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Il ruolo delle signorie monastiche nell`articolazione del popolamento

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Il ruolo delle signorie monastiche nell`articolazione del popolamento
Il ruolo delle signorie monastiche nell’articolazione del
popolamento del Lazio medievale
F. Romana Stasolla1, G. M. Annoscia2, S. Del Ferro3
SOMMARIO. Si intendono analizzare le dinamiche di popolamento di alcune aree del Lazio, soprattutto aree
vallive che, dopo una prima occupazione in età protostorica, risultano marginali rispetto alla distribuzione della
popolazione romana, ma subiscono, nel Medioevo, una progressiva rioccupazione delle alture. Un elemento
fortemente propulsore è costituito dall’azione di centri ecclesiastici, soprattutto monastici, che gestiscono con
dinamiche signorili il controllo del suolo e lo sfruttamento delle risorse, potenziando l’incremento demografico
di aree altrimenti scarsamente abitate e determinando l’assetto odierno del popolamento. Al lavoro di ricognizione archeologica delle strutture, si è affiancato quello di spoglio delle fonti storiche, della cartografia e delle
foto storiche, per ricostruire non solo la consistenza degli insediamenti demici ma anche le forme del paesaggio antico, del rapporto suolo/costruito, delle dinamiche di sfruttamento delle terre e della trasformazione dei
prodotti.
L’analisi conoscitiva del Lazio medievale si avvale di
moltissimi studi comparabili non solo per set di dati e per
metodologie, ma anche fra loro complementari in quanto
opera di storici, di archeologi, di storici dell’agricoltura, in
un arco diacronico fra i più ampi della storiografia di ambito rurale. Questa molteplicità di dati, unitamente per
alcune aree alla conservazione di una consistente mole di
documentazione scritta e di cartografia storica, oltre che
di emergenze monumentali, ha reso l’area laziale un buon
prototipo per gli studi di Jean Coste, che proprio nella
Campagna Romana ha elaborato e applicato il suo metodo regressivo (COSTE 1996). Si tratta di uno strumento di
lavoro che a tutt’oggi costituisce l’approccio metodologico
principale delle nostre ricerche, sia pure con i dovuti correttivi determinati dai set di fonti disponibili per le singole
aree. A fronte di tanta mole di studi, all’edizione di buona
parte delle fonti documentarie, alla certezza di approccio
metodologico, a buoni lavori di analisi parziali, singolarmente mancano sintesi che tengano insieme dati di tipo
diverso, manca una reale comparazione delle fonti, mancano in sostanza le ricostruzioni dei quadri di popolamento.
La consistenza demografica viene solitamente lasciata alla
percentuale di vita urbana, sostanzialmente Roma e le civitates sedi di diocesi, in un quadro che rischia di risultare
falsato anche per l’uso esclusivo delle definizioni delle fonti scritte. Larga parte del Lazio, a buona densità abitativa
in età romana, fu infatti oggetto di una precoce cristianizzazione e quindi fu dotato di una rete diocesana a maglie
molto strette, che elevò a città centri anche molto modesti, talvolta municipia romani, nel rispetto delle norme ecclesiastiche, richiamate anche in atti conciliari, che raccomandavano di elevare al rango di sede vescovile solo città,
preferibilmente non troppo esigue. La ferma presenza ecclesiastica sul territorio trovò eco in un’altrettanto rapida
1 Università
cristianizzazione delle campagne, con la diffusione di ecclesiae baptismales e di oratori pubblici e privati che rioccuparono in larga parte siti di fondovalle, ville o insediamenti
rustici di età romana che mostrano una sostanziale tenuta,
sia pure con modifiche nelle forme e talvolta nelle funzioni, almeno per tutto il V secolo. Le presenze ecclesiastiche
in abito rurale, spesso nuclei attrattivi del popolamento o
comunque punti aggreganti di abitati dispersi, come testimoniato ad esempio dalle piccole catacombe in uso ancora
in età tardoantica, vennero presto rafforzate dalla diffusione dei centri monastici, dapprima eremitici ma ben presto cenobitici, la cui presenza si svilupperà nel corso del
Medioevo. Presenza vescovile e presenza monastica costituiscono i due poteri forti che connotano l’altomedioevo
in larga parte del Lazio e che determinano le forme e i
luoghi del popolamento, secondo un processo già avviato
dalla Chiesa Romana a cominciare dall’età tardoantica (DE
FRANCESCO 2004).
Nel corso della nostra ricerca, due casi fortemente emblematici sotto questo profilo sono costituiti da due aree
distanti fra loro, ma analoghe quanto a tipologia delle fonti e a conservatorismo geografico. Si tratta dell’alta valle
dell’Aniene, connotata dalla presenza dell’abbazia di Subiaco, e nel Lazio meridionale di una vasta area di confine prima dei territori bizantini e poi del Ducato Romano verso la Langobardia Minor, nell’ambito della quale abbiamo elaborato alcune considerazioni relative alla
diocesi medievale di Veroli. Le due aree verranno illustrate rispettivamente da Giorgia Annoscia e da Sergio Del
Ferro.
