gli Achei per il giorno successivo, perché Troia è destinata finalmente a cadere. Agamennone, destatosi, annuncia il sogno agli anziani, ma prima di far armare l’esercito dichiara di voler mettere alla prova l’animo dei soldati, saggiandone l’effettiva volontà di combattere. Annuncia egli stesso agli Achei di voler tornare in patria, perché mai più potranno conquistare ί̉́ Troia dalle ampie strade. A questo annuncio si scatena un tumulto e tutti i Greci corrono in massa alle navi, con l’animo bramoso di gustare la gioia del ritorno. Ma Era, irriducibile nemica dei Troiani, esorta Atena a dissuadere gli Achei dal partire e Atena incarica di ciò Ulisse. Fattosi dare lo scettro, simbolo del comando, da Agamennone, Ulisse nel ricomporre le fila dell’esercito greco mostra un duplice atteggiamento, conseguente all’ambiguità del personaggio. Verso i nobili Achei adopera parole suadenti, per convincerli a ritornare all’accampamento. Al soldato del popolo, invece, non risparmia rimproveri, bastonate e insulti, chiamandolo ̉́ςe ’́ςimbelle e incapace (Il. 2,198-202). Entrambi i mezzi adoperati, e distribuiti secondo una stretta logica di classe (parole suadenti ai nobili, botte e biasimi ingiuriosi ai plebei), riescono persuasivi e gli Achei sciamando ritornano dalle navi all’accampamento. Ma uno solo, irriducibile, persiste nella convinzione di voler tornare in patria, ignorando le parole di Ulisse. È Tersite, il più brutto e il più vile degli Achei, il quale nel mezzo dell’assemblea strepita contro Agamennone, che ha condotto in guerra gli Achei per sete di ricchezze e ha offeso Achille, che è di molto migliore di lui (Il. 2,224-242). Ulisse lo guarda storto e lo rimprovera aspramente, intimandogli di non offendere più il suo comandante; poi fa seguire all’intimazione una scarica di bastonate sulla schiena del povero soldato, che si ritira dolorante e piangente, tra la sfrenata ilarità degli Achei, i quali plaudono alla prepotenza di Ulisse (Il. 2,243-277). Tersite rappresenta un vero e proprio “strappo” rispetto ai personaggi eroici di cui Omero canta le gesta belliche, la cui virtù eroica ha il riflesso nella bellezza e nella forza fisica, secondo l’ideale della ί. Quella di Tersite è una ίrovesciata. Egli è davvero brutto, addirittura repellente d’aspetto. Le sue caratteristiche psicofisiche sono l’esatto contrario del paradigma omerico: egli “è l’unica caricatura veramente maligna che si trovi in tutto Omero”, come afferma lo Jaeger.3 Citiamo il passo che contiene la sua descrizione fisica (Il. 2,211-219): ̉Ά́‛’́̉́̀’ ‛έ· ́’̉έ̣́̃̉̀̉́ Werner Jaeger, Paideia.La formazione dell’uomo greco (Paideia.Die Formung des griechischen Menschen, 1944), trad. di Luigi Emery, vol.I, La Nuova Italia, Firenze 1984, rist., p.57. 3 4 ‛ό’έ̀ ‛̣̃̉άάά’ή̣ ά’̀’̀ό’έ̃ ’’‛ό‛̉ίί ’ί ’έ· ̉ί̀̉̀‛̀’Ί‛̃· ̀’έ̀’ ’έό·̀έ‛’ώ ώ̉̀̃ό·̉̀‛ύ ̀’έήd̀’̉ήά “Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti, ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle Ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli.”4 I particolari fisici concordano tutti nel rappresentare un essere teratomorfo, un vero e proprio mostro clinico. Secondo la descrizione di Omero Tersite ha le gambe storte (́ςè zoppo da un piede (̀ς’ ΄̀́ha le spalle ricurve, cadenti sul petto (̀́‘̉́́ ̉̀̃ς́la testa a pera (̀ς’́́), sulla quale crescevano radi capelli (̀’̉́́Tersite è dunque gobbo, con le gambe storte, ha il capo deforme, allungato, e quasi calvo, con radi capelli. Inoltre non è per nulla un buon parlatore. Tale bruttezza fisica (un unicum nel poema omerico, giacché Efesto e Dolone, gli altri due “brutti” dell’opera, non raggiungono tale livello di repellenza e mantengono comunque una certa nobile dignità nella loro persona) è l’involucro esterno di un animo spregevole, del più spregevole (̉́ς, come precisa Omero, di quanti vennero all’assedio di Troia: «il parlatore petulante, / che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, / per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, / pur che qualcosa stimasse argomento di riso / per gli Argivi» (trad. di Giovanni Cerri, Fabbri editori, Milano 2000, p.185). E Tersite, per la sua sfrontatezza, era assai odiato da Achille e Ulisse. V’è da tener presente che il nome Tersite, in greco ́ς, deriva da ́ς, forma eolica di ́ς, “coraggio” o “impudenza”L’autore del canto II dell’Iliade, nota il Murray, intendeva evidentemente che il nome richiamasse questo secondo significato. Dunque Tersite contestava abitualmente e apertamente, impudentemente, l’autorità dei capi, i due Atridi Agamennone e Menelao, e poi anche Achille, mettendone in ridicolo le persone. Una sfrontatezza che stranamente, fino alla violenta reazione di Ulisse, era rimasta impunita. I tratti di Tersite rappresentati da Omero divengono paradigma del brutto, del difforme, sia a livello fisico sia a livello morale e spirituale. Il termine ̉́ς definisce Tersite, ed è stato notato dal Pasquali che Il. 2,216 è il solo punto in cui Omero usi ̉́ςcol senso di “brutto”.6 Il cranio va messo in relazione con un aspetto del carattere di Tersite. Tersite ha la testa allungata ed 4 Trad. di Giovanni Cerri, Fabbri Editori, su lic. Rizzoli, Milano 2000, p.185. Gilbert Murray, Le origini dell’Epica greca (The Rise of the Greek Epic, 1960), trad. di Giulio De Angelis, Sansoni, Firenze p.270. 6 Giorgio Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, in Pagine stravaganti, vol.II, Sansoni, Firenze 1968, p.114 (lo scritto risale al 1940). Il Pasquali inferisce da questa e da altre considerazioni (come a dettagliata descrizione di Omero dele deformità di Tersite) che la categoria del brutto per i Greci sarebbe stata solo individuale, mentre la bellezza sarebbe stata il modello tipico. Però il Brelich osserva che anche agli eroi greci più belli sono attribuiti, a superamento della tradizionale simmetria aspetto fisico / carattere morale, aspetti di difformità dal normale o addirittura di mostruosità, come il gigantismo (per Achille), la bassa statura (per Aiace Oileo e Tideo, e sorprendentemente attribuita in Pindaro, Isthm. 4,53 a Eracle), il teriomorfismo, l’androginismo: vd. Angelo Brelich, Gli eroi greci, un problema storicoreligioso, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1978, rist., pp.232-242. 5 5 è petulante, sfrontato. Aspetto fisico e carattere morale erano posti in relazione dagli antichi, che crearono un’apposita disciplina, affiancata alla filosofia e alla medicina e precorritrice della moderna psicologia, la fisiognomica: se ne occuparono filosofi come Pitagora, Aristotele, Giamblico, medici come Ippocrate e Galeno e scienziati come Plinio il Vecchio. 7 Un trattato anonimo, attribuito dagli antichi ad Aristotele ma certamente proveniente dall’ambiente del peripato, la Fisiognomica (il primo trattato pervenutoci dall’antichità su questa materia, che consiste nel catalogare le caratteristiche fisiche degli individui ricavandone i tratti morali), nel paragrafo sulla distinzione delle varie forme di testa, attribuisce a chi ha la testa a punta un carattere sfrontato (Ps.ARISTOT., Phgn. 812a 8-9, ‘̀ς̀ς̀̉̃ς La traduzione latina dell’opera, il De physiognomonia liber (IV sec. d.Cr.), presenta al § 16 una casistica molto più ampia di teste deformi, tutte associate a caratteristiche morali fortemente negative. Scegliamo tra queste quelle che offrono le analogie più stringenti con la testa di Tersite. Così, la testa allungata è segno di poca accortezza (Caput prolixum imprudentiae signum est), quella enorme indica un animo stolto, stupido e decisamente rozzo (Caput immensum stultum et stolidum et indocilem vehementer ostendit), la testa inclinata da una parte è segno di sfrontatezza (Caput obliquum impudentiam designat), quella prominente nella parte anteriore connota l’insolente (Caput e priori parte eminens insolentem denotat).8 Tutte caratteristiche psicologiche che convengono a Tersite, la cui testa sarebbe un po’ una summa delle varie deformità craniche sopra elencate, come si deduce dal suo comportamento certamente audace, sfrontato (critica fino all’insulto Agamennone e Menelao) e poco accorto (incappa nella punizione di Ulisse) allo stesso tempo. Tale principio si perpetua nei trattati di fisiognomica in età medievale e moderna. Senza riandare al celebre trattato Della fisionomia dell’uomo di Giovan Battista della Porta (Napoli, 1610), ricordiamo, per l’epoca moderna, il Manuale di fisiognomica di Angelo Repossi (1878), nel quale si legge che “i cranii rozzi” sono caratterizzati da “un allungamento trasversale della testa dal mento alla parte posteriore del capo, come ne’ scimmioni con depressione di tutto il resto. Onde la regione del mento e tutta la parte inferiore del volto è molto rimarcata, dura e saliente, mentre le regioni superiori della fronte sono depresse e mal marcate, anzi la fronte quasi vi scompare, per dar luogo al rigonfiamento della parte posteriore del capo e della nuca. E ciò equivale, anche pei frenologi, a mancanza di cervello nelle sedi dell’intelligenza, e ad esuberanza nelle sedi degli istinti bruti”.9 Che Tersite non sia ricco d’intelligenza è indicato da Omero nell’essere egli un cattivo oratore: Tersite parla in modo ́ disordinato e avventato, i suoi discorsi ̉ non incantano gli ascoltatori, anche se Ulisse, pur appellandolo «consigliere scriteriato» (̉́in Il. per mera cortesia (e probabilmente per la necessità, da parte di Omero, di utilizzare un consueto nesso formulare) ammette che sia un «oratore eloquente» (́ς ́ς, ibid. Il cattivo carattere di Tersite, il cui esteriore segno è la sua bruttezza fisica, è confermato anche dalle notizie successive sulla sua vita, riportate dai poeti epici come Arctino e Quinto Smirneo e dai mitografi come Apollodoro. La sua cattiveria è confermata dalle altre leggende collegate alla sua figura. Durante la caccia al cinghiale Calidonio, ov’era assieme a Meleagro, sarebbe fuggito per viltà: l’eroe si sarebbe talmente adirato che lo avrebbe buttato giù da un’altura. La leggenda sulla sua fine era riportata nella perduta Etiopide di Arctino di Mileto (come si legge nella Crestomazia 7 Sullo sviluppo della fisiognomica antica dal continuo confronto con il mondo animale e sulla sua pretesa di aspirare a un sapere antropologico totale, vd. Maria Michela Mosci Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp.46-80. 8 Il testo e la traduzione seguita sono quelli in Pseudo Aristotele, Fisiognomica – Anonimo Latino, Il trattato di fisiognomica, intr., trad. e note di Giampiera Raina, Rizzoli, Milano 2001³, p.146. 9 Angelo Repossi, Manuale di fisiognomica, Libritalia, Cerbara-Città di Castello 1997, p.118 (il testo risale al 1878). Un innovatore della fisiognomica è Rudof Kassner, che nei suoi scritti volle superare il parallelismo interno-esterno che legava la fisiognomica a rigidi e tradizionali schemi deterministici, esaltando le dinamiche sfumature dell’espressione (vd. in particolare Rudolf Kassner, I fondamenti della fisiognomica, trad. di Giovanni Gurisatti, Neri Pozza Editore, Vicenza 1997). 