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Urlano e cantano - ZONAcontemporanea.it

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Urlano e cantano - ZONAcontemporanea.it
© 2011 Editrice ZONA
È VIETATA
ogni riproduzione e condivisione
totale o parziale di questo file
senza formale autorizzazione dell’editore
Urlano e cantano
di Vito Lamola
ISBN 978–88–6438–202–9
Collana ZONA Contemporanea
© 2011 Editrice ZONA, via dei Boschi 244/4 loc. Pieve al Toppo
52040 Civitella in Val di Chiana – Arezzo
tel/fax 0575.411049
www.editricezona.it – [email protected]
ufficio stampa: Silvia Tessitore – [email protected]
progetto grafico: Serafina – [email protected]
Immagine di copertina: foto di Stefano Ferrari
Stampa: Digital Team – Fano (PU)
Finito di stampare nel mese di aprile 2011
Vito Lamola
URLANO E CANTANO
ZONA Contemporanea
A quanti,
Angeli e Arcangeli,
nemmanco in questo libro
saranno ricordati.
§
– I morti che ci avete!
Vituccio compare con due birre grandi dalla sala antistante a quella
dove sono seduti i quattro, e adagiate le bottiglie sul tavolino dalla sommità madreperlacea, impreziosita dalle incisioni dei mozziconi spenti ad arte,
le apre, proferendo una bestemmia qualsiasi, come si conviene ad un garzone di rango.
– È tardi, devo andare.
– Fatti un altro bicchiere e andiamo.
Tonino replica a Cataldo che ha visibilmente raggiunto il livello. Il singhiozzare del ragazzo, che pure una birra annacquata in quelle dosi può
provocare, conferma agli altri tre che lo scopo è raggiunto: il diciannovenne
si è ubriacato, ma senza vomitare. Battesimo avvenuto.
Il Vellod'Oro – Circolo Culturale, recita l’insegna, senza lo spazio come
gliel’avevano montata. Non se n’erano accorti il primo giorno e mai più
l’avevano notata. Mancano pochi mesi al decennale del locale che insieme
a pochi altri ospita i maschi del paese iniziati a quell’arte.
L’agricoltura, il siderurgico e l’edilizia per campare; birra, partite e donne
a sollazzare. Le signore, ancor prima della muliebre sottomissione, alla
Madonna portano devozione: ogni gioia e ogni dolore, ringraziamenti e
accettazione.
Rocchino ed Enzo dopo la partita passano dal bar. Non che abbiano le
gole secche, ma l’aperitivo della domenica mattina è roba da cittadini.
Cataldo rutta assai e barcolla, e avendo deciso di svaporare, va a sedersi
su una panchina della villa comunale. Tonino, dimenticate le bambine in
piazza a giocherellare, sulla via del ritorno: lupini, nocelle e paste, compra
ciò che si deve comprare.
Vituccio chiude il ritrovo, tossisce forte ed esce in strada, venti metri di
aria e bitume impregnati di fumo ed espettorati verdognoli, che l’uomo
maledice, scatarrando a sua volta.
– Come si va, Vituccio bello?
– Come al cazzo, Cenzina.
– Non ti danno niente?
– Quando si ricordano.
– E perché gli fai il custode?
– Gli faccio pure le pulizie.
– Si vede.
– Mi prendi per il culo?
– La puzza delle sigarette si sente anche dentro a casa, specialmente la
sera tardi.
– E io che devo dire che c’ho i polmoni neri e non fumo?
– Perché non te ne vai da sto paese?
– E mia madre?
– Non hai nessun altro?
– Mio padre e mia sorella sono morti, lo sai.
– E come campate?
– Mamma prende la pensione d’invalidità.
– Povero Cristo che sei.
– Non ne voglio compassione.
– Vieni dentro che ti do un pezzo di focaccia.
L’odore del ragù di agnellone, misto al Vim Liquido che la figlia di
Cenzina ha passato sul pavimento, stanno stordendo Vituccio, che dopo
un’occhiata veloce e risentita alla ragazza, va via senza neppure essersi
seduto. Quelle comunque non hanno insistito.
Non è difficile resistere alla tentazione di mangiarsela, la focaccia del
giorno prima, per la nausea che il tossire senza posa gli ha provocato.