Il nostro lavoro mira alla ricomposizione di carte di
popolamento ricavate dall’elaborazione dei dati delle fonti scritte, per lo più atti privati, riferibili alla localizzazione
degli insediamenti in progressione cronologica. A questo
di Roma “La Sapienza”. L’autrice ha redatto la parte iniziale del contributo.
di Roma “La Sapienza”. L’autrice ha redatto La Valle Sublacense.
3 Università di Roma “La Sapienza”. L’autore ha redatto La Diocesi di Veroli.
2 Università
GEOGRAFIE DEL POPOLAMENTO: CASI DI STUDIO, METODI E TEORIE
si aggiunge l’arduo tentativo di referenziazione geografica
dei fondi, dei casali, delle curtes, dei toponimi, degli appezzamenti di terreno sottoposti a coltura, mediante il riconoscimento delle indicazioni di confine, nel confronto con
la cartografia storica, fino all’uso del Catasto Gregoriano.
Gli storici dell’agricoltura hanno restituito un paesaggio
che noi, integrando le diverse tipologie di fonti, cerchiamo di visualizzare in termini geografici e di riprodurre su
base cartografica, con lo scopo di comprendere in modo
circostanziato quali siano stati gli elementi aggregativi o
poleogenetici dell’economia e dell’abitato extraurbano.
Entrambi i territori vedono un consistente movimento della popolazione in corrispondenza dell’affermazione
del ruolo ecclesiastico, monastico in area sublacense e vescovile nel Lazio meridionale, benché anche in quest’ultima zona la presenza di fondazioni benedettine prima e
cistercensi poi giocherà un ruolo non secondario.
Nella valle dell’Aniene, il Regesto Sublacense e le carte del poderoso archivio di S. Scolastica restituiscono il
quadro di una sfera di espansione e di stabilizzazione della presenza monastica in maniera signorile, mediante la
fondazione di castra e castella sulle alture a contorno della
valle a cominciare dal X secolo, momento in cui inizia la
massiccia estensione territoriale dei possessi monastici. Il
potere abbaziale si incunea nei possessi delle due diocesi
di Trevi e di Tivoli, con le quali, soprattutto con quest’ultima, le relazioni saranno sempre conflittuali e come tali
determinanti per le scelte degli insediamenti di controllo
territoriale. I primi, in ordine cronologico, risalgono all’inizio dell’XI secolo e sono costituiti da insediamenti di
fondovalle, nelle fonti definiti come fondi fino alla edificazione di castella. L’uso di questa definizione per i siti di
Empiglione e di Trellano conferma ancora una volta come
incastellamento e risalita in altura siano due aspetti di una
dinamica di popolamento non sempre e non necessariamente coincidenti. Il ruolo dell’abbazia nel popolamento
dell’area si esplica nella committenza di 22 su 39 castra di
nuova edificazione entro il XII secolo, mentre dei rimanenti 13 sono dovuti a signorie laiche e 4 all’iniziativa del
vescovo di Tivoli. Le fondazioni abbaziali rispondono a
una logica precisa, che si evidenzia molto bene dalle fonti
scritte e anche sulla base delle considerazioni topografiche:
edificare una rete di insediamenti, tutti definiti allo stesso
modo, indistintamente castra o castella, ma che in realtà
hanno forme, funzioni e scopo molto diversi. Alcuni nascono come poli aggregativi di insediamenti dispersi e soprattutto in stretta connessione con attività produttive già
in essere nel fondovalle: è ad esempio il caso di Agosta, che
vede assegnarsi un territorio già connotato dal medesimo
toponimo, segnato dalla presenza di curtes e di casali, di
un efficiente sistema di mulini a fondovalle. In particolare, il casale di S. Felicita gravita attorno un luogo di culto,
appunto la chiesa dedicata alla santa e chiaramente rappresenta l’eredità tardoantica di modalità insediative articolate in piccoli nuclei interconnessi, la cui distribuzione
è testimoniata dalla loro ricorrenza in una serie di bolle
papali. Altri siti, invece, sorgono con lo scopo primario
di controllo territoriale: è il caso di Cervara, sito su uno
sperone roccioso privo di risorse, a cominciare dall’acqua,
ma in posizione cruciale per il controllo dei due versanti,
laziale ed abruzzese, della valle. A Cervara nell’XI secolo
le forme del castrum sono costituite da un torre quadrata
con neviera e infrastrutture in legno (PANI ERMINI et alii
2007), sotto lo stretto controllo monastico. Solo nei secoli
successivi, e ancor più con il passaggio al potere signorile nella fine del XV secolo, l’abitato si svilupperà lungo
le pendici rocciose e al castello verranno assegnati fondi e
strutture collegate ad attività produttive nel fondovalle.
