DOSSIER 2014 insieme procediamo nel nome del signore 31
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DOSSIER 2014 insieme procediamo nel nome del signore 31
CONGREGAZIONE DELLE SUORE COLLEGINE DELLA S. FAMIGLIA 31 INSIEME PROCEDIAMO NEL NOME DEL SIGNORE ISPIRAZIONI ORIENTAMENTI STRUMENTI DI LAVORO PER L’ANNO DEL SIGNORE 2013~201 2013~2014 ~2014 Casa generalizia Suore Collegine della S. Famiglia Via G. Evangelista Di Blasi, 165 90135 Palermo PA Tel. 091/409094 – Fax 091/6763678 E-mail: [email protected] 4 PRESENTAZIONE «È tempo di avere speranza…!». Sì, è tempo di avere speranza, ma anche tanta fede e tanto amore! Ed è tempo di ritorni: occorre ritornare alle sorgenti della vita cristiana, ritornare a quel Dio che ci ha tanto amato fino a dare per noi la vita del suo Figlio Gesù, ritornare alle motivazioni della nostra vocazione, a ciò per cui ci siamo decise per Lui e per il suo Regno… Gli eventi, vissuti insieme nei mesi scorsi, ci hanno trascinato in maniera quasi spontanea, a considerare quanto sia importante per noi vivere con semplicità, ma senza sconti, la nostra vita di fede, ricordando a noi stesse che il Vangelo di Gesù non è un “di più” in aggiun ta a ciò che facciamo, ma la ragione primigenia per la qua le abbiamo risposto al Signore dopo che Lui per primo ci ha afferrato con il suo sguardo di amore. Le pagine che seguono, i suggerimenti e le indicazioni offerte in questo strumento per il nuovo anno pastorale 2013/2014, vorrebbero aiutarci ad entrare in questo orizzonte: quello di una fede che riesce a dare senso ad ogni nostra azione fino alla consegna totale di noi stesse nelle mani di Colui che non ci ha amato da lontano, ma che per noi si è fatto carne, sofferenza, croce, condivisione. Un ultimo pensiero. È di qualche giorno addietro la dichiarazione con cui papa Francesco, in un’intervista re5 sa al direttore di “Civiltà Cattolica”, parlava della Chiesa come di un “ospedale da campo dopo la battaglia”: il suo primo dovere è cioè quello di stare accanto agli uomini di questo tempo, dentro le trincee in cui si consuma spesso il dramma di una vita che arranca e fatica, dentro le maglie di una quotidianità complessa ed infelice… Lo assumiamo come monito ed invito rivolto particolarmente a noi, a tutte le comunità collegine, affinché sappiamo recuperare dalla nostra tradizione lo spirito e la gioia di questo partecipare alle vicende della gente, del mondo in cui ci troviamo pienamente immerse, con la for za di donne che credono e con la delicatezza di sorelle che amano. Il servo di Dio, il cardinale Pietro Marcellino Corradini, accompagni questo nostro cammino perché alla sua scuola scopriamo il gusto di una amicizia e di una fraternità squisitamente umane che hanno in Dio, nel cuore del suo mistero, il loro fondamento e che si comunicano a tutti gli uomini senza dimenticare nessuno. Ad ogni Suora Collegina, ad ogni “amico"Buon anno e buon lavoro insieme a Gesù, Giuseppe e Maria! LA REDAZIONE 6 7 QUADRO DEGLI OBIETTIVI A LUNGA SCADENZA OBIETTIVO GLOBALE ULTIMO La Congregazione, mediante la presenza, la parola e l’azione, rende testimonianza della comunione di vita a immagine della S. Famiglia e, a partire dalla lettura dei segni dei tempi, promuove itinerari comunitari di educazio ne alla fede. OBIETTIVI SPECIFICI 1. Apostolato della comunità La Congregazione ha una presenza apostolica significativa del proprio carisma, mediante tutti i mezzi che l’amore pedagogico di Dio ispira, nell’ambito della Chiesa e della società in cui opera. 2. Vita interna della comunità Ogni comunità della Congregazione è una comunità di relazioni teologali di fede, speranza e carità, di apostolato e di sororità, caratterizzata dal dialogo, dal discernimento, dalla programmazione e revisione per rendere testimonianza dell’unità salvifica, della spiritualità comunitaria e della forza pedagogica dell’amore. 8 3. Servizio alla formazione Il servizio alla formazione iniziale e permanente, tramite lo studio e l’esperienza, aiuta le persone nelle loro diverse fasi esistenziali ad integrare e riesprimere, secondo le circostanze dei tempi, gli elementi essenziali della vita collegina. E questo affinché le sorelle raggiungano l’unità di vita. 4. Strutture di governo L’autorità della Congregazione, ai suoi diversi livelli, generali e locali, si esercita come un servizio alla ricerca della volontà di Dio e alla generosa e coerente subordinazione di tutto e di tutte alla sua attuazione, mediante la partecipazione e la corresponsabilità organica e differenziata, per realizzare con efficacia la vocazione e missione della Congregazione nella Chiesa e nella società. 5. Servizio alla spiritualità comunitaria e al rinnovamento permanente L’équipe apposita, accolta strutturalmente come situazione normale nella vita della Congregazione, coglie le sfide che la società e la Chiesa pongono in ordine all’educazione alla fede e alla maturazione comunitaria ed elabora proposte ed ipotesi di intervento da presentare al Consiglio generale e nei momenti istituzionali; elabora il Piano ed altre proposte di rinnovamento da offrire all’Autorità; promuove la spiritualità e l’ascesi corrispondente, come senso, espressione e fine del Piano stesso. E questo perché tut ta la Congregazione risponda sempre meglio alla sua vocazione alla santità comunitaria. 6. Amministrazione dei beni materiali I beni materiali della Congregazione sono amministrati ed utilizzati corresponsabilmente e come segno di un’unica comunità dallo stile familiare e in favore della solidarietà all’interno e all’esterno 9 della Congregazione per offrire un’efficace testimonianza di povertà e di giustizia. 7. Servizi tecnici La Congregazione ai suoi diversi livelli ha servizi tecnici di informazione, comunicazione e segreteria che favoriscono ed assicurano i rapporti di tutte le Suore e in tutte le direzioni al servizio della comunione e della missione. 10 QUADRO DEGLI OBIETTIVI A BREVE SCADENZA OBIETTIVO GENERALE La Congregazione riscopre e riesprime la sua vocazione e missione in un progetto o modello ideale di comunità apostolica, attualizzando l’intenzione educatrice e comunitario-familiare del Fondatore, il card. Pietro Marcel lino Corradini. OBIETTIVI SPECIFICI 1. Apostolato della comunità 1.1.Servizi 1.2.Opere La Congregazione definisce le priorità dei servizi e delle opere in un relativo progetto o modello ideale, coinvolgendo i laici interessati. 1.3. Animazione vocazionale La Congregazione formula un Piano di animazione vocazionale in coerenza con il progetto o modello ideale. 2. Vita interna della comunità La Congregazione definisce un modello ideale di vita interna della comunità con il modello dei servizi e delle opere apostoliche. 11 3. Servizio alla formazione La Congregazione formula il Piano di formazione iniziale ed elabora un Piano di formazione permanente, in coerenza con il modello di apostolato e di vita interna. 4. Strutture di governo La Congregazione definisce le modalità concrete di esercizio del governo in coerenza con il modello di vita e di apostolato. 5. Servizio alla spiritualità comunitaria e al rinnovamento permanente C’è un’équipe funzionale a tempo pieno; la Congregazione riformula il Piano di rinnovamento in coerenza e in attuazione del modello o progetto ideale. 6. Amministrazione dei beni La Congregazione definisce il modo ideale di vivere la povertà e di testimoniare l’opzione per i poveri. 7. Servizi tecnici La Congregazione definisce le modalità di informazione e di comunicazione coerenti con il modello di vita e di apostolato. 12 PROGRAMMA 1° Apostolato della comunità Obiettivo: La Congregazione ha una presenza apostolica significativa del proprio carisma, mediante tutti i mezzi che l’amore pedagogico di Dio ispira, nell’ambito della Chiesa e della società in cui opera. Perché: Il mondo odierno ha bisogno di testimoni. Stanco di sentire chiacchiere inutili, di seguire ideologie, segue coloro che incarnano nella storia, con fatti concreti e gesti significativi, la Buona Novella che annunciano con la parola. La Chiesa stessa non ha tanto bisogno di cultori di scienze religiose o di teologi progressisti, quanto di cristiani veri che con umiltà, ma con efficacia, vivano il Vangelo e lo annuncino con la vita. Se la Chiesa ha superato i periodi di dura prova da cui è uscita fortificata, è stato grazie al popolo che ha vissuto in modo semplice un’intensa vita di fede e a coloro che si sono impegnati pastoralmente, secondo le esigenze evangeliche della storia. Perciò essa cerca modelli che ispirino la sua azione evangelizzatrice. Anche noi dobbiamo privilegiare la testimonianza dell’amore redentivo di Cristo e trovare itinerari pedagogici per trasmetterlo all’uomo di oggi. Solo così il nostro stile di vita diventerà evangelizzatore e le 13 nostre proposte educative saranno credibili. In tal modo il carisma recupererà freschezza e vitalità. 1. Ambiti dell’apostolato educativo 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. Pastorale scolastica Pastorale familiare Pastorale vocazionale Pastorale dei minori Pastorale missionaria 1.1. PASTORALE SCOLASTICA «CREDO PER ANDARE OLTRE!» Meta: Entro giugno 2014 tutti gli ordini di scuola della nostra Congregazione si lasciano condurre dalla consapevolezza che la persona è chiamata a stringere con l’altro un rapporto ispirato al paradigma dell’amicizia che si libera delle etichette e dei pregiudizi, e tracciano degli itinerari formativi capaci di promuovere il sorgere di competenze relazionali e cognitive ispirate ai valori dell’accoglienza, della convivenza collaborativa e ricca di rispetto e della valorizzazione dell’altro, visto come compagno e partner nel viaggio della conoscenza di sé e della realtà, al fine di aiutare le persone in crescita a vivere l’incontro con gli altri nel fecondo e costruttivo orizzonte dell’amore cristiano. Perché: * Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Basta considerare alcuni dei sintomi che sempre più rendono ragione di questa perdita di significato: disorientamento, ripiegamento su se stessi e narci14 sismo, desiderio insaziabile di possesso e di consumo, ansia e paura. «Il mito dell’uomo “che si fa da sé” finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. Siamo così condotti alle radici dell’“emergenza educativa”, il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e con il “noi”. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto di diventare se stessa solo dall’altro: l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “noi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’“io” a se stesso» (Cfr. CEI, Educare alla vita buona del vangelo, 9). * L’educazione si presenta ogni volta con aspetti di novità. Non può risolversi in semplici ripetizioni, ma deve anzitutto prestare la giusta attenzione alla qualità e alle dinamiche della vita sociale. Oggi è necessario curare in particolare relazioni aperte all’ascolto, al riconoscimento, alla stabilità dei legami e alla gratuità. Ciò significa: a) cogliere il desiderio di relazioni profonde che abita il cuore di ogni uomo, orientandole alla ricerca della verità e alla testi monianza della carità; b) porre al centro della proposta edu cativa il dono come compimento della maturazione della persona; c) far emergere la forza educativa della fede verso la pienezza della relazione con Cristo nella comunione ecclesiale (Cfr. Ibidem, 53). * Il Progetto Educativo collegino sottolinea la benedizione che deriva dalla presenza dell’altro, nel cui volto è chiara15 mente riflessa l’immagine del Dio uno e trino, quale comunione d’amore. Pertanto, ciascuna persona compie il cammino della sua esistenza, valorizzando gli apporti costruttivi derivanti dalla presenza dell’altro e si avvale di strumenti investigativi di cui dispone per esplorare la realtà, per conoscerla o rielaborarla insieme agli altri e per concorrere all’arricchimento del bagaglio conoscitivo dell’umanità. Come: 1.1.1. a) Articolazione dell’itinerario comune: Elaborazione del tema progettuale dal titolo: «Il cammino dell’amicizia… Oltre il pregiudizio!» Il tema in questione viene formulato a partire da diverse prospettive: IL TEMA VISTO NEL PROGETTO EDUCATIVO COLLEGINO Utilizziamo come pilastri biblici di riferimento il brano tratto dal libro del Siracide e quello tratto dalla lettera ai Galati al fine di cogliere delle significative traiettorie per l’intervento educativo che il tema progettuale consente di attuare. Afferma il Siracide: «Una parola gentile moltiplica gli amici, un dialogo cortese fa stringere buone relazioni. Quelli che ti salutano possono anche essere molti, ma tu accetta consigli solo da una persona su mille. Se vuoi un amico, sceglilo al momento della prova e non dargli fiducia troppo presto. Uno infatti può esserti amico quando gli fa comodo, ma non lo sarà quando le cose ti vanno male. Un amico potrebbe trasformarsi in nemico: svela i vostri contrasti e a te rimane solo la vergogna. Un amico che siede spesso a tavola con te non rimarrà tale quando ti vanno male gli affari; finché hai fortuna sarà un altro te stesso e arriverà a comandare ai tuoi dipendenti, ma se ti capita la sfortuna si metterà contro di te, e non si farà più vedere. Stai lontano dai nemici, ma guardati anche dai tuoi amici. Un amico fedele è come un rifugio sicuro, e chi lo trova ha trovato un tesoro. Un amico fedele è come possedere una perla rara: non ha prezzo, ha un valore inestimabile; chi lo possiede affronta sicuro la vita, ma potrà trovarlo solo chi ama il Signore. Chi teme il Signore orienta bene la sua amicizia, 16 perché tratta il suo amico come se stesso» (Sir 6,6-17). La sapienza contenuta in questo brano può educare la persona a puntare sull’amicizia come ad un valore a cui ispirare le proprie relazioni e al contempo mostra questo tipo di relazione come il modo d’essere uomini più riuscito. Più che ambire al possesso di un amico, occorre aspirare ad essere amici; il piano su cui insistere in campo educativo non è quello del possesso (avere), ma quello dell’essere. Il che fa nascere parecchie riflessioni; in primo luogo emerge che è possibile fare dell’amicizia il paradigma su cui modellare ogni relazione che aspira a nutrire rispetto per l’altro con l’utilizzo di una parola mai aggressiva, ma gentile, con un dialogo che si nutre dell’ascolto della realtà altrui e che tende a collocarsi dal punto di vista dell’altro. Se la persona è amicale, fa sentire l’altro a proprio agio e lo tratta come “pari” a sé nella dignità, senza con ciò dimenticare l’asimmetricità dettata dalla diversità dei ruoli, necessaria sul piano educativo. Ciò aiuterà ad andare oltre le differenze culturali o sociali e spingerà a scorgere nella diversità quel “quid” prezioso di fronte al quale rimanere stupiti e da cui sentirsi arricchiti. Se mi rendo amico dell’altro, divento prossimo alla sua esistenza e mai vorrò mostrarmi amico solo per opportunismo o per convenienza. É la logica dell’amicizia cristiana che spinge ad amare l’altro per la preziosità del suo essere persona e non per ciò che egli possiede. Il brano della lettera ai Galati invita ad acquisire un modo di vedere l’altro nuovo: le differenze o le etichette o i pregiudizi sull’altro crollano alla luce della comune appartenenza a Cristo: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco: non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,27-28). IL TEMA ALLA LUCE DELLA STORIA PILOTA L’amicizia è un cammino da percorrere; ha delle fasi da rispettare; dei momenti critici da vivere dai quali, se ben gestiti, si approda a mete sempre più costruttive. Una favola «Esiste l’orso cattivo da temere», tramandata di generazione in generazione, diventa un pregiudizio da superare, un’etichetta da scrollarsi, fino al punto che diventerà possibile il darsi di un’esperienza originale ed unica d’amicizia tra una topina coraggiosa che possiede delle prospettive della vita larghe ed un orso anticonformista, entrambi accomunati dal desiderio di condurre un’esistenza aderente ai propri sogni e alle proprie originali attese. Il sostegno reciproco («Se ti libero, puoi farmi un piccolo, grande favore?») fa nascere un legame che rende capaci di andare oltre la legge naturale della 17 cosiddetta “catena alimentare” e dà adito ad una convivenza nella quale l’uno si prende cura dell’altro al punto da esprimere un profondo sentimento di stima: «Ti voglio bene per ciò che sei e per come sei e per questo voglio stare con te». La convivenza manifesta non pochi problemi da superare, quali la condivisione dello spazio da abitare oppure l’abitudine a cavarsela da soli; ma quando queste difficoltà vengono affrontate senza esercitare nessuna violenza sull’altro, le barricate di difesa crollano una dopo l’altra e la gioia ha la meglio sulla paura. Se è vero che l’amicizia nasce sulla base di alcune affinità o tende a rendere simili, la storia d’amicizia che si dispiega sotto i nostri occhi ambisce a superare il piano della “somiglianza” e delle singole affinità per approdare ad un legame originale e profondo basato su altro. È una vicenda che si addice ai nostri tempi; è una sfida rivolta ad un tempo colorato di diversità. IL TEMA DELL’AMICIZIA SECONDO GLI STUDIOSI Se l’amicizia nasce a partire dalle interazioni fra i partners, essa ambisce ad andare oltre il piano comportamentale; implica la conoscenza reciproca dei partners, la memoria del passato, le aspettative circa il futuro; e, pertanto, questa dimensione cognitiva si colora di valutazioni e di sentimenti. Questa premessa ci spinge alla piena comprensione dell’amicizia tra bambini, che, come avviene in qualsiasi rapporto umano, «può scaturire solo dall’integrazione di dati sul comportamento e sulla conoscenza sociale» (Bombi, Pinto 1993). Esiste poi, secondo Hinde, un’influenza reciproca tra il comportamento dell’individuo e la relazione alla quale partecipa; il soggetto determina la relazione ma anche la relazione contribuisce ad influenzare il comportamento del soggetto; le relazioni sono a loro volta influenzate dalle norme speciali e dagli ideali dei partecipanti ad esse. I. L’amicizia tra bambini È facile concordare sull’assunto secondo il quale «la qualità delle relazioni tra coetanei assume un’importanza centrale per lo sviluppo sociale e personale del bambino». È sotto gli occhi di tutti che quando i bambini non sono accettati dai loro compagni o quando e non riescono a stringere legami d’amicizia, essi esperiscono relazioni stressanti che diventano fonti di angoscia e di frustrazione per i soggetti stessi. La relazione con i coetanei rappresenta cioè un buon indicatore delle capacità di adattamento individuale del soggetto. 18 Parker e Gottman (1989) propongono un modello evolutivo di sviluppo dell’amicizia che si compone di tre fasi: a) la prima fase che va dai 3 ai 7 anni; la relazione è caratterizzata solamente dalla ricerca del divertimento e di attività ludiche da svolgere in coppia; b) nella seconda fase, compresa tra gli 8 e i 12, anni emerge nel bambino il bisogno di essere accettato dal gruppo; c) la terza fase che va dai 13 ai 18 anni si distingue per la preoccupazione di ridefinire il sé e per il bisogno di introspezione che danno luogo ad interazioni caratterizzate da autorivelazione ed intimità. Ricerche più recenti riprendono l’impostazione stadiale dello sviluppo dell’amicizia che si potrebbe riassumere in tre stadi fondamentali: 1. Stadio egocentrico o situazionale (fino ai 7-8 anni) nel quale il bambino riesce a percepire solo le dimensioni esterne della relazione di amicizia; particolare importanza è data in questo stadio alla “vicinanza fisica” ed al “fare delle cose insieme”. 2. Stadio sociocentrico o normativo (7-8 anni fino agli 11 anni) nel quale il bambino pone maggiore attenzione alle norme che regolano la relazione di amicizia e vengono considerate anche le dimensioni interne della relazione stessa. 3. L’ultimo stadio è caratterizzato da dimensioni ancora più profonde della relazione quali l’intimità, la fiducia e l’autodisvelamento. Questo stadio secondo l'autore si presenta nel periodo adolescenziale. II. La percezione dell’amicizia da parte dei bambini Numerose ricerche si sono occupate di come il bambino percepisce la relazione di amicizia. Per i bambini più piccoli essere amici significa soprattutto giocare insieme, fare delle cose insieme e divertirsi; dai 9 anni in poi la relazione si carica anche di elementi interiori come ad esempio la lealtà, l’ammirazione, l’aiuto reciproco. Un’indagine su quan to ci si aspetterebbe da un amico ha messo in risalto tre dimensioni comuni a tutte le età: a. la simpatia reciproca; b. il condividere qualcosa e la concezione che l’amico è colui che dà qualcosa; c. il rafforzamento della propria personalità. Le differenze in base all’età riguardavano il fatto che i bambini più grandi si aspettavano dagli amici un rapporto più leale, più genuino, più 19 intimo e di accettazione. Gli autori definiscono tre stadi nella concettualizzazione dell’amicizia da parte dei bambini: 1. nel primo stadio l’amicizia è un rapporto che coinvolge le attività comuni e la vicinanza; 2. nel secondo stadio compare l’ammirazione del carattere e della personalità dei partner; 3. nel terzo stadio sono considerate altre dimensioni della relazione quali la lealtà, l’intimità, la genuinità, l’accettazione e gli interessi comuni. IL TEMA NELLE INDICAZIONI NAZIONALI PER IL CURRICOLO DEL 2012 Nelle Indicazioni Nazionali per il Curricolo si sottolinea a chiare note l’importanza dello sviluppo delle abilità sociali. Nel capitolo Centralità della persona si legge: «Particolare cura è necessario dedicare alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione […]». La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno. In quanto comunità educante, la scuola genera una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed è anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola affianca al compito «dell’insegnare ad apprendere» quello «dell’insegnare ad essere». La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse deve trasformarsi in opportunità per tutti. Non si può tralasciare che la sesta competenza chiave per l’apprendimento permanente definita dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea risulta essere quella relativa all’acquisizione delle competenze sociali e civiche. b) Elaborazione dei nuclei tematici per la stesura dell’itinerario formativo (suscettibili di adattamento alla realtà locale): 1. La partenza: svelarsi, conoscersi Conoscere se stessi è una delle esigenze più grandi dell’essere umano; scoprire le potenzialità di cui si dispone e spingerle verso il pieno sviluppo è un’aspirazione fondamentale! Il processo di conoscenza 20 di sé passa attraverso la specularità offerta dall’altro che rimanda l’immagine che appare all’esterno e che provoca la manifestazione re ciproca dell’interiorità e dei talenti. Anche nello stadio iniziale della conoscenza dell’altro potrebbe insinuarsi il rischio del pregiudizio quando i frammenti appresi assurgono al tutto della persona. È oppor tuno educare all’accoglienza di quanto l’altro in un clima di fiducia manifesta ed è significativo provocare la consapevolezza che nell’altro permane un alone di mistero che non può essere afferrato da nessuno: è riflesso di quella zona nella quale la persona si incontra con se stesso e con Dio in cui a nessuno è dato l’accesso per la sua sacralità. 2. Il proseguo: gestirsi nell’incontro con… Il percorso di conoscenza reciproca nasce dalla volontà di incontrarsi. L’impatto con la realtà esterna e con gli altri fa vibrare il cuore perché la persona prova una svariata gamma di emozioni, dalla paura, alla rabbia, alla tristezza solo per citare quelle negative che aspira no a diventare emozioni positive quali il coraggio, la serenità, la gioia. Apprendere a gestire questo mondo interiore che si scopre nella re lazione è fondamentale per lo sviluppo della persona, anche perché la conoscenza della realtà avviene anche con la partecipazione dell’emotività. L’edificazione del sapere viene favorito dalla reattività emotiva di fronte al processo di scoperta che assume una direzione significativa quando ciò si dispiega nelle forme della collaborazione, della cooperazione, dell’aiuto reciproco. 3. Il salto: essere amici oltre il pregiudizio Uno dei momenti significativi della positiva relazione con gli altri è quello di verificare con la verità dell’amore quali etichette ostruiscono lo sguardo sull’altro. Talora intervengono virus culturali (si tramandano idee che favoriscono la paura dell’altro perché è diverso per ceto sociale, per razza, per religione, per modo di pensare la vita) e senza che ci si accorge esse influenzano il modo di relazionarsi con loro. Con coraggio occorre guardare a quanto unisce e considerare le diversità come l’opportunità di allargare lo sguardo per considerare la realtà da una pluralità di punti di vista. 4. L’approdo: stare bene e condividere Ogni cammino conduce ad un approdo, un punto di arrivo che può rappresentare il punto di partenza per un ulteriore percorso. Star bene con gli altri e condividere con loro l’esistenza è uno degli esiti di 21 umanità a cui si può pervenire e che lasciano in dono la gioia. Star be ne comprende uno spettro molto ampio di fattori (con se stessi dal punto di vista psicosomatico, con gli altri, con Dio, con la realtà) e conduce ad accumulare un insieme di energie da condividere. c) Programmazione di attività comuni da realizzare nell’arco dell’anno scolastico (Festa dell’Amicizia: «Allarghiamo il cerchio degli amici», Natale, Festa del Corradini, Pasqua, Rappresentazioni teatrali, Assemblea Corradiniana); organizzazione delle attività di formazione inerenti questo settore e pianificazione dell’itinerario educativo didattico. Chi: L’équipe di coordinamento della pastorale scolastica (Sr. Anna Oliveri e Sr. Alessandra Panepinto) Dove: Casa generalizia Quando: 2-3 settembre 2013 1.1.2. Corso di formazione e aggiornamento per dirigenti e docenti di scuola dell’infanzia sul tema: «Una guida a gestire le Indicazioni Nazionali per il curricolo per un Progetto educativo di qualità» Chi: FISM regionale Dove: Saracen Hotel – Isola delle Femmine (PA) Quando: 4-7 settembre 2013 1.1.3. Presentazione della progettazione annuale 2013/2014 alle insegnanti di Scuola dell’Infanzia sul tema: «Il cammino dell’amicizia… Oltre il pregiudizio!» 22 Chi: L’équipe di coordinamento della pastorale scola stica (Sr. Anna Oliveri e Sr. Alessandra Panepinto) Dove: Casa generalizia Quando: 10 settembre 2013 1.1.4. Presentazione della progettazione annuale 2013/2014 alle insegnanti e alle coordinatrici delle Scuole Primarie sul tema: «Il cammino dell’amicizia… Oltre il pregiudizio!» Chi: L’équipe di coordinamento della pastorale scola stica (Sr. Anna Oliveri e Sr. Alessandra Panepinto) Dove: Casa generalizia Quando: 12 settembre 2013 1.1.5. Incontri per tutti gli operatori della pastorale scolastica sul tema: «I disturbi dell’apprendimento» Chi: Dott.ssa. Cristina Gugliandolo Dove: Casa generalizia Quando: 12 ottobre 2013 (I parte) 1 marzo 2014 (II parte) 1.1.6. Incontro di progettazione per le insegnanti di scuola dell’infanzia e di scuola primaria Chi: Suor Anna Oliveri Dove: Casa generalizia Quando: 29 marzo 2014 1.1.7. Prende avvio il Centro di ascolto per alcune strutture didattiche ed educative della Congregazione Chi: Suor Jolanda Marku Dove: a) Scuola dell’infanzia, Scuola primaria e Scuola secondaria di I grado “Pietro Marcellino Corradini” del Collegio di Maria “La Purità” – Palermo; 23 b) Scuola dell’infanzia e primaria “Marcellino Corradini” della Casa generalizia – Palermo; c) Comunità alloggio “Mondo bambino” del Collegio di Maria di Partinico (PA) Quando: Durante il corso dell’anno 1.2. PASTORALE FAMILIARE «CREDO PER EDUCARE!» Meta: Entro giugno 2014 ogni comunità collegina offre alle famiglie l’opportunità di compiere un itinerario di riflessione finalizzato all’approfondimento del modo d’essere e di vivere la missione genitoriale nel contesto socio-cultu rale odierno, alla luce del pensiero di ricercatori e pedagogisti di ispirazione cristiana, per poter vivere la propria relazione con l’altro in crescita, attingendo alle risorse emo tive, culturali, etiche e religiose di cui le stesse famiglie dispongono, e per promuovere lo sviluppo dell’identità del la persona, chiamata allo sviluppo armonico di sé, secondo l’orizzonte dell’amore autentico e virtuoso che trova in Dio la sua sorgente e la sua pienezza. Perché: * «Ci è chiesto un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone, con una nuova attenzione per gli adulti. Tutto questo però potrà realizzarsi solo se le comunità cristiane sapranno accompagnare le persone, non accontentandosi di rivolgersi solo ai ragazzi e ai giovani, ma proponendosi più decisamente anche al mondo adulto, valorizzando nel dialogo la maturità, l’esperienza e la cultura di questa generazione». Il Santo Padre riconosce che l’educare, se mai è stato facile, oggi 24 assume caratteristiche più ardue; siamo di fronte a «una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita» (Cfr. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo). Una vera relazione educativa richiede l’armonia e la reciproca fecondazione tra sfera razionale e mondo affettivo, intelligenza e sensibilità, mente, cuore e spirito. La persona viene così orientata verso il senso globale di se stessa e della realtà, nonché verso l’esperienza liberante della continua ricerca della verità, dell’adesione al bene e della contemplazione della bellezza. * «Il compito dell’educazione affonda le radici nella primordiale vocazione dei coniugi a partecipare all’opera creatrice di Dio: generando nell’amore e per amore una nuova persona, che in sé ha la vocazione alla crescita ed allo sviluppo, i genitori si assumono perciò stesso il compito di aiutarla a vivere una vita pienamente umana. Il diritto-dovere educativo dei genitori si qualifica come essenziale, connesso com’è alla trasmissione della vita umana; come originale e primario rispetto al compito educativo ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, né da altri usurpato. L’amore paterno e materno da sorgente diventa anima e norma che ispira e guida tutta l’azione educativa concreta, arricchendola di quei valori di dolcezza, costanza, bontà, servizio, disinteresse, spirito di sacrificio, che sono il più prezioso frutto dell’amore» (FC, 36). * «Quello che ci conduce alla vita buona è la virtù, la quale non è niente altro se non l’amore sommo di Dio: […] la temperanza è l’amore integro che si dà a ciò che si ama; la fortezza è l’amore che tollera tutto agevolmente per ciò che si ama; la giustizia è l’amore che serve esclusivamente ciò che si ama e che, a causa di ciò, domina con rettitu25 dine; la prudenza è l’amore che distingue con sagacia ciò che è utile da ciò che è nocivo. […] Le virtù possono essere definite anche così: la temperanza è l’amore per Dio che si conserva integro ed incorruttibile; la fortezza è l’amore per Dio che tollera tutto con facilità; la giustizia è l’amore che serve soltanto a Dio e, a causa di ciò, a buon diritto comanda ogni altra cosa che è soggetta all’uomo; la prudenza è l’amore che discerne con chiarezza ciò che aiuta ad andare a Dio da ciò che lo impedisce» (AGOSTINO, De moribus Ecclesiae I,15,25) Come: Quando: 26 Si realizzano due incontri con i laici e le famiglie: 1.2.1. Lo sguardo della verità: identità e personalità 1.2.2. «Se mi ami non dirmi sempre di sì» Diritti dei bambini e doveri degli adulti 1.2.1. 1.2.2. Avvento Quaresima 1. Lo sguardo della Verità: Identità e Personalità Introduzione Educare all’edificazione dell’identità: è una sfida alla quale non si può non rispondere per poter sentire palpitare la vita dentro di sé, per poter compiere delle scelte che siano in sintonia coi valori ai quali si crede, per poter dare voce ai pensieri e ai sentimenti che nascono quando ci si relaziona con la realtà alla guida degli strumenti di percezione coi quali si impara a conoscere e a confrontarsi. L’identità e la personalità invocano la verità; la persona ha bisogno dei raggi di questa luce affinché il suo nucleo più intimo pos sa esserne illuminato, possa manifestarsi e possa irrorare di splendore ogni angolo della propria esistenza. Essere se stessi è il grido della fedeltà al sacrario più intimo donato da Dio al momento della chiamata alla vita. Il sì dell’uomo a questa intima vocazione si esprime con l’accoglienza dello sguardo di Dio che si posa sul capolavoro che è ciascuna persona, uno sguardo meravigliato, ricolmo di stupore che dischiude la pienezza della vita e dell’amore. Occorre un’intera vita per completare questo percorso che vede il passag gio dal temperamento all’identità con la decisione di far venire a galla quell’esserci secondo la propria identità nell’hic et nunc che attende il risveglio, qualora i fatti o le relazioni l’abbiano messa a tacere o abbiano spinto a recitare la parte di un personaggio che non appartiene alla persona e che è destinata a crollare di fronte alle prove della vita. Il primo passo è ascoltare la voce che urge dentro di sé… E allora l’originario e l’originale capolavoro di Dio potrà conoscere il suo compimento! Partiamo dalla realtà Secondo l’opinione del celebre psicologo O. Poli, è possibile avvalersi della metafora del racconto di Biancaneve e i sette nani e soprattutto del mo mento della consegna della mela avvelenata per pervenire alla spiegazione di parecchi avvenimenti di carattere educativo e relazionale, tipici del mondo odierno. Spesso alcune indicazioni per la vita sono apparentemente buone (la regina malefica si dimostra disinteressata, disposta a regalare, non a vendere la mela), ispirate al bene del figlio, in realtà esse contengono una sostanza velenosa che blocca la vita e l’evoluzione psicologica dello stesso. 27 Un tipico esempio della figlia che addenta la mela velenata (ossia crede che sia vero quanto non lo è). «In casa mia mi sono sempre sentita dire: tu hai un brutto carattere, ti lamenti sempre, perché sei cattiva dentro. Così ho imparato a dubitare sempre di me, a ritenermi cattiva quando mi sembrava di vedere i difetti altrui e i loro comportamenti ingiusti. Facevo la brava per ottenere un apprezzamento che non arriva mai». Per ritenere vere le parole della mamma, ha dovuto “far morire” la sua capacità di capire, di dare il nome giusto alle cose. Prosegue: «Ora mi si è tolto il velo degli occhi e vedo la realtà. Io non sono mai piaciuta a mia mamma, lei apprezzava solo le mie sorelle e non so perché. Non sono stata mai capace di ammetterlo a me stessa e ho passato tutta la mia vita a compiacerla per avere la sua approvazione. Mi rendo conto che anche mio marito e mio figlio si comportano come lei. Sono egoisti e hanno cercato di farmi credere per anni che io ero poco adattabile, esagerata nel lamentarmi di loro. Ma ora mi sono svegliata e non mi lascio “intortare”; rispondo a tono, puntualizzo, non credo più quello che vogliono farmi credere. Sono uscita dall’incantesimo». Un altro caso «Quando ero bambina, mia mamma mi diceva sempre: meno male che tu risolvi sempre i problemi di questa famiglia. Senza di te non saprei come fare. Io ai suoi occhi ero perfetta, perché davo molto, troppo senza chiedere mai niente per me. Infatti, ancora oggi, mi faccio sempre carico dei problemi degli altri. È come se dicessi: date a me il carico dei vostri problemi, li porto io. Infatti ho sposato un marito immaturo che non vuole responsabilità e che non sa affrontare le difficoltà della vita. È stato cresciuto da una mamma che si sostituiva sempre a lui. Anche ora, se una sera io devo uscire, non gli permette di preparare la cena ai nostri bambini, prepara lei per tutti. Mi rendo conto che, sposandolo, ho preso il posto di sua mamma e ho continuato a fare quello che faceva lei. Ora si è innamorato di un’altra e non ha nemmeno il coraggio di andarsene. E io come una scema, lo consolo del fatto che lui soffre perché non sa scegliere fra me e lei». Commento L’apprezzamento insito nel giudizio «sei brava perché ti accolli sempre le fatiche degli altri» ha costituito per questa figlia il nucleo centrale della sua positività. Si è convinta che il suo valore consistesse nell’accollarsi le fatiche altrui (cosa diversa dall’aiutare gli altri). Il morso della mela avvelenata ha avuto l’effetto di un incantesimo: mi sento brava solo se mi comporto in questo modo. Tale apprezzamento probabilmente non era disinteressato: può aver fatto credere di essere apprezzata, mentre la mamma in 28 realtà sfruttava la sua disponibilità (nella versione della strega) o apprezzava sinceramente la sua collaborazione perché ella stessa era oberata di lavoro (nella versione della madre buona). Tale disposizione interiorizzata acriticamente ha reso “cieca” la figlia, incapace di distinguere tra chi ha bisogno del suo aiuto e chi approfitta della sua disponibilità. Non vede i suoi nemici (gli approfittatori) ed è come se dormisse, cioè ella non sembra presente a se stessa ed appare “come una scema”. È noto che il bimbo si vede con gli occhi dei genitori; le loro parole, in mancanza di un pensiero proprio, sono degne di fede e risultano inconfutabili. Per questo egli si riveste delle caratteristiche che gli assegnano; quel pensiero originato dai genitori sarà suo fino all’adolescenza, cioè fino a quando riconsegnerà i panni di cui è stato ricoperto, quando cercherà da solo e nuovamente di capire chi è, quali sono i propri pregi, i propri difetti e le caratteristiche della propria personalità. È certo che solo l’esperienza del dolore di una vita profondamente infelice costringerà le persone a “svegliarsi”, a uscire dall’incantesimo. Se lo sguardo del genitore manca di lucidità e di obiettività, questo non potrà favorire la scoperta dell’identità propria del figlio; senza volerlo ne costituirà un ostacolo. Se poi inconsciamente tende a piegare i figli alle proprie aspettative, li indurrà a ritenersi diversi da come sono in realtà. Altri casi… Un figlio simpatico, cordiale, generoso con molte abilità prosociali che nasce in una famiglia nella quale si persegue il mito del titolo di studio, difficilmente verrà apprezzato per il suo vero valore. Sarà maggiormente apprezzata la figlia studiosa ma egoista e gli aspetti della socialità verranno considerati un dettaglio insignificante. Se nella cultura familiare la riuscita scolastica è considerata l’unico o il principale criterio di riuscita di una vita, l’altruismo e la bontà d’animo non verranno considerati “importanti”. E anche il figlio dovrà attraversare molte esperienze per scoprirsi profondamente felice per non essere come la sorella “brava”. Non è infrequente che il vero valore di sé sia scoperto molto tardi nella vita, incontrando uno sguardo che restituisce la persona alla sua verità. Uno sguardo innocente, senza paure o secondi fini che vede la bellezza dove altri non avevano notato nulla, capace di dare giusto valore a ciò che fino ad allora era ritenuto di poco conto. Uno sguardo limpido che ci restituisce alla nostra verità dovrebbe essere lo sguar do del coniuge. La promessa di amare e di onorare il coniuge impegna a valorizzare l’altro, ad aiutarlo a scoprire tutti i suoi aspetti positivi, così che li riconosca e sia contento di sé, della sua ricchezza e della sua bellezza. Compiacendosi di lui, come se gli fosse dato di vedere il partner con gli occhi stessi del suo Creatore. 29 Domande 1 «ADDENTARE UNA MELA AVVELENATA». È una metafora utilizzata dallo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli per indicare come interferiscono i giudizi dei genitori nella costruzione della propria identità, visto che da piccoli ci si vede con gli occhi del genitore le cui parole sono degne di fede e risultano inconfutabili. Quali riflessioni vedi nascere in te di fronte a questo ragionamento: «Le mie parole possono essere come una mela avvelenata o possono dare le ali affinché mio figlio voli in accordo con la sua identità?». 2 Quali sono gli elementi ricorrenti nei casi che abbiamo preso in considerazione? Quali puntualizzazioni senti di poter fare? 3 Quali sono i valori a cui la tua famiglia tiene di più? Lo studio più che le virtù pro-sociali? In quale modo ricerchiamo l’identità propria del figlio o il suo futuro lavorativo? Possiamo in verità dire che gli proponiamo quel futuro, a noi negato o a noi accordato, che sogniamo anche per lui? 4 Cosa va apprezzato nel figlio o nella figlia che Dio ci ha regalato? Quale sguardo dobbiamo rivolgere ai nostri figli o al nostro partner? Illuminazione Deuteronomio 30, 10-14 «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, non è al di là del mare. Anzi, questa paro la è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». Essere se stessi non è solo una condizione psicologica necessaria per evitare la morte, ma è anche un dovere morale. L’identità è un dono, ci viene donata; manipolarla o annullarla produce solo il dolo re di una vita inautentica. Non abbiamo la libertà di costruirci a nostro piacimento, ma possiamo accettare o rifiutare la nostra identità. Essa va accolta; l’accoglienza implica delicatezza, rispetto e gratitudine, atteggia menti che connotano chi riceve un dono e lo riconosce come tale. Chi manipola il progetto originale interno può perseguire due vie: 1) tentare di piegare la propria originale identità al punto di fingere di essere ciò che non è; 2) evitare le difficoltà, fuggendo lontano da se stessi. In realtà 30 costui deforma la propria immagine rendendola senza saggezza né bellezza, sterile come tutti gli organismi geneticamente modificati, senza capacità d’amare. L’identità è intangibile perché rappresenta l’immagine di Dio in noi, la parte di noi che ci rende simili a Lui. L’identità è parago nabile al software originale che rende possibile amare similmente a Dio; rifiutare se stessi o temere di accogliere se stessi rappresenta un atto di sfiducia nel proprio Creatore che spesso viene trattato come se avesse sbagliato il pezzo, costruendolo difettoso e senza valore. Se temiamo di dare fiducia al nostro modo di sentire e di giudicare spegniamo i nostri radar e ci infiliamo in situazioni assurde o in rapporti distruttivi. Facendo finta di non capire e di non vedere ciò che istintivamente ci sembra vero e giusto, creiamo le condizioni per la nostra infelicità. Va puntualizzato che l’identità è la casa di Dio in noi, per questo la sorgente della nostra vita può e deve essere accolta, curata, protetta, nutrita, fatta vivere, amata. È opportuno distinguere quattro aspetti relativi a quello che comunemente viene definito come carattere: il temperamento, il carattere propriamente detto, la personalità e l’identità. Simili a quattro matrioske contenute una dentro l’altra, rappresentano elementi diversi della personalità. 1. Il temperamento è l’indole di fondo di una persona, riconducibile ad una combinazione di fattori ereditari. Un figlio può nascere vivace, irrefrenabile e curioso e il fratello invece può avere l’intraprendenza di un gattone di marmo. Gli stessi gemelli omozigoti hanno spesso caratteristiche di fondo molto diverse. Non è proprio vero che tutti gli errori che commettono i figli sono sempre riconducibili ai genitori; al verificarsi di ogni problema dei figli, il moto irriflesso della cultura educativa attuale induce ad interrogarsi sull’assenza dei genitori nel percorso educativo. In verità non è sempre così e poiché ogni genitore non è mai perfetto, il colpevole è subito individuato. Se la mamma lavora tutto il giorno e la sera è stanca, ciò viene considerata la colpa del mancato brillante successo scolastico del figlio. Cosa accade? Il sentimento di col pa nato nella madre la spinge a stressare il figlio. Quest’ultimo sfinisce la madre con mille scuse: «Questo non è da studiare, non sono capace, tanto domani non mi interroga…». In verità la madre prende in scarsa considerazione le scuse che porta avanti il figlio; ciò che la rende debole è l’oscura sensazione di colpa che la dispone a mettere lei stessa quell’impegno che il figlio evita, a studiare in vece sua, a sfinirsi sulla storia dei Fenici mentre lui gioca sotto il tavolo con le macchinine. Anche se il padre invita il tatone figlio a fare i compiti anziché giocare coi video gio chi, egli risponde che li farà con la madre e d’altra parte anche i docenti, 31 considerati gli scarsi risultati raggiunti, invitano la madre a seguire di più il figlio e ciò appesantisce la situazione. Ci rendiamo conto che siamo di fronte al determinismo educativo: ogni errore del figlio è imputabile ad una mancanza dei genitori. La scomparsa nel contesto culturale del concetto di temperamento priva i genitori di qualsiasi arma di difesa concettuale che li aiuti a distinguere le proprie responsabilità da quelle del figlio poiché tutto è inteso come determinato dalla propria capacità educativa. Spesso invece il genitore si trova di fronte alla propria impotenza, quando il figlio non ascolta i richiami educativi, elude gli impegni, si mostra impermeabile alle punizioni. Tale presupposto disperante assegna al genitore un eccesso di responsabilità che lo rende ansioso e lo espone al sentirsi fallito se il figlio non è come dovrebbe. La sofferenza del genitore iper responsabilizzato è malata perché dettata dal senso di colpa; diversa è la sofferenza del genitore che soffre perché riconosce gli errori che commette il figlio. Il bimbo è testardo? Sembra semplicistico riconoscere che è tale e quale il nonno; ci si arrovella a trovare spiegazioni megagalattiche («Ho preso troppo acido folico in gravidanza…!»). Il temperamento è contenuto nel carattere, come la matrioska più piccola è racchiusa in quella più grande. 2. Il carattere è costituito dalle dinamiche affettive presenti nella psicologia individuale; alla sua formazione concorrono molto le circostanze educative. Non è infatti ininfluente nascere in una famiglia serena, colta ed equilibrata piuttosto che in una famiglia disfunzionale. Il potere educativo dei genitori si dispiega proprio sul terreno della formazione del carattere. Essi possono anche inconsape volmente alimentare alcuni aspetti e scoraggiarne altri, contribuendo in modo significativo a configurare il software psicologico del figlio. Talora lo sviluppo di alcuni comportamenti inadeguati è propiziato da atteggiamenti educativi che, pur con le migliori intenzioni, indirizzano gli aspetti immaturi ed egocentrici ad assumere il controllo della personalità dei figli. Aiutare troppo il figlio nei compiti in classe, ad esempio, lo disporrà ad essere passivo, dipendente; favorire il perseguimento della carriera del fratello geloso, invece che affrontare gli sforzi necessari ad accettare la perdita dell’esclusività dell’amore dei genitori è quanto mai im portante per la crescita del primogenito. Se è pur vero che i materiali da costruzione sono dati in natura, il progetto educativo è elaborato dal geni tore che con la mano destra traccia linee armoniose ed equilibrate e con la mano sinistra, simbolo dell’inconscio, spesso cancella o distorce il disegno originario. Sebbene cerchi consapevolmente il bene del figlio, inconsapevolmente ne alimenta gli aspetti meno positivi. La complessità della relazione fra genitori e figli incide, influenza, dispone, inclina, ali32 menta o attenua alcuni atteggiamenti, ma non li crea dal nulla. L’impegno educativo esercita un peso notevole, anche se è opportuno considerarne i limiti. 3. La terza matrioska che racchiude le precedenti è la personalità; essa si forma nell’adolescenza, attraverso il processo di internalizzazione del valore. La voglia di diventare grandi non comporta necessariamente la ribellione o la trasgressione. L’adolescenza si caratterizza come la fase della vita in cui i valori vengono internalizzati, fatti propri in termini personali, nella faticosa ricerca delle proprie personalissime motivazioni per aderire al valore. Uscire dall’infanzia significa superare la motivazione ai comportamenti corretti riconducibili alla “paura” delle reazioni dei genitori. Tutto ciò deve necessariamente passare attraverso una fase di elaborazione personale che può comportare er rori, opposizioni, finalizzate a conquistare la libertà di aderire a ciò che è giusto, senza essere condizionati dal timore delle reazioni altrui o dalla paura delle conseguenze. L’adolescente può decidere «che tipo di persona vuole diventare», che tipo di studente, di figlio e di uomo intende essere. Si lascerà guidare dalle convinzioni più che dalle paure. Se decide di studiare il minimo indispensabile per ottenere la promozione, non è possibile fargli cambiare idea e tutti gli strumenti di pressione sono inuti li e controproducenti. Conoscere i valori da cui si è emotivamente attratti significa conoscere qualcosa della propria anima. I valori danno slancio, entusiasmo, voglia di spendersi, vitalità. Sono qualcosa per cui ci si scalda, ci si appassiona, ci si rende davvero vogliosi di vita. Sono percepibili come una “passione per qualcosa” che ha la sua radice in una forma d’amore per qualcuno o per qualcosa. Sentire di avere qualcosa per cui spendersi, che meriti la propria dedizione, fa venire la voglia di vivere e di vivere intensamente, di dare il meglio di sé. Se il carattere predispone alla scelta di alcuni valori al punto che un figlio sensibile sarà in cline a ritenere un valore il rispetto degli altri o un figlio forte è affascinato da chi comanda, rimane pur sempre un certo margine di libertà per riconoscere che alcune cose sono sbagliate anche se non piacciono. Il valore liberamente scelto impone un reset delle dinamiche psicologiche; ne amplifica alcune e ne deprime altre, armonizzandole con la filosofia della vita scelta. Se la voglia di protagonismo dovuta al carattere spingerebbe il bambino ad esaltarsi fino al punto di essere insopportabile esiste la possibilità di rendersi conto che questo comportamento non è giusto e che non è apprezzabile un tipo così; egli può ispirarsi ad altri modelli, anche se il carattere lo indurrebbe a cercare di essere sempre al centro dell’attenzione. Questa è la ragione per cui i figli diventando più grandi possono maturare e diventare migliori: non sono vincolati dal carattere, 33 ma possono lasciarsi progressivamente guidare da ciò che è giusto, da ciò che valutano essere bene o male. La buona notizia è che nessuno è schiavo del proprio carattere, a meno che non lo voglia. Sentirsi attirati dall’idea di essere una persona sincera e leale che non si intestardisce aiuta a tenere a freno la naturale propensione ad avere ragione a tutti i co sti, a sfinire gli altri pretendendo che accettino i torti che non hanno. La decisione di amare la verità aiuta la persona a contrastare la tendenza ad essere testarda e bugiarda, alimentando la sana autostima. La scelta dei valori non è sempre dipendente dalla capacità educativa della famiglia; viene anche influenzata dai mass media, dalla cultura dominante, dagli incontri e dalle frequentazioni amicali. A volte la fascinazione del potere e l’ideale di vita della sopraffazione uccide gli aspetti di sensibilità psico logica che avrebbero orientato il ragazzo ad apprezzare e vivere rapporti rispettosi e paritari. I valori hanno dunque il potere di “cambiare” il carat tere. L’eredità valoriale della famiglia può essere accettata o rifiutata, gli insegnamenti dei genitori fatti propri o rispediti al mittente. Chi decide di vivere facendo il furbo deve necessariamente sovrascrivere l’innata sensazione di giustizia che regola i buoni rapporti. Diventerà più facilmente opportunista, bugiardo, sleale, facendo progressivamente morire la parte buona, rispettosa, corretta. Toglierà vita agli aspetti migliori di sé, alla bontà naturale pur presente nel suo carattere. Chi è dominato dal bisogno di sentirsi superiore agli altri accentuerà la critica malevola, tenderà a svalutare, a ritenere inferiori gli altri. Si nutrirà del disprezzo nei loro confronti fino ad esserne divorato. Un medico che vuole fare il feno meno accentuerà la negatività della diagnosi e la difficoltà della cura spaventando a morte il paziente per poi apparire il magico risolutore di un problema che in realtà era molto comune. 4. La quarta matrioska è l’identità propriamente detta. Contiene le tracce del temperamento, l’influenza dovute alle circostanze della vita (carattere), le scelte guidate dai valori scelti (personalità), ricollocate ora in un orizzonte più vasto. L’identità si riferisce al senso della vita, al significato attribuito alla pro pria esistenza; la sua acquisizione si completa intorno ai quaranta – cinquant’anni. L’identità è la risposta al “chi sono” più radicale, alla ricerca di senso della propria esistenza, al suo valore più profondo e decisivo. È propiziata dalla delusione che sopraggiunge inevitabilmente. L’esperienza dimostra al cinquantenne che nulla, nemmeno le realtà più importanti, neanche coloro che dicono di credere nei tuoi stessi valori, si mostrano all’altezza. Sembra chiaramente che il mondo non va come dovrebbe andare. In ogni ambiente si scorge la connivenza, la furbizia, la slealtà, una serie di storture irriformabili. Non è la giustizia a reggere i 34 rapporti, né la verità ad essere onorata, né la ricerca del bene ad essere il motore della vita sociale. La realtà è retta da altre logiche, diverse da quelle desiderabili. Visto che è impossibile cambiare il corso delle vicen de umane, si è spinti alla consapevolezza della pro-pria piccolezza e al desiderio di fare qualcosa di buono nonostante tutto, senza presumere di essere migliori di altri o senza dimostrare il proprio valore. «Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra prevalere il mondo»: così scrisse nel suo testamento spirituale frère Christian de Chergè, superiore dei trappisti di Tibhirine, in Algeria, rapito e decapitato con altri sei suoi confratelli dagli integralisti islamici. La persona tor na a scegliere ciò che ha sempre ritenuto positivo giusto e buono, a comportarsi conformemente ai valori ai quali ha creduto. Abbandona la pretesa di cambiare il mondo. Fa il bene per se stesso, sorretto dalla più fragile delle motivazioni: «Sono fatto così e non potrei vivere diversamente». Si accetta di essere fedeli a se stessi, fedeli ad ideali scoperti come parte integrante di se stessi, anche se ciò non servisse a nulla o a molto poco: onesti in un mondo disonesto, rispettosi del dolore altrui invece che menefreghisti, amanti delle cose “ben fatte” anche senza tornaconto. La persona si trasforma secondo queste caratteristiche: ricerca l’essenzia lità, ci si concentra su ciò che dà senso alla propria vita, si tende alla lim pidezza per cui si tende a mostrare in modo più chiaro la propria anima, il luogo invisibile dove vive ciò che la persona crede. Ci sono persone che vivono senza se stesse, annullano la propria identità. Annulla se stesso chi vive un legame di dipendenza nel quale il senso del proprio valore è letto negli occhi degli altro. Il rapporto di dipendenza non è caratterizzato dal confronto, ma dalla sudditanza rispetto al modo di pensare altrui. Costoro si lasciano definire dalle parole dell’altro, si lasciano attribuire l’identità dagli altri, si sentono buoni o cattivi in base al loro giudizio, indipendentemente dal proprio pensiero. C’è invece chi s’impone un’identità che non è la propria. È una variante della superbia per cui ci si sente talmente onnipotenti al punto da attribuire a se stessi tutti i meriti del successo, ignorando l’apporto altrui o il ruolo delle circostanze favorevoli. L’autoimposizione della propria iden tità rende tutto difficile ed artificioso: le reazioni sono calcolate, lo stile di vita e le relazioni perdono immediatezza e semplicità. La spia della mancanza di spontaneità indica che vivere secondo una falsa identità non è per nulla agevole, implica sforzo e fatica, come tutto ciò che è innaturale. Poiché il Creatore non ha fatto speciali queste persone, ci penseranno loro a rifare il proprio software. È come se indossassero un abito di scena molteplice, provvisorio, interscambiabile. Se tutte le identità 35 sono decise dal soggetto, nessuna di esse può essere definita e sentita come vincolante. Provate all’occorrenza tante vite parallele, si perde il senso della continuità biografica. Inventarsi un’identità risponde al bisogno di trovarsi migliori, superiori, straordinari, di classe A, non comuni. Non come gli altri. Afferma una sedicenne: «Mi ero costretta ad essere riflessiva, seria, matura, ma era una maschera dietro cui mi