IL PASSAGGIO DAL COMUNE ALLA SIGNORIA E L`ITALIA DEGLI
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IL PASSAGGIO DAL COMUNE ALLA SIGNORIA E L`ITALIA DEGLI
IL PASSAGGIO DAL COMUNE ALLA SIGNORIA E L’ITALIA DEGLI STATI REGIONALI Fra la seconda metà del Duecento e i primi del Trecento si assiste in Italia ad un fenomeno di grande importanza: il passaggio dalle istituzioni comunali al governo di un unico signore. Ciò accade nel nostro paese con modalità e tempi diversi. Le prime signorie del nord sorgono già nella prima parte del ‘200 (gli Estensi a Ferrara, i Da Romano nella Marca trevigiana, i Malatesta a Rimini e i Da Polenta a Ravenna, per citare solo le più significative), mentre nel centro Italia il processo sarà più lento. Si passa da una consistente, almeno per l’epoca, partecipazione popolare al governo cittadino (sebbene solo il 20% circa della popolazione avesse diritto alla partecipazione alla politica) ad una restrizione in senso oligarchico del potere. Quali sono le cause e le dinamiche che portano ad un cambiamento così significativo? Guardiamo di sintetizzarlo, focalizzando la questione con alcune domande – chiave: a) Perché? La signoria è la risposta alla crisi interna del comune cittadino: ad un certo punto la lotta tra le fazioni comunali era giunto ad un punto di non ritorno, che rischiava di compromettere la stessa sopravvivenza del comune. Anche il declino dell’Impero è una concausa, visto che questa istituzione aveva sempre tentato di condizionare la politica comunale. Il signore, dunque, è accettato come una sorta di pacificatore delle guerre intestine nelle città, anche a costo di perdere la libertà. b) Quando? A tale domanda abbiamo già risposto: tra il ‘200 e il ‘300, con tempi diversi a seconda delle aree del paese c) Chi? Chi è il signore? Può essere un podestà che si è guadagnato la fiducia dei cittadini ben governando, o l’esponente (più spesso) di una famiglia prestigiosa che è in grado di mettere a tacere la lotta tra le fazioni, o qualcuno che prende il potere con la forza o addirittura un capitano di ventura (il caso più clamoroso è quello di Francesco Sforza a Milano) d) Come? I signori si sottraggono al controllo delle corporazioni e limitano il potere degli organi elettivi e delle varie magistrature cittadine: infatti, se molte istituzioni comunali restano formalmente in vita, come ad esempio a Firenze, esse perdono però il ruolo decisivo che avevano in passato, in virtù di una svolta oligarchica che concentra il potere nelle mani in genere di una famiglia aristocratica e del suo esponente più prestigioso. Quando poi il signore cercherà una legittimazione dall’alto del proprio potere, ricercata in una delle due massime cariche del mondo cristiano, Papa o Imperatore che sia, la signoria si trasformerà in Principato (tra la fine del ‘300 e i primi del ‘400). Ciò accade perché i signori italiani mancano proprio di quella legittimazione giuridica che avevano invece i sovrani europei o l’imperatore stesso e che in linea di massima consisteva nel diritto divino dei re. Questa evoluzione interna alle istituzioni cittadine procedette di pari passo con una radicale semplificazione dell’assetto politico della nostra penisola. Se fino alla prima metà del ‘200 il nostro sistema politico è caratterizzato da un’estrema frammentazione, come l’area germanica, tra la fine del XIII secolo e quella del XV si assiste alla nascita di veri e propri stati regionali: alcune città importanti assoggettano militarmente e sfruttano economicamente altri centri urbani e comunità rurali. Al centro-nord sono tre gli stati regionali che si affermano sugli altri: il ducato di Milano, la Repubblica di Venezia e quella di Firenze. Al centro si stabilizza progressivamente lo Stato pontificio che si estende ad alcune regioni 1 centrali, come Umbria, Marche e Romagna. Al sud si afferma il potere monarchico del Regno di Sicilia, dove gli Aragonesi si sostituiscono agli Angioini. Tuttavia, va anche detto che nel centro-nord permangono alcuni principati territoriali minori, come i Savoia in Piemonte, gli Estensi a Ferrara o i Gonzaga a Mantova. Sempre nel centro-nord permangono inoltre alcuni stati monocittadini, vale a dire domini di città che non ne sottomisero altre e che riuscirono a resistere allo strapotere degli stati