Analizzando la contrattualistica agraria, emerge chiaramente come l’abbazia sublacense pratichi una politica
di concessione in perpetuum, che riflette la volontà di stabilizzare la popolazione contadina attorno ai nuovi centri
incastellati, di legarla ad attività produttive, anche mediante la riscossione di canoni molto bassi, ma che prevedevano la valorizzazione del capitale terriero. Una politica di
successo, quella sublacense, così che la percentuale dei castra abbandonati tra XIII e XVI secolo risulta molto bassa,
limitata a quegli insediamenti il cui territorio era troppo
esiguo e quindi insufficiente a una sussistenza nella lunga
durata, oppure a quei punti di avvistamento che avevano
esaurito la loro funzione prima di essere significativi ai fini
delle dinamiche di popolamento. La sostenibilità del modello viene confermata dal fatto che ancora oggi la ripartizione comunale ricalca sostanzialmente quella dei territori
di pertinenza dei singoli castelli.
Nel Lazio meridionale, nell’area della diocesi di Veroli, che comprendeva 12 odierni comuni eredi dei castra
medievali, il popolamento sembra essersi cristallizzato in
età imperiale, così che buona parte dei castra sono in realtà urbani, fortificazioni delle acropoli, spesso di origine
preromana, dei municipia romani. Alla fine dell’XI secolo, le bolle papali di conferma dei beni ai vescovi tracciano il quadro di un abitato serrato, con castra e oppida a
occupare le modeste alture e una ripartizione territoriale
fortemente conservativa, così che il territorio della civitas Verulana, il centro diocesano, comprendeva quello di
alcuni piccoli castra e rappresentava oltre il 50% dell’estensione diocesana. Nel territorio verolano, a partire dalla fine del X secolo, le fonti scritte attestano due importanti
realtà possessorie: il vescovo, appunto, e il monastero di S.
Erasmo, posto nella città vescovile, in una posizione topograficamente urbana, ma ritenuta dalle fonti come esterna, dato questo molto interessante nella valutazione della percezione dello spazio urbano. Dallo spoglio dei due
archivi, che contengono per lo più atti privati, è possibile cogliere l’addensarsi delle attività agricole e artigianali,
legate soprattutto alla coltivazione della canapa, in zone
ben distinte, connotate lessicalmente e appartenenti a fondi spesso di matrice comunque ecclesiastica. Del resto, nel
territorio diocesano sono note almeno 35 fra chiese e monasteri (MARCHETTI 2003) e, sia pure in modo sporadico,
anche l’abbazia di Montecassino possiede territori ed edifici di culto nella zona, in relazione talvolta di conflittualità
con il vescovado. Nel corso del secoli, fino al XIII, alcune
di quelle che apparentemente sono chiese rurali diventano
veri e propri centri di proprietà terriere, come nel caso del
monastero di S. Benedetto a Virano. In altri casi, sono le
chiese urbane, sempre di dipendenza vescovile, a possedere
fondi extraurbani.
A partire dall’inizio dell’XI secolo, un’altra realtà ecclesiastica si impone nel territorio verolano. Si tratta del
monastero cistercense dei SS. Giovanni e Paolo di Casama-
IL RUOLO DELLE SIGNORIE MONASTICHE NELL’ARTICOLAZIONE DEL POPOLAMENTO DEL LAZIO MEDIEVALE
Figura 1. La Valle Sublacense con l’ubicazione dei castella e delle roccae con relativa indicazione del secolo di fondazione (metà
X-XII secolo): elaborazione grafica a cura di Lorevito De Lellis.
ri, che comincia una politica di acquisizione, soprattutto
all’inizio per tramite di donativi, di ampie aree, comprese
quelle nelle quali ricadevano castra precocemente distrutti. Dall’archivio di Casamari si evince come il monastero
avvii un attivo interscambio di proprietà immobili con il
vescovo di Veroli, cedendo proprietà urbane e acquisendo proprietà extraurbane, in una politica di pianificazione
delle attività agricole che determina il costituirsi di piccoli insediamenti “satelliti” dei castra, nuclei di modestissima entità deputati allo sviluppo agricolo e artigianale,
in una politica contrattualistica che privilegia le concessioni in perpetuum oppure a terza generazione, radicando
quindi le popolazioni al territorio. D’altronde, restringere il popolamento ai soli nuclei castrensi parrebbe improbabile, anche alla luce dei passaggi di proprietà di terreni
non edificati, addirittura seminativi, all’interno delle mura; tale presenza finisce infatti per rendere troppo esiguo
lo spazio abitativo inframuraneo. Manca, nella possibilità
di comprendere le forme del popolamento rurale, la menzione di strutture abitative, molte probabilmente in legno,
stante l’uso di questo materiale per la maggior parte delle coperture delle case urbane e l’assenza di rinvenimenti
in una zona che, a una prima ricognizione della fine degli
anni Ottanta, presentava la maggior parte delle strutture
medievali rurali in discreto stato di conservazione. Del resto, lo stesso pontefice Gregorio VII nel 1080 si era accam-
pato fuori Ceprano, sub pabillione lignis composito iuxta
fluvium.