nascondevo. Sono stufa di star male, ora mi sono buttata e mi dico: non importa ciò che capita. Ho deciso di farmi vedere per quella che sono. Voglio essere più naturale». La cultura del nostro tempo fatica a riconoscere la pericolosità del virus del narcisismo, ritenuto normale, innocuo, anzi desiderabile. Essere normali appare come un antivalore perché l’imperativo culturale impone di distinguersi. Si possono tuttavia creare personaggi, non identità. Così afferma una ventenne: «Ho sempre barattato i miei valori pur di apparire. Compro le scarpe che fanno colpo, sono la donna del ragazzo più in vista, dico le cose che è bello dire e non quelle che vorrei dire realmente… Ma non sono felice. Ho sempre creduto che fosse più giusto essere ambiziosi, ma ho scoperto che non lo sono. In fondo sono una persona semplice, che trova soddisfazione nell’aiutare le persone». La scoperta positiva è che la personalità autentica, quella originale ed indelebile, sopravvive clandestinamente nell’oscurità di se stessi e parla con la voce dell’insoddisfazione. L’identità attende solo di essere riconosciuta e accettata smantellando la costruzione artificiale che la teneva prigioniera. Se la ragazza avesse rinunciato a fare la donna del capo, avrebbe potuto camminare con le scarpe comode e avrebbe assaporato una piccola felicità. La superbia presentata come narcisismo, come forma di vita che aspira a raggiungere la propria realizzazione personale, sembra più accettabile nel contesto odierno. Se essere speciale di venta il cuore della propria positività occorrerà nutrirsi di un confronto col quale considerare gli altri inferiori. Ci sarà bisogno di qualcuno da schiacciare, da denigrare, da considerare come inferiore perché solo attraverso questo “confronto vincente” potrà essere confermata la propria positività. I rapporti sociali sono diventati più competitivi e vengono interpretati in chiave di superiorità e di inferiorità. Il cambiamento, la liberazione dalla personalità autentica, avviene improvvisamente anche se non in modo completo. Si avverte che qualcosa è cambiato, che la vita di prima non potrà più tornare, ma il cambiamento ha ancora bisogno di essere coltivato, fatto crescere, custodito. Il bruco per diventare farfalla si chiude dapprima in un bozzolo e si trasforma all’interno di un involucro che lo preserva dallo sguardo altrui. Ciò accade a persone che da paurose diventano sicure e da prigioniere 36 diventano libere e vitali. Il romanzo di Alexandre Dumas dal titolo Il conte di Montecristo mostra in che modo il protagonista Edmond Dantes giunga alla comprensione della trama del complotto che lo aveva portato alla rovina proprio mentre si trova in un’oscura prigione, aiutato dal saggio Faria. Segregato in questo luogo buio, il giovane inesperto marinaio si trasformerà nello scaltro Conte di Montecristo. Ogni rinascita, ogni inizio di vita nuova, avviene scendendo nell’oscurità di se stessi, nella propria cella interiore. Una mamma che doveva andare a lavoro un giorno disse: «Ci sono anch’io» (ciò distingue l’egoismo dal desiderio di vedere rispettati i propri bisogni); questa consapevolezza ha spinto bambini e marito ad essere più autonomi e meno pigri in modo da avere anche lei il tempo necessario per prepararsi e per arrivare in orario a lavoro. Le persone in fase di trasformazione avvertono un’insofferenza istintiva nei confronti di chi tende ad imporsi e ad impedire loro di fare ciò che sentono e spesso rispondono aggressivamente. Un marito alla moglie: «Prima tacevi e ti andava tutto bene, ora alzi la voce ed io non ti ascolto lo stesso». E lei: «Ma almeno mi sento IO ed è già qualcosa». È il ruggito del coniglio. Per proteggere la debolezza argomentativa, il pen siero ha bisogno di essere sottratto alla valutazione altrui, finché non si sia rinforzato con osservazioni adeguate, munito di ragionamenti di contrasto in grado di fare fronte a obiezioni che fino a poco prima lo avrebbero “ucciso”, facendolo sentire sbagliato. Ogni nascita, ogni parto richiede un nascondimento che non è lecito violare. Chi sente di dover cambiare si sottrae agli sguardi, tiene tutti a debita distanza, perché questa è la condizione per potere trovare se stesso, senza che nessuno lo influenzi dicendogli cosa è vero, cosa è giusto o sbagliato. Se un pensiero non viene percepito come proprio, non serve alla costruzione di sé. Ecco un esempio di cambiamento che avviene nel segreto: «Un’insegnante av verte il bisogno di trovare la propria identità professionale. Agire come le colleghe non ha più senso per lei; ella è alla ricerca di un modo personale di esprimersi, anche come insegnante. Vuole essere un’insegnante “per come è fatta lei”. Esternamente si adatta, tutto sembra procedere come sempre. In realtà ella coltiva la sua intuizione, la nutre con letture appropriate, cerca i presupposti culturali che rendono difendibile la sua voglia di uno stile didattico diverso. Quando ella si sentirà pronta, capace di giustificare le sue scelte, “si mostrerà” nella sua vera identità professionale. Ma non prima di essersi fortificata, di aver imparato a difendere adeguatamente le sue convinzioni. Per ora “si estranea” dalla cultura dominante nel suo ambiente professionale». Un po’ come gli adolescenti. È necessario che per un certo periodo scompaiano 37 e si sottraggano al confronto coi genitori. Non sono ancora in grado di argomentare alla pari, avvertono che finirebbero ancora una volta messi sotto dalla maggior esperienza e capacità dialettica dei genitori. Per cui cambiano la loro password e si specializzano in manovre di depistaggio. «Con chi esci?». «Con i soliti amici». «Cosa farete?». «Boh, vedremo». Le persone che attraversano una profonda esperienza di rinnovamento spesso non reggono più il rapporto di coppia. Poiché reggono con difficoltà il dialogo col coniuge, preferiscono nello stadio iniziale di questo percorso evitarlo per non lasciarsi inoculare da dubbi e da sensi di colpa che potrebbero bloccare il cammino di crescita personale fino al momen to in cui non siano più forti per reggere il confronto. Infatti, se il coniuge è equilibrato ed è capace di amore autentico nei confronti del partner che sta crescendo, se ne rallegra, fa il tifo per lui, certo che il cambiamento possa dare più vita al rapporto, creare più scambio, più intimità. Se il coniuge tende a dominare la relazione non sarà in grado di apprezzare tale cambiamento: lo declasserà a «colpo di testa», propiziato da un «chi gli ha messo in testa strane cose» e da un tentativo di destabilizzare il matri monio dovuto alla frequentazione delle amiche separate. Con le buone o con le cattive il ragno dovrà tornare nel buco, e dunque cercherà di ricacciare il partner nella condizione da cui vuole disperatamente uscire. La costellazione dell’identità ritrovata è formata da sette luminose stelle: la forza, l’intelligenza, la padronanza di sé, la leggerezza, la gioia, la ritrovata spontaneità e la sicurezza. 1. Una nuova sensazione di forza deriva dal vanificarsi della paura che aveva rattrappito sino a quel momento il proprio slancio vitale: «Voglio essere una persona nuova, senza paure, più coraggiosa nel dire la verità, dolce, felice di essere una persona semplice». Una donna resa debole dalla paura di perdere il partner, aveva rinunciato a se stessa, a conferirle l’identità erano le aspettative del partner di cui si era rivestita. In realtà nessuno può darci l’identità, può solo aiutarci a scoprirla. Afferma: «Ora mi voglio bene perché sono IO e posso amare di un amore puro, vero e maturo, sincero e incondizionato. Adesso mi sento libera, libera dalla falsità, dai giudizi negativi del partner e libera dalla paura di perderlo». 2. Un’intelligenza vivace e ricca. La persona che accetta di diventare se stessa cambia anche lo stile dei suoi rapporti e il suo modo di dialogare. Le sue argomentazioni diventano più stringenti e realistiche, si confronta in modo più razionale e coerente. Diviene meno emotiva: impara a rivestire le proprie sensazio ni e i propri valori con contenuti adeguati, con ragionamenti appropriati. Non si mette a piangere, né quando deve intervenire, si lascia sopraffare dall’emozione: articola e sostiene il proprio punto di vista con argomen38 tazioni razionali. Riveste il pensiero con panni adeguati, lo rende presentabile e convincente, trasforma il suo sentire in idee ben formulate e argomentate. Rende lineare e logico ciò che “sente”. La sua intelligenza appare più pronta, agile, reattiva, difficile da raggirare. Non si lascia depistare facilmente, intuisce con sicurezza i trucchi, le bugie altrui, avverte istintivamente ciò che non è conforme alla verità. È un’intelligenza che mette l’altro di fronte alle sue contraddizioni, anziché rimanere confusa ed incapace di reagire e di rispondere prontamente. La persona libera ricerca il confronto, chiede all’altro motivi convincenti per aderire alla posizione altrui, non fa finta di essere d’accordo spegnendo la propria intelligenza. L’amore non richiede mai di diventare “sciocchi”. Quando la capacità di pensare attinge alla propria originaria percezione della realtà, l’intelligenza si irrobustisce, il pensiero diventa lineare, chia ro, convincente, aderente alla realtà e il dire della persona assume tracce di originalità e sfumature inedite. 3. Sentirsi padroni della propria vita. Chi decide di essere se stesso sente la vita nelle proprie mani e la governa secondo le proprie convinzioni, si sente alla guida dei propri avvenimenti. La figura regale rappresenta simbolicamente la parte saggia, razionale e giusta della personalità, quella a cui compete di regolare le pulsioni. Se a comandare sono le debolezze affettive, il regno va in rovina perché nella personalità prevalgono le dinamiche inconsistenti. La cit tà viene invasa da coloro che sfruttano, pretendono, impongono, rubano tempo, fatica e amore. 4. Leggerezza. Una ragazza esce dal personaggio della ragazza seria che pretendeva d’essere e scopre che esiste un pizzico di leggerezza che consente di manifestarsi nella semplicità e di dichia rare anche le proprie incertezze. In verità era una ragazza seriosa, non si permetteva di essere un po’ innocentemente sbarazzina, così come richie deva l’età, elemento che avrebbe mitigato gli eccessi a cui può condurre una condotta troppo seria. 5. Gioia. Una testimonianza: «Sento lentamente ricrescere le mie ali, la voglia di vivere e di esprimermi liberamente per quella che sono, nel bene e nel male, di accettare i miei difetti senza dovere essere per forza buona, brava e servizievole, per ricevere in cambio qualche briciola d’amore. Sento finalmente di poter volare leggera nell’aria, per appoggiarmi qua e là e godere i sapori della vita. Voglio che la mia anima possa sorridere anche nelle difficoltà, voglio poter amare le persone che mi amano e poter offrire loro la mia disponibilità, la mia comprensione, il mio affetto». La gioia è legata al fatto di ritrovarsi migliori di quanto si sia mai sperato di essere. È la gioia di trovarsi capaci e positivi, di avere dei buoni motivi per sentirsi contenti di sé. Al figlio in cerca di un pretesto per aumentare la paga settimanale e 39 che tenta la carta del senso di colpa dicendo «I miei amici hanno tutti più soldi di me», il genitore equilibrato risponde: «Cercati degli amici più poveri», strappando un sorriso anche a lui. L’intelligenza può produr re ironia solo se è libera. 6. La spontaneità. Se l’impulsività è l’incapacità di dominare le proprie reazioni immediate, l’istintività ha a che fare con la misteriosa naturalezza con cui si pensa, si sente, si percepisce una situazione. Una moglie all’apice della crisi coniugale scopre che il marito si mostra improvvisamente uomo perfetto di casa che si preoccupa di rifare i letti e quant’altro. Qualcosa le fa capire che gatta ci cova; il maritino non intendeva porre rimedio ai suoi errori del passato; voleva far ricadere la colpa della crisi su di lei; la sta prendendo in giro e il suo istinto lo segnala. Quando si avvertono delle percezioni oscure, è necessario accoglierle, capirle e passarle al vaglio della ragione, metterle alla prova per avvalorarle o per smentirle. Vanno indagate e verificate, non negate. Un classico sabotaggio del radar istintuale è sentirsi in colpa nel constatare i difetti altrui; invece di verificarne la fondatezza, la persona si sente cattiva, in questo modo avrà un problema («Sono io che non vado bene») invece di avere una difficoltà («Qualcosa fuori di me è sbagliato e devo capire come affrontare la situazione»). L’istinto è il sesto senso; uccidendolo, siamo dei segugi senza fiuto. La persona che non cavalca il proprio istinto appare complicata, costruita, un po’ contor ta. Dice “si” per evitare le conseguenze del “no”. Accetta ciò che non la convince per non figurare male. Una persona afferma che ad esprimere i propri pensieri, mettendo in atto il suo senso critico, ci guadagna in serenità e la carica molto. 7. La sicurezza. È la stella più brillante e più preziosa della costellazione dell’identità ritrovata. La persona insicura non ha il coraggio di essere se stessa: rifiuta la luce della sua intelligenza capace di cogliere la realtà. La persona sicura, proprio perché è consapevole di non essere infallibile, è disposta a modificare il proprio punto di vista, ma non fa finta di non capire e di non avere un’opinione. Esercita la sua capacità di giudizio, senza arroganza ma senza timidezza. Chi osa essere se stesso non è presuntuoso perché è intimamente disposto a cambiare idea quando i fatti e le circostanze lo avvertono dell’errore. Il presuntuoso esclude di sbagliare, nega e svaluta i dati della realtà che contraddicono la sua opinione. Chi è sicuro è disponibile a cambiare idea qualora si trova di fronte a motivi buoni e convincenti perché è aperto alla verità. 40 Domande per il dialogo 1 L’identità è un dono, ci viene donata; manipolarla o annullarla produce solo il dolore di una vita inautentica. Non abbiamo la libertà di costruirci a nostro piacimento, ma solo di accettare o rifiutare la nostra identità. Perché l’accoglienza del dono dell’identità chiama in causa la delicatezza, il rispetto e la gratitudine che sono gli atteggiamenti tipici di chi riceve un dono e lo riconosce come tale? 2 Quali prospettive si dischiudono al tuo orizzonte di fronte alla scoperta delle quattro matrioske, ossia il temperamento, il carattere, l’identità e la personalità? La scoperta che la personalità di forma a 45-50 anni quali imput positivi fa nascere in te? 3 La persona si trasforma secondo queste caratteristiche: ricerca l’essenzialità, ci si concentra su ciò che dà senso alla propria vita, si tende alla limpidezza per cui si è portati a mostrare in modo più chiaro la propria anima, il luogo invisibile dove vive ciò che la persona crede. A questo conduce la ricerca mai pienamente compiuta dell’identità. Prova a commentare questo passaggio significativo dell’incontro. 4 «Ho sempre barattato i miei valori pur di apparire. Compro le scarpe che fanno colpo, sono la donna del ragazzo più in vista, dico le cose che è bello dire e non quelle che vorrei dire realmente… Ma non sono felice. Ho sempre creduto che fosse più giusto essere ambiziosi, ma ho scoperto che non lo sono. In fondo sono una persona semplice, che trova soddisfazione nell’aiutare le persone». Quali sono le conseguenze educative di questa posizione che spinge ad aiutare l’altro a riconoscere la propria identità, quella che attende solo di essere riconosciuta e accettata, smantellando la costruzione artificiale che la teneva prigioniera? 5 Il bruco per diventare farfalla si chiude dapprima in un bozzolo e si trasforma all’interno di un involucro che lo preserva dallo sguardo altrui. Quali sono i contenuti evidenziati da quest’immagine? 6 Quale stella, a tuo parere, dovrebbe brillare maggiormente nel cielo della storia della persona che intraprende il cammino dell’autenticità? Perché? E quale stella presenti di più frequente a tuo figlio? Per quale ragione? 41 Testo per la preghiera Signore, l’amore è paziente: donami la pazienza che sa affrontare un giorno dopo l’altro. Signore, l’amore è benigno: aiutami a volere sempre il suo bene prima del mio. Signore, l’amore è invidioso: Signore, insegnami a gioire di ogni suo successo. Signore, l’amore non si vanta: rammentami di non rinfacciargli ciò che faccio per lui. Signore, l’amore non si gonfia: concedimi il coraggio di dire “Ho sbagliato”. Signore, l’amore non manca di rispetto: fa’ che io possa vedere nel suo volto il tuo. Signore, l’amore non cerca il suo interesse: soffia nella nostra vita il vento della gratuità. Signore, l’amore non si adira: allontana i gesti e le parole che feriscono. Signore, l’amore non tiene conto del male ricevuto: riconciliaci nel perdono che dimentica i torti e le offese. Signore, l’amore non gode dell’ingiustizia: apri il nostro cuore ai bisogni di chi ci sta attorno. Signore, l’amore si compiace della verità: guida i nostri passi verso te, che sei via, verità e vita. Signore, l’amore tutto crede, tutto spera, tutto sopporta: aiutaci a coprire d’amore i giorni che vivremo insieme, aiutaci a credere che l’amore sposta le montagne, aiutaci a sperare nell’amore oltre ogni speranza. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE O. POLI, La mia vita senza di me. Identità e personalità, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2011. 42 2. «Se mi ami, non dirmi sempre di sì!» Diritti dei bambini e doveri degli adulti Introduzione Di recente si è affermata la frase «Se mi ami, dimmi di no», con cui molti studiosi intendono sottolineare la necessità del “no” quale via di sviluppo integrale della persona. Amedeo Cencini, emulando quest’espressione, ne cambia la parte finale, affermando «Se mi ami, dimmi di sì». Questo cambiamento apre un altro spiraglio di comprensione della complessa realtà edu cativa; viene infatti indicata una via preferenziale da percorrere, quella del sì. Ci chiediamo: sì a che cosa? Dal punto di vista dello sviluppo psicofisico il bambino ha specifici bisogni che occorre chiamare per nome, che occorre riconoscere quando essi fanno capolino nell’esistenza; essi possono a ragione definirsi diritti poiché il loro riconoscimento e il loro rispetto è strettamente correlato al bene supremo della vita. Sì ai diritti di cui ciascun bambino è depositario, diritti talora elusi e tralasciati. Di quali diritti si tratta? Ci riferiamo ai bisogni fondamentali della persona la cui risposta esige un ben preciso e mirato intervento da parte delle figure di riferimento, specialmente dei genitori. Il diffuso puericentrismo derivato dalla pedagogia di stampo greco condiziona il nostro modo di relazionarci coi bambini che vengono considerati oggetto di adorazione da parte dei loro genitori; e ciò determina una dipendenza da loro al punto che essi diventano dei sovrani che dettano legge nella vita dei genitori. Intendiamo dire dunque di no ad un malinteso puericentrismo dagli effetti educativi devastanti e sì al rispetto dei diritti dei bambini per favorirne uno sviluppo integrale ed armonico. Partiamo dalla realtà Ascolto e commento del canto di Povia: «La verità» Mamma, papà, ora vi vorrei parlare solamente dell’amore, l’amore che mi avete dato per tutta la vita e dirvi che continuerò ad ispirarvi perché il vostro cuore è immenso; perché il vostro cuore vola e vola sopra le parole, sopra tutte le persone, sopra quella convinzione di avere la verità, la verità. Padre, ora tienimi la mano, tienila vicino al cuore, puoi sentire che ti amo e mentre il mondo fa rumore, 43 mentre il mondo può vedere il sole, non voglio più dormire in fondo al mare e ti chiedo solo di volare, volare sopra le parole, sopra tutte le persone, sopra quella convinzione di avere la verità, la verità. Rit. Ora posso amare, ora posso correre e giocare, ora volo sopra le parole, sopra tutte le persone sopra quella convinzione di avere la verità, la verità. Mamma, che ne sanno del dolore, di quello che si può provare per una disperata decisione e di quando avevi tu vent’anni, fatti di progetti e sogni in cui desideravi un figlio che cambiava la tua vita e che stringevi forte al cuore, poi vedevi camminare e lentamente costruire la sua vita con dignità. Rit. Ora posso amare, ora posso correre e giocare… Mamma, papà un giorno ci rincontreremo e ci stringeremo forte e faremo tante cose quando sentirete un brivido che sentirete sulla vostra pelle è lì che io sarò presente: la vostra bambina per sempre. Rit. Ora posso amare, ora posso correre e giocare… Commento dal taglio educativo La canzone di Povia «La verità» è un testo ispirato alla vicenda di Eluana (la ragazza sulla quale è stata praticata l’eutanasia per volontà del padre) per la cui pubblicazione lo stesso cantautore ha voluto chiedere al padre l’autorizzazione. Tuttavia, come dichiara Povia in un’intervista rilasciata nel 2010 durante il Festival di Sanremo, essa è una lettera d’amore che una bimba scrive ai propri genitori; egli è certo che il fatto ispirativo rimane nello sfondo del canto tuttavia non lo impronta in maniera determinante; infatti, coloro che l’ascoltano e non conoscono il retroscena colgono la delicatezza del dialogo epistolare che una bambina dai sentimenti profon di intesse coi suoi. La bambina della canzone si rivolge ai suoi genitori e li riconosce nel loro ruolo materno e paterno, poi va al nocciolo dell’argomen to «vi vorrei parlare dell’amore che mi avete dato» e riconosce che «il loro cuore è immenso». Riflettere sulle figure genitoriali significa riconoscere che esistono due sorgenti d’amore complementari che si prendono cura della persona; al bambino occorre l’amore coniugato al maschile e al femminile coi tratti tipici del codice materno e paterno. «Ora posso amare, correre e 44 giocare, volo sopra le parole». La persona ha delle possibilità che vanno promosse: in primis, la capacità di amare che si sviluppa quando si è coinvolti nell’esperienza di essere amati, in altre parole so amare perché sono stato amato; correre richiama la dimensione fisica dello sviluppo che si consegue nel movimento; volare sopra le parole richiama la capacità della persona umana di avvalersi del veicolo della persona per manifestare la conoscenza della verità che si acquisisce nel tempo. Nel testo la bambina si mette nei panni della mamma ed afferma che la gente comprende poco cosa significa essere una giovane che progetta e che sogna di avere un figlio la cui presenza è in grado di cambiare la vita, un figlio del quale assistere il cammino di crescita volto a costruire lentamente la propria vita con dignità. Crescere con dignità significa acquisire il senso della propria preziosità ed amabilità, nell’accoglienza degli interventi educativi attesi ed aderenti ai bisogni specifici dei figli. Il caso di Viola e il parere di Amedeo Cencini Viola, bambina di 8 anni, è stata abituata dai genitori a dare attenzione alle persone bisognose, a chi chiede l’elemosina, ma senza limitarsi a dar loro la solita monetina, bensì a rivolger loro la parola e a trattarli con rispetto e attenzione. Così vedendo ogni domenica un cieco davanti alla porta della chiesa, dopo avergli fatto l’elemosina, un giorno gli chiese: «Da quanto tempo sei cieco?». «Dalla nascita», rispose l’uomo. «Che lavoro fai?», riprese Viola. «L’astronomo», fu la risposta del povero. «Ma come? Non sei cieco?», chiese la bambina. «Si. Però mi soffermo volentieri a guardare tutte le stelle dell’immenso cielo che ho dentro di me. Perché non provi anche tu?», disse con saggezza l’astronomo cieco. Commento Amedeo Cencini commenta questo episodio e lo indirizza verso una specifica direzione, ossia il bisogno della persona di trovare un senso al mistero della vita. Non conosciamo la risposta di Viola, ma certo questo singolare astronomo non vedente aveva fatto la provocazione più intelligente e “luminosa” che si possa fare a un bambino: accogliere il mistero che c’è dentro di sé, o riconoscere e affrontare le domande che si agitano dentro il proprio cuore, simili a stelle che illuminano il cammino. Quando non si riesce a trasmettere il senso del mistero e questo messaggio positivo al bambino, all’inizio certamente in modi indiretti e non espliciti, ma comunque sempre prendendo sul serio le sue domande, non sarà poi così strano se il mondo interiore del bambino è abitato oggi da personaggi strani e meno rassicuranti e dunque dai vampiri alle streghe, dal lupo cattivo ad altri soggetti fantastici e più o meno da incubo, e un domani da credenze decisa45 mente non intelligenti e ancor meno sicure e rassicuranti, dagli oroscopi alle pratiche esoteriche. Domande per il dialogo 1 Immagina che tuo figlio o tua figlia ti scriva una lettera. Quali contenuti ti aspetti siano evidenziati dalle sue parole? 2 Perché i bisogni educativi (di avere una personalità, di essere ascoltato, di trovare un senso alla vita, di aprirsi alla dimensione religiosa, di avere delle regole, di vivere in una famiglia imperfetta ma serena, etc..) chiamano in causa un dovere da parte dei genitori? 