più forti: Siena, Lucca e soprattutto Genova. Prima di passare ad esaminare sinteticamente la storia delle principali entità politiche della nostra penisola, un’ultima puntualizzazione. Nel periodo storico esaminato l’Italia, in ambito culturale ed economico, assurge ad uno splendore mai visto nel corso della sua storia medioevale ed è presa come modello da tutta l’Europa. Non a caso il Rinascimento sarà un fenomeno se non esclusivamente, quanto meno in prevalenza italiano. Tuttavia, il nostro paese sviluppò gradualmente aspetti di debolezza strutturale che porteranno poi, nel ‘500, alla perdita della nostra indipendenza. Infatti, nelle grandi monarchie europee, soprattutto Francia e Inghilterra, i centri mercantili svolgevano un’intensa attività commerciale ed erano difese militarmente e tutelate economicamente dai rispettivi stati nazionali; viceversa, le grandi città mercantili e manifatturiere italiane si trasformarono esse stesse in Stati territoriali, il che comportò un notevole dispendio di risorse economiche e una ristrutturazione degli assetti politici non certo indolore. Nel sud Italia, invece, il rafforzamento monarchico sembrava da un lato avvicinare il nostro meridione all’Europa, ma dall’altro i sovrani angioini e aragonesi, a differenza dei loro colleghi d’oltralpe, per controbilanciare il particolarismo dei nobili non poterono avvalersi, come vedremo, dell’appoggio delle città mercantili e della forza dei gruppi dirigenti urbani e borghesi: mancò nel sud una forte componente borghese, che nel resto dell’Europa occidentale (con l’eccezione della Spagna), fu alleata dei sovrani nel processo di costruzione di uno stato moderno e accentrato. In ultima analisi, si tenga poi presente un’ulteriore particolarità italiana: il ruolo giocato dallo Stato della Chiesa, che operando a difesa della propria sopravvivenza, fu sempre ostile a qualunque tentativo di unificazione del nostro paese o comunque a stati che prendessero troppo potere a livello territoriale. a. Il ducato di Milano A Milano la famiglia ghibellina dei Visconti affermò la propria signoria sulla città dopo un’aspra lotta con la famiglia rivale guelfa dei Torriani. Matteo Visconti fu il fondatore della dinastia e ottenne la legittimazione a governare con il titolo di vicario imperiale, pagando tra l’altro ingenti somme di denaro. Egli iniziò allora una politica di conquiste e annessioni nell’Italia settentrionale, che raggiunse il suo culmine con il successore Gian Galeazzo, il quale tra la fine del ‘300 e i primi anni del ‘400 portò il dominio milanese oltre la stessa Lombardia: fu conquistata parte del Veneto (Verona, Vicenza e Padova) e della Toscana (Lucca, Pisa e Siena), fino ad arrivare in Umbria al controllo di Perugia. Nel 1395 ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca, trasformando la signoria in principato. La sua azione sembrava avviata alla conquista di Firenze e con la strada spianata verso l’Italia Meridionale: tuttavia, nel 1402 Gian Galeazzo morì, e Milano dovette abbandonare tali propositi. Gli storici si sono chiesti quale sarebbe stato il futuro del nostro paese se il duca milanese fosse riuscito a costruire e a consolidare un grande regno comprendente l’Italia del centro-nord 2 o addirittura ad unificarla; un futuro certo diverso, ma che fu vanificato dalla prematura morte del protagonista, considerato all’epoca uno dei signori più influenti d’Europa. Sotto i suoi successori, il dominio visconteo iniziò una fase di declino: il rapido crollo di questo sistema di potere mostra anche la debolezza delle compagini signorili, costruite in poco tempo da individui dotati di talento politico e militare, ma lontane dall’apparire uno stato accentrato e organizzato. Ecco perché questi domini si sfaldarono alla morte del loro realizzatore. Filippo Maria Visconti, il successore, dovette affrontare l’alleanza tra Firenze e Venezia, che mal tolleravano lo strapotere milanese e covavano da tempo la rivincita. Venezia e Milano giunsero allo scontro aperto in quanto entrambe desiderose di espandersi nella pianura padana. Nel 1427 a Maclodio, nei pressi di Brescia, i Veneziani inflissero ai Milanesi una dura sconfitta: il loro esercito, mercenario come quello degli altri stati italiani del tempo, era guidato dal conte di Carmagnola, uno