Ciò che emerge, nei due casi laziali, è la potenzialità
dell’analisi della politica ecclesiastica nelle dinamiche del
popolamento medievale: una politica mai sporadica, ma
rispondente a una logica di lungo stanziamento, di promozione di un incastellamento coordinato e collegato in una
maglia serrata, di radicamento delle popolazioni per più
generazioni, di stabilizzazione di territori verso vocazioni
agricole o, se artigianali, collegate alla trasformazione dei
prodotti coltivati. Una politica che gli ordini monastici
proseguiranno e amplieranno.
F.R.S.
La Valle Sublacense
L’occupazione sociale della Valle Sublacense in epoca
medievale fu promossa dal monastero benedettino di Subiaco che, tra X e XII secolo, impose la giurisprudenza
politico-amministrativa su un ambiente naturale omogeneo e racchiuso nei confini territoriali abbaziali enucleati
negli elenchi patrimoniali del 1005, 1015 e 1051 (ALLODILEVI 1885, nn. 10, 15 e 21) ove vengono definiti i limiti
della giurisdizione pertinente al castellum Sublaci. La difesa di questa entità territoriale, dotata di grande rilevanza militare e strategica, rappresentò l’aspirazione continua
GEOGRAFIE DEL POPOLAMENTO: CASI DI STUDIO, METODI E TEORIE
degli abati benedettini i quali dovettero aspramente lottare per difendersi dalle velleità espansionistiche dei poteri
limitrofi (il monastero dei SS. Cosma e Damiano, il Vescovo di Tivoli, le signorie laiche) che per parte loro contribuirono a disegnare il territorio. Questa compenetrazione
di interessi comportò una geografia del popolamento attuata mediante la fondazione di 37 insediamenti fortificati
(21 castella –di cui 2 solo progettati– e 15 roccae) a funzione prevalentemente militare, fondati per mano sia del
monastero (57%), sia del Vescovo di Tivoli (10%), sia dei
signori laici (33%); tuttavia, quelli di fondazione non monastica furono contesi dagli abati, tra XI e XIII secolo, alle
forze che li avevano generati. Una politica di incastellamento perseguita con il benestare papale, quindi, modellò
il paesaggio tardoantico e altomedievale della Valle, caratterizzato da un insediamento rurale sparso (massae, silvae,
pastiones, agri e praedia col territorio suddiviso in vici, coloniae, casalia) fondato su strutture territoriali ed edilizie
d’età romana, con poli d’individuazione territoriale e d’aggregazione sociale costituiti da 3 pievi e da numerose chiese rurali (in tutto 25) e d’altro canto conferì alla Regione
un assetto insediativo costellato da centri fortificati, alla
base dell’odierno popolamento.
La Valle Sublacense si configura come un’isola geologica di medie colline argillo-sabbiose delimitate sui tre lati
da massicci calcarei (monti Sabini e Ruffi a N, Simbruini
a E, Prenestini a W) e sul quarto da terreni pianeggianti di tufo e pozzolana, articolata nei quattro bacini oroidrografici dell’Aniene (due segmenti, uno con direzione
E-W, l’altro N-S), del Fosso dell’Empiglione e del Fiumicino che si raccordano geograficamente a coppie attraverso
l’ansa che l’Aniene descrive tra Mandela e Vicovaro e attraverso il Passo collinare della Fortuna. Sebbene nettamente recintato dal perimetro montuoso, il complesso vallivo
non si presenta chiuso verso l’esterno: ciascuna valle accoglie una strada che costituisce il raccordo diretto tra i
quattro bacini fluviali. Il territorio fin da epoca remota si
è configurato come un crocevia nodale di strade di comunicazione tra la Campagna romana e l’Abruzzo, fornendo
altresì collegamenti con la Sabina e il Lazio meridionale.
La viabilità d’epoca romana comprendeva le seguenti arterie: la Via Valeria che conduceva verso l’Abruzzo; la Via
Sublacense che da Roviano portava a Subiaco occupando il
fondo del bacino dell’Aniene e, proseguendo verso Affile e
Ponza, continuava da un lato verso la valle del Liri, dall’altro verso la Campagna Settentrionale, e la Via Empolitana
che attraversava l’omonima valle. Questi assi stradali furono potenziati con alcuni percorsi di matrice propriamente
medievale, tra cui l’asse Tivoli-Ciciliano-Gerano-Subiaco,
la Via dei Ruffi, che collegava il Passo della Fortuna con
l’Aniene, il percorso montano parallelo allo spartiacque
dei Ruffi e il valico sui monti Simbruini. La peculiare configurazione oroidrografica della Valle ha comportato come
risposta socio-culturale la ridefinizione di aspetti paesaggistici e insediativi differenziati: la riva destra dell’Aniene si
distingue per le aride montagne calcaree con cime brulle,
mentre in quella sinistra che ospita le colture i centri abitati si sono sviluppati adattandosi ai tratti oro-geografici del
territorio. Infatti, a centri ubicati a valle disposti lungo il
fiume, con affaccio sulla conca stessa e dipendenti da una
strada che si pone come asse portante del sistema (Rovia-
no, Anticoli, Marano, Agosta, Subiaco) si alternano centri
che sono riconducibili a un sistema di cresta, posti in affaccio su due valli separate da un promontorio e lungo un
percorso di crinale (Canterano, Rocca Canterano, Rocca
di Mezzo) o, ancora, centri riferibili a un sistema di bacino, con affaccio su una conca fluviale e con presenza di
una strada di crinale (Affile, Roiate, Bellegra e Rocca S.