6 di Proclo epitomata da Fozio)10 e quindi nei Posthomerica di Quinto Smirneo (1,741 ss.).11 Figlio di Agrio (che era fratello di Eneo),12 scampato alla strage dei suoi fratelli ad opera di Diomede,13 Tersite fu ucciso da Achille, perché aveva deriso il suo amore per la regina delle Amazzoni Pentesilea. Ricordiamo la mitica vicenda: Achille ferendo mortalmente Pentesilea, alleata dei Troiani, stregato dalla straordinaria bellezza della guerriera, se ne innamorò, rimpiangendo di non averla risparmiata. Agli Achei che avrebbero voluto fare scempio della morente, gettandola nel fiume Scamandro o abbandonandone il corpo alle fiere e agli uccelli, Achille si oppose volendo tributarle giuste esequie, per amore di lei. Un amore necrofilo, però: l’eroe greco, secondo la versione di Arctino, dopo aver ucciso a duello Pentesilea, si sarebbe innamorato di lei morta. Tersite allora, con la sua solita malignità, avrebbe deriso Achille di fronte ai Greci e poi, in segno di disprezzo, avrebbe oltraggiato il cadavere, cavandogli un occhio con la lancia. Allora Achille, pieno d’ira, avrebbe ucciso Tersite con un violento pugno (secondo la versione di Quinto Smirneo)14 o un colpo di lancia (secondo quella, più rara, attestata dal solo Licofrone nel suo poema Alessandra).15 Per vendetta Diomede, cugino di Tersite, afferrò per i piedi il corpo di Pentesilea e lo gettò nelle acque dello Scamandro. Al riguardo il bassorilievo noto come Tabula Iliaca, databile al I sec. a.Cr. e conservato al Museo Capitolino, sembrerebbe confermare, dato che vi si vede Achille col braccio destro armato di lancia e alzato in atto di colpire Tersite, la versione più recente di Licofrone.16 L’uccisione del malvagio Tersite, che così ferocemente aveva oltraggiato il corpo della bella Amazzone, provocò inaspettatamente lo sdegno degli Achei e Achille dovette compiere per essa, a Lesbo, un sacrificio purificatorio ad Apollo, Artemide e Latona, come ci informa sempre Arctino.17 Ciò che è importante notare – a parte lo sventurato destino di Pentesilea che neppure da morta ebbe pace – è che, secondo questa versione del mito, la nascita da Agrio avrebbe provvisto Tersite di un certo rango, dato che Achille dovette sottostare, per il suo omicidio, a una purificazione. Torniamo all’aspetto di Tersite. La testa allungata, “a pera” (una forma patologica di dolicocefalia o di acrocefalia),18 era per gli antichi un particolare segno di deformità fisica, a cui si associava un carattere negativo. Ma vi erano le eccezioni. Per quanto riguarda la testa “a pera”, un 10 In Homeri opera recognovit brevique adnotatione critica instruxit Thomas W. Allen, tomus V, Oxonii 1961, repr. (I ed. 1912), p.105. 11 Vd. anche l’Epitome di Apollodoro (5). Sul mito di Tersite: Robert Graves, I miti greci (Greek Myths, 1955), trad. di Elisa Morpurgo, CDE, su lic. Longanesi & C., Milano 1991, p.627. 12 Eneo, padre di Tideo, fu il nonno di Diomede. Dunque Tersite sarebbe stato cugino dell’eroe greco. 13 Diomede uccise tutti i figli di Agrio, tranne Onchesto e Tersite, che avevano tolto il regno a Eneo, suo nonno, per darlo al proprio padre (vd. Apollodoro, Biblioteca 8). 14 Quint. Smyrn., Posthomer. 1,741-747, ove sono descritti i devastanti effetti del pugno di Achille: per il colpo alla mascella Tersite perde tutti i denti, cade a terra riverso esalando l’ultimo respiro, mentre il sangue gli esce dalla bocca a fiotti. 15 Lycophr., Alex. 999-1001. Qui Tersite è chiamato, in riferimento alla sua origine, “Etolo simile a una scimmia, essere rovinoso” (̣́ ̣̣̉̃́ 16 Sulle versioni della morte di Tersite e sul problema della successione degli eventi morte di Tersite – esequie di Pentesilea, rimandiamo allo studio di Giuseppe Morelli, La morte di Tersite nella ‘Tabula Iliaca’ del Campidoglio, in “Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili”, a cura di Roberto Pretagostini, vol.I, GEI, Roma 1993, pp.143-153: secondo l’autore un grande cratere apulo rinvenuto nel 1899 a Ceglie del Campo e conservato al Museum of Fine Arts di Boston aggiungerebbe altri inquietanti particolari alla vicenda – Achille avrebbe ucciso Tersite mentre era disarmato e stava compiendo un rito religioso – confermando il contenuto della Tabula Iliaca capitolina. Sulla morte di Pentesilea vd. anche Vanna de Angelis, Amazzoni, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1998, pp.159-174 (ove l’autrice, forse per una erronea lettura delle fonti, afferma che Achille avrebbe posseduto l’Amazzone dopo morta). Su Pentesilea e Camilla, l’ “Amazzone” dei Volsci: Antonia Fraser, Regine guerriere (Boadicea’s Chariot. The Warrior Queens, 1988), trad. di Paola Mazzarelli, Rizzoli, Milano 1990, pp.29-30. Sulle Amazzoni: Tim Newark, Donne guerriere (Women Warlords, 1989), trad. a cura di Alterego snc, Fratelli Melita Editori, La Spezia 1991, pp.9-30. 17 In Homeri opera, cit., p.105. 18 L‘aspetto di Tersite non doveva essere troppo dissimile dal personaggio deforme e gobbo, affetto probabilmente dal morbo di Pott (o spondilite tubercolare), raffigurato in un bronzetto ellenistico conservato allo Staatliches Museum di Berlino (vd. Clotilde D’Amato, La medicina (Vita e costumi dei Romani antichi, n.15), Edizioni Quasar, Roma 1993, p.67). 7 celebre esempio era rappresentato da Pericle, il cui capo, allungato e sproporzionato (̣̣́̀̃̃̀ ̉́, era celato con un elmo in quasi tutte le statue poiché gli scultori non volevano offenderlo, come informa Plutarco (PLUT., Per. 3,1,3-4). E la sua testa allungata era divenuta un tratto fisico così distintivo che sempre Plutarco (Per. 3,1,4), ci informa che i poeti attici chiamavano Pericle “schinocefalo” (́, ossia “testa di cipolla marittima (̃”Un altrettanto celebre esempio moderno è l’imperatore Ferdinando I d’Austria, la cui testa offrì tanta materia ai disegnatori satirici: se ne veda il ritratto di Francesco Hayez (1840), che impressiona per la rappresentazione della prominenza craniale e degli occhi vitrei e acquosi del monarca austriaco. 20 E un moderno ritratto di Tersite potrebbe riscontrarsi nella repellente rappresentazione del traditore Efialte, essere deforme e gobbo, dal cranio bitorzoluto e calvo, quale appare – il più brutto dei Greci, proprio perché traditore dei compagni: una chiara rispondenza tra aspetto fisico e malvagità del personaggio – nel film “300” di Zack Snyder (2007), che esalta l’epopea dei trecento Spartani di Leonida alle Termopili. L’episodio di Tersite, nel canto II dell’Iliade, mette in rilievo, sia pur in una breve sequenza e per l’unica volta, un personaggio straordinario, atipico, nella galleria di figure eccezionali, eroi e divinità, che popolano il poema omerico. Tersite, deforme e zoppo, rappresenta un estraneo tra i grandi e nobili Achei, anzitutto per l’aspetto fisico.21 Ma il suo discorso contro Agamennone contiene accenti di verità, soprattutto allorché svela la reale motivazione di quella lunga guerra, ossia la brama di bottino, ricchezze e giovani schiave, di Agamennone. Come ben osserva il Di Benedetto, nel suo discorso Tersite riutilizza contro Agamennone i motivi della violenta polemica di Achille, del quale prende le difese, fino a presentarsi agli Achei come “più achilleico di Achille stesso”.22 Non escludiamo però che alla base dell’invettiva di Tersite contro Agamennone vi sia un motivo psicologico, sulla scorta delle osservazioni del Faure, che ha tracciato un profilo psicologico e psicanalitico degli Achei.23 Tersite forse è stato deluso da Agamennone in due sensi: egli cercava in lui non solo il capo nobile e disinteressato (e ha trovato soltanto un uomo avido di bottino e di schiave, e per giunta vigliacco), ma vi cercava anche il padre. Ciò per una ragione psicologica comune agli eroi Achei, che ha peraltro ben evidenziato il Faure: sono tutti uomini cresciuti senza padre e/o senza madre, del cui affetto manifestano un desiderio vivissimo. Mostrano perciò, dietro la maschera del potere o dell’insofferenza al potere un generale senso di frustrazione: “personaggi ideali per il teatro, per la tragedia”.24 Tersite è però messo in ridicolo da Ulisse, che lo bastona, suscitando l’irrefrenabile ilarità dell’assemblea. Sulle ragioni della bastonatura non ci pare vi sia completo accordo tra gli studiosi. Tersite viene bastonato perché ha parlato contro Agamennone, ossia semplicemente perché ha osato prendere la parola, fruendo di un diritto che evidentemente non gli spettava, come afferma il Detienne?25 Il fatto che Ulisse possa impunemente bastonare Tersite ci dice che quest’ultimo doveva essere un uomo della massa del popolo, ossia della plebe (̃ς. Ma egli non era un combattente, secondo il Detienne, e non godeva dei privilegi politici riservati all’élite aristocratica 19 Nel passo citato della Vita di Pericle Plutarco riporta tutti i versi dei commediografi, come Cratino, Teleclide ed Eupoli, che dileggiavano questa caratteristica fisica dello statista ateniese. 20 Il quale era ritenuto notoriamente di scarse capacità intellettuali dai ministri e dalla corte: debole e malato, dopo la rivoluzione viennese del 1848, abdicò in favore di suo nipote Francesco Giuseppe (vd. Le grandi famiglie d’Europa, Gli Asburgo (II), Mondadori, Milano 1972, pp.75-76). 21 I quali nel loro aspetto fisico incarnavano l’ideale della bellezza e della virilità, conseguenza dell’origine divina, a partire da Achille (vd. in proposito Harvey C. Mansfield, Virilità.Il ritorno di una virtù perduta (Manliness, 2006), trad. di Stefania Coluccia, Laura Cecilia Dapelli, Giovanni Giri, Rizzoli, Milano 2006, pp.85-87). 22 Vincenzo Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Einaudi, Torino 1998, p.352 n.3. 23 Paul Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (1250 a.C.) (La vie quotidienne en Grèce au temps de la guerre de Troie, 1250 a.C., 1983), trad. di Paola Varani, Rizzoli, Milano 1999², pp.68-72. 24 Paul Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (1250 a.C.), cit., p.72. 25 Marcel Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica (Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, 1967), trad. di Augusto Fraschetti, Laterza, Roma-Bari 1983, p.74. 