3 Il diritto di Viola di districarsi nel mistero della vita la induce a porre delle domande al cieco al quale porge la sua elemosina. Perché a tuo avviso le domande dei bambini non vanno mai eluse? Che tipo di risposta si attendono da parte dell’adulto? Illuminazione Luca 15, 11-ss «Se non diventerete come bambini…». Il Vangelo non invita a tornare indietro nel tempo e nella vita per recuperare chissà quale innocenza perduta, ma pone di fronte ad una scelta. Si tratta di andare avanti. L’esser bambino nella logica evangelica non è solo il punto di partenza, ma soprattutto il punto finale e più alto di questo cammino evolutivo. I genitori, o chi ha avuto i figli, in questo processo sono avvantaggiati, soprattutto quelli che hanno imparato a rispettare i diritti dei loro figli. Essi conoscono molto bene il mondo del bambino: al di là dei soliti stereotipi piuttosto melensi, sanno il bisogno di verità e di autenticità che li abita, conoscono perfettamente la loro sete di relazione e di relazione stabile, l’esigenza d’un amore sicuro e grande, il bisogno di “vivere” e non semplicemente di sopravvivere, la ricerca di un senso da dare alla vita ma pure alle tante sue asimmetrie, già da subito sperimentabili, la libertà di fidarsi e affidarsi. E sanno perfettamente, tali genitori, quanto la risposta a queste legittime attese abbia fatto maturare e crescere non solo i figli, ma loro stessi. Crescere un bambino è per i genitori un im- 46 pegno che coinvolge il processo di maturazione anche di sé, nel quotidiano servizio all’altro e alle sue fondamentali esigenze evolutive. L’insegnamento greco ha trovato un potente alleato in un certo atteggiamento moderno che potremmo chiamare puerocentrico. Forse conseguenza del fatto che, particolarmente nell’Occidente un tempo opulento e ricco anche di bambini, questi ultimi sono sempre più merce rara, e i fi gli sempre più “unici”. E comunque all’origine d’una tendenza singolare, la tendenza quasi all’adorazione del bambino, alla sottomissione a lui e ai suoi voleri, alla sudditanza psicologica o alla condiscendenza estrema nei suoi confronti da parte dei genitori. Il puerocentrismo non può essere considerata una pedagogia di successo, specie quando crea puerodipendenza. Di contro si fa strada una pedagogia realista e obiettiva, attenta a non cadere nel tranello di quel sistema pedagogico che sembra rispettoso della libertà dei pargoli, ma che finisce per creare il vuoto non solo attorno ma dentro di essi, oltre che rendere insignificanti genitori ed educatori e improbabile ogni intervento autenticamente formativo. Quando questi ultimi, infatti, diventano succubi e dipendenti dai bambini, i medesimi bambini, all’apparenza padroni della situazione se non tiranni dei genitori, saranno in realtà sempre più dipendenti da se stessi e dai loro impulsi, pieni di pretese nei confronti degli altri e della vita, e alla fine – ovvero quando la pretesa si mostrerà in tutto il suo irrealismo – saranno frustrati e disperati. Ogni essere umano è soggetto di diritti talora trascurati a cui corrispondono dei doveri da parte dell’adulto; prenderemo in considerazione alcuni diritti propri dei bambini afferenti alla prospettiva dell’io e dunque alla persona, a quella della relazione ossia dell’io in contatto col tu, alla prospettiva del noi, ovvero dei genitori e della famiglia. Prenderemo in considerazione i diritti che afferiscono alla sfera dell’io e li considereremo secondo una prospettiva di natura marcatamente psicopedagogica più che giuridica. Potremo considerare come punto di partenza il fatto che la presenza del figlio non è un diritto dei genitori. Il figlio è un desiderio naturale per la grande maggioranza dei genitori, è attesa a volte sofferta, è progetto che nasce dall’amore tra lui e lei, e da coltivare e da amare insieme, è l’esperienza più alta della dignità dell’essere umano, datore di vita come padre e madre; un figlio è dono di Dio per i credenti, è qualcosa di straordinario e comunque sacro per tutti, è mistero, «fare un figlio è approvare la creazione», dice un inedito Jean Paul Sartre. Volere un figlio è espressione di maturità della vita di coppia; accettarlo per come egli è, maschio o femmina, con quei determinati caratteri somatici e psichici che egli ha e non altri, è rispetto per il valore e la sacralità della vita e per la singolarità 47 irripetibile del figlio e di quel figlio in particolare. Il bambino ha il fondamentale diritto di vivere; l’articolo 1 della Carta dei Diritti Fondamentale dell’Unione Europea afferma l’inviolabilità della vita umana e l’articolo due proclama che ogni persona ha diritto alla vita. Senza dover necessariamente chiamare in causa argomentazioni specificatamente reli giose, possiamo affermare con la scrittrice laica Oriana Fallaci: «Un figlio non è un dente cariato. Non lo si può estirpare e buttarlo nella pattumiera, tra il cotone sporco e le garze. Un figlio è una persona e la vita di una persona è un continuum, dall’attimo in cui viene concepita al momento nel quale muore». La prima prospettiva della nostra riflessione è quella relativa all’identità del bambino, al suo senso dell’io. Si potremmo parlare di «diritto ad avere una propria identità», anche se questa espressione non è usuale. Ciò che si intende dire è che è fondamentale per la persona avere una identità, e più precisamente un’identità sostanzialmente positiva e stabile che inizia come tale fin dai primi anni di vita, attraverso l’educazione ricevuta nella famiglia d’origine, grazie all’atteggiamento dei genitori e alla loro sensibilità. Il bambino non ha solo diritto a ricevere un cibo sano che lo alimenti con il giusto equilibrio di vitamine e proteine; non ha solo diritto ad esperienze varie che gli assicurino un fisico armonico e robusto, quali ad esempio frequentare una palestra o una piscina, studiare pianoforte o danza. Ha diritto soprattutto a ricevere quella sensazione fondamentale di positività personale che la psicologia moderna chiama fiducia di base (basic trust), da cui nasce quel bene sommo che è la stima di sé. Bene insostituibile, senza il quale l’esistenza poi diventa un tormento, un continuo elemosinare dagli altri e dalla vita qualcosa che non può venire né dagli altri né dalla vita, ma solo dalla scoperta di quell’amabilità radicale che i genitori per primi dovrebbero aver saputo cogliere nel figlio. É sulla esperienza divenuta certezza di questa amabilità profondamente radicata che padre e madre dovrebbero aiutare il bambino a costruire la propria stima di sé, come su un fondamento sicuro, positivo più di ogni negatività, e stabile nonostante i possibili fallimenti della vita. Un’amabilità che nessuno, come il credente, possiede in modo forte e definitivo, poiché addirittura ultraterrena, radicata in Dio, colui che da tutta l’eternità, innamorato della bellezza della creatura, al punto di volerla esistente. Afferma Bellieni: «Non ho mai visto una generazione di genitori più ansiosi di quelli che oggi affollano gli studi dei pediatri. Perché è al pediatra di base che si confidano le proprie ansie e in sicurezze nei confronti dei figli, e non solo riguardo ai sintomi fisici. Al limite, è il pediatra che consiglia un consulto da uno psicologo. Oggi il 48 bambino è quasi sempre unico, frutto di una gravidanza rimandata fino a dopo i 30-35 anni. Non solo: quasi tutte le coppie sottopongono il proprio feto a controlli genetici doc, gratuiti dopo i 35 anni di età della madre. Insomma: è progettato e controllato ancora prima di nascere. “L’ho programmato fino ad avere una situazione ottimale per accoglierlo, gli ho persino fatto esaminare i cromosomi. È perfetto: non può deludermi”. Un peso fortissimo che graverà per tutta la vita su questi piccoli: è la sindrome del “sopravvissuto” a una selezione. Le ansie riguardo questi piccoli “re della casa” arrivano presto: quasi sempre suo figlio è il primo neonato che una madre prende in braccio, mentre una volta il “maternage” si apprendeva guardando le zie, o la propria mamma con i fratelli maggiori. Scattano quindi le prime paure irrazionali, diffusissime fra le neomadri: “Riuscirò a non farlo cascare per terra? Avrò abbastanza latte (E anche se fosse? Oggi nessun bimbo muore più di fame)?”. Le gatte hanno cresciuto i loro cuccioli per millenni senza porsi problemi. Perché i genitori di oggi sì? Capisco l’incubo della mor te in culla, per cui non c’è ancora purtroppo una cura preventiva, ma l’ossessione moltiplicata per mille dalla televisione, della nuova influenza annuale è esagerata». Ne verrà come conseguenza una profonda incertezza circa il senso della propria positività, che non sarà mai in nessun caso incondizionata, ma sempre legata, pericolosamente, ai problemi altrui o al fatto di rientrare in schemi predisposti da altri. In parole semplici: io sono amabile per il fatto di piacere agli altri. La reazione del bambino potrà esser di doppio tipo: o diventerà secchione, per non deludere i genitori, o si trasformerà in ribelle insopportabile, reagendo così all’insopportabilità dei sogni di perfezione dei genitori. Un’altra sciocca e inconfessata pretesa è quella di non fare sperimentare al pargolo alcuna contraddizione nel contesto esistenziale in cui gli capita di vivere, alcun limite, alcun disappunto, alcuna frustrazione. Non esiste, infatti, alcun diritto alla vita perfetta, ma esiste, purtroppo, la possibilità di indurre nel cucciolo d’uomo – sia pure in modo inconscio – a tutta una serie di pretese legate a questo diritto irrealistico che comprende dei genitori perfetti, una famiglia perfetta, e dunque anche un’attenzione spasmodica (sostenuta anche da una cultura corrispondente), ad esempio, per una alimentazione rigorosamente (e illusoriamente) biologica (che rischia di non fargli mai assaporare certi gusti) per un ambiente assolutamente puro e decontaminato (come fosse sotto una campana di vetro), per una protezione totale e un po’ maniacale da qualsiasi tipo di germi e virus (regolarmente enfatizzati da quella cultura e da genitori che ci credono), perché tutto, insomma, stile di vita, orario, abitudini, 49 tipo di relazioni, ogni aspetto della vita, obbedisca a criteri precisi e inflessibili in funzione d’una crescita del tutto lineare e perfetta. Ma con il risultato, molte volte, che il prodotto di questo singolare percorso maniacale educativo sia un bambino perfetto da sembrare artificiale e dai modi artificiali, un po’ imbranato e pure incapace di relazione, preoccupato soprattutto di difendersi per non lasciarsi “contaminare” dagli altri. È stato così protetto da ogni tipo d’intemperie, quasi reso esente dai normali incidenti o infermità (come se il raffreddore rappresentasse una malattia mortale o una bella sudata fosse necessariamente la prima fase d’una sicura broncopolmonite), da sviluppare poi una sfilza infinita di allergie e manie o fissazioni (di origine più o meno materna). Ed ecco la conseguenza – quasi un simbolo – dell’infantile diritto disatteso a vivere nella imperfezione: tale bambino non ha sviluppato gli anticorpi fondamentali per assorbire e integrare le normali vicissitudini della vita, dentro e fuori di sé. E così partito da piccolo con l’idea di non lasciarsi contaminare da niente e da nessuno, finisce da adulto per non avere alcu na difesa dinanzi alla minima contaminazione (non solo di tipo fisico o materiale), senza nemmeno sospettare che nella vita si possa crescere an che attraverso le sue inevitabili imperfezioni e contraddizioni. I bambini hanno diritto ad essere trattati da bambini, senza dover scimmiottare gli adulti. Afferma Vitaliano: «I bambini- protagonisti, se non diventano fenomeni da baraccone, sono comunque “adultizzati”, imitano i grandi, vestiti, soprattutto le bambine, come impone la moda, con abiti griffati e del tutto inadatti ai minori. Per non parlare poi di alcune canzoni, fatte cantare a ignare bambine e stralunati bambini, che parlano d’amore, di passione, di gelosie, di desideri. I genitori, veri e responsabili di tanto degrado, per ignoranza (o ambizioni frustrate), per scarsa consapevolezza del loro ruolo educativo o per meno interesse, fanno a gara perché i loro pargoli siano ammessi alle prove, ingaggiati e, finalmente, fatti salire sul palco, vincendo la competizione o entrando nel giro della raccomandazione. Ma sono proprio sicuri questi genitori che i bambini siano contenti di vestirsi da grandi, cantare da grandi, recitare da grandi, vincere da grandi?». Prosegue Ballerini: «In passerella hanno sfilato bambini ridotti a caricature di adulti. Nani da circo, non più persone; agghindati, non più vestiti. Il mondo dell’infanzia che ci viene restituito dai media è travolto da questa tendenza: il mensile Vogue è stato nella bufera per un servizio sul numero di dicembre con bambini di sette anni in posa come femme fatale, il figlio di Beckham di otto anni è entrato al ventiseiesimo posto nella classifica degli uomini più eleganti d’Inghilterra, la figlia di Nicole Kidman si trucca da sola a 50 due anni, la figlia di Tom Cruise a quattro anni fa shopping con i tacchi a spillo e un filo di makeup. Al di là delle evidenti manovre di marketing degli agenti dei Vip, che usano i figli delle star come efficace strumento di comunicazione, tutto ciò è anche segnale di come il narcisismo abbia permeato la cultura, compresa quella dell’infanzia. Ma nel narcisismo l’altro è fatto fuori; non esiste più come soggetto di incontro potenzialmente benefico fino a prova contraria, diventa un puro e incondizionato contemplatore libero solo di farsi sedurre. La maniacale attenzione alla propria immagine ha radice proprio in questa necessità di essere ammirato, se non invidiato. Alla fine, Narciso non sa più che farsene dell’altro ridotto a specchio (di sé). I bambini, quando stanno bene, sono invece orientati alla riuscita, al loro benessere che pongono sempre in relazione all’apporto dell’altro, adulto o coetaneo che sia. Trasmettere, sug gerire e promuovere in essi forme narcisistiche del rapporto è un atto di corruzione del pensiero, è inscriverli in un diverso ordine di realtà, in cui rischiano di restare imprigionati e disorientati. Vestiamoli bene, allo ra. A loro piacerà di sicuro vedere che li curiamo e onoriamo il loro cor po con la dovuta attenzione. Ma non facciamone dei mini modelli da rivista patinata. Resterebbero soli dentro un guscio dorato». I bambini hanno diritto a conoscere la dimensione sessuale della propria persona, aiutandoli a vederla armonizzata all’interno di una formazione globale affettiva, sentimentale, relazionale, persino fisica, poiché il sesso ha senso solo in funzione dell’amore, del rapporto con l’altro in carne e ossa, della vita. Se è vero che esiste il rischio di parlare in modo smoderato del sesso è altrettanto vero che in molte famiglie il tema non viene mai toccato e questo non va bene, poiché significa che il bambino finirà prima o poi per apprendere qualcosa su un tema così strategico e decisivo dai compagni, dai mass-media, dai libri, correndo un altro rischio, quello dell’informazione sbagliata, tendenziosa, parziale, equivoca. In famiglie solide dal punto di vista relazionale–affettivo lo sviluppo affettivo–sessuale avviene in modo morbido, senza fughe in avanti per la preoccupazione di apparire genitori emancipanti, e rispettando una stagione quale quella del bambino in età prescolare e scolare, che – come abbiamo ricordato – non presenta particolari interessi o tensioni nel cam po sessuale. L’età infantile può divenire il momento migliore nel quale i genitori possono iniziare a raccontare il mistero della vita con quella deli catezza, con quella evocazione di bellezza, col senso del mistero, con quelle parole semplici ma che hanno il potere di dire una cosa grande, simile a una favola, una bella favola, ma non come quelle della sera prima d’addormentarsi, bensì una fiaba che finalmente è diventata realtà e 51 s’è compiuta nella nascita del figlio che sta ascoltando questa storia. E che si attua costantemente attorno a lui, nella natura, nelle piante da frut to, perché nasca un fiore, nel mondo animale. La sessualità è energia, energia preziosa perché ci fa uscire da noi stessi per andare verso l’altro in quanto altro, diverso da noi, può render la vita feconda. Se è così, allora educazione sessuale non è solo quella problematica specifica legata all’istinto sessuale (che nel piccolo è come in una fase di latenza, sosteneva Freud), ma tutto ciò che promuove anche nel bambino questa energia e la rispetta nel suo esser votata alla relazione, all’apprendimento del rapporto con l’altro–da–sé, con chi gli è diverso e magari pure antipatico, per imparare a non chiudersi egoisticamente dentro di sé e scegliere di costruire assieme alla vita. In tal senso va molto bene tutto ciò che porta il bambino a provare gioia di sentirsi vivo con se stesso e con gli altri, di mettersi alla prova con le cose e le persone, di gustare l’abilità di praticare uno sport o un’attività fisica impegnativa, di capire che in tutto ciò è fondamentale avere una regola: una regola per rispettare il proprio corpo perché dia il meglio di sé, una regola per rispettare gli altri con cui compete, una regola per fare gioco di squadra se lo sport è collettivo, una regola per imparare bene lo sport. Da un lato tutto ciò lo porta a esprimere e a canalizzare la sua energia verso un obiettivo preciso, dall’altro questo obiettivo lo conduce fuori di sé e lo fa stare sempre più in compagnia. E questo rispetta la grammatica insita nella sessualità, ed è dunque salutare per la sua energia affettivo – sessuale. In tal modo, infat ti, il bambino, apprende tutto quell’alfabeto emotivo (dall’empatia alla condivisione, dal non mettersi al centro dell’attenzione alla generosità, all’estroversione alla collaborazione), che poi lo porterà naturalmente a rispettare quell’unico/a di cui domani s’innamorerà. Ma è indispensabile preparare per tempo quell’evento così importante. Il bambino ha diritto a non essere considerato né un bambino-prodigio né una ciabatta, ma di essere apprezzato per quello che è. È un’aspettativa che in certi momenti sarà sentita come una condanna, la condanna a essere regolarmente il migliore, in ogni campo, a vincere ogni competizione, a raggiungere il massimo e ad eccellere in tutto. Talora è il padre che si identifica con il figlio e con i suoi successi. Le realizzazioni del figlio sono le sue realizzazioni, le sue conquiste sono sentite come sue. È così che si spiega l’accanimento del genitore durante la partita di calcio del figlio al torneo parrocchiale o cittadino, dunque a qualcosa di assolutamente irrilevante in un contesto semplice e ufficiale. Eppure accanimento – ci raccontano cronache locali – che a volte arriva incredibilmente all’incitazione vera e propria verso la violenza nei riguardi del52 l’altro, del coetaneo dell’altra squadra con cui il piccolo è in competizione. Per non dire del tifo delle mamme per le figlie – quando competono al concorso di bellezza o alla selezione per entrare nel solito programma televisivo ove alla velina viene assegnato un ruolo col quale viene adombrata la sua dignità, anche se di fatto non se ne rende conto; o dei genitori che se la prendono con l’insegnante per il compito andato male del figlio (che non può andar male) e lo scarso punteggio che gli ha affibbiato (ma come si permette?). Quando la pretesa sul figlio prodigio si scontra clamorosamente contro la realtà, dunque quando il rampollo non è il primo della classe e non ha vinto la medaglia d’oro o addirittura è peggio del figlio del vicino e del cugino, riemerge il vero volto, quello del genitore, prima di tutto, e il figlio diventa una ciabatta, uno che non vale niente. È considerato una ciabatta perché il genitore si sente così, anche se non vorrebbe, e dicendolo del figlio s’illude in qualche modo di non doverlo dire di sé, quasi liberandosi di questo giudizio negativo su di sé. È triste pensare come il figlio possa essere strumento in funzione dei problemi irrisolti del genitore, quasi diventandone uno schermo proiettivo, e dunque correndo il rischio reale di riprodurli in se stesso. Per questo si parla del diritto del bambino di esser visto e apprezzato per quello che è, per la sua immagine reale, per la dignità che è legata al suo essere vivente, perché è lui, con quel volto, con quella voce, con quel modo inconfondibile di stare di fronte all’altro, di sorridere, d’essere amico e pure con quella timidezza che a volte forse lo rende difficile da avvicinare, quasi preferisse la solitudine, o al contrario con quella esuberanza che diventa a tratti invadente e antipatica, o con quella intelligenza che lo rende creativo e brillante in alcune cose, e disinteressato e quasi imbranato in altre… Insomma, il bambino ha bisogno d’esser accolto nella sua realtà, positiva e meno positiva, per esser promosso e apprezzato nel bene che già possiede, e incoraggiato a correggersi negli aspetti meno positivi. Ma in ogni caso ha diritto d’esser riconosciuto nella sua propria identità, in quell’essere unico – singolo – irripetibile che lo rende una sorta di prototipo, inconfondibile, degno d’una stima che va al di là dell’aspetto puramente fisico e pure delle sue doti psicologiche, tante o poche che siano; stima che per il credente trova le sue radici in Dio, il Padre che lo riconosce come figlio, che gli dà la certezza della sua amabilità radicale, del suo essere già davvero un prodigio, senza doverlo diventare per fare un piacere ai suoi genitori. «Sono stato scelto per applaudire i miei compagni e per animare il pubblico», dice felice Alberto che non aveva tendenze a recitare e che non voleva farlo. La mamma rimane stupita di fronte alla positiva reazione di Alberto perché lei s’era 53 fatta un sacco di problemi; in verità ella aveva commesso un grosso errore, quello di attribuire al figlio gli stessi suoi sentimenti, le sue paure e le sue frustrazioni; ella infatti non era stata scelta da piccola nel ruolo della protagonista e questo ricordo si era incollato e sovrapposto all’infanzia di suo figlio, il quale – secondo lei – avrebbe dovuto per forza rivivere le sue stesse sensazioni e angosce. Come una nuova frustrazione per la madre, la quale, ovviamente, era invece profondamente preoccupata o diceva d’esser preoccupata per il figlio e per la sua delusione di es sere stato escluso dalla recita, per nulla consapevole che il problema era soprattutto proprio della madre ancora non del tutto libera dai fantasmi del suo passato. Invece ecco la bella lezione di Alberto, il quale avrà anche problemi di recitazione, ma è senz’altro più libero della mamma nell’accettare il ruolo che la vita gli sta offrendo in questo momento, nella realtà e non nella fantasia, secondo una lettura realistica delle sue capacità e senza sognare chissà cosa, imparando ad accettarsi senza sentirsi frustrato perché non ha avuto chissà quale riconoscimento pubblico, e dando di buon grado il proprio contributo alla recita della classe. È probabile che il piccolo Alberto non fosse consapevole di tutto ciò, ma resta il fatto che con il suo atteggiamento ha dato una grande lezione alla signora madre. Il bambino va educato ad essere considerato soggetto non solo di diritti, ma anche di doveri. Il dovere nasce dalla consapevolezza di trovarsi di fronte all’amore immeritato, la persona deve qualcosa alla vita, all’altro, agli altri; niente come il sentirsi amato rende responsabili e quindi consapevole d’avere un debito da rendere, un debito d’amore. La radice psicologica del dovere è la scoperta d’essere amati. Un bambino che non ha doveri, ma solo diritti, è un bambino che in realtà non conosce l’amore, l’amore vero, quello gratuito, o che non è stato accompagnato in questa importante scoperta dell’amore ricevuto. Chi pretende tutto e subito esprime un’inconscia e disperata ricerca di provare la propria amabilità e dignità, senza però raggiungerla mai. È necessario pertanto educare il bambino alla riconoscenza, a quel grazie che, lungi dall’essere una pura formalità, sgorga spontaneo di fronte al mistero della vita; ciò determina la volontà decisa di rispondere in modo coerente al dono ricevuto, di passare dalla gratitudine alla gratuità. Chi sente nascere in sé il senso del dovere, sta maturando un buon senso del proprio io. L’educazione ai doveri aiuta il bambino a porsi in un orizzonte nel quale egli è chiamato a non essere soddisfatto sempre, subito e comunque nei propri desideri. Soddisfare regolarmente i desideri infantili non appena vengono manifestati – ci dice la psicologia – significa alla lunga mortificare nel bam54 bino la capacità di desiderare. “Desiderare” vuol dire scoprire qualcosa di bello che però non appartiene ancora al soggetto, dunque vuol dire concentrare l’energia nella tensione verso qualcosa di vero e attraente che però non c’è, ma che il soggetto sogna o intravede nella realtà, e dunque è fare come un’esperienza di trascendenza; significa aver pazienza e continuare a tendere verso il compimento del desiderio stesso senza accontentarsi di qualcosa di meno; vuol dire dunque anche attivare le proprie energie interiori, cuore, mente, volontà, sensi esterni e interni e fare una certa fatica per giungere al punto o all’oggetto desiderato; significa cominciare a capire che nella vita non c’è alcun automatismo tra il desiderare e l’ottenere, nessuna immediatezza tra desiderio e realtà, ma che tutto esige un prezzo da pagare, un tempo da aspettare, una fedeltà da vivere, una pretesa da calmare. I bambini hanno diritto a fare domande e ad ottenere risposte. La stagione dei perché comincia ad evidenziarsi fra i 3 e i 4 anni, con la fase acuta che s’estende da sei mesi a un anno; si contraddistingue per il fatto che i “perché” sono costanti e graduali; essi possono manifestarsi come semplici e banali (del tipo «Cosa fa la pioggia?», «Perché urli?»), o come domande acute ed intriganti (del tipo «Cosa vuol dire che il nonno non c’è più?», «Mamma, perché baci il babbo?»). Ogni tipo di domanda dà voce a quel profondissimo bisogno di senso e di verità, persino di logica e di coerenza che abita il mondo interiore del bambino. Il genitore deve prepararsi ad affrontare questa fase, ben sapendo che non vi potrà in ogni caso giungere pronto a rispondere perfettamente a tutto. Sarà una bella sfida anche per lui, sia per il contenuto delle domande in sé, spesso tutt’altro che facili, sia per il mondo con cui saprà tradurre concetti non semplici in parole semplici. In fondo proprio questo gli è chiesto: risposte precise e incomprensibili non solo per non innescare una nuova catena d’interrogativi che potrebbe andare avanti all’infinito esaurendo la pazienza non infinita del genitore, ma per rispondere a quel bisogno di verità che è radicato nel più profondo d’ogni cuore umano, fin dalla nascita. Il bambino, con le sue domande più o meno impertinenti, ci ricorda che l’essere umano è disposto ad accogliere qualsiasi realtà e verità, purché vi veda dentro e vi possa leggere un senso, un significato che si dispiega coerentemente. Egli, in particolare, coglie immediatamente la minima incongruenza di senso. È bravissimo con il suo modo di pensare in bianco e nero, senza zone d’ombra o grigie, a scoprire le contraddizioni della nostra vita, o certe nostre conclusioni meno logiche, ma che abbiamo messo in discussione. Potremmo dire con una parola sola che ciò che sta apprendendo è il senso del mistero o, meglio, sta imparando a 55 stare di fronte al mistero, alla sua soglia. Certo, perché il bambino ha bisogno di mistero, di esplorare in qualche modo qualcosa che vada oltre il mondo sensibile, che dia qualche risposta su quella che è “la” domanda dell’uomo: che cosa c’è dietro la morte. La loro è una domanda di sen so, quel senso che è il grande vuoto contemporaneo. Il bambino proprio con le sue domande, ci dimostra che l’essere umano fin da subito è aperto al mistero, lo è per natura. Le domande del bambino, in realtà, sono l’avvio e il segno di questo processo d’avvicinamento al mistero come espressione più alta della capacità mentale dell’uomo e dunque anche tappa iniziale importante della formazione d’essa. Impedirglielo o distrar lo con risposte fasulle da questo obiettivo vuol dire non solo mandare a vuoto una preziosa tensione della mente e del cuore. Domande per il dialogo 1 «Il puerocentrismo non può essere considerata una pedagogia di successo, specie quando crea puerodipendenza». Esso dà adito ad un «sistema pedagogico che sembra rispettoso della libertà dei pargoli» e che di fatto finisce col creare il vuoto non solo attorno ma dentro di essi, oltre che rendere insignificanti genitori ed educatori ed improbabile ogni intervento autenticamente formativo. Che cosa può significare al positivo mettere al centro il bambino? 2 Cosa pensi del «diritto ad avere una propria identità» da parte del bambino e dell’impegno dell’adulto di stimolare il sorgere della fiducia di base? 3 Quali riflessioni nascono in te quando pensi al diritto del bambino di non essere considerato né un bambino-prodigio né una ciabatta, ma di essere apprezzato per quello che è? 4 56 Il bambino va educato ad essere considerato soggetto non solo di dirit-ti, ma anche di doveri. E ciò nasce quando si passa dalla gratitudine alla gratuità. Prova a fare le tue considerazioni. Testo per la preghiera Signore, vorrei ringraziarTi per il dono dell’altro. Senza di lui vivo da solo, non esisto… Non percepisco in me i battiti del cuore che pulsa quando incontro uno come me, ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Creatura bella da ammirare con stupore. Il mio volto si rifrange nel suo come le onde si rifrangono sulla spiaggia del mare. Grazie all’altro so chi sono e ciò che ho: vedo nascere un pensiero che dà senso a ciò che esiste e a quanto accade; sento la gioia e la tristezza, la paura e il coraggio, la rabbia e la calma, la brama della ricerca e la gioia dell’approdo… L’altro è un regalo del cielo, un regalo prezioso, caro e amabile. Con l’altro cresco ed io sono il partner dell’altro che con me cresce… in un circuito d’amore, di libertà e di pienezza. Grazie Signore perché mi ami e me lo dimostri col dono dell’altro. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE A. CENCINI, Se mi ami non dirmi sempre di sì. Diritti (ignorati) dei bambini. Doveri (disattesi) degli adulti, Edizioni Paoline, Torino 2006. 57 1.3. PASTORALE VOCAZIONALE «CREDO PER DIRE DI SÌ!» Meta: In sintonia con il cammino della Chiesa, ogni comunità collegina si inserisce nel percorso di riflessione e preghiera previsto per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ed offre la sua testimonianza semplice ma gioiosa di adesione al Vangelo di Gesù che è la Verità. Perché: * La verità della vita, che è bene ricevuto e bene donato, è il progetto fondamentale che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo. La pastorale vocazionale, allora, è chiamata a servire ogni persona, perché possa riconoscere in questo progetto la realizzazione di sé e della propria verità. * La vocazione implica un duplice movimento: l’apertura di se stessi alla verità che è una persona, Gesù, e la risposta di ciascuno attraverso la responsabilità della testimonianza (= portare la vita che è Gesù). * La comunità religiosa collegina è nella Chiesa comunità vocazionale: «Le collegine, consapevoli che la chiamata è dono di Dio, cureranno l’animazione vocazionale con la preghiera e con la testimonianza personale; inoltre aiuteranno la gioventù a scoprire il progetto di Dio nella propria vita» (Cost. 31). Come: 1.3.1. Percorso di studio e riflessione sul tema della Giornata Mondiale di Preghiera per le vocazioni: «Apriti alla verità, porterai la vita» 58 Chi: Centro Regionale per le vocazioni Dove: Domus Carmelitana Siculorum – Palermo Quando: 29-31 agosto 2013 1.3.2. 