dei più valorosi capitani di ventura del tempo. La guerra andò comunque avanti a fasi alterne; degno di nota il fatto che Firenze passò dalla parte dei milanesi, consapevole che adesso era Venezia il rivale più pericoloso, fattasi più forte dopo Maclodio. Questo continuo cambiamento di alleanze è tipico della politica italiana del periodo, volta ad evitare che i nemici si rafforzino, ma priva di una strategia di largo respiro, che guardi in senso costruttivo al futuro della penisola. Alla morte di Filippo si ricostituì a Milano un governo repubblicano, la Repubblica ambrosiana: un progetto utopistico, che non teneva conto dei tempi che erano notevolmente cambiati rispetto alla civiltà comunale. Di fronte alla minaccia del sempre più agguerrito esercito veneziano, i milanesi furono così costretti a chiedere l’aiuto e l’intervento del condottiero Francesco Sforza, che aveva sposato una figlia di Filippo Maria. Egli colse l’occasione al volo e nel 1450 divenne signore della Lombardia, ponendo fine alla repubblica, ma salvando il futuro di Milano. b. Repubblica di Venezia Tra le tre più importanti città italiane di questo periodo, se Milano divenne una signoria a tutti gli effetti e Firenze una signoria mascherata, come vedremo, dietro parvenze repubblicane, Venezia conservò saldamente l’ordinamento repubblicano sotto il governo ristretto di mercanti e armatori navali. Nel 1297 la Serrata del Maggior Consiglio riservò ad una ristretta oligarchia patrizia il governo cittadino, facendolo diventare ereditario. Tale misura limitava fortemente il potere del doge, il principale magistrato cittadino (equiparabile ad una sorta di moderno primo ministro), concentrando nelle mani di questa istituzione (il maggior consiglio, appunto) e di poche famiglie potenti (una sorta di aristocrazia degli affari) il potere e la stabilità interna di Venezia. Essa proseguì nella sua opera, in atto da secoli, di espansione marittima verso Oriente e si scontrò con la rivale di sempre, Genova, che fu molto abile nello spingere contro lo strapotere veneziano, che faceva paura a molti, una coalizione formata da Regno di Napoli, signoria di Padova e regno d’Ungheria. La guerra di Chioggia (1378-1381), conflitto che prende il nome dalla località veneta conquistata dai genovesi, rischiò di compromettere l’indipendenza di Venezia, la quale riuscì a resistere con grande forza e con la Pace di Torino rinunciò ad espandersi nel tirreno meridionale, ma riconquistò Chioggia e si garantì l’integrità territoriale. La nuova espansione, dai primi del ‘400 in poi, si 3 concentrò verso l’entroterra e in direzione della pianura padana, anche a causa della nascita, nel 1453, dell’Impero Ottomano che chiudeva alle navi italiane le vie dell’Oriente. Ciò portò Venezia in rotta di collisione ulteriore con Milano per il possesso della pianura padana, spesso alleata con Firenze per contrastare la pericolosa vena espansionistica del ducato degli Sforza. c. Repubblica di Genova A Genova il Banco di San Giorgio ottenne progressivamente, in quanto creditore del Comune, il controllo diretto del governo cittadino. Il suo patriziato oligarchico, tradizionalmente diviso in fazioni, si sottomise spesso a signorie esterne, quali gli Sforza o i re di Francia. Alla debolezza politica, che impedì a Genova di imitare Venezia nella costruzione di un vasto stato regionale, corrispose però una notevole prosperità economica, grazie ad armatori e banchieri, che durerà fino al ‘500 inoltrato. Non riuscendo a trasformarsi in potenza territoriale, Genova si limitò a controllare i centri costieri della Liguria e della Corsica. Da ricordare due battaglie, combattute a due secoli di distanza l’una dall’altra: quella della Meloria, nel Tirreno settentrionale, nella quale Genova inflisse a Pisa una sconfitta decisiva e la già ricordata battaglia di Chioggia. d. Stato dei Savoia Dal ‘300 in poi i Savoia abbandonano ogni velleità espansionistica verso ovest, a causa della concorrenza francese, e dirigono verso est le loro attenzioni, convertendosi a quello che sarà un destino italiano, con conseguenze decisive per il futuro del nostro paese. Conquistano il Piemonte occidentale, ma mantengono, a riprova dell’origine francese della dinastia, momentaneamente la capitale a Chambery e sono comunque uno stato di