8 (gli ̉́deĺς Del resto la bastonatura di Tersite è preannunciata dal passo di Il. 2,198199, ove si dice che Ulisse, se vedeva uno del popolo e lo trovava a sbraitare contro i capi, lo picchiava con lo scettro e lo rimproverava. È evidente che Il. 2,198-199 anticipi la scena successiva, sviluppata in Il. 2,211-277, con l’intervento di Tersite a fungere da intermezzo comico nella successione degli scontri tra Achei e Troiani. Un intermezzo comico accentuato dall’uso che Ulisse fa dello scettro, strumento dell’autorità e segno del potere (opera artistica e finemente descritta come ornata di foglie d’oro in Il. 1,245-246), ridotto per l’occasione a corpo contundente col quale punire l’isolente Tersite. La sincerità, che giunge fino all’audacia, con cui si esprime Tersite lo ha fatto considerare un campione della prima forma di democrazia che si è storicamente realizzata, ossia quella greca, dal filosofo Fernando Lavater. Tersite, uomo del popolo, contesta “dal basso” i capi aristocratici, osa prendere la parola ed esporre le sue ragioni per convincere i compagni ad abbandonare Agamennone, usa il diritto di parola (la ́)nella convinzione che esso competa a tutti i Greci, senza distinzione di classe, perché tutti gli individui devono avere lo stesso voto e lo stesso peso nelle scelte politiche.27 La voce di Tersite, che dà espressione a una morale pericolosamente diversa da quella aristocratica (che era, com’è noto, imperniata sulla virtù bellica), è la voce del popolo che per la prima volta osa parlare ai capi aristocratici da pari a pari, esprimendo un malcontento e un disgusto per la guerra che forse non dovevano essere provate soltanto da questo brutto ma coraggioso greco. È dunque una figura che esce dagli angusti limiti di “plebeo riottoso, che vuole in qualunque caso e a qualunque costo opporsi ai notabili, e si serve ai suoi fini di certo spirito di bassa lega”, come lo aveva definito il Pasquali in un suo pur pregevole saggio avente a oggetto l’idea del brutto nella ritrattistica omerica.28 Tersite incarna, dunque, la voce del popolo. È probabile (lo diciamo da un punto di vista modernamente “laico”) che se le parole di Tersite avessero convinto la maggioranza dei soldati, i Greci avrebbero abbandonato la pianura di Troia. Ma la reazione di Ulisse, che rampogna sprezzantemente Tersite e lo bastona, provvede a reprimere questo primo, audace conato di portare le ragioni della plebe nell’assemblea della comunità greca, ristabilendo con la violenza, a cui si accompagna la derisione, la superiore autorità del ruolo politico e della morale degli aristocratici. La figura di Tersite, questo “pacifista” ante litteram, resta dunque quella di un “diverso”, che non assurge alla dignità solenne e tragica di profeta della sua classe, ma rimane confinato nell’angusto spazio del comico, perché non ottiene il riconoscimento degli aristocratici e neppure la solidarietà dei suoi compagni “di classe”, viceversa guadagnando la bastonatura da parte di Ulisse. Possiamo ripetere, seguendo il Ferrucci, che l’episodio appare come un modello di persecuzione del dissenso.29 È pur vero che la possibilità di discutere e criticare, anche violentemente, l’operato e le scelte dei capi lascia intuire il tramonto dell’autorità regale quale era stata concepita in età micenea, l’epoca a cui storicamente rimonterebbe la guerra di Troia (verso il 1250 a.Cr.). Ma di fronte al potere sovrano rappresentato da Agamennone e alla protervia degli aristocratici, Tersite rimane solo, non tanto per la sua posizione di protesta quanto per il suo aspetto fisico, che gli dà un marchio repellente e al contempo genera il riso.30 Gli dei non assistono Tersite nella sua prova davanti all’assembea, non gli infondono coraggio né frenano il suo impeto oratorio, come invece fa Atena, protettrice degli Achei, con altri eroi, per esempio con Achille e Ulisse. 31 E per questo eroe 26 M. Detienne, ibid. Fernando Lavater, Politica per un figlio, trad. di Francesca Saltarelli, Laterza, Roma-Bari 1993, pp.39-41. 28 Giorgio Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, cit., p.114. 29 Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno, Omero e gli archetipi della narrazione, Mondadori, Milano 1981, p.27. 30 Ha ritenuto, invece, il Dabdab Trabulsi che Tersite desse voce a sentimenti largamente diffusi contro i capi della spedizione achea (José Antonio Dabdab Trabulsi, Essai sur la mobilitation politique dans la Grèce ancienne, Annales Litteraires de l’Université de Besançon, Paris 1991, pp.25-26. È un fatto, però, che nessuno accorre in aiuto del Nostro allorché da Ulisse viene bastonato. 31 Sull’epifania della dea nei poemi omerici e sul suo “potere disarmante”, soprattutto verso Achille, vd. il saggio di Giovanna Aquaro, Alle soglie dell’Iliade: quel fascino accecante, in “Studi Italiani di Filologia Classica”, LXVII, 3ª S., 1984, pp.143-155. 27 9 solitario, la cui condizione di isolato lo accomuna a figure femminili della commedia di Aristofane, come Lisistrata e Prassagora (l’una protagonista dell’omonima commedia l’altra delle Ecclesiazuse), possiamo ripetere altresì le parole del Paduano a commento della solitudine iniziale delle due eroine sopra citate, in particolare di Prassagora, l’artefice del colpo di stato “femminista” ad Atene: il ritardo delle compagne va considerato “nella luce del caratteristico isolamento individualistico dell’eroe comico, il quale pensa a una modificazione creativa del reale nell’interesse della collettività, ma attraversandone l’incomprensione”.32 Nella prospettiva della tradizione letteraria occidentale, potremmo dire che Tersite inaugura quella ampia galleria di personaggi tratti dal popolo, o meglio dall’infima plebe, che sono emarginati nello spazio del comico, e rimangono soli ad affrontare le prepotenze dei tiranni o i capricci dei loro padroni (si pensi al contadino Bertoldo e alle sue sottilissime astuzie narrate da Giulio Cesare Croce, al Sancho Panza di Cervantes, al buffone Wamba in Ivanohe di Walter Scott, al Triboulet del dramma Il re si diverte di Hugo, etc.), fino a che essi non assumono la dignità di protagonisti di romanzo, come Renzo e Lucia del Manzoni. Non annovera l’episodio di Tersite fra le prime esperienze di libertà in Grecia Jacqueline de Romilly nel suo saggio La scoperta della libertà nella Grecia antica (La Gréce antique à la découverte de la liberté, 1989), che pure cita Omero, Il. 6,454-458 e 526-529, riferendosi ai colloqui di Ettore con Andromaca e con il fratello Menelao, ove è evidente l’idea della libertà quale condizione opposta all’esperienza della sconfitta e dell’asservimento in guerra, della quale la città è collettivamente garante. 33 Tace di Tersite anche uno storico illustre come Domenico Musti, ricostruendo l’origine della democrazia ateniese (Domenico Musti, Demokratía, origini di un’idea, Laterza, Roma-Bari 1995). È effettivamente un uomo libero Tersite? Sì, ma egli, nella comunità degli Achei che detiene il potere di approvare o meno le proposte, non può esplicare pienamente la sua libertà individuale: prende la parola, com’è suo diritto, parla in modo chiaro e irridente, al limite della provocazione, contro Agamennone, ma paga il suo coraggio con la bastonatura inferta da Ulisse. L’uomo del popolo, l‘uomo comune non può ancora competere, almeno dialetticamente, con i potenti aristocratici simboleggiati dagli eroi. Fosse stato anch’egli un eroe, osserva il Finey, avrebbe potuto tranquillamente esporre la sua proposta, che certo metteva a rischio l’interesse collettivo.34 Il personaggio di Tersite ha avuto una notevole fortuna nella tradizione letteraria occidentale, in versi e in prosa, citato e riecheggiato fino ai moderni, ed è stato interpretato nei modi più disparati. Gli antichi, in verità, erano concordi nell’assegnare al personaggio, sulle orme di Omero, i tratti più spregevoli del carattere umano, la ribelle tracotanza, l’impudenza, la stolta logorrea, finendo per rappresentarlo nel segno del ridicolo. Senza voler ripercorrere la fortuna di Tersite nella letteratura occidentale,35 scegliamo alcune tra le numerose testimonianze dei greci e dei latini su questo personaggio, che peraltro avrebbe avuto il privilegio di un dramma a lui interamente dedicato, il Tersite dell’ateniese Cheremone (IV sec. a.Cr.).36 Sofocle, nel Filottete, all’eroe che interroga Neottolemo sulla sorte dei suoi compagni a Troia, fa ricordare anche Tersite, uomo indegno, ma abile e scaltro nel parlare, “che non si sarebbe mai contentato di parlare una volta soltanto là dove ̃ nessuno gli consentiva di aprir bocca”37 (Ph. 442-444: ̉̃̃̉̉̀́̉ 32 Guido Paduano, comm. ad Aristofane, Le donne al parlamento, Rizzoli, Milano 1989², nota 1 p.55. Jacqueline de Romilly, La scoperta della libertà nella Grecia antica, trad. di Giulia Oliosi, Essedue edizioni, Verona 1991, pp.25-26. 34 Moses I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, trad. di Gianni Di Benedetto e Francesco de Martino, Laterza, Roma-Bari 1997, rist., pp.79-80. Per il Bonanni Agamennone, giovandosi anche dell’aiuto di Ulisse, avrebbe attuato in quell’assemblea un colpo di mano in direzione di un’autocrazia plebiscitaria (Massimo Bonanni, Il cerchio e la piramide, l’epica omerica e le origini del politico, Il Mulino, Bologna 1992, pp.88-92). 35 Rimandiamo, per la fortuna del personaggio fino ai nostri giorni, allo studio di Luigi Spina, L’oratore scriteriato.Per una storia letteraria e politica di Tersite, Loffredo Editore, Napoli 2001, soprattutto ai capp. IV (God Save(d) Thersites), V (Tersite nel XX secolo) e VI (Tersite nella rete). 36 Autore anche del dramma Achille uccisore diTersite ( ̉̀ḱ, che avrebbe ispirato la decorazione della Tabula Iliaca del Museo Capitolino. 37 Trad. di Maria Pia Pattoni, Fabbri editori, su lic. Rizzoli, Milano 1996, rist., p.207. 33 10 ̀ ́’̉́̉̃‛̣́̀̉́·. Platone, concludendo la Repubblica ‛̀̉̉ con il bellissimo mito di Er, fa rievocare, tra le anime degli eroi in attesa di scegliersi un’altra vita terrena, anche Tersite, il buffone (́), che assume la natura di una scimmia (Rep. 620c). Eschine, nell’orazione Contro Ctesifonte (231), chiama Tersite vile e sicofante ́ (̉̀ ́), attribuendo paradigmaticamente a Omero questi epiteti.38 Luciano di Samosata nella Storia vera rappresenta parodisticamente Tersite il quale, nell’Isola dei Beati, tenta una causa per diffamazione contro Omero ma la perde anche perché il poeta ha come avvocato Ulisse (Vera hist. 2,20). Invece nei Dialoghi dei morti (30) lo scrittore siro rende giustizia a Tersite, che nell’Ade è sfidato da Nireo, il più bello degli Achei dopo Achille, in una gara di bellezza: Menippeo, chiamato da Nireo a fare da giudice, non assegna la vittoria a nessuno dei due, perché, così risponde, “nell’Ade c’è parità assoluta, e siamo tutti uguali”. 39 Anzi, il cranio di Nireo gli appare meno virile (̉̉̃ di quello di Tersite.40 È evidentemente, un modo di riabilitare un personaggio tradizionalmente giudicato in modo negativo, secondo lo stile beffardo e spregiudicato di Luciano, che precorre gli elogi tributati più tardi a Tersite da retori e sofisti. Tra gli autori latini, ricordiamo che Ovidio lo cita nel discorso di Ulisse, vantandosi di aver punito la sua tracotanza (met. 13,232-233: ausus erat reges incessere dictis / Thersites etiam, per me haud impune protervus). Seneca accosta a Tersite l’insolente ateniese Democare, il Parrhesiastes, alla battuta offensiva del quale Filippo II benignamente non reagisce (de ira 3,23,3: Indignatio circumstantium ad tam inhumanum responsum exorta erat: quos Philippus conticiscere iussit et Thersitam illum salvum incolumemque dimettere). Giovenale lo prende a modello di ascendenza oscura e infame, nella satira che indirizza all’amico Pontico contro il pregiudizio della nobiltà dei natali (8,269-271: Malo pater tibi sit Thersites, dummodo tu sis / Aeacidae similis Vulcaniaque arma capessas, / quam te Thersitae similem producat Achilles). Quintiliano (inst. or. 11,1,37), criticando l’oratoria violenta, caotica e irosa, dice che le ridicole parole di Tersite contro Agamennone avrebbero ben altro effetto se a pronunciarle fosse Diomede, giacché si addicono più a un grande animo (Verba adversus Agamemnonem a Thersite habita ridentur; da illa Diomedi aliive cui pari: magnum animum ferre prae se videbuntur). Aulo Gellio, condannando la futtilis inanisque loquacitas, riporta gli epiteti – “eterno parlatore” e “impudente chiacchierone” – riservati da Omero a Tersite (Noctes Atticae 1,15,11: Neque non merito Homerus unum ex omnibus Thersitam ̉ ̃ et ̉ ́ appellat verbaque illius multa et ̉́ ́ strepentium sine modo graculorum similia esse dicit). Ma, durante l’età imperiale, provvedono le esercitazioni retoriche, come quelle di Favorino e di Libanio, a tentare una sia pur tardiva riabilitazione di Tersite. L’elogio di Tersite (’́́ di Libanio (314-393), l‘unico che ci è pervenuto di questi testi,41 segna un rivolgimento nel convenzionale modo di rappresentare il personaggio. In 19 paragrafi Libanio svolge una puntigliosa e abile difesa di Tersite, elogiandone i nobili natali e la modestia, che non gli permise di vantarsene mai, il coraggio nell’aver preso parte alla caccia di Meleagro contro il cinghiale Calidonio e, ancor più, nell’aver voluto lui, deforme – e, diremmo, inabile alle armi –, partecipare alla spedizione troiana, mentre altri acclamati eroi, come Achille e Ulisse, si finsero l’uno donna e l’altro pazzo per scampare a quella guerra. Inoltre la sua franchezza lo portava a rinfacciare le male azioni compiute dai capi, avendo ben compreso che la vera ragione della guerra Eschine, Contro Ctesifonte 231: “E se uno dei poeti tragici, di quelli che mettono in scena le tragedie dopo queste cerimonie, facesse rappresentare nel suo dramma Tersite coronato dai Greci, nessuno di voi lo sopporterebbe, poiché Omero dice che era un vile e un sicofante”. 