1.3.3. Incontri periodici di programmazione e di verifica Chi: Sr. Anna Oliveri, Sr. Alessandra Panepinto e l’équipe di coordinamento della pastorale vocazionale Dove: Casa generalizia Quando: Durante il corso dell’anno Meteengs e week end vocazionali per i giovani sulla scorta dell’itinerario elaborato dal CNV (Centro Nazionale Vocazioni) per il nuovo anno 2013/2014 Dove: Da destinarsi Quando: Durante il corso dell’anno 1.3.4. Partecipazione ad incontri e raduni vocazionali organizzati dalle Diocesi, dai movimenti ecclesiali o da altre famiglie religiose. 1.3.5. Celebrazione della 51ª Giornata Mondiale delle Vocazioni Quando: 1.3.6. 1.3.7. 11 maggio 2014 Assemblea giovanile Chi: Tutti i gruppi giovanili Dove: Da definire Quando: 2 giugno 2014 Grest estivi di animazione giovanile e di orientamento vocazionale Chi: L’équipe di coordinamento della pastorale vocazionale Dove: Da definire Quando: luglio – agosto 2014 59 1.3.8. Celebrazioni giubilari 70° Professione religiosa Sr. Eustella Diana 28/10/1943 50° Professione religiosa Sr. Celeste Sr. Tarcisia Sr. Angelica Sr. Cecilia Sr. Gemma Maggio Mesi Bonnì Bordonaro Oliva 07/01/1964 07/01/1964 22/08/1964 22/08/1964 22/08/1964 25° Professione religiosa Sr. Francesca Sr. Diodora Sr. Lucia Giganti Fallea Martorano 24/07/1988 17/06/1989 24/06/1989 1.4. PASTORALE DEI MINORI «CREDO PER CRESCERE!» Meta: Entro giugno 2014 i responsabili e quanti in vario modo operano nelle comunità alloggio insistenti nei Collegi di Maria, riflettono sui compiti derivanti dalla funzione loro propria e ne traggono elementi sufficienti per motivare il loro lavoro accanto ai ragazzi e ai bambini delle comunità medesime. Come: 1.4.1. 60 Incontri periodici di programmazione e di verifica Chi: Madre Paolina Mastrandrea Dove: Casa generalizia Quando: Durante il corso dell’anno 1.5. PASTORALE MISSIONARIA «CREDO PER ANNUNCIARE!» Meta: Il GMC (Gruppo Missionario Collegino), rinnovando l’impegno ad annunciare con gioia il Vangelo di Gesù, continua a rendersi attento alle numerose urgenze della missione. In questo suo impegno coinvolge le parrocchie, le associazioni e i gruppi di volontariato che già operano in questo settore con attività di animazione e di promozione che tengano conto della variegata realtà della Congregazione e della sua presenza nel mondo. Perché: * Papa Francesco, nell’Enciclica Lumen Fidei ci ha ricordato che «la fede nasce da un incontro che accade nella storia e si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù» (Lumen Fidei, 38). * Promuovere e provocare l’incontro con l’evento di Gesù di Nazareth è il fondamento di ogni animazione missionaria il cui scopo è di aprire lo sguardo della fede sul mistero di Dio e del suo eterno amore per ogni uomo. * La comunità missionaria collegina ha messo al centro della sua vocazione l’invito a «fare di Cristo il cuore del mondo»: ciò la spinge a rendersi annuncio di salvezza a tutti e in particolare ai piccoli e ai poveri che sono i prediletti del Signore (Cfr. Costituzioni, 7). Come: 1.5.1. Incontro di programmazione delle attività Chi: Sr. Alessandra Panepinto e il GMC Dove: Casa generalizia Quando: ottobre 2013 61 1.5.2. Celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale dal titolo: «Sulle strade del mondo» Quando: 1.5.3. 62 20 ottobre 2013 Incontro di verifica delle attività programmate Chi: Sr. Alessandra Panepinto e il GMC Dove: Casa generalizia Quando: giugno 2013 PROGRAMMA 2° Vita interna della comunità Obiettivo: Ogni comunità della Congregazione è una comuni tà di fede, speranza e carità, di apostolato e di so rorità, caratterizzata *dal dialogo *dal discernimento *dalla programmazione e revisione. Perché: L’uomo contemporaneo tende a realizzare livelli di fraternità sempre più profondi, ma ha bisogno del la testimonianza di rapporti fraterni già realizzati che gli dimostrino che si può vivere da fratelli pur non essendovi legami di sangue. In virtù della chiamata alla santità comunitaria, ogni comunità collegina è protesa alla realizzazione della carità che rende al mondo testimonianza dell’amore trinitario. Siamo chiamate a trasformare le comunità in luoghi dove si fa esperienza dell’amore pedagogico di Dio, da comunicare agli altri mediante l’apostolato. 63 2. Ambiti della vita interna della comunità 2.1. Studio e riflessione 2.2. Liturgia – Preghiera – Spiritualità 2.3. Organizzazione della comunità 2.1. STUDIO E RIFLESSIONE Meta: Entro giugno 2014 ogni comunità collegina, in un clima di gioiosa condivisione, si impegna in una lettura ragionata dell’enciclica Lumen Fidei e si lascia interpellare dalle numerose sollecitazioni in essa contenute per la sua vita di fe de e la sua missione. Perché: * La vita consacrata si spiega in primo luogo come atto di affidamento al Dio fedele che mantiene la sua alleanza con l’uomo di generazione in generazione. È un atto di fede, alla cui luce si accende di senso e si riempie di significato nuovo ogni attimo della vita. * Ogni comunità collegina è anzitutto una comunità fondata sulla fede e radunata dalla Parola di Dio (cfr. Costituzioni, 72): in essa, andando oltre i criteri naturali, ciascuna «si sforza di essere fattore di unità e di sviluppo, per sostenere con la propria benevolenza il fervore delle consorelle, nell’interesse di contribuire ad una vita di effettiva comunione e alla vitalità della Congregazione secondo la missione sua propria» (Costituzioni, 74). 64 * È importante interrogarsi, alla luce della fede, sulla necessità di abitare l’ora presente, di entrare in dialogo con le istanze più radicali dell’uomo moderno per imparare a stare accanto ai destinatari della nostra missione e richiamare la loro attenzione sull’esortazione di Papa Francesco a non farsi rubare la speranza. Come: 2.1.1. Si realizzano 8 incontri comunitari dal TITOLO: «CREDO PER VIVERE!». !». LA LUCE DELLA FEDE 1a scheda Chi crede, vede Celebrazione introduttiva 2a scheda Il grande oblio della fede 3a scheda Fede, verità e amore 4a scheda Fede e ragione 5a scheda La Chiesa, madre della nostra fede 6a scheda I sacramenti e la trasmissione della fede 7a scheda Le ricadute sociali della fede 8a scheda «Volgi a noi i tuoi occhi, o Maria» Celebrazione mariana 65 Introduzione È dedicata alla luce la prima enciclica di Papa Francesco. Anzi alla LUCE DELLA FEDE, quella fede che è chiamata in causa perché ad essa è riconosciuto il compito di far luce su tanti aspetti della vita di ogni giorno, su tante questioni più o meno manifeste che appartengono a chi vive con intensità il tempo presente sia nella Chiesa, sia nel mondo di oggi: Cosa vuol dire aver fede? E davvero chi dice di non averla è senza Dio? Credere è qualcosa che spegne la ragione o è una cosa anche da uomini che usano pienamente la ragione? Cosa c’entra l’amore con la conoscenza e la verità? E qual è la relazione che passa tra queste realtà e la fede? Si è parlato tanto del fatto che la Lumen Fidei sia stata scritta a “quattro mani” tra i due pontefici, Benedetto XVI e Francesco. Ed infatti, l’andamento piano dello stile chiaro e coraggioso è da attribuirsi al primo, a Benedetto, mentre invece la profonda empatia con gli uomini e le donne di oggi è propria del secondo, di Francesco. Di sicuro, il tratto più innovativo dell’enciclica è da registrarsi nella «scomparsa della severa litania degli ismi contro cui il magistero non recrimina più» (don Massimo Naro). Non è un testo di condanna della modernità né dell’attualità. È piuttosto una profonda lettura della condizione umana: una lettura fatta non solo con uno sguardo da intellettuali, ma con lo sguardo di Cristo che ama l’uomo senza limiti e perciò lo comprende meglio di chiunque altro. In maniera assai significativa, l’enciclica, pur essendo un’enciclica sulla fede, non parla mai di atei, ma di coloro che si affidano agli idoli (e ciascuno di noi potrebbe esserlo in ogni momento) o di quanti, pur non ammettendo l’esistenza di Dio, ne provano il richiamo e vivono nella luce della sua ipotesi. I luoghi comuni, che solitamente vengono tirati in ballo quando si parla della fede, vengono smontati: essa non è buio angoscioso per l’esistenza, ma luce perché scaturisce dalla luce che rifulge sul Volto di Cristo. Se si volesse quindi dare una rappresentazione immediata dell’enciclica, la si potrebbe definire come una sorta di lente d’ingrandimento, uno strumento di alta precisione utile ad interpretare l’esistenza cristiana nel nostro tempo. Essa sfida i cristiani e quanti lo 66 desiderano a vivere la Chiesa non come un’agenzia morale o come una società ma come annunciatrice del volto di Cristo che si riflette sul volto di ogni uomo. Quest’enciclica, passata di mano da un papa all’altro e giunta ora nelle nostre mani, si rivela alla fine come un vademecum per essere aiutati a ritrovare il gusto, il chiarimento, l’avventuroso senso di questo strano mistero d’essere peccatori e limitati come tutti, ma lieti d’essere “quelli di Cristo”. 67 Schede mensili per gli incontri comunitari 1a Scheda per il mese di ottobre 2013 Chi crede vede Celebrazione introduttiva La presente scheda è stata pensata come una celebrazione introduttiva. Pertanto può essere utilizzata in sostituzione di uno dei momenti di preghiera della comunità. Chi crede, vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto (Lumen Fidei) Monizione introduttiva Cerchiamo di fare silenzio intorno a noi e dentro al nostro cuore, per ascoltare il Signore. Raccogliamoci nel silenzio per qualche minuto. Pensiamo che il Signore ci ama così come siamo... Ama proprio noi, ciascuna di noi, ciascuna in particolare! 68 Preghiamo nel profondo del nostro cuore: «Aiutaci, Signore, ad affidare la nostra vita a Te, nella certezza che Tu solo puoi darci la pace, illuminare di senso la nostra vita. Il nostro cuore ha sete di Te, di Te che non ti stanchi mai di amarci. Di Te che ogni giorno ci ricolmi di doni e di grazie: e fra questi, primo fra tutti, è il dono della fede. È un dono grande, capace di far zampillare in noi un’acqua viva che disseta e che ci sostiene nel cammino di questa vita; è accoglienza piena di stupore del tuo amore, lo Spirito santo, è adesione fiduciosa al tuo cuore di Padre, è conoscenza di Gesù, tuo Figlio e nostro Signore». Presidente O Dio, vieni a salvarmi. Tutti Signore, vieni presto in mio aiuto. Presidente Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Tutte Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen! Mentre si esegue un canto appropriato, vengono portati davanti all’ambone cinque lampade accese, simbolo dei cinque continenti. Terminato il canto, ha luogo l’esposizione eucaristica a cui fa seguito un congruo tempo di adorazione silenziosa. In ascolto Dal Vangelo di Gesù secondo Giovanni (Gv 12,44-46) Gesù allora gridò a gran voce: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre». Parola del Signore 69 Breve pausa di silenzio Dall’Enciclica Lumen Fidei di Papa Francesco (nn. 1;4) [1] La LUCE DELLA FEDE: con quest’espressione la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù. […] Pertanto chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta. [4] È urgente, quindi, recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne, anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce dall’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e sul quale possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da quest’amore, riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo, […] schiude davanti a noi orizzonti grandi e ci porta al di là del nostro “io” isolato, verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Tempo per l’interiorizzazione Lettrice Chi crede, vede: vede con una luce capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo… Tutte 70 Tu, Signore, sei luce alla mia lampada, Tu rischiari le mie tenebre. Tu sei la mia salvezza: di chi avrò timore? Tu sei difesa della mia vita: di chi avrò terrore? Lettrice Chi crede, vede: vede con occhi nuovi perché la sua vita è stata trasformata dall’incontro con il Dio vivente che svela all’uomo il suo amore… Tutte Alla tua luce, Signore, vediamo la luce! Saziaci con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Sia su di noi la tua dolcezza: non abbandonare l’opera delle tue mani! Lettrice Chi crede, vede: vede con un cuore che si allarga agli orizzonti del tempo e della storia, verso l’ampiezza della comunione con ogni uomo… Tutte Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore, hai ascoltato le parole della mia bocca. Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza: la tua destra mi ha sostenuto, la tua bontà mi ha fatto crescere. Camminerò alla tua presenza ogni giorno della mia vita, perché il tuo amore è per sempre, dura in eterno di generazione in generazione! Spazio di adorazione silenziosa Presidente Gesù è la via luminosa che discende dal cielo e che ci conduce fino al Padre. Una via che è tanto viva quanto vera. Lasciamoci condurre da lui, che è la luce del mondo e camminiamo sui suoi passi per non inciampare nelle tenebre. Chi altri, all’infuori di lui, potrebbe darci vita, giacché per mezzo lui tutto è stato fatto? 71 Da chi andremo, se abbiamo la grazia di poter stare con lui, che ci precede con il suo amore e ci rende saldi in esso? Raccogliamo davanti a lui la nostra lode e la nostra benedizione. Preghiamo a cori alterni: I Coro Benedetto sia Dio, * Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti * con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. II Coro In lui ci ha scelti * prima della creazione del mondo, per trovarci al suo cospetto * santi e immacolati nell’amore. I Coro Ci ha predestinati * ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo * secondo il beneplacito del suo volere, II Coro a lode e gloria della sua grazia* che ci ha dato nel suo Figlio diletto. I Coro In lui abbiamo la redenzione * mediante il suo sangue, la remissione dei peccati * secondo la ricchezza della sua grazia. II Coro Dio l’ha abbondantemente riversata su di noi, con ogni sapienza e intelligenza,* poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero del suo volere, I Coro il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, * 72 quelle del cielo come quelle della terra. II Coro Nella sua benevolenza lo aveva in lui prestabilito* per realizzarlo nella pienezza dei tempi. Breve pausa di silenzio Presidente Preghiamo O Dio, Padre eternamente buono, che sempre ti offri all’incontro con noi ed accendi di fiducia il nostro cammino: la luce del tuo Figlio Gesù, parola di verità, accresca in noi il vigore della fede, perché nessuna tenebra estingua quella fiamma che la tua grazia ha acceso nei nostri cuori. Tutte O Signore, fa che la nostra fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel nostro pensiero, nel nostro modo di giudicare le cose divine e le cose umane. O Signore, fa che la nostra fede sia libera e che esprima la pienezza della nostra capacità di scelta: crediamo in Te, o Signore. O Signore, fa che la nostra fede sia certa; certa di una sua luce rassicurante, e di una sua conclusione pacificante che nasce solo dall’incontro con te. O Signore, fa che la nostra fede sia gioiosa che dia pace e letizia al nostro spirito, e lo abiliti alla comunione con gli uomini. O Signore, fa che la nostra fede sia operosa per offrire agli uomini del nostro tempo una testimonianza di continua speranza. O Signore, fa che la nostra fede sia umile, che si arrenda alla presenza dello Spirito Santo, e non abbia altra garanzia che nella docilità al tuo mistero. Amen. 73 (Paolo VI) Canto finale 2a Scheda per il mese di novembre 2013 Il grande oblio della fede Introduzione Partiamo subito con una considerazione: l’enciclica sulla fede non dedica una parte specifica all’analisi del contesto culturale all’in terno del quale i cristiani sono chiamati a vivere la loro fede. Ma un dato è più che certo: assistiamo ad un graduale affievolirsi della fede che è per così dire contrassegnata da una crisi profonda. Crisi della fede in Dio, crisi della fede in Gesù Cristo, Colui che ci ha raccontato Dio, ma anche crisi dell’umanità della fede come atto umano, come fondamento necessario per il cammino di umanizzazione del mondo intero. Sono osservazioni che Papa Francesco semina qua e là nelle pagine della Lumen Fidei senza raccoglierle in una presentazione organica che, d’altra parte, necessiterebbe di uno spazio maggiore: la complessità dell’argomento e la difficoltà della problematica che esso comporta non potrebbero mai esaurirsi in pochi paragrafi e non si riuscirebbe mai a darne una valutazione complessiva che sia organica ed equilibrata. A noi sembra opportuno tuttavia accennare ad una visione sintetica di questa tematica in modo da favorire un approccio più coerente con i contenuti dell’Enciclica e da facilitarne la lettura. Sicuramente una prima osservazione che ci giunge da Papa Francesco è che la modernità, con la sua “pretesa” di mettere la ragione al centro di ogni cosa, ha posto le premesse per un ateismo di fatto, fino ad affermare che l’uomo può fare a meno di Dio. Vivere nel mondo come se Dio non esistesse, infatti, è stato lo slogan propugnato dal secolarismo con l’intento di far scomparire l’idea stessa di Dio e di affermare 74 che l’uomo può finalmente salvarsi da solo in quanto libero da ogni forma di sottomissione. Ecco, quindi, come si è giunti al rifiuto della fede: si è preferito pensare che essa sia una sorta di buio opposta alla luce della ragione e di conseguenza ci si è lasciati abbagliare da quelle “piccole luci” fugaci ed effimere che luccicano, ma non sono in grado di illuminare il cammino. Quali le conseguenze di una simile prospettiva culturale? L’uomo moderno apparirebbe sempre più rinunciatario nei confronti della verità, idolatra ed egocentrico: uno che mette se stesso al centro di tutto e che adora l’opera delle sue mani. Così facendo, non solo si è deformata l’immagine dell’uomo, ma si è pure stravolta l’im magine di Dio, relegato in un cielo indistinto dal quale non ha più alcun contatto con la vita. Di qui il grande oblio della questione religiosa e con essa la perdita di ogni punto di riferimento da parte dell’uomo, di ogni legame con la sua origine. Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 2-4 «Parlando della luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. […] Il credere si opporrebbe quindi al cercare e la fede sarebbe come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare in essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto, che compiamo per mancanza di luce, spin ti da un sentiero cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per riscaldare il cammino. Poco a poco, però, si 75 è visto che la luce della ragione autonoma non riesce ad illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione. È urgente, perciò, recuperare il carattere proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capa ce di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire in definitiva da Dio. La fede nasce dall’incontro con il Dio vivente che ci chiama e ci svela il suo amore […]. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. […] Essa è come una stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce». Riflettiamo insieme Dopo aver riflettuto sull’“oblio della fede” per l’uomo moderno, commenta quest’espressione di papa Francesco: «La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino». Come a dire che la fede può anche risultare non più sufficiente a farci vedere Dio, ma ci rende comunque consapevoli di poter essere avvistati da Lui… Non abolisce l’oscurità, ma non se ne lascia annichilire! Preghiamo insieme Signore, io credo: aumenta la mia fede! Tu conosci il mio cuore, Tu vedi la paura, che ho, di affidarmi perdutamente a Te. Tu sai come il desiderio di gestirmi da solo la vita 76 sia in me così forte, da farmi troppe volte fuggire da Te! Eppure, io credo: davanti a Te sta il mio desiderio e la mia debolezza. Orienta quello, sostieni questa. Aiutami a far naufragare in Te ogni mio sogno e attesa e progetto, per fidarmi di te e non di me e delle presunte evidenze di questo mondo che passa. Fa’ che io sappia lottare con Te: ma non permettere che io vinca! Signore della mia paura e della mia attesa, del mio desiderio e della mia speranza, aumenta, ti prego, la mia fede! Amen! Alleluia! (Bruno Forte) 77 3a Scheda per il mese di dicembre 2013 Fede, verità e amore Introduzione «Se non crederete, non comprenderete»: così esordisce il paragrafo della Lumen Fidei che Papa Bergoglio riserva al rapporto tra la fede e la verità. Il suo intento è di mostrare che questo legame è indis solubile, che la verità di Dio è affidabile e che la sua presenza nella storia è fedele. Ma se è così forte il legame tra fede e verità, al punto che «la fede senza la verità non salva», altrettanto forte è il legame tra fede e amore, inteso anzitutto come il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà. Se, quindi, la fede è legata alla verità e all’amore, allora amore e verità non si possono separare, perché solo l’amore vero supera la prova del tempo e diventa fonte di conoscenza. Non poteva essere diversamente, giacché è l’amore che genera la fede e la fede a sua volta sostiene l’amore. Pertanto, come c’è la luce della fede, esiste anche la luce dell’amore: in altre parole, per incontrare la verità della fede e conoscerne i contenuti, è necessario armarsi delle ragioni del cuore. Ora, rileggere la fede in rapporto all’amore, permette di evidenziare la natura della verità a cui ci si abbandona e a cui si crede, giacché la verità illuminata dall’amore, rende sicuro il cammino: è un amore sul quale possiamo poggiare per essere saldi e che trasforma la vita. Una trasformazione che permette una conoscenza diversa e più profonda, grazie alla quale si vede con gli occhi della fede. 78 Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 24-27 «L’uomo ha bisogno di conoscenza, ha bisogno di verità, perché senza di essa non si sostiene, non va avanti. La fede senza verità non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci. Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo, alla variabilità dei tempi, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita. […] Al contrario, proprio per il suo nesso intrinseco con la verità, la fede è capace di offrire una luce nuova, perché essa vede più lontano, comprende l’agire di Dio. Richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo. Nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia: è vero ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza, vero perché funziona, e così rende più comoda e agevole la vita. Questa sembra oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si può discutere e impegnarsi insieme. Dall’altra parte vi sarebbero poi le verità del singolo, valide solo per l’individuo che non possono essere proposte agli altri con la pretesa di servire il bene comune. La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto, ed è logico che in questa prospettiva si voglia negare ogni sua possibile connessione con la religione, fino a dimenticare il legame profondo con ciò che ci precede e che è all’origine di tutto. Come può, allora, la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? Per rispondere è necessario riflettere sul tipo di conoscenza proprio della fede. Può aiutarci un’espressione di San Paolo, quando afferma: “Con il cuore si crede” (Rm 10,10). Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove si intrecciano tutte le dimensioni, il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La compren79 sione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà. Si pone a questo punto la questione: in che termini l’amore ha a che fare con il vero? L’amore non si può ridurre ad un vago sentimento che va e viene. Esso tocca sì la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare un cammino che è uscire dalla chiusura del proprio io e andare verso l’altra persona per edificare un rapporto duraturo. […] Si comprende allora in che senso l’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. L’amore vero invece unifica tutti gli elementi della nostra persona e diventa una luce nuova verso una vita grande e piena.[…] Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata». Riflettiamo insieme 1. La fede si nutre di verità, amore e conoscenza. Commenta quest’espressione e cerca di trarne importanti conseguenze per la tua vita. 2. Bruno Forte, noto teologo e pastore italiano, a proposito dello stretto rapporto che esiste tra fede, verità e amore, afferma che nell’atto del credere il «cogito ergo sum» - penso, quindi sono -, cede il posto all’«amor, ergo sum» - ci sono perché sono amato. Cosa suscita in te questo pensiero per la qualità della tua vita di fede? 80 Preghiamo insieme Concedimi, o Dio misericordioso, di desiderare con ardore ciò che tu approvi, di ricercarlo con prudenza, di riconoscerlo secondo verità, di compierlo in modo perfetto, a lode e gloria del tuo nome. Che io cammini verso di te, Signore, seguendo una strada sicura, diritta, praticabile e capace di condurre alla meta… Concedimi, Signore mio Dio, un’intelligenza che ti conosca, uno zelo che ti cerchi, una sapienza che ti rovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia e una fiducia che alla fine arrivi a possederti. (San Tomaso d’Aquino) 81 4a Scheda per il mese di gennaio 2014 Fede e ragione Introduzione Il legame tra la fede, la verità e l’amore non è il solo a far trasparire la complessa realtà del credere: un altro rapporto che va opportunamente indagato e che lo completa è quello della fede con la ragione. L’enciclica di Papa Francesco esordisce con l’affermazione che la fede è luce: una luce che non è di questo mondo, ma che viene da altrove, dall’alto di Dio. Certo, ad alcuni la luce della fede può sembrare un’illusione, una vaga consolazione che potrebbe addirittura condannare l’intelligenza umana ad assopirsi in un tranquillizzante letargo. Al contrario, la ragione sarebbe chiamata ad occupare lo spazio del reale, lo spazio luminoso dell’intellegibile e dell’evidenza. È a questo punto che il Papa apre un’ampia riflessione sul dialogo tra fede e ragione che s’illumina di tutta la sua fecondità, giacché la fede non solo non esclude la ragione, ma la suppone e l’alimenta nella continua ricerca di Dio. Inoltre, giacché si crea uno stretto connubio tra verità, amore e ragione, se ne deduce come conseguenza che la fede apre al dialogo in tutti i sensi: in quello della scienza, perché risveglia il senso critico e allarga gli orizzonti della ragione; in quello interreligioso, perché sollecita il cristianesimo ad offrire il proprio contributo con umiltà e senza arroganza (la verità rende umili!); in quello con i non credenti che non cessano di cercare Dio. Un’umiltà, quella appena evidenziata, che la stessa enciclica sottolinea e che induce ad assumere una nuova logica per la nostra conoscenza: la ragione umana e l’amore sono come due occhi che insieme diventano un occhio solo per contemplare Dio e per scrutare la verità. 82 Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 32-35 «La fede cristiana, in quanto annuncia la verità dell’amore totale di Dio e apre alla potenza di questo amore, arriva al centro più profondo dell’esperienza di ogni uomo, che viene alla luce grazie all’amore ed è chiamato ad amare per rimanere nella luce. Mossi dal desiderio di illuminare tutta la realtà a partire dall’amore di Dio manifestato in Gesù, cercando di amare con quello stesso amore, i primi cristiani trovarono nel mondo greco, nella sua fame di verità, un partner idoneo per il dialogo. L’incontro del messaggio evangelico con il pensiero filosofico del mondo antico costituì un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli e favorì una feconda interazione tra fede e ragione, che si è andata sviluppando nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. […] Fede e ragione, infatti, si rafforzano a vicenda. […] La luce della fede, in quanto unita alla verità dell’amore, non è aliena dal mondo materiale, perché l’amore si vive sempre in corpo ed anima; la luce della fede è luce incarnata, che procede dalla vita luminosa di Gesù. Essa illumina anche la materia, confida nel suo ordine, conosce che in essa si apre un cammi no di armonia e di comprensione sempre più ampio. Lo sguardo della scienza riceve così un beneficio dalla fede: questa invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile. La fede risveglia il senso critico in quanto impedisce alla ricerca di essere soddisfatta nelle sue formule e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande. Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza. La luce della fede in Gesù illumina anche il cammino di tutti coloro che cercano Dio ed offre il contributo proprio del cristianesimo nel dialogo con i seguaci delle diverse religioni. […] Il cammino dell’uomo religioso passa per la confessione di un Dio che si prende cura di lui e che non è impossibile trovare. Quale altra ricompensa potrebbe offrire Dio a coloro che lo cercano, se non lasciarsi incontrare? […] Dio è luminoso e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero. […] Poiché la fede si configura come via, essa riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare. Nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella 83 strada verso la fede. Essi cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune, oppure perché sperimentano il desiderio di luce in mezzo al buio, ma anche perché, nel percepire quanto è grande e bella la vita, intuiscono che la presenza di Dio la renderebbe ancora più grande. […] Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio, è già sorretto dal suo aiuto, perché è proprio della dinamica della luce divina illuminare i nostri occhi quando camminiamo verso la pienezza dell’amore». Riflettiamo insieme 1 Quali passaggi dell’enciclica hanno colpito la tua riflessione? 2 S. Agostino, volendo affermare che non esiste alcun contrasto tra verità di fede e verità di ragione, era giunto a questa sintesi: «Credo per conoscere e conosco per credere». Prova a ridire quest’assunto con parole tue. Preghiamo insieme Io lo conosco: ha riempito le mie notti con frastuoni orrendi, ha accarezzato le mie viscere, imbiancato i miei capelli con lo stupore. Mi ha resa giovane e vecchia a seconda delle stagioni, mi ha fatta fiorire e morire un’infinità di volte. Ma io so che mi aiuta e ti dirò, anche se tu non credi, che si preannuncia sempre con una grande frescura in tutte le membra come se tu ricominciassi a vivere e vedessi il mondo per la prima volta. E questa è la fede, e questo è lui , che ti cerca per ogni dove anche quando ti nascondi per non farti vedere. (Alda Merini) 84 5a Scheda per il mese di Febbraio 2014 La Chiesa, madre della nostra fede Introduzione Il terzo capitolo della Lumen Fidei è dedicato interamente alla trasmissione della fede, rispondendo così ad una problematica che è molto sentita ai nostri giorni. La fede inserisce in quella lunga lista di uomini e di donne che hanno creduto prima di noi e che prima di noi hanno affidato a Dio la loro vita senza esitazione. Come abbiamo già avuto modo di evidenziare in precedenza, non si può negare che stiamo attraversando una profonda crisi di fede, derivante da cause differenti, una delle quali è senza dubbio il crescente analfabetismo in materia di fede che in realtà stride con la crescita professionale di molti cristiani in diversi ambiti del sapere umano. È significativo dunque che Papa Francesco abbia voluto richiamare alla realtà della Chiesa quale luogo privilegiato in cui avviene la trasmissione della fede. In questo contesto, viene approfondita la natura ecclesiale della fede, presentando la Chiesa come «madre della nostra fede»: credere, pur essendo una scelta personale, equivale a far parte della Chiesa. Chi crede, infatti, non è mai da solo perché è impossibile credere da soli: l’atto di fede personale s’innesta in un atto di fede comunitario che è garanzia della certezza della fede di sem pre. Il credo è, in altre parole, il segno di un’appartenenza che non è più solo individuale, ma ecclesiale. Proponendo quindi la fede in questa duplice dimensione, personale e comunitaria (la fede del singolo vissuta con il sostegno della comunità), la Chiesa è il luogo privilegiato a cui occorre ritornare per 85 comprendere meglio il proprio essere credenti e per sperimentare il dono di una fecondità senza eguali: come la Chiesa è madre che genera, allo stesso modo ogni credente rende partecipi gli altri della sua gioia e si apre a nuove relazioni che arricchiscono la vita. Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 37-39 «Chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé. Poiché la fede è ascolto e visione, essa si trasmette anche come parola e come luce. Parlando ai Corinzi, l’apostolo Paolo ha usato proprio queste due immagini. Da un lato, egli dice: “Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato – anche noi crediamo e perciò parliamo” (2 Cor 4,13). La parola ricevuta si fa risposta, confessione e, in questo modo, risuona per gli altri, invitandoli a credere. Dall’altro, san Paolo si riferisce anche alla luce: “Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine” (2 Cor 3,18). È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosè portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con Lui: “[Dio] rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cri stiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce, come nella liturgia di Pasqua la luce del cero accende tante altre candele. La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. I cristiani, nella loro povertà, piantano un seme così fecondo che diventa un grande albero ed è capace di riempire il mondo di frutti. La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù. Come è possibile questo? Come essere sicuri di attingere al “vero Gesù”, attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall’io individua86 le, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me. Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui l’uomo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più gran-de nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo ad una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, con servato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa. La Chiesa è una madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede. San Giovanni ha insistito su quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue all’azione dello Spirito santo che, come dice Gesù, “vi ricorderà tutto” (Gv 14,26). L’amore che è lo Spirito, e che dimora nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede. È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non precede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene ad una comunione grande, solo perché si dice “crediamo”. Questa apertura al noi ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone. Ecco perché chi crede non è mai solo e perché la fede tende a diffondersi, ad invitare altri alla sua gioia. Chi riceve la fede scopre che gli spazi del suo “io” si allargano, e si generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la vita». 87 Riflettiamo insieme Papa Francesco attribuisce una grande importanza all’evangelizzazione e quindi alla trasmissione della fede: chi si è aperto all’amore di Dio non può tenere questo dono per sé, giacché la luce di Cristo che brilla sul suo volto si trasmette come fiamma, nella forma del contatto, da una generazione all’altra. La Chiesa è il primo alveo in cui questa trasmissione avviene. Commenta queste considerazioni e tranne le dovute conseguenze per la tua vita e per il tuo impegno nell’evangelizzazione. Preghiamo insieme «Vai e non ritornare da me prima di aver mostrato agli esseri la mia presenza!», disse Dio. Ne fu spaventata. Non era che una piccola goccia d’acqua. Come avrebbe potuto dimostrare la potenza di Dio? Avrebbe voluto tornare indietro, ma non poteva. Era stata mandata. Quando cadde dal cielo, l’avvolse l’aria e quasi la consumò. Poi fu impastata dalla terra. Si vergognava: era stata un piccolo specchio del cielo, ora invece era piena di polvere. Si sentì afferrata da una radice. Divenne parte di una pianta e una goccia di frutto. Una lunga storia. Imparò a sentirsi terra e vegetale. E fu fiume, lago, rugiada del mattino. Ora cercata con rabbia, ora pestata e dimenticata. Le sembrò anche di perdersi, di sparire. Poi un giorno il sole la prese con più forza del solito, e la portò con sé in alto. Le disse: «Sono finite le tue stagioni, gocciolina, sali di nuovo. Dio ti aspetta!». La goccia salì e le sembrò di essere felice. Ma quando cominciò a salire in alto, ebbe nostalgia. Dio le sorrise. «Hai fatto tanto bene, piccola mia – le disse –; cosa vorresti ora?». «Mandami di nuovo giù! Qui vicino a te, sono un cristallo di gioia, ma laggiù, nel mondo pieno di sete, io sono la tua presenza!». 88 6a Scheda per il mese di marzo 2014 I Sacramenti e la trasmissione della fede Introduzione La fede non è un’opzione individuale, ma apre l’“io” al “noi” all’interno della comunione della Chiesa: a partire da quest’affermazione, l’enciclica Lumen Fidei conduce la nostra attenzione sui sacramenti, un mezzo speciale grazie al quale la fede può trasmettersi e con cui si comunica una memoria incarnata del mistero che si crede. Chiaramente, il primo fra tutti i sacramenti è il battesimo: esso ci ricorda che la fede non è opera di un individuo isolato, un atto che si può compiere da soli. La fede, piuttosto, va ricevuta nel contesto di una comunione ecclesiale, giacché nessuno si battezza da se stesso. È l’identità battesimale inoltre che offre l’accesso agli altri sacramenti e raggiunge il suo culmine nella celebrazione eucaristica. Papa Francesco, a questo punto, riconosce un’importanza fondamentale alla sinergia che passa tra la Chiesa e la famiglia proprio nella trasmissione della fede, ritenendo quindi che la famiglia sia insostituibile nel contribuire alla formazione dell’identità cristiana dei credenti. Una identità che viene ad essere forgiata grazie al concorso di vari elementi. Perciò l’enciclica, oltre il battesimo e l’eucaristia, prende in considerazione anche gli altri strumenti mediante i quali il credente non solo confessa la sua fede, ma si vede coinvolto nella verità che confessa: la preghiera del Padre nostro e il Decalogo. 89 Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 40-46 «La Chiesa, come ogni famiglia, trasmette ai suoi figli il contenuto della sua memoria. […] La fede, infatti, ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua Tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persona nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività, aprendola a relazioni vive nella comunione con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale pienezza esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i Sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. In essi si comunica una memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi della vita, associata a tutti i sensi; in essi la persona è coinvolta, in quanto membro di un soggetto vivo, in un tessuto di relazioni comunitarie. […] Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno. La trasmissione della fede avviene in primo luogo attraverso il Battesimo. Potrebbe sembrare che il Battesimo sia solo un modo per simboleggiare la confessione di fede, un atto pedagogico per chi ha bisogno di immagini e gesti, ma da cui in fondo si potrebbe prescindere. Una parola di san Paolo a proposito del Battesimo, ci ricorda che non è così. […] Nel Battesimo diventiamo nuova creatura e figli adottivi di Dio. […] L’uomo riceve una dottrina da professare e una forma concreta di vita che richiede il coinvolgimento di tutta la sua persona e lo incammina verso il bene, […] in un nuovo ambiente, nella Chiesa. Il Battesimo ci ricorda così che la fede non è opera dell’individuo isolato, non è un atto che l’uomo possa compiere contando solo sulle proprie forze ma deve essere ricevuta, entrando nella comunione ecclesiale: nessuno battezza se stesso, così come nessuno nasce da solo all’esistenza. […] La struttura del Battesimo, la sua configurazione come rinascita, ci aiuta a capire il senso e l’importanza del Battesimo dei bambini. Il bambino non è capace di un atto libero che accolga la fede, non può confessarla ancora da solo, e 90 proprio per questo essa è confessata dai suoi genitori e dai padrini in suo nome. La fede è vissuta all’interno della comunità della Chiesa, è inserita in un “noi” comune. […] Questa struttura del Battesimo evidenzia l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede. I genitori sono chiamati, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il Battesimo, siano rigenerati come figli di Dio, ricevano il dono della fede. […] La natura sacramentale della fede trova la sua espressione massima nell’Eucaristia. Essa è nutrimento prezioso della fede, incontro con Cristo presente in modo reale con l’atto supremo d’amore, il dono di se stesso che genera vita. Nell’Eucaristia troviamo l’incrocio dei due assi su cui la fede percorre il suo cammino. Da una parte, l’asse della storia (l’Eucaristia è atto di memoria ed attualizzazione del mistero), da un’altra parte l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile. Nell’Eucaristia impariamo a vedere la profondità del reale. Il pane e il vino si trasformano nel corpo e sangue di Cristo, che si fa presente nel suo cammino pasquale verso il Padre. […] Altri due elementi sono essenziali nella trasmissione fedele della memoria della Chiesa. In primo luogo, la preghiera del Signore, il Padre nostro. In essa il cristiano impara a condividere la stessa esperienza spirituale di Cristo e comincia a vedere con gli occhi di Cristo. A partire da Colui che è Luce da Luce, dal Figlio Unigenito del Padre, conosciamo Dio anche noi e possiamo accendere in altri il desiderio di avvicinarsi a Lui. È importante, inoltre, la connessione tra la fede e il Decalogo. La fede appare come un cammino, una strada da percorrere, aperta dall’incontro con il Dio vivente. Per questo, alla luce della fede, dell’affidamento totale al Dio che salva, il Decalogo acquista la sua verità più profonda […]. Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ “io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia. […] Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore perché nella fede ci siamo aperti all’amore trasformante di Dio per noi». Riflettiamo insieme 91 1 Evidenzia quelle espressioni dell’enciclica che per te sono più significative. Ti sembra di cogliere una qualche novità nel discorso portato avanti da Papa Francesco? 2 Cosa serve a noi e alla nostra gente per dare il giusto peso alla trasmissione della fede e al costituirsi di identità cristiane autentiche? Quale la nostra parte di responsabilità? Preghiamo insieme Si racconta che lo scrittore Julien Green, prima di convertirsi al cattolicesimo, si appostava alla porta delle chiese e rimaneva in attesa. Pensava: «Se questi veramente credono a quello a cui partecipano, dovranno uscire di qui con facce splendenti, occhi incendiati dalla luce, il fuoco nel cuore». Il popolo si rimette in cammino… Andrà per le strade del mondo a testimoniare, confessare le meraviglie di Dio. 92 7a Scheda per il mese di aprile 2014 Le ricadute sociali della fede Introduzione L’ultimo capitolo della Lumen Fidei ha come intento quello di spiegare il legame tra la fede e il bene comune al fine di giungere alla formazione di un luogo in cui l’uomo può abitare insieme agli altri. La fede, che nasce dall’amore di Dio, rende saldi tra di loro i vincoli che li legano e li pone al servizio della giustizia, del diritto e della pace. Ritorna qui un tema tanto caro a Papa Francesco, verso il quale Egli ha attirato l’attenzione di tutta la Chiesa, durante i primi mesi del suo pontificato: quello dell’impegno dei cristiani nel mondo. L’insistenza sul “camminare”, tipico dei primi due capitoli, sul “confessare”, proprio del terzo capitolo, cede il posto all’ “edificare” e al “costruire”, volendo così far risaltare che alla fede non deve mai mancare la sua porzione di visibilità e di credibilità. La fede, in altre parole, non allontana i credenti dal loro impegno nella costruzione di una città affidabile, anzi li rende responsabili nel recuperare il fondamento di una nuova fratellanza e quindi nell’instaurazione di nuovi rapporti umani. Chiaramente, questo fondamento va rintracciato nella riscoperta della paternità di Dio da cui dipende il carattere della figliolanza, realizzata dall’incarnazione di Cristo, e quello della fraternità, che rende gli uomini fratelli tra di loro, capaci quindi di condividere la responsabilità del creato. Avendo colto questo fondamento, che in definitiva trae origine dall’amore affidabile di Dio, l’enciclica si sofferma a trattare gli ambiti illuminati dalla fede: la famiglia fondata sul matrimonio, e con 93 essa tutti i rapporti sociali; la natura, per la quale occorre trovare nuo vi modelli di sviluppo che non si basino solo sul profitto; la sofferenza e la morte che possono diventare tappe di avvicinamento a Dio, per sperimentare che Egli non ci abbandona mai, ci offre la sua presenza sicura lungo il cammino ed apre un varco di luce nelle nostre tenebre. Leggiamo insieme Dalla Lumen Fidei nn. 50 ss «Nel presentare la storia dei Patriarchi e dei giusti dell’AT, la Lettera agli Ebrei pone in rilievo un aspetto essenziale della loro fede. Essa non si configura solo come un cammino, ma anche come l’edificazione, la preparazione di un luo go nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri. […] Sorge, in rapporto alla fede, una nuova affidabilità, una nuova solidità, che solo Dio può donare. Se l’uomo di fede poggia sul Dio-Amen, sul Dio fedele, e così diventa egli stesso saldo, possiamo aggiungere che la saldezza della fede si riferisce anche alla città che Dio sta preparando per l’uomo. La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi. Non evoca soltanto una solidità interiore, una convinzione stabile del credente; la fede illumina anche i rapporti tra gli uomini, perché nasce dall’amore e segue la dinamica dell’amore di Dio. Proprio grazie alla sua connessione con l’amore (cfr. Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. La fede nasce dall’incontro con l’amore originario di Dio in cui appare il senso e la bontà della nostra vita; questa viene illuminata nella misura in cui entra nel dinamismo aperto di quest’amore, in quanto diventa cioè cammino e pratica verso la pienezza dell’amore. La luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. […] Essa fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, divenendo un servizio al bene comune. Sì, la fede non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’al di là; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza. […] 94 Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia [anzitutto nel matrimonio]. In famiglia, la fede accompagna tutte le età della vita, a cominciare dall’infanzia: i bambini imparano a fidarsi dell’amore dei loro genitori. Per questo è importante che i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli, [soprattutto quando sono giovani], e attraversano un’età della vita così complessa, ricca e importante per la fede. […] I giovani hanno il desiderio di una vita grande. L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. […] Assimilata e approfondita in famiglia, la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. Come esperienza della paternità di Dio e della misericordia di Dio, si dilata poi in cammino fraterno. Nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla sua uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità […]: al centro della fede c’è l’amore di Dio, la sua cura concreta per ogni persona, il suo disegno di salvezza che abbraccia tutta l’umanità e l’intera creazione e che raggiunge il vertice nell’Incarnazione. Quando questa realtà viene oscurata, viene a mancare il criterio per distinguere ciò che rende preziosa ed unica la vita dell’uomo. […] La fede, inoltre, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; ci aiuta a trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto, ma che considerino il creato come dono, di cui tutti siamo debitori; ci insegna ad individuare forme giuste di governo, riconoscendo che l’autorità viene da Dio per essere al servizio del bene comune. La fede afferma anche la possibilità del perdono, che necessita molte volte di tempo, di fatica, di pazienza e di impegno; perdono possibile se si scopre che il bene è sempre più forte del male, che la parola con cui Dio afferma la nostra vita è più profonda di tutte le nostre negazioni. Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno […]. Se togliamo la fede in Dio nelle nostre città, si affievo lirà la fiducia tra di noi, ci terremo uniti soltanto per paura, e la stabilità sarà minacciata. […] La fede illumina il vivere sociale; essa possiede una luce creativa per ogni momento nuovo della storia, perché colloca tutti gli eventi in rapporto con l’origine e il destino di tutto nel Padre che ci ama. […] 95 [Essa è pure forza consolante nella sofferenza]. Nell’ora della prova, infatti, la fede ci illumina […]: sappiamo che la sofferenza non può essere eliminata, ma che può ricevere un senso, può diventare un atto d’amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una tappa di crescita. Perfino la morte risulta illuminata e può essere vissuta come l’ultima chiamata della fede, l’ultimo “Vieni” pronunciato dal Padre, cui ci consegniamo con la fiducia che Egli ci renderà saldi anche nel passo definitivo. […] La sofferenza ci ricorda che il servizio della fede al bene comune è sempre servizio di speranza, che guarda avanti, sapendo che solo da Dio, dal futuro che viene da Gesù risorto, la nostra società può trovare fondamenta solide e durature». Riflettiamo insieme Sulla base di quanto hai appena ascoltato, commenta questa frase: «La fede non allontana dal mondo e non è estranea dall’impegno concreto dell’uomo contemporaneo». Con un piccolo sforzo di immaginazione, lasciando spazio alla fantasia dell’amore, cerca di dare volto e concretezza a quelle che il Papa definisce le «ricadute social della fede»… Preghiamo insieme I campi erano arsi e screpolati dalla mancanza di pioggia. Le foglie pallide e ingiallite pendevano penosamente dai rami. L’erba era sparita dai prati. La gente era tesa e nervosa, mentre scrutava il cielo di cristallo blu cobalto. Le settimane si succedevano sempre più infuocate. Da mesi non cadeva una vera pioggia. Il parroco del paese organizzò un’ora speciale di preghiera nella piazza davanti alla chiesa per implorare la grazia della pioggia. All’ora stabilita la piazza era gremita di gente ansiosa, ma piena di speranza. Molti avevano portato oggetti che testimoniavano la loro fede. 96 Il parroco guardava ammirato le Bibbie, le croci, i rosari… Ma non riusciva a distogliere gli occhi da una bambina seduta in prima fila. Sulle ginocchia aveva un ombrello rosso…! a (B. Ferrero) 8 Scheda per il mese di maggio 2014 Volgi a noi i tuoi occhi, o Maria! Anche quest’ultima scheda, dedicata alla contemplazione della Vergine Maria, porta della fede, è stata pensata come una celebrazione di tenore “mariano”. La lettura dell’ultimo numero della Lumen Fidei può aiutarci a comprendere il segreto di una maternità che coinvolge ogni uomo a partire da quel primo sì che la giovane fan ciulla di Nazareth ha pronunciato con generosità, con intelligenza e con sereno abbandono alla volontà di Dio. Introduzione Insieme a Maria, concludiamo questa sera il nostro itinerario di riflessione con il quale ci siamo accostate alla Lumen Fidei e ci siamo interrogate sul valore contagiante della fede che è luce e che si diffonde anche attraverso la nostra testimonianza gioiosa, serena, impegnata, coerente ed entusiasta. Attraverso i suoi occhi di madre misericordiosa, che costantemente si rivolgono al Padre per noi, la nostra preghiera sia una supplica al Signore perché si compia nella nostra vita quel cammino di fede che ci trasforma e che ci fa entrare nello sguardo proprio di Gesù, il Figlio di Dio incarnato. Presidente: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Assemblea: Amen! 97 Presidente: Il Dio della pace e della gioia, che nella Beata Vergine ci ha dato un segno di consolazione e di sicura speranza, sia con tutti noi. Assemblea: A lui la nostra lode nei secoli dei secoli! Canto a Maria Dalla Lumen Fidei n. 59 «Nella Beata Vergine Maria si avvera ciò su cui si è in precedenza insistito, vale a dire che il credente è coinvolto totalmente nella sua confessione di fede. Maria è strettamente associata, per il suo legame con Gesù, a ciò che crediamo. Nel concepimento verginale di Maria abbiamo un segno chiaro della filiazione divina di Cristo. L’origine eterna di Cristo è nel Padre, Egli è il Figlio in senso totale e unico; e per questo nasce nel tempo senza intervento di uomo. Essendo Figlio, Gesù può por tare al mondo un nuovo inizio e una nuova luce, la pienezza dell’amore fedele di Dio che si consegna agli uomini. D’altra parte, la vera maternità di Maria ha assicurato per il Figlio di Dio una vera storia umana, una vera carne… Da qui la sua maternità si estenderà ad ogni discepolo del suo Figlio». Breve pausa di silenzio Primo Momento: Occhi rivolti a noi 1 Lettrice L’enciclica di Papa Francesco sulla fede si apre con la “luce”, il luogo per eccellenza in cui abita la presenza di Dio e la sua azione. Si chiude con la preghiera rivolta a Maria, affinché ci insegni a guardare con gli occhi di Gesù, vera luce del nostro cammino. Un legame, dunque, quello tra la luce e gli occhi, la luce e la fede, che viene ancor più avvalorato dallo stupore con cui la Vergine riconosce che la sua piccolezza e la sua umiltà sono state visitate e “guardate” dal 98 Dio d’Israele, la cui misericordia, di generazione in generazione, si stende su quelli che lo temono. Si sa: gli occhi sono stati preposti alla vista e sono attrezzati per modularsi alle varie tonalità di luce e di colore. Ma per assolvere in tutto al loro compito, essi hanno bisogno della luce che viene a loro da una fonte esterna. Gli occhi di Maria, invece, esprimono l’esatto contrario di questa realtà: sono occhi che emanano dal di dentro la luce di Dio, la sua misericordia, il suo cuore, il suo amore. Dio ha guardato Maria e Maria, profondamente radicata nella fede dei poveri di Israele, guarda la nostra fragilità, la nostra miseria, il nostro peccato e il nostro desiderio. Maria guarda a noi e i suoi occhi contemplano, nel fango della nostra creaturalità, la perla preziosa che vi è nascosta e che attende di essere riconosciuta. Occhi che non ci giudicano, ma ci amano. Occhi che non si stancano di cercare i suoi figli, i fratelli del suo Figlio Gesù, per abbracciarli e per condurli al Padre. 2 Lettrice 41 I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51 Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Parola del Signore 99 Breve pausa di silenzio 3 Lettrice Vergine Maria, piena di grazia, immacolata dimora del Salvatore del mondo, volgi a noi i tuoi occhi di madre, occhi che ci cercano e che non si stancano di contemplare in noi il volto del Figlio tuo Gesù. Fa’ che impariamo a vivere con gioia e generosità la nostra fede, affinché accogliamo lo sguardo di Dio che attraverso i tuoi occhi colmi di tenerezza per noi si posa sulla nostra fragilità, facendone la sua dimora. Padre nostro 10 Ave Maria Gloria al Padre Secondo Momento: Occhi misericordiosi 1 Lettrice Spesso siamo colpiti dagli occhi di una persona, dal loro colore, dalla loro forma, dalla loro espressività. Gli occhi, infatti, sono le finestre dell’anima, una specie di terminale che trasmette ciò che è vivo in fondo al nostro cuore: la dolcezza, la compassione, la rabbia, il desiderio, la vendetta, il disprezzo, la gioia… Per dirla con Gesù: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso!» (Mt 6, 22-23). Maria è lo specchio della santità divina: ella, quindi, porta nei suoi occhi l’amore misericordioso di Dio. Il suo sguardo è modellato su quello di Gesù: è intriso di amore, di dolcezza e di compassione. Per la sua fede in Dio, ella diventa il portale che introduce ogni uomo all’incontro con il Signore e lo accompagna sul cammino di una filiale relazione con Lui, fatta di fiducia e di abbandono. 