carattere feudale, dove ancora poco contano i traffici commerciali come a Venezia o Genova. L’opera di coordinamento politico e amministrativo realizzata da Amedeo VIII, che suddivise in 12 province il ducato assegnando a balivi (funzionari) il rispettivo controllo, fanno assomigliare tale stato molto più alle monarchie d’oltralpe che alle signorie italiane. e. Repubblica di Firenze Nella seconda metà del ‘200 a Firenze il ceto magnatizio, facente capo a famiglie nobili in perenne lotta tra di loro (eredi dei Consoli, magistratura tipica della prima fase dei Comuni italiani), fu contrastato dal popolo grasso della ricca borghesia emergente, che dopo alterne vicende giunse all’approvazione degli Ordinamenti di giustizia nel 1293, che privavano dei diritti politici i Magnati, allargavano l’ambito della arti a cui spettava l’elezione dei Priori (il Consiglio dei Sei Priori delle Arti maggiori era stato istituito nel 1282 e costituiva il governo fiorentino) e istituivano la magistratura del gonfaloniere di giustizia, che aveva il compito di garantire l’ordine pubblico ed eventualmente reprimere attentati contro il governo ‘popolare’. I nobili, almeno quelli delle grandi famiglie magnatizie, furono estromessi dalla politica, per partecipare alla quale occorreva essere iscritti ad un’arte o addirittura espulsi da Firenze. Né il contrasto feroce 4 tra Bianchi e Neri, di cui ci siamo occupati alcune lezioni fa, né il fallito tumulto dei Ciompi scalfirono questo ordinamento repubblicano, di cui i fiorentini andavano assai fieri. Tra la seconda metà del ‘300 e i primi del ‘400 Firenze costituì un solido stato regionale, che comprendeva i due terzi della Toscana: solo la repubblica di Lucca e quella di Siena rimasero indipendenti. Nel corso del ‘400 si registrò la potente ascesa della famiglia dei Medici: di origine borghese, legati alla produzione a al commercio della lana e della seta, in seguito banchieri di successo (degno di nota nel 1421 l’acquisto, per l’esorbitante cifra di 100.000 fiorini del piccolo porto di Livorno, che sarebbe diventato il porto di Firenze, dal Banco genovese di San Giorgio), essi erano visti di buon occhio dalla parte più moderata e progressista del popolo grasso e dallo stesso popolo minuto, perché non apertamente oligarchici. Del resto, dopo che Salvestro, membro importante dei Medici, all’epoca della rivolta dei Ciompi aveva sposato la loro causa venendo perciò esiliato dalla città, la famiglia aveva deciso di estraniarsi dalla politica fiorentina, dedicandosi ai propri affari. Gli Albizzi, al potere nei primi decenni del ‘400, non vedevano di buon occhio l’atteggiamento filo - popolare dei Medici e ingaggiarono con essi una dura contesa, che portò alternativamente a subire l’esilio i membri più significativi delle rispettive fazioni, tra cui lo stesso Cosimo dei Medici. Quest’ultimo, riuscito a rientrare in città nel 1434, diede vita per trent’anni ad un dominio signorile pressoché incontrastato. Egli fu così intelligente da capire quanto i fiorentini fossero gelosi e attaccati alle istituzioni repubblicane: per questo non introdusse modifiche nell’assetto dello stato né assunse cariche eccezionali, ma di fatto controllò in modo ferreo la vita politica cittadina, collocando uomini di sua fiducia nei posti chiave della città ed esercitando quindi un dominio assoluto. Proprio Cosimo, detto il vecchio, gettò le basi della cosiddetta politica dell’equilibrio, che chiudeva circa cento anni di conflitti nella nostra penisola che avevano interessato i principali stati, come Firenze, Milano, Venezia e Il Regno di Napoli. La pace di Lodi (1454) fu siglata al termine della guerra che Napoli, Venezia e la Francia avevano intrapreso contro Francesco Sforza. Questa pace consolidò il sistema degli stati regionali e le 5 maggiori potenze della penisola si riunirono nella Lega italica (Milano, Venezia, Firenze, Napoli e Stato della Chiesa), per evitare conflitti destabilizzanti per l’assetto del paese. Tali stati si impegnavano così ad evitare ulteriori guerre, abbandonando ogni attività espansionistica per rispettare i confini stabiliti dalla pace di Lodi (vedi cartine a pag. 162, Storia Ed. Laterza e pag. 207 Storiamondo Ed. Il Capitello). Questa Lega aveva in teoria anche uno scopo difensivo, ossia far fronte ad