39 Trad. di Massimo Vilardo, Mondadori, Milano 1991, p.231. 40 Per valutare nella sua portata l’espressione di Luciano, va tenuto presente che in Omero, e dunque per gli antichi, l’aspetto di Tersite era assolutamente antitetico a quello dell’eroe virile per eccellenza, il cui archetipo è Achille: sulla virilità achillea, valore esaltato in un contesto politico, vd. le riflessioni nel saggio di Harvey C. Mansfield, Virilità, cit., pp.85-87. 41 Dell’altro elogio di Tersite, quello di Favorino, abbiamo soltanto notizia da Aulo Gellio (Noctes Atticae 17,12), laddove parla delle infames materiae trattate da retori e sofisti. L’Elogio di Tersite di Libanio, con testo greco, traduzione e commento, è nel saggio di Luigi Spina, L’oratore scriteriato, cit., alle pp.89-108. 38 11 era l’avidità di Agamennone nel godere delle belle prigioniere e del bottino. Quindi Tersite, nel discorso di Libanio, si erge come un difensore dei soldati semplici, che però lo non comprendono. Grazie a questo testo, l’interpretazione del personaggio ha goduto di una evoluzione in senso positivo. Molti degli argomenti che Libanio adduce a difesa di Tersite sono stati adottati dagli scrittori moderni. Dietro l’esempio di Libanio, da individuo deforme nel corpo e nell’anima, come era rappresentato dagli antichi diviene nei moderni l’antieroe che lancia una disperata e inutile protesta contro la guerra e i falsi valori del mondo omerico, anzitutto il ́che serve a camuffare nient’altro che l’avidità dei potenti. Se un grande poeta come Shakespeare può ancora far sostenere a Tersite un ruolo odioso, quello del deformed and scurrilous Grecian, nel dramma Troilo e Cressida (non risparmia i suoi lazzi cinici agli eroi greci, viene malmenato da Aiace, ed esce di scena come un vile, nell’atto V scena VII, rifiutando di battersi contro il troiano Margarelone, nel quale riconosce la comune origine di bastardo), successivamente gli autori moderni hanno attribuito a Tersite una nuova, più umana sensibilità.42 Nel Novecento un’atipica prova letteraria di un grande latinista, Concetto Marchesi, Il libro di Tersite (Mondadori, Milano 1950), assegna al personaggio omerico l’inatteso ruolo della voce della coscienza del protagonista narratore. Tersite gli appare di notte, su una sedia a un angolo della camera, nell’atto di accomodare un calzare sdrucito: “i suoi capelli erano cortissimi e la faccia tanto bianca che pareva infarinata”.43 Racconta al protagonista la vita nell’Ade, tra tanti eroi e personaggi dell’antichità, e, annunciandogli la sua riabilitazione postuma, gli dice che lui solo può fargli da guida per il mondo. Un Tersite tristemente disincantato, che vuole svelare al narratore l’ipocrisia, i pregiudizi, la falsità, le pecche della società e della cultura dei borghesi, e che viene difeso dal grande latinista. Le ultime e più recenti apparizioni di Tersite sono legate, in genere, a riflessioni sull’inutilità e l’assurdità della guerra.44 Ricordiamo, per gli ultimi riecheggiamenti del personaggio omerico nella narrativa, il Tersite di Luciano De Crescenzo,45 che, ancor dolorante dopo la bastonatura, si affanna a svelare al greco Leonte che quelli che reputa eroi, Agamennone e Achille, sono in realtà “malfattori dai nomi famosi che invadono le terre altrui con l’unico scopo di saccheggiarle e di violentare le donne”.46 Ma sono eroi perché sono coraggiosi, ribatte Leonte. “È forse coraggioso un guerriero che sa di essere invulnerabile quando affronta un altro guerriero che, al contrario di lui, è vulnerabilissimo?”47 Altri Tersite da ricordare: quello di Alessandro Baricco,48 rappresentato anch’egli come un irriducibile, coraggioso nemico della guerra, quello, per venire ad autori stranieri, di Karel Čapek,49 che tuona contro Agamennone e lo accusa addirittura di essere stato corrotto dall’oro dei Troiani, e quello di Colleen McCullogh, che fa una breve comparsa, assieme all’ingannatore per eccellenza, Sinone, nel suo romanzo Il canto di Troia.50 Da calunniatore insolente e bastonato Tersite è dunque assurto al ruolo di ribelle demistificatore della falsa virtù guerresca esaltata dai bellicisti di ogni tempo. 42 Per gli autori successivi a Shakespeare, rimandiamo a Spini, cit., pp.54-59. Concetto Marchesi, Il libro di Tersite, Mondadori, Milano 1950, p.25. 44 Fino a far considerare Tersite come un pacifista ante litteram, una sorta di marinaio Vakulinchuk della Corazzata Potemkin (in Siegmund Ginzberg, L’Iliade, la guerra senza buoni e cattivi, in «Il Foglio», 22 giugno 2004, p.5). Ma Tersite non viene citato, però, fra i testimoni antichi della pace (e in antitesi con la visione iliadica che esalta l’areté bellica) nel pur pregevole saggio di Italo Lana, L’idea della pace nell’antichità, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1991. 45 Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, Mondadori, Milano 1993, pp.66-73. 46 Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, p.69. 47 Luciano De Crescenzo, Elena, Elena, amore mio, p.70. 43 48 Alessandro Baricco, Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 2004⁴, pp.19-27. Karel Čapek, Tersite, in Il libro degli apocrifi (Kniha Apokriyfů, 1945), trad. di Luisa De Nardis, Editori Riuniti, Roma 1989, pp.16-21. 50 Colleen McCullogh, Il canto di Troia (The Song of Troy, 1998), trad. di Piero Spinelli, Edizione Mondolibri su lic. Rizzoli, Milano 1999, pp.319-320. 49 12 Da ultimo ricordiamo che modi di dire ispirati al personaggio di Tersite hanno invaso il lessico politico. Il filosofo Norberto Bobbio (in un suo intervento su «La Stampa»)51 ha coniato l’espressione “tersitismo culturale” per accusare l’atteggiamento critico dei collaboratori di «Liberal» riguardo al pensiero di Gobetti, quasi fosse stato ingiustamente sbeffeggiato.52 3. L’ombra di Tersite si proietta su altri personaggi, che possono in qualche modo essere apparentati al Nostro per vari aspetti che in essi si possono cogliere e/o per i contesti nei quali gli autori li fanno agire. Tre, ricordiamolo, sono gli elementi peculiari caratterizzanti Tersite: la sua bruttezza, deforme fino alla repellenza, la sua oratoria, rozza e inelegante ma beffarda, franca e coraggiosa, la sua solitudine di fronte a una assemblea che gode dei suoi lazzi ma gli diventa palesemente ostile (soprattutto allorché attacca i detentori del potere, ossia i due Atridi). Se è lecito confrontare i personaggi della letteratura antica con quelli immaginati dalla fantasia dei moderni, e magari, seguendo ipotesi suggestive, apparentarli dopo aver colto negli uni e negli altri analogie negli aspetti fisici, psicologici e comportamentali,53 allora vorremmo accostare Tersite a un personaggio letterario che ci sembra davvero un suo epigono, e che è, a nostro avviso, uno dei personaggi più enigmatici e inquietanti, della narrativa moderna: il Gwynplaine di L’uomo che ride di Victor Hugo. Tale confronto, che, a nostra conoscenza, non ci sembra essere stato ancora stabilito dalla critica,54 può essere convalidato, oltre la suggestione di un immediato e superficiale accostamento, dagli elementi sopra riscontrati per Tersite e dalle considerazioni che andremo facendo nel prosieguo del nostro lavoro. Possiamo anticipare che gli elementi che enucleeremo provvedono ad apparentare i due personaggi, in modo che, pur appartenendo a epoche, generi letterari e contesti culturali affatto lontani e diversi, sembrano essere l’uno il discendente dell’altro. Gwynplaine, protagonista del romanzo L’uomo che ride (L’homme qui rit, 1869), “il più nero dei romanzi neri”,55 è, a nostro giudizio, un’altra figura di “diverso” che agisce in un contesto analogo, l’assemblea, presentante una serie di analogie strutturali con l’episodio omerico. Senza tema di dare giudizi audaci, potremmo dire che Gwynplaine è un moderno Tersite, anche se dobbiamo comunque fare i conti con orizzonti culturali diversissimi, saltando dalla Grecia arcaica all’età del Romanticismo europeo, e mettere da parte una prima, vistosissima differenza, che sta nella diversa, inconfrontabile ampiezza del contesto in cui sono collocati il personaggio omerico e 51 Norberto Bobbio, Liberali senza rivoluzione, in «La Stampa», 16 febbraio 1996. Ha risposto al filosofo, tra gli altri, il direttore di «Liberal», Ferdinando Adornato, con un lunga lettera (in «Liberal», n.13, aprile 1996, pp.20-24), riprodotta nel suo saggio La rivoluzione delle coscienze, Rizzoli, Milano 1997, pp.60-75. Riassunto della polemica in Luigi Spina, L’oratore scriteriato, cit., pp.12-15. 53 E ci sembra che lecito lo sia, se uno studioso come Massimo Vilardo accosta, nel suo commento alla Storia Vera di Luciano, a Protesilao il personaggio di Vadinho tratto dal romanzo di Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti (vd. Luciano, Storia Vera – Dialoghi dei morti, intr., trad. e note di Massimo Vilardo, Mondadori, Milano 1991, p.247 n. 140). D’altronde, l’accostamento ai classici di suggestive categorie moderne è una tendenza che si sta affermando sempre più: ad esempio, Roberto Andreotti ha definito l’Achilleide di Stazio come un’ “epica transgender” (Roberto Andreotti, Classici elettrici da Omero al tardoantico, Rizzoli, Milano 2006², p.105), mentre Eva Cantarella ha accostato Medea a una serial killer (in L’amore è un dio, Feltrinelli, Milano 2007, p.38). E, per l’Iliade, Siegmund Ginzberg ha evocato, a proposito dello scudo di Achille descritto al libro X, vv.558-720, “un’atmosfera da fantascienza alla Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury, con tanto di robot e automi simili a fanciulle vive” (Siegmund Ginzberg, L’Iliade, la guerra senza buoni e cattivi, cit., p.5). Ma già l’americano Christopher Morley nel romanzo Il cavallo di Troia (The Trojan Horse, 1938), trad. di Cesare Pavese, Mondadori, Milano 1957, aveva parodiato burlescamente il mito omerico, ambientando la contesa tra Achei e Troiani in un’imprecisata epoca ove sono giornali, radiocronache, taxi, orologi, teatri e tutte le delizie della nostra moderna civiltà. Della opposta tendenza a cercare paradigmi dell’antico per fenomeni tipici della società moderna, un esempio ci sembra essere l’articolo di Valerio Magrelli, Dioniso tra noi, in «Corriere della Sera», 20 marzo 2007, nel quale l’autore paragona i “rave party” alle antiche feste di Dioniso. 