Stefano).
In merito alle modalità di occupazione sociale dello
spazio perseguite dalla signoria monastica, possiamo rimarcare la volontà di creazione di centri agglutinanti e,
in misura maggiore, di centri di difesa ubicati in posizione strategica a controllo del dominio territoriale. Infatti,
l’istituzione dei primi castelli abbaziali avvenne intorno
al bacino dell’Aniene sublacense, sulle alture dominanti il
Passo della Fortuna e sul fronte occidentale del confine
territoriale, quindi in luoghi militarmente rilevanti, e non
fu accompagnata da una parallela colonizzazione ecclesiastica con fondazione di chiese o celle monastiche. Che le
motivazioni difensive sottese alla fondazione di numerosi
centri fortificati fossero preminenti risulta evidente dalla
percentuale di roccae (il 41%) rispetto ai castella e tuttavia questa genesi militare non osta il successivo ruolo di
accentramento demico che ebbero taluni di questi nuclei.
Tra la seconda metà del X e la prima metà dell’XI secolo
l’incastellamento risulta essere caratterizzato dalla fondazione di alcuni centri fortificati (fundi et casalia cum monte et castellum faciendum) con manifesta finalità di agglutinamento umano, ben riflessa dai patti di popolamento.
Escludendo Subiaco, i primi castella fondati verso la fine
del X secolo ad hamasandum homines furono Empiglione (nella Valle Empolitana) e Trellano, ubicato nel cuore
della massa Giovenzana e nato fortificando l’omonimo vico (ALLODI-LEVI 1885, n. 13). Significativo è il fatto che
entrambe le fondazioni, pur configurandosi come tentativi falliti di popolamento (Trellano sparì nel corso dell’XI
secolo mentre Empiglione fu distrutto nel XII secolo e divenne un castellare), furono istituite in aree di pianura con
un’organizzazione e una rilevanza politica già del tutto assodate. Gli abitanti dei citati castra furono trasferiti in altri
due centri agglutinanti che ebbero grande rilevanza, ossia
Gerano e Castel S. Angelo, che assorbì ben 4 centri. I castri habitatores di Gerano, antichi possessori di alodias che
ebbero in conduzione a terza generazione dal vescovo di S.
Lorenzo, assistettero alla divisione del possesso del loro castello a seguito di una convenzione tra il vescovo di Tivoli
e il monastero sublacense (ALLODI-LEVI 1885, n. 48). Per
parte loro i consortes di Castel S. Angelo furono beneficati, mediante un patto di popolamento, di terra ad domora
faciendum, come pure della possibilità di uno sfruttamento razionale e pianificato del suolo interno ed esterno: agli
abitanti confluiti dalla regione circostante fu concesso il
diritto di sfruttare i territori per la cultura dei tres fruges,
ossia de granu, ordeo et fave e per l’allevamento dei maiali (ALLODI-LEVI 1885, n. 34). Presso i limiti meridionali
dei confini abbaziali, un altro patto regola il popolamento degli abitanti affluiti a Monte Porcaro, nato nel 1082
da esigenze militari per la conquista della limitrofa Ienne
(BRANCIANI 2005, p. 14). Altri due nuclei ebbero grande
importanza di accentramento demico, Agosta e Marano,
entrambi a valle e a ridosso del fiume a protezione e ge-
IL RUOLO DELLE SIGNORIE MONASTICHE NELL’ARTICOLAZIONE DEL POPOLAMENTO DEL LAZIO MEDIEVALE
stione degli aquimola. Il primo, progettato fin dal 997 (ad
castellum faciendum, ALLODI-LEVI 1885, n. 13), fu realizzato solo nel 1051 (ALLODI-LEVI 1885, n. 21); il secondo,
sorto per controllare la limitrofa zona agricola e il casale
di S. Felicita, fu fondato a metà dell’XI secolo.
Il bacino dell’Aniene (e in misura minore quello del
Fiumicino) era costellato in epoca medievale da mulini per
la macinazione del grano: i toponimi e le fonti storiche ci
ricordano quelli di Subiaco, di Ienne, di Agosta, di Marano, di Sambuci e di Ciciliano. Infatti i corsi d’acqua hanno rappresentato una parte importante della proprietà terriera della signoria monastica, che ne deteneva il possesso
esclusivo (sub ea ratione) assieme al diritto di aquimolum
construere e di sfruttare le piscariae. Altra risorsa economica rilevante era la coltura intensiva di canapa (macinolare
la canapa), la cui coltivazione sembra essere peculiare della
Valle in terreni adiacenti all’acqua.