2 Lettrice 100 1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6 Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 11 Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. 12 Dopo questo fatto scese a Cafàrnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni. Parola del Signore Breve pausa di silenzio 3 Lettrice Madre misericordiosa, via luminosa che ci conduci al tuo Figlio Gesù e ci apri la strada al cuore di Dio: insegnaci a gettare in Lui ogni nostra preoccupazione, a godere della sua amicizia, a gustare la sua presenza, a credere nel suo amore per noi. Tu che conosci le vibrazioni del nostro cuore, aiutaci a scorgere in esso quello spazio in cui può ancora germogliare il seme buono della Parola di Dio perché lieviti in un cammino di graduale riconciliazione. Tu che sei carne della nostra carne, spezza con noi il pane dell’esistenza e riempi le nostre giare del vino dell’accoglienza, dell’attenzione e della disponibilità, affinché si compia ancora il miracolo della gioia e dell’abbondanza per la festa del Regno. Padre nostro 10 Ave Maria Gloria al Padre 101 Terzo Momento: Il nostro sguardo 1 Lettrice Forse sta proprio qui la nostra fatica nel cammino di fede verso Dio: non sappiamo riconoscerlo nel volto di chi ci sta accanto, nello sguardo di chi ci incrocia per strada, nella mano che si tende a noi per una carezza, una richiesta d’aiuto, una parola di conforto. Quando i nostri occhi sono tenebrosi, quando cala su di essi il triste velo dell’orgoglio, del potere, dell’arrivismo, della rivincita a tutti i costi, diventa quasi impossibile aprirsi agli orizzonti della comunione, credere che Dio sia presente in ogni uomo, che la storia dell’umanità sia segnata da un disegno più grande che trova ragione solo nell’amore infinito con cui Dio vuole raggiungere ciascuno dei suoi figli e salvarlo. Maria è la prima “complice” di questo disegno di salvezza. Con la sua determinazione, resa forte dal sapersi piantata sul terreno delle promesse divine, ella può insegnarci come fare affinché il nostro sguardo rifletta la luce della fede che Dio ha acceso nei nostri cuori: ammaestrate da tanta dolcezza, possiamo anche noi diventare portali di accoglienza e di perdono attraverso i quali ogni uomo può entrare nello spazio senza tempo dell’amore di Dio. 2 Lettrice 3 Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 102 Parola del Signore Breve pausa di silenzio 3 Lettrice Maria, avvocata nostra e nostro soccorso, tu donna umile e potente, capace di trovare un posto nel cuore di ogni uomo perché il tuo cuore è la sede purissima in cui Dio ha piantato la sua dimora. Sulla strada che si allunga verso Emmaus, la strada della nostra testimonianza del Figlio tuo risorto, c’è sempre qualcuno che si accompagna al nostro passo: apri il nostro cuore, così spesso indurito, apri i nostri occhi ottenebrati e stanchi, apri la nostra mente irrigidita dal pensiero della morte e del fallimento. Chi crede, vede, o Madre: e tu stessa, credendo, hai veduto compiersi in te meraviglie di grazia. Ti affidiamo la nostra vita: fa’ che il nostro sguar do, come il tuo, sia modellato sullo sguardo di Gesù e fa’ che la nostra azione riposi sulla certezza che la fede non si esaurisce nell’incontro con il Signore, ma si allarga agli orizzonti del mondo. Padre nostro 10 Ave Maria Gloria al Padre Presidente: Con sentimenti di filiale abbandono, ci rivolgiamo a Maria, madre della Chiesa e madre della nostra fede: lei che è la più tenera fra tutte le mamme, ascolti la nostra preghiera e rafforzi in noi il desiderio di rinnovare sempre la nostra amicizia con Dio, con il mondo, con l’umanità intera. Preghiamo insieme: Aiuta, o Madre, la nostra fede! Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata. Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra ed accogliendo la sua promessa. Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede. Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare. 103 Semina nella nostra fede la gioia del Risorto. Ricordaci che chi crede non è mai solo. Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore! (Papa Francesco) Canto finale 2.1.2. Incontri intercomunitari su: «Il Servo di Dio, Card. Pietro Marcellino Corradini, amico di Dio ed amico degli uomini» Meta: Sollecitate dall’enciclica Lumen Fidei di papa Francesco, le comunità della Congregazione vivono un momento fraterno e gioioso di incontro e di celebrazione attorno alla figura del loro Fondatore, che seppe gettare uno sguardo di fede profonda sulla città degli uomini, riconoscendo che la luce del volto di Dio giunge a noi anche attraverso il volto del fratello. Dove 1. Palma di Montechiaro (Diocesi di Agrigento e Caltanissetta) 2. Caltavuturo (Diocesi di Cefalù e Patti) 3. Olivella (Diocesi di Palermo, Monreale, Piana degli Albanesi, Siracusa) Quando: 1. 23 marzo 2014 2. 30 marzo 2014 3. 6 aprile 2014 104 2.2. LITURGIA – PREGHIERA – SPIRITUALITÀ 2.2.1. Ritiri Spirituali «CREDO PER AMARE!» «Abbiamo creduto all’amore» Meta: (1Gv 4,16) Continuando a camminare con la Chiesa, grata per i frutti dell’anno della fede, in docile ascolto della parola di Papa Francesco ed accogliendo dalla Parola di Dio l’invito ad essere autentica testimone dell’incontro con il Signore Risorto, ogni comunità collegina, durante i ritiri spirituali mensili, medita, prega e condivide il proprio itinerario di credente, lasciandosi istruire dalla sapienza racchiusa nel primo capitolo della Lumen fidei al fine di prendere co- 105 scienza del dono della fede da accogliere, custodire, trafficare e testimoniare nell’amore pieno. Perché: * «È urgente recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo» (Lumen fidei, 4). * La storia della fede, posta a tema dal 1° capitolo della Lumen fidei, è una splendida opportunità per conoscere, verificare, confrontare e rilanciare il cammino di fede personale e comunitario. Da Abramo che risponde a Dio che lo chiama, passando per la fede di Israele, fino alla pienezza della fede in Cristo, l’adesione credente alla SS. Trinità acquista la sua duplice valenza di dono e di condivisione nella sua “forma ecclesiale”. * «Credere non è aggiungere una opinione ad altre. E la convinzione, la fede che Dio c’è, non è una informazione come altre. Di molte informazioni, a noi non fa niente se sono vere o false, non cambiano la nostra vita. Ma se Dio non c’è, la vita è vuota, il futuro è vuoto. E se Dio c’è, tutto è cambiato, la vita è luce, il nostro avvenire è luce e abbiamo l’orientamento per come vivere. Perciò credere co- 106 stituisce l’orientamento fondamentale della nostra vita» (Benedetto XVI). Come: Otto schede mensili: 1. Abramo nostro padre nella fede Fede, memoria del futuro 2. La fede di Israele Racconto celebrato e testimoniato dei benefici divini 3. Idolatria, opposto della fede La fede offre un percorso stabile che libera dal movimento dispersivo 4. La pienezza della fede cristiana Ritrovare il centro in Cristo 5. Prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo La fede si rafforza e splende nella croce 6. Cristo, Colui in cui crediamo, al quale ci uniamo per poter credere La fede cristiana è fede nell’Incarnazione e nella Risurrezione 7. L’esistenza cristiana Nella fede, l’io del credente si espande per essere abitato da un Altro 8. La forma ecclesiale della fede Se la fede non vive dentro la Chiesa, perde il suo equilibrio 107 Schede Mensili per i RITIRI SPIRITUALI 1ª Scheda mese di ottobre 2013 2013 Abramo, nostro padre nella fede Fede, memoria del futuro Fede è la certezza di aver trovato un «tu» che mi sostiene, che promette un amore indistruttibile, eterno. Fede è avere la fortuna di potere confidare in Qualcuno che mi conosce e mi ama, con la sicurezza di un bambino che vede risolti tutti i suoi problemi nel «tu» di sua madre. Joseph Ratzinger Ascolta Dalla Lumen Fidei nn. 8-11 8. La fede ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia. È per questo che, se vogliamo capire che cosa è la fede, dobbiamo raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento. Un posto singolare appartiene ad Abramo, nostro padre nella fede. Nella sua vita accade un fatto sconvolgente: Dio gli rivolge la Parola, si rivela come un Dio che parla e che lo chiama per nome. La fede è legata all’ascolto. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio appunto di Abramo, Isacco e Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome. 108 9. Ciò che questa Parola dice ad Abramo consiste in una chiamata e in una promessa. È prima di tutto chiamata ad uscire dalla propria terra, invito ad aprirsi a una vita nuova, inizio di un esodo che lo incammina verso un futuro inatteso. La visione che la fede darà ad Abramo sarà sempre congiunta a questo passo in avanti da compiere: la fede “vede” nella misura in cui cammina, in cui entra nello spazio aperto dalla Parola di Dio. Questa Parola contiene inoltre una promessa: la tua discendenza sarà numerosa, sarai padre di un grande popolo (cfr. Gen 13,16; 15,5; 22,17). È vero che, in quanto risposta a una Parola che precede, la fede di Abramo sarà sempre un atto di memoria. Tuttavia questa memoria non fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via. Si vede così come la fede, in quanto memoria del futuro, memoria futuri, sia strettamente legata alla speranza. 10. Quello che viene chiesto ad Abramo è di affidarsi a questa Parola. La fede capisce che la parola, una realtà apparentemente effimera e passeggera, quando è pronunciata dal Dio fedele diventa quanto di più sicuro e di più incrollabile possa esistere, ciò che rende possibile la continuità del nostro cammino nel tempo. La fede accoglie questa Parola come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta. Per questo nella Bibbia la fede è indicata con la parola ebraica ’emûnah, derivata dal verbo ’amàn, che nella sua radice significa “sostenere”. Il termine ’emûnah può significare sia la fedeltà di Dio, sia la fede dell’uomo. L’uomo fedele riceve la sua forza dall’affidarsi nelle mani del Dio fedele. Giocando sui due significati della parola – presenti anche nei termini corrispondenti in greco (pistós) e latino (fidelis) –, san Cirillo di Gerusalemme esalterà la dignità del cristiano, che riceve il nome stesso di Dio: ambedue sono chiamati “fedeli”. Sant’Agostino lo spiegherà così: «L’uomo fedele è colui che crede a Dio che promette; il Dio fedele è colui che concede ciò che ha promesso all’uomo». 11. Un ultimo aspetto della storia di Abramo è importante per capire la sua fede. La Parola di Dio, anche se porta con sé novità e sorpresa, non risulta per nulla estranea all’esperienza del Patriarca. Nella voce che si rivolge ad Abramo, egli riconosce un appello profondo, inscritto da sempre nel cuore del suo essere. Dio associa la sua promessa a quel “luogo” in cui l’esistenza dell’uomo si mostra da sempre promettente: la paternità, il generarsi di una nuova vita – «Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco» (Gen 17,19). Quel Dio che chiede ad Abramo di affidarsi totalmente a Lui si rivela come la fonte da cui proviene ogni vita. In questo modo la fede si collega con la Paternità di Dio, dalla quale scaturisce la creazione: il Dio che chiama Abramo è il Dio creatore, Colui che «chiama all’esistenza le cose 109 che non esistono» (Rm 4,17), Colui che «ci ha scelti prima della creazione del mondo […] predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (Ef 1,4-5). Per Abramo la fede in Dio illumina le più profonde radici del suo essere, gli permette di riconoscere la sorgente di bontà che è all’origine di tutte le cose, e di confermare che la sua vita non procede dal nulla o dal caso, ma da una chiamata e un amore personali. Il Dio misterioso che lo ha chiamato non è un Dio estraneo, ma Colui che è origine di tutto e che sostiene tutto. La grande prova della fede di Abramo, il sacrificio del figlio Isacco, mostrerà fino a che punto questo amore originario è capace di garantire la vita anche al di là della morte. La Parola che è stata capace di suscitare un figlio nel suo corpo “come morto” e “nel seno morto” di Sara sterile (cfr. Rm 4,19), sarà anche capace di garantire la promessa di un futuro al di là di ogni minaccia o pericolo (cfr. Eb 11,19; Rm 4, 21). Rifletti I contenuti dell’enciclica «La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome». La massima dignità dell’uomo credente si compie nel momento in cui esprime il suo assenso con la fede a Dio che chiama, interpella ed incontra. È un fatto rilevante che il termine ebraico “’emunah” può significare sia “fedeltà” di Dio che “fede” dell’uomo, quasi ad indicare che la natura della risposta debba essere quella stessa della domanda, pur rimanendo le due di diversa solidità e perennità. San Cirillo e Sant’Agostino ben suggellano tale realtà ribaltando all’uomo il dovere di una risposta che lo assicura nella relazione con il divino interpellante. Il cristiano acquista dignità ricevendo il nome stesso di Dio: ambedue sono chiamati “fedeli” (San Cirillo di Gerusalemme), «L’uomo fedele è colui che crede a Dio che promette; il Dio fedele è colui che concede ciò che ha promesso all’uomo» (Sant’Agostino). Non è solo consolante, ma basale sapere che «La fede ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia». Pertanto, come bimbi presi per mano dalla loro mamma, «se vogliamo capire che cosa è la fede», dobbiamo lasciare che la Parola “madre” ci racconti il percorso compiuto dai credenti. 110 C’è una memoria della fede che solo per una ragione ci consente di andare al passato, quella di rintracciare in Abramo il nostro padre nella fede, per il resto ci spinge di continuo verso il futuro perché la fede è memoria di una promessa, garanzia di fondata speranza. Abramo vede, perché ascolta e perché si mette in cammino. Le fede, infatti, fa entrare in una nuova dimensione del rapporto con l’Altro, che non assomiglia per nulla a quegli dei che facevano paura alla gente, impressionavano con lo spirare della loro ira e poi si nascondevano nel silenzio. Il Dio di Abramo è un TU interpellante che chiama per nome e promette una discendenza. Entra in rapporto personale con le sue creature senza guardarle dall’alto in basso; si offre nel dialogo come un partner alla pari, come un amico; non stabilisce rapporti di paurosa obbedienza, ma vincoli d’amore che liberano e responsabilizzano. Il Dio di Abramo promette la vita, sconfiggendo ogni morte latente, annunciata, subita. Vinta la sterilità nel grembo di Sara, rintraccia ogni forma di morte e la risitua all’origine della creazione, garantendole quel respiro di vita che ha origine nell’alito del Padre. Sì, è Lui il Dio che chiama all’esistenza (cfr. Rm 4,17), che «non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli ha creato tutto per l’esistenza» (Sap 1,13). Medita… La Parola interroga la vita Gen 13, 16 «Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti». Il Signore rinnova le sue promesse ad Abramo, la terra e la discendenza: Quali promesse di Dio ho accolto nella mia vita e mi sto impegnando a compiere nella fede insieme a Lui? La mia identità dove la vedo realizzata? So dare un nome alla terra che Dio mi ha dato in eredità? Quale vita genero nei rapporti che vivo con me stessa, con Dio, con gli altri? 111 Gen 15, 5 Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Dio ricorre ad una visione simbolica, le stelle del cielo, non più alla polvere della terra. In Is 40, 26 alzare gli occhi per guardare le schiere celesti significa contemplare l’onnipotenza divina e Abramo crede alle parole del Signore: dunque al dubbio segue la certezza, la fiducia che quanto Dio ha promesso era anche capace di portarlo a compimento (Rm 4,21). Egli glielo accredita, ne tiene conto. È la fede nella promessa che viene attribuita ad Abramo come giustizia: Perché molto spesso agisco come se Dio non esistesse e perché rimango come immersa nel dubbio che Lui intervenga? Mi chiedo: quali sono gli ostacoli alla mia fede? Perché anziché guardare in alto sono sempre più rivolta verso il basso, verso quelle creature che se Dio non le avesse create non esiterebbero? Quale giustizia chiedo, quale giustizia vivo, per quale giustizia mi batto? Penso seriamente che la vera giustizia è vivere di fede? Prega… Tutto in Dio Accogli, Signore, la mia totale libertà. Ricevi la memoria, l’intelligenza, la volontà. Quanto ho e possiedo, mi è stato donato da te. A te lo riconsegno, a te lo affido. Guidami secondo la tua volontà. Regalami soltanto l’amore a te, Signore. Questo mi basta. Non ti chiedo altro. S. Ignazio di Loyola 112 2ª Scheda mese di novembre novembre 2013 2013 La fede di Israele Racconto celebrato e testimoniato dei benefici divini Fede è sempre anche essenzialmente un credere insieme con gli altri. Nessuno può credere da solo. Riceviamo la fede, ci dice Paolo, attraverso l’ascolto. E l’ascolto è un processo dell’essere insieme in modo spirituale e fisico. Soltanto nella grande comunione dei fedeli di ogni tempo che hanno trovato Cristo e che sono stati trovati da Lui posso credere. Benedetto XVI Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 12 12. La storia del popolo d’Israele, nel libro dell’Esodo, prosegue sulla scia della fede di Abramo. La fede nasce di nuovo da un dono originario: Israele si apre all’azione di Dio che vuole liberarlo dalla sua miseria. La fede è chiamata a un lungo cammino per poter adorare il Signore sul Sinai ed ereditare una terra promessa. L’amore divino possiede i tratti del padre che porta suo figlio lungo il cammino (cfr. Dt 1,31). La confessione di fede di Israele si sviluppa come racconto dei benefici di Dio, del suo agire per liberare e guidare il popolo (cfr. Dt 26,5-11), racconto che il popolo trasmette di generazione in generazione. La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così che la luce portata dalla fede è legata al racconto concreto della vita, al ricordo grato dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse. L’architettura gotica l’ha espresso molto bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra. La luce di Dio ci viene attraverso il racconto della sua rivelazione, e così è capace di illuminare il nostro 113 cammino nel tempo, ricordando i benefici divini, mostrando come si compiono le sue promesse. Rifletti I contenuti dell’enciclica «La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli». Non siamo abituati a considerare il contenuto della luce, facciamo piuttosto in fretta a dire che la luce splende, riscalda, nutre. Eppure la prima lettera di S. Giovanni, con immeditata certezza, annuncia: «Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre» (1 Gv 1,5). Il contenuto, l’essenza della luce è Dio! Luce è il suo nome! Ma anche la fede è luce, ribadisce di continuo l’enciclica Lumen Fidei che, al numero 12, raccoglie il cammino di fede di Israele nell’immagine della luce che nelle cattedrali gotiche arriva dal cielo e attraverso le vetrate illustra la storia sacra. Così riattraversando il tempo kairologico del pellegrinaggio del popolo eletto, il documento sottolinea lo splendore della luce di Dio nella memoria che Israele fa delle meraviglie da Lui compiute, nel culto vissuto e nella consegna del grande tesoro della confessione di fede che passa da padre in figlio, di generazione in generazione. È vero, la luce di Dio giunge agli uomini attraverso il racconto della sua rivelazione, l’accompagnamento del cammino del suo popolo, il ricordo delle meraviglie del bene che suggellano la verità delle promesse divine. Ripercorrere i passi della fede di Israele non può che donare alla Chiesa la straordinaria offerta di una catena di sapienza. Israele cammina sulle orme del padre Abramo: nessun cammino di fede è acefalo o solitario! Dall’Egitto alla terra promessa come si rinnova il grido di aiuto così rimane fecondo il grembo della misericordia di Dio. Il peregrinare del popolo eletto alterna alleanza e peccato, ma il Signore rimane il Padre che si prende cura del figlio, non importa se ribelle o ingrato. Se la fede è dunque risposta alla chiamata di Dio che interpella, non può che diventare confessione dei benefici compiuti dal Padre. In quale spazio allora compiere la memoria, celebrare le azioni di Dio, consegnare ai 114 figli l’eredità ricevuta? Nel culto: sì, nelle azioni rituali, Israele ritrova la sua identità di assemblea santa, riattinge le energie salvifiche e rigenera i tessuti relazionali. Ogni comunità di fede deve riconoscersi nella memoria Dei, nella confessio Fidei, nella testificatio. Il ritmo celebrativo accompagna la vi-ta e dà senso ad ogni evento dell’esistenza. Occorre imparare che la luce portata dalla fede non può essere separata dal racconto della presenza di Dio nella vita di ognuno, dalla freschezza della gratitudine che sboccia nella lode, dal testimoniare la fedeltà di Dio alle sue promesse. Medita… La Parola interroga la vita Dt 1,31 «[…]e come ha fatto nel deserto, dove hai visto come il Signore tuo Dio ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati qui.» Il Signore si è manifestato al suo popolo come un padre che guida e protegge suo figlio. Più avanti in Dt 32,11 l’immagine utilizzata sarà quella dell’aquila che veglia la sua nidiata. Mi chiedo: Se ripercorro la storia di salvezza vissuta dal popolo ebraico, a quale punto del mio cammino di fede sono arrivata? Quale rapporto vivo con il “mio Signore”? Accetto benevolmente la sua azione di cura, di protezione, di correzione, di orientamento? Quando sento che la mia intelligenza, la mia sensibilità… si ribellano alla sua volontà, a chi e a che cosa faccio appello? Dt 26,5-11 «[…] e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavi-tù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò 115 la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato. Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio; gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia». Secondo quanto prescrive Es 22, 28; 23,19. Ogni anno l’agricoltore durante la festa delle Settimane o della mietitura (Pentecoste) doveva presentare al Signore le primizie del raccolto, simbolo della restituzione a Dio del dono delle messi. In tale occasione doveva pronunciare una formula liturgica con la quale professava la sua fede, ricordando gli atti salvifici compiuti dal Signore in favore del suo popolo: a) la chiamata di Giacobbe/Israele in Egitto, b) il dono della libertà nell’esodo, c) l’ingresso nella terra promessa. Poi avrebbe gioito di quanto aveva portato, condividendolo col levita e col forestiero. In Dt 26, 5b-9 troviamo il nucleo fondamentale della fede primitiva. Alla luce della primitiva confessione di fede del popolo israelita, mi chiedo: Quali primizie della mia esistenza e del mio lavoro presento al Signore? E con quale atteggiamento interiore lo compio? Faccio un favore a Dio, restituisco i benefici ricevuti o sento che si tratta di un riverbero d’amore? Da quale Egitto Dio mi ha chiamata? Quale libertà interiore mi ha elargito? Che cosa è per me la terra promessa? Come vivo l’atto liturgico? Dove, a mio avviso, realizzo l’unità di vi- ta tra ciò che celebro e ciò che vivo? 116 Prega… Tutto in Dio Una cosa ti domando, Signore: conservami sempre fedele attraverso le notti e le oscurità; conservami sempre fedele, attraverso il tempo e le prove; conservami fedele, attraverso i rifiuti dei miei amici; conservami fedele al tuo Spirito, al quale mi hai unito nel tempo ma per l’eternità… Insegnami la tua fedeltà. Jean Vanier 117 3ª Scheda mese di dicembre dicembre 2013 2013 Idolatria, opposto della fede La fede offre un percorso stabile che libera dal movimento dispersivo Il cristianesimo non è una religione, ma una fede. Nella religione l’uomo si innalza e cerca di arrivare a Dio abbassandolo alla misura delle sue urgenze di conoscenze e di potere terreni. Nella fede Dio scende di sua iniziativa, crea prima e poi si rivela nella parola e nella presenza che si offre. Gianni Gennari Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 13-14 13. La storia di Israele ci mostra ancora la tentazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria. Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno. Martin Buber citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto». Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli «hanno bocca e non parlano» (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della 118 realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. L’idolatria non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto. Chi non vuole affidarsi a Dio deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”. La fede in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nel la sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli. 14. Nella fede di Israele emerge anche la figura di Mosè, il mediatore. Il popolo non può vedere il volto di Dio; è Mosè a parlare con YHWH sulla montagna e a riferire a tutti il volere del Signore. Con questa presenza del mediatore, Israele ha imparato a camminare unito. L’atto di fede del singolo si inserisce in una comunità, nel “noi” comune del popolo che, nella fede, è come un solo uomo, “il mio figlio primogenito”, come Dio chiamerà l’intero Israele (cfr. Es 4,22). La mediazione non diventa qui un ostacolo, ma un’apertura: nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi. J. J. Rousseau si lamentava di non poter vedere Dio personalmente: «Quanti uomini tra Dio e me!»; «È così semplice e naturale che Dio sia andato da Mosè per parlare a Jean-Jacques Rousseau?». A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione, questa capacità di partecipare alla visione dell’altro, sapere condiviso che è il sapere proprio dell’amore. La fede è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi, per vedere il luminoso cammino dell’incontro tra Dio e gli uomini, la storia della salvezza. 119 Rifletti I contenuti dell’enciclica «Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli». Con grande chiarezza il documento al n. 13 sgombera il campo da equivoci e afferma che l’idolatria è l’opposto della fede, adducendo subito la spiegazione: perché Israele non sopporta il mistero del volto divino nascosto né il tempo dell’attesa. A questo punto però l'enciclica procede in forma positiva illuminando circa le richieste che la natura della fede fa al credente che si professa tale: a) rinuncia al possesso immediato della visione; b) invito ad aprirsi alla fonte della luce; c) rispetto del mistero del Volto. È chiaro che la fede non ha nulla a che vedere con la manipolazione del divino, altrimenti si tratterebbe di magia; essa, al contrario è abbandono totale a Colui che si rivela, è invito a lasciare i propri ancoraggi e a vegliare nell’attesa fiduciosa che, come afferma il salmista: «Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto» (Sal 85). Ma che cosa è un idolo? Un volto che si può fissare, perché opera dell’uomo; che non scomoda perché non chiederà mai una conversione, né una rinuncia. È un dio a buon mercato, un’invenzione dell’uomo che ha bisogno di magnificare se stesso, perché nell’idolo egli proietta la visione esacerbata della sua onnipotenza, illudendosi di immunizzarsi dalle sue molteplici paure. L’idolo confonde, disorienta, non permette di trovare un cammino, afferma ancora l’enciclica, ma tanti e svariati sentieri che portano l’uomo ad essere sballottato, servendo ora un signore ora un altro. Può mai un sistema di vita idolatrico confondersi con l’atteggiamento di fede? No, di certo! Dio chiede la metanoia, invoca un movimento di esodo, una scelta radicale di un nuovo baricentro che abbia il Padre misericordioso come punto di avvio di una nuova vita. Ecco dunque la proposta della fede: imprimere alla propria vita un giro di 360° per risituarsi in Dio, da qui ritrovare la strada stabile per essere affrancati dal movimento dispersivo a cui condannano gli idoli. 