54 Il personaggio di Hugo non appare citato, ad esempio, nel saggio dello Spina, che peraltro è ricchissimo di riferimenti alla fortuna di Tersite nella narrativa antica e moderna. 55 La definizione è di Jean Gaudon, pref. a Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist., p.XXVII. Sul romanzo vd. G. Rosa, «Les travailleurs de la mer» e «L’homme qui rit», in Storia della Letteratura Francese diretta da Pierre Abraham e Roland Desné, ed. it. a cura di Lanfranco Binni, vol.II, Garzanti, Milano 1991, rist., pp.704-708. 52 13 quello hughiano: appena 67 versi nell’Iliade e ben 702 pagine nel romanzo (nella traduzione di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist.). Ma l’analisi del personaggio e, soprattutto, di un particolare episodio del romanzo, ci permettono di giustificare la nostra affermazione. Cominciamo, però, a delineare sommariamente la trama de L’uomo che ride, peraltro ben nota. Il romanzo, ambientato ai primi anni del Settecento, è costruito sulla straordinaria vicenda di Gwynplaine, il figlio di un nobile inglese ribelle, Lord Linneus Clancharlie. Il piccolo, rapito per ordine del re dagli zingari trafficanti di bambini, i comprachicos, è stato da costoro orribilmente sfigurato in modo da essere reso un mostro da baraccone (vi erano, dunque, già nel Settecento i precursori di Phineas T. Barnum, lo spregiudicato affarista americano che nei primi decenni del secolo successivo riunì nel suo museo straordinarie “attrazioni” umane, offrendole alla curiosa morbosità del pubblico per pochi centesimi).56 Una crudele operazione chirurgica (che Hugo chiama, utilizzando la terminologia latina dei manuali di tali operazioni, bucca fissa ad aures)57 gli ha deformato permanentemente i lineamenti del volto in modo da imprimergli l’impronta di una orribile smorfia 56 Hugo dice, forse con una certa esagerazione, che tali mostri, come Gwynplaine, servivano ad allietare le corti dei re e perfino dei papi. Ma sarebbe assurdo immaginare alla corte papale la grottesca presenza di giullari e nani, alla maniera di Rigoletto o Quasimodo, il mostruoso campanaro di Notre-Dame di Parigi. Invece il fenomeno di individui con particolari deformità esibiti come attrazioni in spettacoli di assai dubbio gusto (il cui sfruttamento fu inaugurato nei primi decenni dell’Ottocento dal celebre impresario americano Phineas T. Barnum, il quale però sembra che compensasse lautamente i suoi “dipendenti”), è durato praticamente fino ai primi del Novecento, allorché le mostruosità reali mostrate nei circhi e musei itineranti sono state sostituite dagli effetti speciali di tanti film dell’orrore o di fantascienza – nel celebre film di Tod Browning, Freaks (1932), i mostri umani esibiti erano, però, rigorosamente autentici – si è contestualmente (e fortunatamente) diffusa una maggiore consapevolezza del rispetto della dignità della persona. La vera rivoluzione nella concezione del mostro e il suo passaggio da prodigium da esibire nelle fiere a fenomeno naturale, oggetto di analisi scientifica, da esibire negli spazi eruditi dei musei e degli ospedali, avvenne con il Settecento illuminista: vd. in proposito Michael Hagner, Rappresentazioni multiple del mostro: dall’uomo-gallina di Lipsia a Dolly, trad. di Vito Bianco, in Ubaldo Ladini – Antonio Negri – Chares T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro, dal circo al laboratorio della politica, manifestolibri, Roma 2001, pp.37-5. Un campionario di immagini di questi personaggi dalle sconcertanti anomalie fisiche (uomini altissimi e piccolissimi, donne barbute, uomini “coccodrillo”, uomini “scimmia”, donne “serpente”, ermafroditi, albini, focomelici, individui affetti da polidattilismo, gemelli siamesi con due corpi distinti o con le due gambe in comune, uomini bicefali o tripedi,etc.), è stato raccolto in Freaks. La collezione Akimitsu Naruyama. Lo sfruttamento delle anomalie fisiche nei circhi e negli spettacoli itineranti, trad. di Anna Barella Sciolette, Logos Art, Modena 2000 (le fotografie ivi contenute impressionano ancora per la loro crudezza). Alcuni di questi sfortunati esseri riuscirono però ad adattarsi alla vita quotidiana, oltre le avversità e i pregiudizi, e condussero una normale esistenza, come i primi celebri gemelli siamesi Chang e Eng, che, scampati alla morte decretata loro da re del Siam, sposarono due sorelle americane e generarono più di venti figli (vd. la loro storia in Darin Strauss, Chang ed Eng (Chang and Eng, 2000), trad. di Idolina Landolfi, Rizzoli, Milano 2001). Pagine di famosi scrittori ci hanno poi riservato memorabili gallerie di mostruosità o curiosità in esposizione, tali che sembrano rievocare la celeberrima raccolta del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605). Basterà citare l’esposizione dei mostri a Sant’Antonio, in Messico, descritta da Graham Greene in Le vie senza legge (The Lawless roads, 1938), trad. di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, Mondadori, Milano 1955, pp.31-33 (con la descrizione dei corpi mummificati di due gangster americani), o la galleria di feti mostruosi vista nello studio di un ginecologo romano, da Curzio Malaparte in La pelle, Garzanti, Milano 1967, su lic. Vallecchi (1949), pp.314-321, o, ancora, la collezione del museo anatomico del Dottor Spitzner (reperti anatomici e patologici riprodotti in cera fusa) in Italo Calvino, Il museo dei mostri di cera, in Collezione di sabbia, Mondadori, Milano 1994, pp.29-35. La perenne attrazione che esercita l’universo del difforme è esaminata nel saggio di Roberto Barbolini, Narciso e il Barnum dei mostri, in La Chimera e il Terrore, Jaca Book, Milano 1984, pp.212-217.Ma non va dimenticato che fervidi inventori di mostri furono i Greci, che in essi vollero razionalizzare le loro paure, popolando le remote terre d’Africa e d’Oriente di creature bizzarre o meravigliose e creando tradizioni che resistettero fino agli albori dell’età moderna: vd. Rudolf Wittkower, Duemila anni di mostri, trad. di Gianni Guadalupi, in «Kos», n.21, aprile 1986, pp.4-22. Su Ulisse Aldrovandi e la sua enciclopedica Monstrorum historia, ricchissima di osservazioni empiriche sulle mostruosità vegetali, animali e umane, e apparsa postuma nel 1642, vd. Attilio Zanca, Collezioni di mostri: Ulisse Aldrovandi, in «Kos», n.21, aprile 1986, pp.23-46. 57 Nel capitolo II del romanzo (I comprachicos) Hugo si dilunga su questo tipo di operazioni, descritte nel manuale del Dottor Conquest, De denasatis, che lo stesso Ursus legge poi a Gwynplaine. Tali operazioni realmente venivano praticate su esseri umani in tenera età per ridurli a mostri da esibire nelle fiere, come avrebbe fatto l’americano Phineas Barnum nell’Ottocento. Ma queste infamie contro esseri indifesi erano comunque opera di uomini, sia pur abominevoli. Cosa peggiore avveniva quando le stesse madri si ingegnavano, mettendosi addosso apposite fasciature costrittive durante la gravidanza, di far nascere figli deformi per venderli agli zingari, che li destinavano ai baracconi delle fiere, come narra un racconto di Guy de Maupassant, La madre dei mostri. 14 ghignante. Il piccolo, sfigurato dagli zingari che lo hanno ribattezzato con lo strano nome Gwynplaine, viene abbandonato una sera d’inverno sulla costa di Portland e raccolto da un bizzarro misantropo, una sorta di cinico filosofo vagabondo, Ursus. Costui ha per unico compagno un lupo addomesticato, che ha chiamato Homo, per irrisione verso la specie umana. Prima di essere raccolto da Ursus, Gwynplaine ha trovato una neonata cieca, attaccata ancora al seno della madre morta, e l’ha amorevolmente raccolta. Il vagabondo accoglie i due piccoli, li tiene presso di sé e la strana compagnia, sul carrozzone ambulante di Ursus, vive la vita dei nomadi viaggiando di villaggio in villaggio. Cresciuto, Gwynplaine (che si è legato con grande affetto all’uomo che l’ha raccolto e allevato come un padre e alla bambina cieca (Dea, ormai divenuta ragazza) si esibisce nelle fiere come saltimbanco e mimo, col nome di Uomo che ride, riscotendo grande successo per lo straordinario aspetto, che suscita negli spettatori un’irrefrenabile ilarità mista a un vago senso di orrore. La strana compagnia attraversa paesi e città e vive felicemente, prosperando con i guadagni delle esibizioni di Gwynplaine. Un giorno, però, Gwynplaine viene sottratto dalla sua compagnia da un ufficiale giudiziario della corte inglese, il Wapentake, e condotto nel carcere di Southwark, a Londra. Qui è riconosciuto dall’uomo che molti anni prima aveva compiuto su di lui l’operazione chirurgica che lo aveva sfigurato, il fiammingo Hardquanonne, compagno dei comprachicos che avevano rapito il bambino. Hardquanonne sta morendo sotto terribili torture, nel fondo dell’oscura prigione. Prima di morire fa in tempo a riconoscere in Gwynplaine Lord Fermain Clancharlie, l’unico figlio e legittimo erede di Lord Linneo Clancharlie, barone di Clancharlie e Hunkerville e Pari d’Inghilterra. La confessione è confermata da un messaggio, scritto di pugno dallo stesso Hardquanonne, che era stato tempo addietro rinvenuto entro una bottiglia sulla spiaggia d’Inghilterra. Riconosciuto quindi ufficialmente dalle autorità come Lord Clancharie e subito condotto nella sua nuova residenza, il magnifico palazzo dei Clancharlie, Gwynplaine vi sperimenta la vita di lusso e privilegi della nobiltà inglese, ma non dimentica il lungo tempo vissuto tra la plebe più miserabile, come saltimbanco. Nel palazzo ha un’esperienza per lui, giovane puro e inesperto del mondo, traumatica: deve resistere a un ossessivo e appassionato tentativo di seduzione da parte della bellissima e dissoluta sorella della regina, Lady Josiane. Ammesso, poi, com’è suo diritto, a parlare nella Camera dei Pari, che quel giorno deve votare un bill, un provvedimento di aumento di centomila ghinee d’appannaggio al principe consorte della regina Anna, Giorgio di Danimarca, Gwynplaine, venuto il momento di esprimere il suo voto, si alza a parlare tra i nobili assisi. Finora la penombra gli ha oscurato il volto deforme, ma quando si alza per chiedere la parola il suo orribile ghigno è in piena luce e tutti i presenti possono vedere in faccia l’Uomo che ride. Lo stupore per l’aspetto cede il posto alla curiosità di ascoltare le parole dell’Uomo che ride. Con un supremo sforzo di volontà Gwynplaine è riuscito a sospendere l’espressione ghignante del suo volto e, contraendo i muscoli facciali in una terribile concentrazione, ad assumere l’aspetto di una impressionante maschera. Non più “Uomo che ride”, ma cupa maschera tragica, volto di Medusa ghignante, Gwynplaine denuncia all’assemblea le terribili condizioni a cui soggiace la plebe, la fame, l’abbrutimento e l’ignoranza che tormentano i sudditi di sua maestà, ed esorta i nobili ad essere più consapevoli e generosi verso i più umili e miserabili individui del genere umano, che sono i loro confratelli. Addirittura il tono delle sue parole si fa profetico: dopo aver denunciato gli ingiusti privilegi dell’ottusa e fiacca nobiltà, si scaglia contro il re, inetto e parassita, e addirittura predice il prossimo avvento di una repubblica. Ma a questo punto il terribile sforzo a cui Gwynplaine si è sottoposto per mutare in ghigno tragico la smorfia del suo volto, si esaurisce e il sembiante torna ad essere quello dell’Uomo che ride. I Lord, alla vista del solito aspetto deforme, si scatenano in