A partire dalla prima metà dell’XI secolo la Regione fu
interessata dalla fondazione di insediamenti fortificati (per
lo più roccae) con preminente valore difensivo e ubicati in
siti di interesse strategico, a controllo vuoi della viabilità,
vuoi del territorio, vuoi di altri castelli ancora. Per quanto
concerne la prima categoria, numerosi castella si collocano
a puntellare le già citate arterie stradali, sia quelle d’epoca
romana quali la Via Valeria, la Via Sublacense e l’Empolitana, sia quelle propriamente medievali, quali l’asse TivoliSubiaco per il tramite del Passo della Fortuna, la Via dei
Ruffi, il percorso montano parallelo allo spartiacque dei
Ruffi e il valico sui monti Simbruini. Per ciò che riguarda
la seconda, oltre al già menzionato Marano istituito per difendere la zona agricola limitrofa e la Rocca de Ilice ubicata
a protezione del famoso Vico di S. Valerio, ben 7 castelli
(di cui 1 solo progettato) sono sorti per rafforzare il limite
occidentale del confine territoriale dell’abbazia, fortemente conteso dal Vescovo di Tivoli. Infine, per quanto attiene la terza categoria, quella delle strutture nate a controllo
di altri castelli o anche ad expugnationem inimicorum, le
fondazioni sono in tutto 6, di cui 2 ubicate sul percorso
montano parallelo allo spartiacque dei Ruffi e funzionali
al rafforzamento della zona strategica.
Su un totale di 37 centri di neoformazione (15 roccae
e 21 castella) la discontinuità del popolamento è riflessa
dai ben 17 siti abbandonati afferenti a entrambe le tipologie (48,5%), di cui 10 rocche (e dunque furono solo 5 le
rocche che generarono insediamenti stabili). Tra i centri
abbandonati, nel 56% dei casi entro il XIII secolo, risultano preponderanti quelli la cui genesi era legata al controllo
del territorio, mentre solo 2 su 6 sopravvissero tra quelli
a difesa di castelli, e invece vennero del tutto meno quelli
ubicati su un vicus (Trellano) o su territorio già organizzato (Colle Marini). Persistono per contro quelli sorti a
controllo della viabilità o funzionali allo sfruttamento del
suolo (S. Angelo).
L’impianto venutosi così a creare modificando in parte quello tardoantico soggiace all’assetto territoriale moderno. Nel contempo, esso sembra aver rallentato la trasformazione delle strutture di popolamento rurale dal momento che nel XII secolo sussistevano insediamenti aperti
di tradizione altomedievale (massa di S. Valerio e casale
di S. Felicita, BRANCIANI 2005, p. 30) nonché proprietà territoriali ancora costituite da massae, casalia, curtes,
fundi, clusurae, cesine, parietine e villae come attestano i
documenti.
La politica del popolamento fu attuata dalla signoria
monastica dapprima mediante la stipula di locazioni in
feudum dalla durata perpetua e con prestazione di servitia
consuetudinari (donativi in natura o monetari) affiancati
da concessioni in enfiteusi o locazioni anch’esse perpetue.
Con il volgere del XV secolo, parallelamente al fenomeno
di monetarizzazione dei servitia, predominano le concessioni in perpetuum (enfiteusi o locazioni) con prevalenza
di canoni parziali, essenzialmente la quartam partem omnium fructum, fissi in natura (mosto ad torcular) o monetari. Il ruolo rilevante di questi canoni parziali e l’attenzione
per la modalità di conduzione dei fondi nelle clausole contrattuali riflettono sia la volontà di valorizzazione del capitale terriero sia la necessità degli abati di gestione indiretta
delle terre, come si riscontra dalle concessioni ad pastinandum per l’impianto di nuove vigne o per l’ampliamento
delle vecchie a spese di terreni sodi o inculti con canoni
modesti in quanto il locatore non partecipa alle spese di
gestione.
La politica di sfruttamento del suolo ha plasmato il
paesaggio agrario che connota a tutt’oggi la Valle: l’assetto rurale analizzato dal Toubert mostra una suddivisione
razionale dello spazio agricolo in anelli concentrici di terreni a produttività decrescente a partire dal centro abitato.
Al cultum, costituito via via da orti, ferraginalia e canapine, terre a coltura cerealicola –granum spelate et omnes
genus bladi et ligumina fenum– e vigneti, si affianca topograficamente un incultum in realtà dominato da castagneti, da arbores olivarum, querceti e dalla silva inculta et silvata, quindi un bosco addomesticato oggetto di una forte
promozione economica per la valenza produttiva che lo
connotava. Un paesaggio, dunque, che presenta una forte compenetrazione tra coltivato e spontaneo di cui i numerosi fitotoponimi e le attestazioni catastali riflettono la
reale incidenza.
G.M.A.