una eventuale avanzata turca, visto che nel 1453 gli Ottomani avevano conquistato Costantinopoli. Minaccia che era, comunque, molto remota. Lorenzo dei Medici, nipote di Cosimo, continuò questa politica, diventando in breve tempo l’unico indiscusso regista della politica interna fiorentina, ma anche ago della bilancia teso a salvaguardare i rapporti di forze costruiti nel 1454. La politica dell’equilibrio mostra un aspetto positivo, nel senso che assicurò al nostro paese una pace durata 40 anni, ma anche un risvolto negativo: gli Stati italiani avevano realizzato un’alleanza difensiva, impossibilitati come erano a dar vita ad un solido stato unitario. Lorenzo lo aveva ben capito, ma pensava di fare di necessità virtù: sapeva bene che solo non facendosi la guerra gli stati italiani avrebbero potuto evitare di venir conquistati dalle grandi potenze straniere. In effetti, alla morte di Lorenzo (1492) il fragile sistema dell’equilibrio da lui sapientemente tenuto in piedi non gli sopravvisse e nel 1494 Carlo VIII, re 5 di Francia, scenderà in Italia per iniziare un lungo periodo di guerre e conquiste che infiammeranno il nostro paese portandolo alla perdita dell’indipendenza. Per tale motivo, la politica dell’equilibrio è stata definita dagli storici una “somma di debolezze”, nel senso che evidenzia l’estrema precarietà del nostro assetto politico. A tale equilibrio, frutto del timore reciproco tra i principali stati italiani, si giunse grazie alla mediazione diplomatica, resa possibile da ambascerie stabili presso le varie corti italiane. Ciò non significa che tale periodo sia stato particolarmente tranquillo: la precarietà di tale equilibrio è confermata dalle congiure capitate in questi anni, la più importante delle quali è la congiura dei Pazzi (1478) dal nome della famiglia fiorentina che gestiva le finanze pontificie ed era quindi sostenuta dal papa, Sisto IV, la quale attentò senza riuscirci alla vita di Lorenzo dei Medici e uccise invece il fratello Giuliano. Come ricorda lo storico Francesco Guicciardini nelle sue Storie fiorentine (15081509), sebbene ferito Lorenzo intraprese una feroce repressione nei confronti dei nemici che consolidò ulteriormente il suo potere. f. Stato della Chiesa Durante la cattività avignonese, Roma si ridusse ad una città di circa 70.000 abitanti e in balia della lotta tra le famiglie più potenti. Nel 1347 un giovane di umili origini, Cola di Rienzo, si recò alla corte pontificia trasferitasi ad Avignone con una delegazione delle corporazioni artigiane di Roma per riferire al Papa Clemente VI lo stato di abbandono in cui si trovava l’Urbe. Grazie alla sua abilità oratoria riuscì a convincere il pontefice della necessità di ridimensionare lo strapotere dell’aristocrazia romana e, una volta tornato a Roma, Cola cacciò con l’aiuto del popolo i capi della nobiltà instaurando una forma di governo comunale, di cui assunse il comando con il titolo di “tribuno”, in omaggio alle antiche istituzioni repubblicane. Nella sua visione politica, ammirata da Petrarca, il popolo doveva essere il sovrano di una comunità democratica senza più privilegi; così egli ristabilì l’ordine e la sicurezza, creando un sistema giudiziario imparziale e un fisco equilibrato e più equo. Con il tempo, Cola suscitò preoccupazioni sia nel Papa che nell’Imperatore, visto come un pericoloso rivale. In un clima che stava cambiando, le famiglie nobili iniziarono a covare la loro vendetta. Cola adottò metodi dittatoriali, che certo dovevano servire a debellare il pericolo aristocratico, ma che gli alienò anche le simpatie popolari. Per assoldare milizie mercenarie, aumentò le tasse, specie quella sul sale e si circondò inoltre di un lusso sfrenato. I nobili riuscirono quindi ad istigare il popolo contro di lui e il tribuno fu così ucciso da una sommossa ai piedi della scala del Campidoglio. Nonostante il fallimento, tale esperienza è importante perché Cola anticipa certe idee che verranno riprese nel Risorgimento: l’idea di una rinascita politica e culturale di Roma, che doveva estendere il suo esempio a tutta la penisola e guidare gli italiani verso la libertà e una possibile unificazione ante litteram. Proprio l’idea di Roma repubblicana e degli ideali classici avranno un seguito nel nostro Rinascimento. Dopo la morte di Cola