irrefrenabili risate, insultando il povero Gwynplaine, a cui non basta certo il titolo riacquistato per riacquistare la dignità di persona. Egli ritorna, così, ad essere soltanto un povero mostro da baraccone e il suo coraggioso tentativo di aiutare la plebe viene annientato da terribili scoppi di urla frammiste a risate. Dopo essere stato ucciso moralmente dal ridicolo, Gwynplaine corre a cercare le sole persone che gli siano rimaste amiche e che egli è stato costretto ad abbandonare, suo malgrado, ossia il vecchio Ursus e la sua fidanzata, Dea. Li ritrova su un battello che naviga seguendo la corrente del Tamigi, alla volta dell’Olanda. Lì hanno deciso di rifugiarsi, 15 perché cacciati in esilio. Ma quando Gwynplaine mette piede sul battello, è per raccogliere le ultime parole di Dea ormai morente. Disperato, senza più la donna che amava, decide di porre fine alla sua stessa vita e si getta nelle profondità del mare, allorché il battello sta ormai solcando il canale della Manica. Gwynplaine protagonista del romanzo più “gotico”e “notturno” di Hugo, rimane un personaggio misterioso, sfuggente: viene incontro al lettore dal mare e dalla notte, la tempestosa notte invernale nella quale, fanciullo, è abbandonato sulla costa inglese dai delinquenti che lo hanno sfigurato (la prima parte del romanzo, che comprende trentatré capitoli, si intitola significativamente Il mare e la notte) e al mare e alla notte ritorna, gettandosi nelle acque della Manica dal battello che fa rotta, con a bordo il vecchio Ursus e Dea, ormai morta, verso l’Olanda: è realizzata così una perfetta circolarità della narrazione e insieme del suo destino.58 La prima epifania di Gwynplaine al lettore è un’atroce parodia di Venere, 59 anche se la vera e propria descrizione del suo volto mostruoso si ha nella seconda parte del romanzo, dopo quarantacinque capitoli. Gwynplaine, si è detto, rimane un personaggio misterioso, enigmatico, in un romanzo dominato dalla notte e dall’ombra: di lui rimane impressa nella mente del lettore la maschera ghignante impressa per sempre nel suo volto, una «testa di medusa gioiosa», come la definisce Hugo, una maschera che è ancora capace di ispirare una sottile sensazione di orrore ai lettori moderni. 60 Gwynplaine è una maschera, fatta per ispirare orrore e subito dopo un’irrefrenabile ilarità, e nel romanzo, com’è stato detto,61 la sua vera nascita è quel volto, sicché nulla conosce della sua origine, fino alla sconvolgente agnizione (che avviene dopo due terzi del romanzo, alla fine del cap.VIII del libro quarto). Citiamo l’ancora impressionante descrizione del volto del personaggio: Come abbiamo detto, la natura aveva colmato di doni Gwynplaine. Ma era stata proprio la natura? Non l’avevano per caso aiutata? Due occhi che erano due fessure tristi, una fenditura per bocca, una protuberanza camusa con due buchi che erano le narici, una faccia schiacciata e tutto questo col riso come risultato, è certo che la natura non produce da sola simili capolavori. Ma poi, il riso è sinonimo di gioia? Se, di fronte a quel guitto – perché era un guitto – , si lasciava svanire la prima impressione di allegria e si osservava attentamente quell’uomo, si riconosceva la traccia dell’arte. Un viso del genere non è fortuito, è voluto. Una simile perfezione non fa parte della natura. L’uomo non può nulla sulla propria bellezza, ma può tutto sulla propria bruttezza. Di un profilo ottentotto non si farà mai un profilo romano, ma di un naso greco si può fare un naso calmucco. Basta obliterare la radice del naso e allargare le radici. Non per niente il latino volgare del Medioevo ha creato il verbo denasare. Gwynplaine, da bambino, era stato tanto degno d’attenzione da spingere qualcuno a occuparsi di lui al punto di modificargli il viso? Perché no? Foss’anche soltanto a scopo di esibizione e speculazione. Secondo ogni apparenza, industriosi trafficanti di bambini avevano lavorato quel volto. Pareva evidente che una scienza misteriosa, probabilmente occulta, che stava alla chirurgia come l’alchimia sta alla chimica, aveva cesellato quelle carni, certamente nella primissima infanzia, e creato con premeditazione quel viso. Quella scienza, abile nelle dissezioni, nelle ottusioni e nelle allacciature, aveva tagliato la bocca, sbrigliato le labbra, messo a nudo le gengive, tirato le orecchie, lacerato le cartilagini, stravolto le sopracciglia e le guance, esteso il muscolo zigomatico, occultato suture e cicatrici, riportato la pelle sulle lesioni, lasciando la faccia in quello stato di attonimento, e da quella scultura potente e profonda era uscita una maschera, Gwynplaine. 62 La critica ha definito Gwynplaine come uno degli archetipi della letteratura moderna, attribuendone l’origine al seme corrotto e inquietante da cui discendono gli automi di Hoffmann o 58 La presenza del mare e la sua funzione nel romanzo è stata messa in rilievo, con peculiari osservazioni, da Bruno Nacci, pref. a Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Bruno Nacci, Garzanti, Milano 1999⁵, p.XXV. 59 Così Riccardo Reim, L’Homme qui rit e Victor Hugo: il mostro e il titano, in Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Vittorio Mucci rivista da Riccardo Reim, Newton & Compton editori, Roma 2005, p.10. 60 Così Laura Pariani, ‘Masca eris, et ridebis semper’, in «L’Erasmo», n.24, novembre-dicembre 2004, pp.13-15. 61 Bruno Nacci, cit., p.XXIV. Vd. anche le osservazioni sulla fissità della maschera di Gwynplaine, più orripilante di una maschera di teatro, in Daniel McNeill, La faccia.Storie e segreti del volto umano (The Face, 1998), Mondadori, Milano 1999, p.223. 62 Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., pp.297-298. 16 di Villiers de L’Isle Adam.63 Egli è «non più personaggio, ma laboratorio di esplorazioni filosofiche e narrative».64 Noi possiamo nondimeno provare ad attribuire a Gwynplaine un’ascendenza letteraria, ben più risalente che i personaggi dei romanzi di Hugo, ossia gli esseri deformi come il Quasimodo di Notre-Dame di Parigi, o quelli della narrativa “gotica”. Come abbiamo premesso, abbiamo buoni argomenti per accostare Gwynplaine perfino a un personaggio tratto da un contesto letterario affatto lontano e inaspettato, ossia dall’epica omerica, come Tersite. Due elementi provvedono ad apparentare Gwynplaine a Tersite. Anzitutto Tersite è deforme, di una deformità ripugnante, proprio come Gwynplaine apparirebbe oggi ai nostri occhi. Poi, Gwynplaine vive una esperienza analoga a quella di Tersite, con i medesimi risvolti comici: l’assemblea dei Pari d’Inghilterra, l’episodio da cui traspare più sapienza ricostruttiva (consistente, come notava Stevenson,65 nel mischiare alla voce dei Lord quella del popolo, ivi portata dal deforme saltimbanco che si è scoperto di nobilissima prosapia). Che a Tersite pensasse Hugo nelle sue riflessioni sul personaggio di Gwynpaine potrebbe essere forse mostrato da un indizio, pur debole: nel romanzo vi è una citazione di Tersite, giacché il suo ritratto è appeso, assieme a quelli di altri celebri campioni della deformità, 66 nella sede del Club dei Brutti, una delle tante conventicole, riservate rigorosamente ai nobili sfaccendati, di cui era disseminata la Londra settecentesca e che Hugo elenca diligentemente per mettere alla berlina i bizzarri e dispendiosi costumi dei figli di Albione.67 A Gwynplaine è risparmiata la bastonatura di cui Tersite fa esperienza, ma il personaggio di Hugo prova qualcosa di peggio, perché è bersagliato alla fine del suo discorso dalle omeriche risate di scherno, dagli insulti e dalle beffe dei suoi colleghi Pari. Beffe, insulti e urla di scherno piovono addosso a Gwynplaine come le bastonate di Ulisse sulla schiena di Tersite, ma con effetto ben più doloroso sul morale del povero ex saltimbanco, che invano cerca di esporre le ragioni del popolo di fronte al consesso di quei nobili parassiti, cinici e viziosi. È la normale conseguenza delle sue apparizioni, che tante volte Gwynplaine ha sperimentato sul palcoscenico della Green Box, il carrozzone-teatro ove si esibiva, e che gli ha procacciato una diffusa popolarità come “Uomo che ride”, ma che ora, manifestatasi nella più alta istituzione assembleare d’Inghilterra, ha un effetto distruttivo sull’animo del povero mostro. Gwynplaine esce da quell’assemblea distrutto, annichilito nello spirito e nella mente, e d’ora in avanti non ha che un pensiero solo, tornare dai suoi cari amici, Ursus e Dea, che aveva abbandonato, abbacinato dalla improvvisa rivelazione di essere un Lord e dallo straordinario cambiamento impresso dall’agnizione improvvisa alla sua vita. Da notare, inoltre, l’oscurità, l’ombra, il nero dell’atmosfera in cui agisce Gwynplaine: appare nel romanzo per la prima volta in una buia notte gelida e tempestosa, è riconosciuto come Lord nella buia prigione di Southwark, appare al convegno dei nobili con il volto coperto dall’ombra formata dalla cortina dei folti capelli. 4. Torniamo alle analogie tra Tersite e Gwynplaine. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, entrambi, Tersite e Gwynplaine, sono deformi, anche se la deformità del primo è naturale, quella del secondo è invece opera dell’uomo. Poi il contesto nel quale entrambi significativamente agiscono, è un’assemblea di uomini legati assieme dalla medesima condizione. Entrambi, Tersite e Gwynplaine, parlano in una assemblea di loro pari: il primo di fronte ai guerrieri Achei, il secondo di fronte ai Pari d’Inghilterra, la più eletta nobiltà della nazione. V’è da osservare che nell’Iliade il discorso di Tersite all’assemblea e la successiva bastonatura da parte di Ulisse esauriscono l’azione del personaggio, giacché poi, in pratica, Tersite sparisce dal testo omerico. Nel romanzo di Hugo 63 Bruno Nacci, ibid. Bruno Nacci, ibid. 65 Robert Louis Stevenson, I romanzi di Victor Hugo, postf. a Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, Mondadori, Milano 2006, rist. p.712. 66 Hugo elenca Triboulet, Duns, Hudibras, Scarron, Esopo, Orazio Coclite e Camoens (orbi, questi ultimi, l’uno dall’occhio sinistro e l’altro dall’occhio destro). Il Club dei Brutti, specifica Hugo, sarebbe durato fino all’inizio dell’Ottocento e avrebbe donato l’iscrizione onoraria anche al conte di Mirabeau. 67 Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., p.236. 