Sulla soglia di casa, portavetrina con stipiti in legno che si apre direttamente in strada, ai bordi un marciapiede di dieci centimetri da cui spontanei
emergono cespugli intricati, si sente apostrofare: – Vituccio lo scemo,
Vituccio lo scemo. Un gruppo di fanciulli vestiti a festa, dalla via ortogonale, ripete la frase più volte e fa versi bestiali, il che provoca nell’uomo una
crisi, come quelle che lo prendono da quand’era bambino.
Riesce ad aprire e a farsi cadere sul tavolato freddo. Sua madre, costretta all’immobilità su una sedia a rotelle, grida e fa accorrere i vicini.
Questi sanno che non c’è bisogno del medico, che dopo qualche minuto
gli passa: sono lì anzitutto per guardare, e per confortare. Passa di lì un
cane che azzanna la focaccia rimasta sullo scalino d’ingresso e se la porta
fino all’altro isolato, dove la divora in pace.
Quando si riprende, Vituccio non ricorda nulla, e appena trova la forza
per piangere, un vicino gli porge un bicchiere di primitivo, quello forte, che
tinge il vetro e colora la lingua. A digiuno, nauseato, ripresosi da una crisi
epilettica, anche se nessun medico del paese gliel’ha mai diagnosticata
l’epilessia, il vino lo fa rigettare. Per fortuna raggiunge la tazza del gabinetto in tempo. Pulisce gli schizzi delle sue emissioni gastriche e mette l’acqua
sul fuoco che gli è venuta fame. La famiglia degli accorsi toglie il disturbo e
augura buon appetito.
– Se li prendo li ammazzo.
– Vuoi andartene anche in galera adesso?
– Che ti credi che non sarebbe meglio.
– Hai visto chi sono stati?
– No, ma lo so.
– E’ meglio se ti calmi e mangiamo.
Vituccio cala i maccheroni, apparecchia, spinge la sedia di Graziella
sotto il tavolo traballante. Il televisore è rimasto acceso. La voce della
conduttrice, con i seni mezzi di fuori, placa l’ira dell’uomo che, a quella
vista, trova pure il modo d’eccitarsi.
Cataldo si fa gli occhi con le signore che, scollate e scosciate sebbene
in ottobre inoltrato, si salutano nel corso intanto che i mariti si danno appuntamento per le partite di campionato nei bar, Juve Club, Milan Club,
Inter Club, o a casa di quanti la pay–tv se la possono guardare sul divano.
Decide di tornare a casa dopo aver chiesto un passaggio a qualcuno,
visto che di camminare non gli va e abita pure lontano. Ci mette poco a
trovarlo con tutte quelle macchine di giovinastri che scorrazzano per il
centro del paese, a posare per le signorine in coppia, in terzetti o in quartetti:
sorridenti, sottobraccio, e speranzose, chi dell’avventura fugace, chi della
sistemazione finale.
– Sali che ti porto io.
– Grazie Gino.
– Però devi aspettare due minuti.
– Va bene, ti aspetto in macchina.
– Nemmeno io devo uscire.
Si avvicina un tipo che Cataldo non conosce, forse di fuori paese. Gino
gli dà la mano,che evidentemente stringe qualcosa; quello allora mette in
tasca la sua mollando ciò che ha preso e la ripropone al primo, brandendo
qualcos’altro. Un breve saluto e l’autista parte senza voler dare nell’occhio, cosicché non sgomma.
– Sei prudente quando fai le storie.
– E che sono fesso?
– E bravo il figlio del maresciallo.
– Ti lascio qua se lo ripeti.
Ridendo forte Gino imbocca a tutta velocità una strada contromano,
poi un’altra più importante, sempre contromano, dunque frena nel mezzo
di un incrocio. Di ingiurie non gliene arrivano tante: lo si riconosce dall’auto fiammante, nuova di tre settimane, che i genitori, gente perbene, gli
hanno regalato per i diciotto anni.
– Bastardo, mi vuoi far crepare?
– Così ti passa la voglia di scherzare.
La Bravo riprende la marcia, questa volta senza impazzare. In tre minuti sono a casa di Cataldo che, sceso dall’auto, ringrazia e amichevolmente bestemmia. Gino gli regala una bustina di erba, quella buona, che ti
sagoma la faccia peggio di un rimbambito, che non riesci più a smettere di
ridere e sragionare.
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