il papa, per preparare il suo ritorno a Roma, affidò al cardinale Egidio di Albornoz il compito di ridimensionare il potere dei signori locali e di ricostituire il potere papale nei territori circostanti a Roma. Egli emanò le Costituzioni egidiane, che formulavano princìpi fondamentali alla base del governo papale e del suo rapporto con i vari poteri locali e con i parlamenti. In 6 pratica queste costituzioni trasformano la Chiesa in un vero e proprio stato moderno. Nel giro di breve tempo, l’Albornoz sottopose le città al controllo di rettori provinciali e costrinse i signori locali al riconoscimento dell’autorità papale, dichiarandoli vicari del pontefice. In seguito, il ritorno del papato a Roma e il superamento del Grande Scisma consentì al pontificato di riprendere in mano la situazione e di costruire, sulla base di tali premesse, un vasto e solido stato nell’Italia centrale, abbandonando qualsiasi pretesa universalistica di stampo medioevale. Fu creato anche un nuovo sistema di prelievo fiscale per incrementare le entrate dello stato, ma prendeva piede anche un fenomeno negativo, il nepotismo, ossia l’usanza di affidare a membri della propria famiglia signorie locali o alte cariche ecclesiastiche. Proprio Sisto IV della Rovere appoggiò la Congiura dei Pazzi per assecondare le ambizioni dei suoi nipoti, ma il caso più eclatante è quello di Alessandro VI Borgia, che nominò cardinale suo figlio Cesare e gli spianò la strada per la costituzione di uno stato nell’Italia centrale. g. Regno di Napoli e di Sicilia Sebbene fosse il più vasto stato della penisola, il Regno di Napoli era estremamente debole a livello economico e se vogliamo politico, per le motivazioni ricordate sopra: il ruolo di una borghesia per lo più assente era gestito da mercanti fiorentini e catalani, che pur commerciando con il regno erano ovviamente poco propensi a reinvestire sul luogo i propri guadagni. I baroni giunti al seguito degli Angioini dominavano nei loro enormi latifondi coltivati da masse di contadini impoveriti e contrastavano il tentativo regio di dar vita ad uno stato più centralizzato. Secondo alcuni storici, è proprio nel dominio angioino che trovano le loro radici i problemi del mezzogiorno italiano. Le città del sud, prive di autonomia sotto i sovrani normanni e svevi, iniziarono in parte, dalla fine del XIII secolo a sottrarsi al controllo degli ufficiali regi e a dotarsi di propri organi di governo, anche se la loro autonomia non era certo paragonabile a quella dei comuni del centro-nord. Punto debole fu, come sappiamo, il mancato sviluppo di componenti mercantili ed artigiane. Peraltro, nella prima metà del ‘300 il Regno di Napoli godette di un lungo periodo di splendore, soprattutto culturale, sotto Roberto d’Angiò, riconosciuto come uno dei monarchi più saggi della cristianità e capo del guelfismo italiano ( si ricordi l’asse di ferro che legava Angioini, Stato della Chiesa e Firenze). Presso la corte di Roberto trovarono ospitalità intellettuali come Cino da Pistoia, Petrarca, Boccaccio, Giotto e Simone Martini. Fu anche una piazza commerciale importante, perché banchieri fiorentini come i Bardi e Peruzzi avevano qui filiali di rilievo. Verso la fine del ‘300 ci furono però alcune crisi dinastiche, ossia contese tra i vari rami internazionali della famiglia d’Angiò. Questo scontro, che rivelò ancora di più la debolezza interna del regno, portò gli Angioini sull’orlo del collasso e a contrarsi con gli Aragonesi, che dal 1302 dominavano la Sicilia. Gli Aragonesi avevano costituito un regno modellato sull’esempio delle Cortes iberiche, assemblea formata dai rappresentanti di nobiltà, clero e delle città che aveva il compito di coadiuvare il re nella funzione legislativa. In questo contesto si vengono a creare alleanze particolari tra i vari stati italiani, basate su il timore reciproco di ingrandimento e dunque su cause politico-territoriali: i Milanesi appoggiano gli Aragonesi, i Fiorentini gli Angiò. Proprio l’appoggio milanese 7 risultò decisivo per la sconfitta angioina e la definitiva riunificazione dei due regni sotto la dinastia aragonese, che con Alfonso V diede vita ad un nuovo periodo di fioritura culturale nella prima metà del ‘400. (per quanto concerne le compagnie di ventura, vedi Storia, Ed. Laterza, pp. 164165). 8