64 17 l’assemblea dei Pari è l’unico luogo nel quale agisca e parli Gwynplaine (a parte le sue esibizioni di muto saltimbanco sul palcoscenico della Green Box e l’idillico rapporto con Dea, alla quale tenta di sostituirsi Lady Josiane, singolare figura di femminile demone perverso). Ancora, il tenore dei loro discorsi: Tersite denuncia l’inutilità della guerra, scatenata dall’avidità di Agamennone, il capo della spedizione, Gwynplaine denuncia i privilegi e il parassitismo dei nobili e del re, ciechi di fronte alle sofferenze della plebe. Confrontando i due personaggi sul piano morale, possiamo dire che mentre quella di Tersite è una ίrovesciata, quella di Gwynplaine è una ίnascosta. Da fanciullo, già vittima della terribile crudeltà degli uomini che lo hanno sfigurato e poi abbandonato in una tempestosa notte d’inverno su una spiaggia della costa inglese, Gwynplaine lotta come un eroe omerico per non soccombere alle cieche forze della natura e per liberare la piccola orfana cieca, la futura Dea, da una ineluttabile fine, strappandola al seno della madre morta. E poi Gwynplaine incarna le più nobili virtù dell’animo umano, la bontà, la generosità, la sensibilità, l’altruismo, l’amore fedele e disinteressato, celate però da una mostruosa maschera di carne fissata per sempre sul volto sfigurato del protagonista.68 L’uomo che ride è un romanzo dell’eroismo, come lo ha definito il critico Albert Thibaudet: la figura di Gwynplaine vi si staglia e risalta come quella di un titano.69 Vi è però almeno una significativa differenza. Tersite occupa pochi versi dell’Iliade, Gwynplaine invece un intero romanzo. Ma lo spazio del romanzo, ricchissimo di sequenze descrittive, è utilizzato da Hugo per determinare chi sia effettivamente il piccolo trovatello dal volto sfigurato in un ghigno perenne, che il selvatico Ursus ha adottato e allevato come un padre putativo. Tutti gli sviluppi della trama (culminanti con l’agnizione nella prigione di Southwark, che Gwynplaine percorre come una vera e propria descensio ad inferos, da parte del superstite della banda di comprachicos, quell’Hardquanonne che venti anni prima aveva personalmente compiuto l’operazione chirurgica sul volto del fanciullo) non hanno altro scopo che permettere a Gwynplaine l’accesso alla Camera dei Lord, tra i Pari d’Inghilterra. Lì, come Tersite all’assemblea degli Achei, Gwynplaine tiene il suo primo e ultimo discorso e la sua ultima pubblica apparizione. Vuole parlare come i suoi consociati, i Pari, ma non vi riesce sia per le carenze dell’eloquio, che pur risulta rozzamente efficace, sia, soprattutto, per il suo aspetto fisico, fatto per divertire e, però, anche inorridire. Gwynplaine non è riconosciuto pienamente dai nobili, suoi compagni di ceto e anche dalla sua oratoria, rozza, concitata e grossolanamente iperbolica (le parole gli escono fuori a fiotti, ά̉, come quelle di Tersite, ma pervase da una sorta di spirito messianico),70 appare un popolano. È lui però che si professa come voce del popolo, della sua vera classe sociale, che vuole difendere dall’arroganza e dall’oppressione dei nobili («Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un’eccezione? No, sono come chiunque. L’eccezione siete voi.»).71 Atri elementi comuni e peculiari alla rappresentazione della loro difformità sono i seguenti. Tersite è un mostro che inquieta, Gwynplaine è un mostro che diverte (o dovrebbe divertire). Entrambi sono e agiscono soli, quando si trovano in spazi estranei al loro habitat naturale, che per Gwynplaine è la Green Box, il carrozzone-teatro su cui si sposta la compagnia di Ursus, per Tersite Come ha notato Élise Noetinger, L’Uomo che ride è il romanzo della mostruosità fatta carne, della difformità esacerbata dalla perfezione con cui viene raffigurato il corps blessé: i corpi mutilati e/o torturati dei personaggi hanno qualche cosa di fisso, avendo perduto una parte della vita e dell’animazione (il volto di Gwynplaine, l’immagine statuaria della madre di Dea giacente morta nella neve, lo sguardo senza vita della piccola Dea, il corpo dell’impiccato oscillante al gelido vento notturno, etc.), vd. Élise Noetinger, La sinistre beauté du masque: étude de L’Homme qui rit de Victor Hugo, in « French Studies», LIII, 1999, p.406. 69 Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese dal 1789 ai giorni nostri, trad. di Jone Graziani, vol.I, Garzanti, Milano 1974, p.270. 70 Potremmo trovare nel discorso di Gwynplaine certi accenti delle Parole di un credente di Félicité Robert de Lamennais, soprattutto laddove questi, al cap.X, denuncia il terribile, antievangelico sfruttamento dei lavoratori (Félicité Robert de Lamennais, Parole di un credente, trad. di Maria Grazia Meriggi, Rizzoli, Milano 1991, pp.59-62. 71 Victor Hugo, L’uomo che ride, trad. di Donata Feroldi, cit., p.641. 68 18 (come possiamo immaginare, giacché nulla ci dice Omero in proposito) una tenda, forse un po’ più lontana dalle altre nell’accampamento acheo. Quindi la solitudine è l’elemento comune ai due personaggi, un elemento che diviene un vero e proprio motivo topico nelle rappresentazioni degli esseri mostruosi nella letteratura occidentale, e soprattutto nel genere popolare della narrativa dell’orrore.72 L’altro elemento è la funzione di denuncia che essi assumono allorché hanno l’occasione di trovarsi davanti al potere. Potremmo tracciare in uno schema, per una maggiore evidenza, le analogie formali e sostanziali che apparentano i due personaggi. Tersite Gwynplaine 1. E’ orribilmente deforme in tutto il corpo. 1. E’ fisicamente prestante ma ha il volto deformato per una operazione chirurgica che gli ha impresso per sempre una smorfia ghignante (la sua deformità si concentra nell’orribile espressione del volto). 2. Partecipa a un’assemblea di pari (gli Achei in armi). 2. Partecipa a un’assemblea di pari (i Lord). 3. E’ portatore di una morale diversa da quella 3. È portatore di una morale di versa da quella degli aristocratici (i Lord). degli ̉́ 4. È sostanzialmente estraneo al rango sociale dei Lord, 4. È estraneo al rango sociale degli ̉́anche se anche se formalmente è insignito di un titolo nobiliare e partecipa a una assemblea in armi e tratta con i nobili da possiede una immensa fortuna. pari a pari. 5. Si fa portavoce delle ragioni della plebe, di cui vuole 5. Si fa portavoce delle ragioni della plebe, di cui vuole migliorare le condizioni. migliorare le condizioni. 6. Si contrappone all’assemblea e non trova solidarietà. 6. Si contrappone all’assemblea e non trova solidarietà. 7. Nei confronti dei nobili Tersite adopera un tono 7. Nei confronti dei nobili Gwynplaine adopera un tono sprezzante. sprezzante. 8. Nell’assemblea degli Achei parla e agisce da solo, senza 8. Nell’assemblea dei Pari parla e agisce da solo, senza l’appoggio di alcun compagno né l’aiuto di alcun dio l’appoggio di alcun Lord e, per di più, avendo perduto la (mentre Ulisse è aiutato e consigliato da Atena). preziosa presenza del vecchio Ursus, che lo amava come un figlio. 9. Le sue parole provocano la reazione di Ulisse. 9. Le sue parole provocano la reazione dei Lord. 10. La reazione si traduce in violenti insulti e nella 10. La reazione si traduce in violenti insulti e urla di bastonatura. scherno. 11. Il suo tentativo fallisce nel ridicolo. 11. Il suo tentativo fallisce nel ridicolo. 12. La sua bastonatura è commentata ironicamente dagli 12. I fischi e gli insulti indirizzati a Gwynplaine sono Achei. commentati ironicamente da alcuni Lord. 13. L’episodio risulta un intermezzo “comico”, ma mostra 13. L’episodio risulta un intermezzo “comico”, ma la guerra vista dalla parte del popolo, smascherando permette all’autore di denunciare le tragiche condizioni l’idealità omerica: ossia una tragedia. della plebe nell’Inghilterra del Settecento. Inoltre preannuncia il tragico destino del personaggio: all’annichilimento morale di Gwynplaine, ucciso dal ridicolo, segue il suo annichilimento fisico, il suicidio attuato gettandosi negli abissi marini. 14. Tuttavia Tersite con le sue parole preannuncia il 14. Tuttavia Gwynplaine con le sue parole preannuncia sorgere di un’età nuova e il tramonto della vecchia l’avvento di una età nuova e il tramonto della vecchia aristocrazia achea. aristocrazia inglese. Potrebbe sembrare un’operazione illecita l’accostamento di un personaggio mitologico, tratto dall’epica classica, in specie omerica, quale Tersite, ad uno creato da un autore moderno quale Victor Hugo. Se non altro perché ciò richiede necessariamente una decontestualizzazione dei due Per il motivo topico della solitudine del mostro scegliamo, tra l’abbondante produzione della narrativa popolare, due famosi racconti: L’estraneo di Howard Phillips Lovecraft (The Outsider, 1921), in Tutti i racconti 1897-1922, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 1989, pp.213-221, in cui l’apparizione del mostruoso protagonista narratore mette in fuga tutti i partecipanti alla festa del castello, e Nato d’uomo e di donna di Richard Matheson (Born of Man and Woman), trad. di Carlo Fruttero, in Regola per sopravvivere, Mondadori, Milano 1977, pp.97-101, che narra di un povero essere orribilmente deforme isolato e crudelmente torturato dai suoi stessi genitori. 72 19 personaggi, che tolti dal loro ambito letterario rischiano di ridursi a pure parvenze, vuote forme della fantasia. Noi crediamo però nell’opportunità di tal genere di operazioni, e nella loro valenza positiva in ambito didattico. Si tratta, anzitutto, di “figure” dell’immaginario occidentale, incarnanti simbolicamente significati della nostra civiltà. Entrambe rappresentano in modo peculiarmente affine un’unica figura, quella del “diverso”, dell’uomo che non riesce ad ottenere il riconoscimento di “persona” dai suoi simili e perciò vive una dolorosa condizione di umiliazione, di emarginazione, di sofferenza, segnato nel corpo da violente e repellenti stigmate, che lo fanno apparire un “mostro”, anche nel senso clinico del termine. Ma l’accostamento di Tersite a Gwynplaine si rivela in duplice modo utile: prospettivamente, perché ci mostra come il personaggio di Tersite prolunghi la sua fortuna fino all’epoca moderna incarnandosi in altri personaggi, almeno fino al Romanticismo, se non oltre (confluendo poi nel mito romantico della Bella e della Bestia, che tanta narrativa ha originato anche in epoca moderna: citiamo soltanto, come celebre esempio, il romanzo Il fantasma dell’Opera di Gaston Leroux, 1911, sbrigativamente annoverato nella letteratura “del terrore”),73 retrospettivamente perché ci permette di individuare una delle assai probabili fonti che hanno ispirato a Hugo l’enigmatico personaggio di Gwynplaine. Gwynplaine è la forma letteraria della teoria anticlassicista, esposta da Hugo nella celebre prefazione al dramma storico Cromwell, secondo la quale anche il brutto, il difforme, il mostruoso possono aspirare alla dignità dell’arte.74 Da ultimo ricordiamo che omaggi al personaggio hughiano provengono dai campi più svariati della narrativa. Il personaggio di Gwynplaine ha, infatti, stimolato l’immaginazione di molti scrittori, soprattutto nella narrativa popolare e nella paraletteratura. Un famoso scrittore di fantascienza come Fritz Leiber lo ricorda tra i mostri più cari della sua infanzia, assieme all’altro celebre mostro hughiano, Quasimodo, il campanaro di Notre Dame, al conte Dracula, al Fantasma dell’Opera, a Mr. Hyde, al mostro di Frankenstein, etc.75 Da Leiber proviene l‘interessante riflessione che una delle più chiare indicazioni che il mostro rappresenta l’individuo deviante è la frequenza con cui egli appare in guisa di capro espiatorio, prima deriso, poi temuto finalmente distrutto dalla folla. L’inseguimento del mostro nella notte da parte di una turba di villici o proletari inferociti è divenuto il suggello finale di numerosi film dell’orrore, quasi a suggerire, fra l’altro, che l’essere orribile simboleggia l’aristocratico incalzato dall’orda rivoluzionaria. Ma la beffa è l’elemento più interessante: l’Uomo che ride – prototipo del Fantasma – deve essere deriso, prima di riuscire, con un supremo sforzo di volontà, a fissare i suoi lineamenti nella maschera terrificante che è la sua sola alternativa all’apparire ridicolo.76 Il celebre semiologo e narratore Umberto Eco dedica un ricordo a Gwynplaine nel suo ultimo romanzo, La misteriosa fiamma della regina Loana, storia di un uomo che ha perso completamente la memoria e con essa l’identità, che prova a recuperare cercando di ricordare tutto ciò che ha visto, 73 Non sarà ozioso ricordare che Gwynplaine ha lasciato una traccia anche nel fumetto, poiché il disegnatore Bob Kane ha dichiarato espressamente di essersi ispirato a questo personaggio (così come interpretato sullo schermo dall’attore tedesco Conrad Veidt, nell’omonimo film L’uomo che ride di Paul Leni [1928] ) per tracciare la maschera del Jocker, il più tetro e inquietante dei supercriminali nemici di Batman: vd. l’intervista a Bob Kane realizzata nel 1992 da Vincenzo Mollica, testo leggibile in Internet all’indirizzo www.mollica.rai.it Sul personaggio del Jocker vd. la scheda di Stefano di Marino, Il Buono, il Brutto, il Cattivo.Dizionario degli Eroi, dei Mostri e dei Cattivi, Mondadori, Milano 1994, pp.259-261. 