La Diocesi di Veroli
Il proponimento della ricerca avviata è teso a definire
le casistiche particolari del popolamento e dello sfruttamento agricolo nell’area verolana con l’intento di creare
una banca-dati che raccolga il maggior numero di informazioni desumibili dall’analisi del corpo documentario,
per integrare con esse le dinamiche antropiche individuate
nel corso dello studio del territorio e chiarirne in maniera
il più possibile esauriente le modalità e la realtà materiale attraverso cui si sono andate esplicando nel corso del
Medioevo. L’area in esame si inserisce, pur tra alcuni distinguo di carattere transitorio, sin dalle prime fasi dell’altomedioevo e fino all’epoca moderna nell’orizzonte politico soggetto al dominio temporale del papato romano; immediata conseguenza di tale realtà storica è stata la scelta
di partire dall’analisi delle fonti documentarie medievali
confluite nel corpo dell’Archivio Capitolare della Cattedrale di Veroli (edito in SCACCIA SCARAFONI 1960), raccolta di carte riguardanti vendite, donazioni, convenzioni,
contratti ad meliorandum e sentenze tutti riferibili al territorio di pertinenza della Cattedrale Verolana, e come tale
GEOGRAFIE DEL POPOLAMENTO: CASI DI STUDIO, METODI E TEORIE
Figura 2. Territorio Diocesano di Veroli con ubicazione dei castra, delle torrette e delle Unità Rurali nell’XI secolo.
IL RUOLO DELLE SIGNORIE MONASTICHE NELL’ARTICOLAZIONE DEL POPOLAMENTO DEL LAZIO MEDIEVALE
costituente una diretta espressione dell’autorità vescovile
locale rispondente alle necessità di controllo e gestione del
territorio ad essa soggetto. Il dato documentario è stato
analizzato attraverso l’utilizzo di una scheda elaborata per
registrare le informazioni desumibili dalla lettura del testo
scritto (Scheda di Unità Rurale). Il primo campo della scheda riguarda appunto l’identificazione del documento, a partire dall’indicazione dell’Archivio di cui lo stesso fa parte e
a seguire con il relativo numero di riferimento e la data di
scrittura. La seconda partizione della scheda è dedicata alla
numerazione dell’Unità Rurale individuata e alla sua definizione così come è enunciata all’interno del documento. Seguono l’indicazione delle dimensioni dell’Unità identificata e dei confini eventualmente menzionati, la localizzazione
geografica ricostruibile in relazione alla cartografia storica
(ad es. il Catasto Gregoriano) e quindi alla tavoletta IGM
di riferimento (corredata dall’indicazione delle coordinate
geografiche di latitudine e longitudine), ed infine la distanza/rapporto con il più vicino insediamento. Si passa quindi
ad una terza partizione in cui inserire le informazioni relative al tipo di coltura associato alla Unità Rurale in esame,
alla vegetazione spontanea o al pascolo eventualmente presenti e alla definizione del loro reciproco rapporto; un’ulteriore partizione è dedicata alla segnalazione di corsi d’acqua e di attività produttive ad essi correlate, alla presenza
di impianti produttivi o di trasformazione e di strutture edilizie abitative e non. La scheda prevede poi una partizione
per l’inserimento delle persone fisiche o degli enti menzionati nel documento, di cui si annotano il nome o la denominazione e la posizione o il ruolo sociale. Un campo è stato
predisposto per l’indicazione della forma contrattuale che
costituisce la ragion d’essere stessa del documento (vendita, concessione, donazione, ecc.); quindi è stata elaborata
una partizione su cui registrare le informazioni desumibili relative alla gestione del territorio, laddove essa risulti
menzionata: innanzitutto l’indicazione della diocesi di riferimento, quindi l’attestazione di eventuali strutture di
controllo e gestione territoriale (torri, castra o castella), il
richiamo a istituzioni o autorità amministrative e la relativa modalità di esercizio nel rapporto con il potere centrale
(eventuali infeudamenti o vassallaggi). La scheda prosegue
con campi nei quali elencare strutture ecclesiastiche (chiese,
pievi, monasteri, abbazie) o strutture pubbliche (viabilità o
altro) menzionate nel testo. Infine l’ultima partizione della scheda è dedicata alle attestazioni riferibili a preesistenze
sul territorio e alla loro eventuale identificazione.
I dati provenienti dall’analisi documentaria, registrati
nella scheda descritta, permettono di delineare l’identità e
il ruolo sociale dei protagonisti delle dinamiche di sfruttamento del territorio (proprietari, venditori, acquirenti,
donatori, beneficiari), consentendone così un inserimento
preciso all’interno delle dinamiche di controllo e gestione
territoriale; allo stesso tempo la raccolta delle informazioni relative al tipo di coltura, integrate con la definizione
del rapporto coltivo/incolto, con l’eventuale localizzazione dell’unità individuata e conseguentemente con la valutazione del rapporto/distanza con gli insediamenti vicini,
permette di considerare in una dimensione diacronica lo
sviluppo e la realtà materiale del popolamento in età medievale in questo distretto territoriale. A tal proposito di
fondamentale importanza è distinguere e definire le tipo-
logie abitative individuate nel corso dello studio e la loro evoluzione nel contesto insediativo di riferimento (insediamento sparso, centro abitato, nucleo castrense), e in
che misura la scelta insediativa sia legata a fattori ambientali, quali la presenza di acque di superficie più o meno
regolarizzate dall’intervento umano, o strutturali, quali
la possibilità di disporre di una viabilità o di altri servizi spesso preesistenti all’età medievale. Infine la possibilità
di creare una banca-dati relativa ai diversi tipi di contratti
e transazioni rende disponibili informazioni attraverso le
quali chiarire le dinamiche politico-sociali ed economiche
dell’area nei secoli del Medioevo e renderne quindi possibile il dialogo con le realtà materiali di esplicazione del
controllo gestionale e amministrativo (castra, castella, torri) individuate nello studio topografico e archeologico del
territorio.
Un dialogo che acquista particolare rilevanza in un’area come quella della Media Valle Latina, caratterizzata
da una spiccato conservatorismo della maglia insediativa
nel passaggio dal tardoantico al medioevo cui corrisponde
una buona tenuta del controllo gestionale vescovile in ogni
centro erede dei romani municipia. Uno dei punti nodali
di questa dinamica, essenziale per gli sviluppi insediativi
di cui sembra costituire l’origine, è individuabile nella rete
di torrette di avvistamento e controllo gestite dall’autorità
vescovile e dislocate in reciproco traguardo ottico almeno
dagli inizi dell’XI secolo (STASOLLA 2006, pp. 513–531).
Allo stato attuale dello studio sembra possibile collegare
queste torrette alla genesi di alcuni centri castrali di cui si
hanno le prime menzioni in documenti dei primi decenni dell’XI secolo (ad es. Monte San Giovanni Campano),
nello stesso arco temporale in cui altri castelli (come Canneto, Viario, Roiano) cominciano a vedere ridotta la loro
sfera di influenza e la loro stessa autonomia a scapito di
altri a essi vicini, per fattori di carattere strategico ma di
certo anche economici, legati alla capacità di disporre di
un territorio più o meno proficuo dal punto di vista dello
sfruttamento agricolo. In questa dinamica il potere vescovile gioca un ruolo di primo piano, anche incentivando la
disponibilità di terreni sottratti all’incolto o al boschivo
attraverso convenzioni con privati e con l’autorità laica.
Questo è ciò che traspare, ad esempio, dalla lettura del documento n. 176 dell’Archivio, del 9 giugno 959. Con esso
il vescovo Giovanni concede con il compenso annuo di tre
denari il vasto fondo di Manilano, con l’omonimo lago, le
peschiere e le selve, a Roffredo consul et dux Campaniae, facente parte della potente famiglia dei Verolani, detentrice
in quegli anni della carica papale di comes Campaniae. La
durata di tale concessione è stabilita fino alla terza generazione, al termine della quale il fondo sarebbe dovuto tornare all’episcopio migliorato ed ampliato nel coltivo. La
possibilità di confrontare le indicazioni geografiche contenute nel documento con la cartografia storica, nello specifico rappresentata dal Catasto Gregoriano, ha permesso di
localizzare il fondo in un’area a NE di Frosinone, presso
il fiume Cosa e il Fosso del Bagno, dove sussiste significativamente il toponimo Maniano (leggibile nella tavoletta
IGM 159 I NE, long. 13◦ 22’ 08” - lat. 41◦ 39’ 20”). Il
fondo in questione è definito nel testo del documento come appartenente al territorio verolano, intendendo con ciò
l’inclusione dell’area non solo nei confini della diocesi, ma
Geografie del Popolamento: casi di studio, metodi e teorie
anche in quelli della giurisdizione cittadina dalla quale erano esclusi invece i castelli di Castro, Arnara, Ceprano e
Frosinone. Ciò è quanto risulta desumibile dalla lettura di
altri documenti coevi: relativamente a un orto in Arnara,
ad esempio, si legge nel documento n. 1011, sempre della
fine del sec. X, che era posito foras civitate berulane. Il lago
di Maniano compare successivamente nelle bolle di conferma dei beni della diocesi emanate dai papi Urbano II,
Pasquale II, Callisto II, Onorio II, Celestino II e Anastasio
IV tra il 1097 e il 1154, sempre nominato insieme alle sue
pertinenze e al tenimento adiacente (documenti nn. 80,
82, 94, 112, 116, 134 e 149). La relativa distanza dagli altri
centri abitati, la vastità del fondo identificato, la presenza di terre, di selve da rendere coltivabili e delle peschiere
ricordate già nel primo dei documenti citati, così come la
totalità delle pertinenze del tenimento che si dicono nel testo già definite indeterminatamente in antico, presuppongono certamente l’esistenza di una numerosa manodopera impiegata nei lavori agricoli e nell’attività di pesca, e
in generale una presenza demica ivi stabilmente residente.
Il fondo di Maniano, quindi, si configura come un vero
e proprio centro agglutinante di popolamento, probabilmente costituito anche prima della fine del X secolo ed
esistente almeno fino alla metà del XII, facente parte dei
beni appartenenti all’autorità vescovile verolana.
S.D.F.
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