74 La teoria di Hugo si fonda sulla distinzione tra classicità e Cristianesimo: l’una esaltò l’ideale della bellezza nelle forme dell’arte, l’altro condusse la poesia alla verità. L’arte deve dunque descrivere la creazione come essa è, accettando di rappresentare anche il brutto, il difforme, il mostruoso, che fanno parte di essa. La forma nuova dell’arte è il grottesco, che il genio può sublimare nelle forme di assoluta bellezza artistica (Victor Hugo, pref. a Cromwell, trad. di Corrado Pavolini, in Tutto il teatro, vol.I, Rizzoli, Milano 1962, pp.25-28). Questa teoria ha conosciuto una singolare reviviscenza nell’opera di chi ha elogiato l’asimmetrico, il difforme, il disarmonico, il disritmico, quale cifra propria della creazione intellettuale del nostro tempo: vd. Gillo Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano 1992 (I ed. 1986), pp.11-12. Sull’idea che la Bellezza possa essere evocata anche dal Brutto (come gli occhi del rospo), vd. l’articolo di Raffaele La Capria, Ma il Brutto salverà il mondo, in «Corriere della Sera», 8 maggio 2008. 75 Fritz Leiber, I mostri e i loro amici (Monsters and Monster Lovers, 1962), in Spazio, tempo e mistero, trad. di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 1987, rist., pp.23-34. 76 Fritz Leiber, I mostri e i loro amici, cit., p.28. 20 letto e ascoltato fin dalla più tenera infanzia. Ne viene fuori, sull’onda di un frenetico e pindarico repêchage dai meandri della memoria, uno sterminato, eruditissimo (secondo lo stile del Maestro di Alessandria) catalogo di romanzi di avventure e di narrativa popolare, tra cui non poteva mancare L’uomo che ride: l’episodio della doccia delle educande contenuto in un vecchio film comico di Totò e Carlo Campanini, I due orfanelli, fa evocare nella mente dell’io narrante quello della tentata seduzione di Gwynplaine da parte della bellissima e perversa lady Josiane, sorella della regina, e spinge il narratore-protagonista a porsi la domanda su chi sia più bella e fatale, se costei o l’attrice Isa Barzizza (che, nella parte di una maliziosa collegiale, affiancava in quel film il grande comico napoletano).77 La palma della seducente impudicizia va a Lady Josiane, che con il suo comando sfrontato al povero mostro con cui poco prima voleva ardentemente unirsi (“Siete mio marito, uscite, questo è il posto del mio amante”) conquista il narratore per la sua sublime corruzione.78 E ancora, l’ombra di Gwynplaine aleggia per tutto il romanzo Dalia nera dello scrittore noir americano James Ellroy (The Black Dalia, 1987),79 ispirato a un fatto di cronaca realmente avvenuto nel 1947 a Los Angeles, ossia l’efferata uccisione di una prostituta 22enne, Elizabeth Short. L’assassino mutila e sfregia la giovane vittima ispirandosi proprio al personaggio di Hugo, il cui ritratto incombe minaccioso proprio nella stanza in cui è avvenuto lo squartamento, in questa torbida storia di ossessioni e perversioni in una famiglia “bene” di Los Angeles. Anche il personaggio di Gwynplaine ha generato espressioni e modi di dire prestati alla politica. Per citare un celebre esempio, La smorfia di Gwynplaine, come intitolò un suo articolo Antonio Gramsci (apparso in «L’Ordine Nuovo», 30 agosto 1921), è quella che l’uomo politico di Ales e fondatore del partito comunista italiano vedeva, come un ghigno rabbioso, sul volto dei questurini, mercenari e rinnegati di classe, inviati dal potere della borghesia ad arrestare i suoi compagni di lotta. 5. Gwynplaine, come abbiamo cercato di dimostrare nel nostro lavoro, discende da Tersite. Ma Gwynplaine rappresenta anche il capo di un filo che si dipana fino ai nostri giorni, e forse anche di più fili. Certo, dipanare tutti i fili, ossia tutti i motivi topici che queste figure hanno generato, ci porterebbe troppo lontano dal discorso che abbiamo intrapreso. Ma possiamo individuarne e seguirne alcuni. Vi è anzitutto la tradizione degli esseri devianti, di cui Tersite rappresenta l’archetipo, ossia le creature teratomorfe che hanno popolato tanta narrativa dell’orrore e condiviso l’infelice destino dei due personaggi (Tersite e Gwynplaine) loro ascendenti. La punizione del mostro, infatti, è la condanna all’annientamento decretata dalla società dei “normali”. Vi è poi il motivo dell’artista-clown (si ricordi che Gwynplaine è anche un saltimbanco) che si pone al di fuori della società e ne smaschera i mali o si oppone al potere e ne disvela la crudele essenza, fatta di sopraffazione e ipocrisia. Gwynplaine anticipa in sé, per la funzione finalizzata al riso e per la singolare posizione in cui si viene a trovare, ossia quella di vivente megafono degli strati più negletti della società, quelle maschere clownesche tipiche di personaggi letterari, che smascherano il traviamento morale del potere e/o della società. Ne sono un esempio i personaggi effigiati da romanzieri come Heinrich Böll: nel racconto L’uomo che ride (un probabile omaggio, come si evince anche dal titolo, al romanzo hughiano),80 lo scrittore tedesco rappresenta la tragica 77 Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, Milano 2006, rist., pp.390-392. Lady Josiane, che Gwynplaine, divenuto lord Clancharlie, sorprende nuda nella sua camera da letto, invita appassionatamente il povero mostro a unirsi con lei, adescandolo con mille fantasie erotiche. Quando Gwynplaine sta per cedere, giunge però un messaggio della regina che la avverte che l’uomo è stato riconosciuto come legittimo erede di lord Clancharlie e le è stato destinato come marito. Allora Josiane diventa improvvisamente freddissima e caccia via colui che pur dovrebbe sposare, decisa a negare al marito ciò che aveva promesso all’amante. Nel romanzo lady Josiane incarna una estremizzazione della belle dame sans merci, sensuale, corrotta e depravata. 79 James Ellroy, Dalia nera, trad. di Luciano Lorenzin, Mondadori, Milano 2004, rist. Dal romanzo il regista Brian De Palma ha ricavato una versione cinematografica (Black Dahlia, 2006), con Josh Hartnett, Aaron Eckhart, Scarlett Johansson e Hilary Swank. 78 Heinrich Böll, L’uomo che ride, in Racconti umoristici e satirici, trad. di Lea Ritter Santini, Bompiani, Milano 1990⁸, pp.17-20. 80 21 serietà del claqueur che del ridere ha fatto una lucrosa professione, simulando ogni tipo di risata per qualsiasi contesto, ma avendo ormai dimenticato, nella fissità dell’atto e della maschera, il suo stesso autentico riso. E nelle Opinioni di un clown il protagonista narratore è il clown Hans Schnier, artista dal temperamento anarchico e libertario, otusider fattosi clown per irrisione e disprezzo verso la società, che denuncia la povertà morale della nuova Germania uscita dalla ricostruzione, l’ipocrisia dei preti, i compromessi della coscienza dei tedeschi con il proprio passato, una società ove convinti nazisti possono diventare illustri e rispettati notabili. Per la personificazione nel clown del ruolo di opposizione al potere ci viene in mente l’intellettuale romeno Norman Manea, la cui riflessione sulla Romania uscita dal comunismo contrappone al clown artista un altro e più terribile clown, il dittatore. Nel suo saggio Clown.Il dittatore e l’artista81, il clown è il poeta, l’artista che nel suo desiderio di praticare la libera creazione si trova di fronte un altro clown, più pericoloso e tenebroso, il Dittatore. Questi, nei simbolici panni di un Clown Bianco, è riuscito a estendere l’arena del suo sinistro circo mentale a un intero paese (le analogie sono poste tra Hitler e Ceausescu, i due più terribili clown del potere nel Novecento, il primo paragonato al suo Doppio chapliniano, il secondo rappresentato come il Clown Bianco) e organizza le manifestazioni pubbliche come rappresentazioni di un circo infernale e assurdo (quale era, rievocata da Manea, la vita quotidiana nella Romania di Ceausescu). Ancora: nella galleria dei mostri della narrativa popolare il clown è assurto a personificazione del Male assoluto, come, nel fluviale romanzo It di Stephen King (1985), il malvagio Pennywise, contro cui combatte il gruppo dei sette ragazzini emarginati, a vario titolo, dalla società.82 Ma oggi i nuovi mostri, gli eredi di Tersite, Gwynplaine e dei loro epigoni, quali sono? Posto che ogni forma di diversità pone un interrogativo sui confini e sui ruoli che definiscono l’esistenza umana, un rinnovato interesse per le mostruosità e le anomalie è dato oggi dagli enormi progressi dell’ingegneria biogenetica, sopraggiunti dopo la mappatura del patrimonio genetico umano: in un futuro quanto mai prossimo, l’uomo potrà arrivare a prevenire o riparare i guasti operati dalla natura nell’organismo (pensiamo agli sviluppi e alle applicazioni terapeutiche delle nanotecnologie). Inoltre le cellule staminali e la clonazione (ricordiamo il caso della pecora Dolly) aprono potenzialmente enormi possibilità ai ricercatori di fabbricare la vita in laboratorio, realizzando il vecchio sogno di Frankenstein. Tutti questi fili (e altri ancora), come abbiamo detto, sono riconducibili in qualche modo a Tersite e Gwynplaine, considerati come archetipi (soprattutto il personaggio omerico) di una difformità reietta ed emarginata, ma alla fine riscattata sia pur con il proprio sacrificio. Questo, ci sembra, vogliono dire i due personaggi creati da Omero e da Victor Hugo, assurti a simboli, che abbiamo voluto idealmente accostare: non emarginare, non perseguitare nessuno in ragione del suo dissenso, soprattutto quando il dissenso diventa più evidente perché si accompagna a un aspetto esteriore che non viene accettato dalla collettività. Del resto, è paradossale che una società nella quale mutano tanto rapidamente costumi e mentalità, abbia paura di un dissenso, quando esso esce da forme e canoni comunemente accettati, relativi al modo di presentarsi. Se si vuole costruire uno spazio realmente condiviso e comune per tutti, occorre superare certi vecchi stereotipi. E non è impossibile che il nuovo ordine della “città dei mostri”, nella quale volentieri avrebbero dimora Tersite e Gwynplaine, non sia poi quello in cui si rispecchi l’ordine voluto dagli dei.83 Norman Manea, Clown.Il dittatore e l’artista (Despre Cloni: Dictatorul şi Artistul, 1992), trad. di Marco Cugno, Il Saggiatore, Milano 2004. 82 Stephen King, It (It, 1985), trad. di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, Milano 1990. 83 Il riferimento alla città di Perintia, la “città dei mostri”, è da Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1984, rist. (I ed. 1972), pp.150-151. 81