120 «La fede è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi, per vedere il luminoso cammino dell’incontro tra Dio e gli uomini, la storia della salvezza». Il n. 14 della Lumen Fidei mediante la riflessione sul valore e l’importanza della mediazione di Mosè che ha permesso al popolo ebraico nella fede di essere come un uomo solo, introduce al significato della professione comunitaria della fede. Certamente chi procede da una visione individualista della conoscenza non accetterà mai la mediazione e farà fatica a capire il “noi” della fede. Ancora una volta si è così ricondotti a coltivare la virtù dell’umiltà che sta alla base dell’atto di fede, perché solo l’umile si fida e si affida. Medita… La Parola interroga la vita Es 4,22 «Allora tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito”». Israele è il figlio primogenito di Jaweh; il rifiuto del faraone di lasciarlo partire condurrà alla morte dei primogeniti d'Egitto. Questa punizione secondo la legge del taglione qui è soltanto minacciata, ma verrà effettuata in Es 12, 29-32 dopo essere stata annunciata in Es 11,4-9; 12,12-13. Sentendo rivolto a me il grido di appartenenza a Dio, con viva sincerità, in un clima di invito forte alla conversione del cuore e della mente al Signore, mi chiedo: Quale relazione vivo con il mio Dio? Mi sento sua appartenenza in virtù del battesimo e della consacrazione religiosa? Salmo 113 b Il salmo è stato con tutta probabilità scritto nell’immediato postesilio, quando Israele si trovò di fronte l’ostilità samaritana e di altri nemici (Esd 4,1s; Ne 4,3s), rischiando il disorientamento, e quindi la 121 derisione dei popoli, che, celebrando i loro idoli, avrebbero detto: «Dov'è il loro Dio?». Il popolo dichiara di non chiedere gloria per sé, ma consapevole di essere il popolo dell’Alleanza, il popolo con il quale Dio si è impegnato di fronte a tutti i popoli, chiede di essere aiutato affinché tutto torni a gloria del suo nome: «Ma al tuo nome dà gloria, per il tuo amore, per la tua fedeltà». Il salmo presenta una lunga requisitoria contro la vanità degli idoli, dopo aver affermato la sovranità di Dio su tutte le cose: «Il nostro Dio è nei cieli: tutto ciò che vuole, egli lo compie». Alla base del processo idolatrico c'è una divinizzazione della materia: il cielo, il sole, la terra, la luna (cfr. Sap 13,1s). La requisitoria del salmo contro gli idoli non è “popolare”, come spesso si è detto, ma al contrario esaurisce efficacemente “il punto” affermando, innanzitutto, che sono di materia, di argento e oro, e Dio ha creato l’oro e l’argento, come tutte le cose. Poi sono muti, cioè inoperanti. La loro forma procede dall’uomo, che, con passaggio mentale illogico, dalla personificazione delle cose del creato, era passato ad una loro raffigurazione somatica, che costituiva la forma dell’idolo. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra», dice il decalogo (Es 20,4), intendendo precisamente riferirsi al processo che sta alla base della costruzione dell’idolo. Che le cose siano così lo si deduce anche dal fatto che Mosè fece porre l’effigie di due cherubini sull’arca, e fece fondere un serpente di bronzo, dunque immagini, ma non immagini che avevano a monte una divinizzazione della natura, cioè il misconoscimento della trascendenza di Dio creatore dal nulla di tutte le cose. «Diventi come loro chi li fabbrica...», dice il salmista, con più crudezza del salmo 96,7: «Si vergognino tutti gli adoratori di statue...». L’espressione non raggiunge il livello di una maledizione, essendo piuttosto un grido di sofferenza, e per questo, benché imperfetta, non è stata rimossa dalla recitazione cristiana. Il salmo presenta innanzitutto “Israele”, cioè tutto il popolo; poi “la casa di Aronne”, cioè il sacerdozio e i leviti; poi i timorati di Dio («Voi che temete il Signore»), cioè i convertiti dal paganesimo al Giudaismo, ma non circoncisi. 122 «Non i morti lodano il Signore né quelli che scendono nel silenzio», dice il salmista, intendendo affermare che Dio non farà cessare la lode del suo popolo a lui tra le genti, lasciando che esso venga abbattuto dai suoi nemici. Rileggendo e meditando le parole del salmo, mi chiedo: So chiamare per nome i miei idoli? Quale di essi sta occupando prepotentemente il mio cuore e la mia mente? Quali ostacoli rallentano il mio cammino di fede e perché? Considerando poi che cosa la fede esige da me, che mi reputo una credente, mi chiedo: Pretendo che il Signore si manifesti in un particolare modo alla mia vita o sono aperta alle sue sorprese? provo a spiegare le mie attese e la pretesa che ho dei segni di Dio. In questo momento della mia esistenza a quale luce sono disponibile? Ho pazienza di aspettare e rispettare la maniera nella quale Dio mi manifesta il suo Volto? Quali mediazioni accetto nella mia vita per vivere il “noi” della fede? Quali virtù coltivo o dovrei coltivare per nutrire il mio cammino di fede? 123 Prega… Tutto in Dio Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per il tuo amore, per la tua fedeltà. Perché le genti dovrebbero dire: «Dov’è il loro Dio?». Il nostro Dio è nei cieli: tutto ciò che vuole, egli lo compie. I loro idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida! Israele, confida nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Casa di Aronne, confida nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Voi che temete il Signore, confidate nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Il Signore si ricorda di noi, ci benedice: benedice la casa d’Israele, benedice la casa di Aronne. Benedice quelli che temono il Signore, i piccoli e i grandi. Vi renda numerosi il Signore, voi e i vostri figli. Siate benedetti dal Signore, che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo. Non i morti lodano il Signore né quelli che scendono nel silenzio, ma noi benediciamo il Signore da ora e per sempre. 124 Alleluia! 4ª Scheda mese di gennaio 2014 2014 La pienezza della fede cristiana Ritrovare il centro in Cristo Il centro vivo della fede è Gesù Cristo. Solo per mezzo di lui gli uomini possono salvarsi. Cristiano è chi ha scelto Cristo e lo segue. In questa decisione fondamentale per Gesù Cristo è contenuta e compiuta ogni altra esigenza di conoscenza e di azione della fede. Il rinnovamento della Catechesi, 57 Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 15 15. «Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia» (Gv 8,56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant’Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l’evento futuro di Gesù. La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. Rm 10,9). Tutte le linee dell’Antico Testamento si raccolgono in Cristo, Egli diventa il “sì” definitivo a tutte le promesse, fondamento del nostro “Amen” finale a Dio (cfr. 2 Cor 1,20). La storia di Gesù è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio. Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, adesso la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi. Quella che Dio ci rivolge in Gesù non è una parola in più tra tante 125 altre, ma la sua Parola eterna (cfr. Eb 1,1-2). Non c’è nessuna garanzia più grande che Dio possa dare per rassicurarci del suo amore, come ci ricorda san Paolo (cfr. Rm8,31-39). La fede cristiana è dunque fede nell’Amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. «Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima. Rifletti I contenuti dell’enciclica «La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima». È Cristo Gesù che, nel suo mistero di incarnazione e di morte, ha dato visibilità all’amore di Dio e dal momento che quel Gesù di Nazareth è passato tra gli uomini sanando e beneficando tutti, la storia dell’uomo ha acquistato la sua dignità. Dio facendosi “persona” in una storia che finalmente acquista le sue dimensioni umane, rende possibile scoprire il concetto stesso di persona, un soggetto cioè consapevole e libero. Acquistano così particolare luce i termini “fondamento” e “destinazione” che l’enciclica usa in rapporto a Gesù e a colui che crede. Se la fede infatti opera mediante la carità, la fede vede grazie all’amore. Ma quale amore più grande Dio poteva manifestare se non nel dono totale del Figlio, impronta della sua sostanza? L’uomo credente si centra in Cristo Gesù e in Lui vede realizzate le promesse di Dio. Ecco perché il cammino tra la realtà del momento vissuto e la speranza del fine da raggiungere non può che chiamarsi “sequela di Cristo”. Quest’ultima apre contemporaneamente al futuro di Dio e al presente degli uomini. Che cosa è dunque la fede? Ci si può ancora chiedere. La fede è rispondere alla chiamata dell’Amore, stare alla sequela dell’Amato e vivere l’esistenza nell’Amore. La fede è credere nell’Amore pieno, nella sua potenza di intervento e di trasformazione della storia, di illuminazione del cammino dell’esistenza del singolo come dei popoli. Pertanto, insieme all’apostolo Giovanni, come professando all’unisono la nostra fede, diciamo: «Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16). 126 Medita… La Parola interroga la vita Gv 8,56 «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò». Gesù considerò suo padre soltanto Dio, pertanto si distanziava dai suoi interlocutori chiamando Abramo «vostro padre». Afferma la sua superiorità su Abramo, perché questi «esultò al vedere il mio giorno» cioè la venuta di Gesù. Infatti Dio aveva promesso al capostipite del popolo eletto una discendenza numerosa come le stelle, dalla quale sarebbe nato il Salvatore, fonte di benedizione per tutte le genti. Abramo esultò dinanzi a tale prospettiva luminosa di salvezza, divenendo così testimone del Messia. Tutto l’Antico Testamento secondo Giovanni converge verso la venuta e l’opera del Messia. Mi domando: Quale rapporto vivo con Cristo Gesù e come mi aiuta ad approfondire la mia relazione filiale con Dio Padre? Rm 10,5 «Mosè infatti descrive la giustizia che viene dalla legge così: L’uomo che la pratica vivrà per essa». La legge è data come via alla vita, ma Paolo ha già mostrato che l’uomo dominato dal peccato non è in grado di praticarla (cfr. 7, 725). «La giustificazione non è frutto della tenacia di chi sfida le vette della legge e nemmeno conseguenza di abili “sommozzatori” che sfidano le profondità degli abissi. È invece la risposta di tutto l’uomo ad un’alleanza d’amore proposta da Dio. Egli, in Cristo, ha investito tutto se stesso e attende dall’uomo una risposta che unisca bocca e cuore, dire e sentire profondo». Mi domando: Come rispondo nella mia vita alla pienezza della chiamata in Cristo Gesù e dunque all'invito a vivere come persona autentica, coerente e credibile? 127 2 Cor 1,20 «E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria». Gesù, Figlio di Dio, è l’espressione del “sì” di Dio alle sue promesse fatte al suo popolo e all’umanità. Inoltre, obbedendo e sottomettendosi al Padre, Gesù ha dato compimento al disegno divino di salvezza della storia. Al sì di Cristo nell’incarnazione e nella passione corrisponde il “sì” del Padre alla glorificazione. Al sì di Cristo fa eco l’amen della comunità cristiana, che esprime coralmente il proprio sì alla chiamata di Dio. Chi si pone al servizio di Dio non può agire con ambiguità: come Gesù è l’amen di Dio così l’apostolo è per colui che lo ha inviato. “Amen” è la parola della fedeltà, del sì, della fiducia. Dicendo “amen”, attinge dal vocabolario ebraico esprimendo il suo «Ci credo. È così. È vero. Questa è una cosa valida, solida, sicura». Mi domando: Che cosa significa per me essere, come Gesù, l’“Amen” di Dio? Eb 1,1-2 «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo». Il prologo lascia intendere che si tratta di un’esortazione ai cristiani provenienti dal giudaismo. Cristo è la Parola del Padre che sta all’origine di tutto ciò che esiste e ne è anche il fine. Mi domando: Se guardo il mio cammino di fede posso dire da dove ha avuto inizio e verso dove lo vedo proiettato? Credere che Cristo è alfa ed omega, principio e fine di tutte le cose, che cosa produce nel mio cuore e a quale conversione mi chiama? Rm 8,31-39 «Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di 128 Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: “Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello”. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore». In questa situazione niente e nessuno può contrastare la potenza dell’amore di Dio, non esiste alcuna situazione che possa separare il cristiano da lui. Paolo lo ha provato in se stesso. La certezza di essere amato da Dio è stata la forza invincibile per l’apostolo (v. 32) la cui esperienza è quella di ogni cristiano amato. La serie delle quattro domande sottolinea maggiormente l’inutilità e l’impossibilità di qualsiasi accusa ai credenti. Mi domando: Ci sono attualmente nella mia vita delle situazioni che impediscono alla potenza dell’amore di Dio di agire in me, di credere profondamente in Cristo e di orientare l’intero mio esistere ad operare il bene? Vivo come separata da Dio o “innestata” in Lui? Rileggo il mio cammino di risposta a Dio attraverso le parole di 1Gv 4,16: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». 129 Prega… Tutto in Dio Tu sei Santo Signore Dio, Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei l’Altissimo l’Onnipotente, Tu Padre Santo, Re del cielo. Tu sei trino, uno Signore, Tu sei il bene, tutto il bene, Tu sei l’Amore, Tu sei il vero, Tu sei umiltà, Tu sei sapienza. Tu sei bellezza, Tu sei la pace, la sicurezza il gaudio la letizia, Tu sei speranza, Tu sei giustizia, Tu temperanza e ogni ricchezza. Tu sei il Custode, Tu sei mitezza, Tu sei rifugio, Tu sei fortezza, Tu carità, fede e speranza, Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la Vita eterno gaudio Signore grande Dio ammirabile, Onnipotente o Creatore o Salvatore di misericordia. 130 5ª Scheda mese di febbraio 2014 2014 La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo La fede si rafforza e splende nella croce Accogliere è il verbo della fede, indica un atteggiamento spirituale fatto di disponibilità, di partecipazione. La fede non è assenso intellettuale alle affermazioni di Gesù, ma dire di sì al Cristo, legame personale con lui, crescente comprensione, amore attivo, partecipazione. Ermes Ronchi Ascolta Dalla Lumen Fidei nn. 16-17 16. La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr. Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr. Gv 19,37): «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno». Il dipinto rappresenta 131 infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo. 17. Ora, la morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce della sua Risurrezione. In quanto risorto, Cristo è testimone affidabile, degno di fede (cfr. Ap 1,5; Eb 2,17), appoggio solido per la nostra fede. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede», afferma san Paolo (1Cor 15,17). Se l’amore del Padre non avesse fatto risorgere Gesù dai morti, se non avesse potuto ridare vita al suo corpo, allora non sarebbe un amore pienamente affidabile, capace di illuminare anche le tenebre della morte. Quando san Paolo parla della sua nuova vita in Cristo, si riferisce alla «fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Questa “fede del Figlio di Dio” è certamente la fede dell’Apostolo delle genti in Gesù, ma suppone anche l’affidabilità di Gesù, che si fonda, sì, nel suo amore fino alla morte, ma anche nel suo essere Figlio di Dio. Proprio perché Gesù è il Figlio, perché è radicato in modo assoluto nel Padre, ha potuto vincere la morte e far risplendere in pienezza la vita. La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo. 132 Rifletti I contenuti dell’enciclica «La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo». La morte di Cristo Gesù sulla croce è per la fede la morte della morte, la vittoria su ogni tipo di ripetizione stanca del tempo, su ogni sua evoluzione verso il nulla. Cristo è venuto ad inaugurare il tempo kairologico, il tempo visitato dalla grazia, sicché la salvezza cristiana non sarà più salvezza dal la storia, ma salvezza della storia, redenzione del tempo, non redenzione dal tempo. L’ora del tempo presente è assunta dall’oggi di Cristo e dunque dall’oggi di Dio. Non è esclusa nessuna ora, nessuna sofferenza, nessuna tragedia dell’uomo dalla croce di Cristo Gesù che ormai la proietta nella vittoria finale dell’amore. Davvero Cristo è entrato nella nostra morte per salvarci, e in questo amore, che non ha ricusato il sacrificio estremo di se stesso, ci ha manifestato il suo amore nel quale la nostra fede può credere e sperare. Totale è l’offerta della vita di Cristo, pieno deve essere l’abbandono della nostra fede. «La morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce della sua Risurrezione». Se Dio non avesse fatto risorgere il Figlio suo, Cristo Gesù, la nostra fede non avrebbe potuto trovare un appoggio solido e non sarebbe stato pienamente affidabile il suo amore, capace cioè di portare luce fino in fondo, fino all’ultimo abisso di tenebra di morte. La riflessione del n. 17 della Lumen Fidei a questo punto spinge ancor più in profondità la riflessione. Partendo da Gal 2,20, sulla linea dell’affermazione dell’Apostolo Paolo, non solo afferma che la nuova vita in Cristo si fonda sulla relazione personale con Cristo Gesù, al punto che Paolo ne fa coglierne l’unicità, ma sottolinea pure che l’amore del Cristo, spinto fino alla morte, affonda le sue radici nell’assoluta e ferma relazione con il Padre suo. La vittoria sulla morte e lo splendore della vita che rifulgono nella risurrezione di Cristo, aprono così alla grande verità della presenza e dell’azione di Dio nel mondo. L’affermazione finale di Lumen Fidei 17, ribadisce che lungi dal considerare possibile per un credente del tutto indifferente la fede o la non fede in Cristo, per il cristiano è un dovere esistenziale e un impegno continuo quello di testimoniare che Dio è sempre all’opera nella storia, perché è 133 un Dio d’amore che si è reso disponibile nella piena rivelazione della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo. Medita… La Parola interroga la vita Gv 15,13 «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Gesù mediante il dono totale della propria vita ha dato prova suprema dell’amore del Padre, rendendo i discepoli capaci di amarsi reciprocamente. Mi domando: In quali espressioni della mia vita posso dire che sull'esempio di Gesù anch'io spezzo me stessa come il pane per il bene dei fratelli? Gv 19,35 «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate». Il v. 35 è un'inserzione redazionale che sottolinea l’importanza dell’uscita del sangue ed acqua che rappresenta il momento culminante della missione di Gesù, ma intende pure sottolineare la veridicità del discepolo amato, testimone oculare e garante dell’evento salvifico, per corroborare la fede dei lettori nella validità del suo amore. Mi domando: A quale testimonianza mi sento chiamata perché, chi mi incontra, creda nell'amore di Dio? Gv 19,37 «E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Ogni peccatore pentito, come l’ebreo morso dal serpente, contemplando con fede il Crocifisso, avrebbe ottenuto perdono e sal134 vezza. «La Chiesa si costituisce attorno al Cristo “elevato” sulla croce, nella misura in cui gli uomini “contemplano”, credono in lui e prendono parte alla sua vita… È proprio attraverso il loro sguardo di fede alla piaga del costato che gli uomini possono prendere parte alla vita profonda di Gesù, alla sua vita filiale, al suo amore per i suoi, a quella vita secondo lo Spirito che egli stesso comunica, cioè alle due dimensioni della vita di Gesù simboleggiata dal sangue e dall’acqua del suo costato trafitto» (I de la Potterie, p. 188). Mi domando: La contemplazione di Cristo crocifisso quali frutti spirituali produce nella mia vita di unione a Lui e di servizio ai fratelli? Il comando del Fondatore, il Servo di Dio Pietro Marcellino Corradini: «Porteranno il Crocifisso dalla parte del cuore!», come si traduce concretamente nella spiritualità e nel carisma che come collegina sono chiamata a vivere? Eb 2,17 «Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo». Cristo sommo sacerdote, per eccellenza mediatore tra Dio e l’uomo, è degno di fede e non solo “fedele”. Ora Cristo è intronizzato presso il Padre e gode di una posizione privilegiata. Mi domando: Nella mia vita di preghiera e di offerta, l’esempio di Gesù sommo sacerdote a quali aspetti del mio cammino di fede mi chiede di stare più attenta e più fedele? 1Cor 15,17 «Ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati». L’apostolo nei vv. 15-19 parla delle drammatiche conseguenze derivanti dalla negazione della risurrezione. Mi domando: Vivo ogni evento fermandomi alla croce? La mia fede nella risurrezione in quali aspetti del mio vissuto la manifesto? 135 Gal 2,20 «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me». Più che un’esperienza personale, Paolo esprime la realtà viva di ogni cristiano: egli appartiene a Cristo che lo ha amato fino a sacrificarsi per lui. Cristo crocifisso diverrà per Paolo sempre più l’unico perno del suo annuncio. Mi domando: La mia vita è un grido di appartenenza a Cristo? È Lui il centro della mia esistenza, la luce dei miei occhi, il termine fisso di ogni mio sacrificio, il significato più vero della mia consacrazione? Se tutto ciò non si realizza nella mia vita, so individuare gli ostacoli che mi impediscono di lasciare che Cristo viva in me? Prega… Tutto in Dio Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Fil 2,6-11). 136 6ª Scheda mese di marzo 2014 2014 Cristo, Colui in cui crediamo, al quale ci uniamo per poter credere La fede cristiana è la fede nell’Incarnazione e nella Risurrezione Il cristiano, per la sua fede, può e deve essere sempre in contatto con un Altro che conosce la sua vita e il suo destino. E quest’Altro non è di questa terra, ma è di un altro mondo. E non è giudice spietato od un sovrano assoluto, che chiede solo il servizio. È un Padre in relazione con figli adottati per l’Unico Figlio. Chiara Lubich Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 18 18. La pienezza cui Gesù porta la fede ha un altro aspetto decisivo. Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esper to nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr. Gv 1,18). La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. San Giovanni ha espresso l’impor137 tanza del rapporto personale con Gesù per la nostra fede attraverso vari usi del verbo credere. Insieme al “credere che” è vero ciò che Gesù ci dice (cfr. Gv 14,10; 20,31), Giovanni usa anche le locuzioni “credere a” Gesù e “credere in” Gesù. “Crediamo a” Gesù, quando accettiamo la sua Parola, la sua testimonianza, perché egli è veritiero (cfr. Gv 6,30). “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, aderendo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada (cfr. Gv 2,11; 6,47; 12,44). Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, e così la sua visione del Padre è avvenuta anche in modo umano, attraverso un cammino e un percorso nel tempo. La fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia. La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazareth non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di sco prire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé; e questo porta il cristiano a impegnarsi, a vivere in modo ancora più intenso il cammino sulla terra. Rifletti I contenuti dell’enciclica «Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere». L’invito è quello di considerare un altro aspetto a cui la fede in Cristo Gesù porta colui che crede. Questi non solo giunge a conoscere l’amore di Dio credendo in Gesù, ma a guardare dal suo punto di vista. Guardare con gli occhi di Gesù, conformarsi alla sua visione è giusto e necessario, perché l’esperto di Dio è Gesù, è Lui che dalla relazione personalissima con il Padre prende le parole, compie le opere per spiegare Dio. Di qui l’ulteriore invito per ogni cristiano a coltivare il suo rapporto con Gesù. L’enciclica a tal proposito propone due ordini di riflessioni molto utili, la prima è data da un passaggio abbastanza chiaro che procede dall’esperienza; la seconda riconduce all’uso in Giovanni del verbo “credere”. Chi non si affida ad un esper- 138 to per costruire, per guarire da una malattia, per essere difeso in tribunale? E non certo va a sindacare ciò che progetta un architetto, prescrive un medico, argomenta un avvocato! Se insomma nell’esperienza comune di ogni giorno ci affidiamo ad altri per tante questioni, perché non fidarci di Cristo, Colui che è l’unico affidabile per conoscere Dio? Il secondo ordine di idee si sviluppa a partire da Giovanni che sottolinea l’importanza del nostro rapporto con Cristo mediante l’uso del verbo credere: ~ “credere che”: con tale espressione il quarto evangelista indica che è vero ciò che dice Gesù; ~ “credere a”: la locuzione focalizza l’atteggiamento di chi accetta la sua Parola e la sua testimonianza, perché Gesù è veritiero; ~ “credere in Gesù”: noi crediamo in Gesù quando compiamo un itinerario di fede: accogliamo Gesù, ci affidiamo a Lui, aderiamo al suo amore e lo seguiamo lungo la strada. Molto forte ed impegnativa è la ricaduta finale sulla vita del cristiano che il n. 18 argomenta nell’ultimo capoverso. L’incarnazione del Figlio e il mistero di morte e risurrezione aprono alla riflessione sulla redenzione del tempo che invoca la responsabilità dell’uomo credente, il quale, vivendo di fede e nell’amore, contribuisce alla trasformazione della realtà. Partecipare alla sofferenza di Cristo dona al dolore la sua valenza salvifica e pone nelle condizioni di diventare solidali con il dolore degli altri. La fede poi fa raggiungere il prossimo per una spinta di gratuità, perché dona con gioia colui che è grato al Signore per averlo amato, perdonato e redento gratis. Medita… La Parola interroga la vita Gv 1,18 «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato». «Nessuno ha mai visto Dio»: l’evangelista con questo versetto motiva l’affermazione precedente. Mosè aveva chiesto a Dio di vedere la sua gloria (Es 33, 18), una cosa impossibile per la creatura: nes139 sun uomo ha potuto vedere il volto di Dio e restare in vita (cfr. Es 33,20; Gn 32,21; Gdc, 6,22-23; Is 6,5). Gesù invece, come Figlio Unigenito, non solo ha veduto Dio, ma è sempre accanto a lui, nel suo seno. Viene qui ripreso il motivo del v. 1: dalla contemplazione della Parola nel suo rapporto con Dio, si è passati alla «manifestazione e immersione nel mondo e nella storia per ritornare alla fonte primigenia di questa esaltante comunicazione di beni celesti: la comunione vitale dell’Unigenito con il Padre». «Il Gesù terrestre viveva esistenzialmente (e continua a vivere) questo orientamento verso Dio che costituisce la vita propria del Verbo al livello trascendente: è la vita filiale… È il motivo per cui questa vita del Figlio unigenito, con tutto ciò che implica, costituisce “la rivelazione”: il Gesù terrestre, il Verbo incarnato, era l’immagine reale, l’epifania del Verbo eterno, “rivolto verso Dio”». Appunto perché rivolto sempre verso il Padre, Gesù, oltre che il rivelatore del suo amore, salvifico, è divenuto per noi la guida sicura verso di lui. Egli con la sua missione in terra ci ha manifestato lo splendore e la bontà somma del Padre, aprendo la via verso di lui a tutta l’umanità. De la Potterie dà al verbo exēgèsato il senso di “condurre, guidare”, anziché di “raccontare, narrare”. R. Roberto, combinando insieme il duplice significato del verbo traduce: È lui che mostrò la via. Mi domando: Cristo Gesù è davvero la via che mi conduce al Padre? Nel silenzio del mio cuore e nella memoria del bene ricevuto, posso ricordare i passi compiuti nel cammino di fede per benedire Dio e per rispondere con grande fedeltà agli appelli di comunione che Dio mi rivolge? Gv 14, 10 «Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere». L’unità profonda di Gesù con il Padre implica un’unità d’azione: le parole che dice provengono dal Padre, le opere straordinarie che compie le fa il Padre in Lui. Le parole e le azioni di Gesù hanno come scopo la rivelazione del Padre, per suscitare la fede e rendere partecipi gli uomini della vita divina, che egli ha in comune con il Padre. Mi domando: 140 Da dove vengono le parole che pronuncio nei giorni della mia vita? Chi le ispira? E le azioni che compio? Sono una manifestazione della comunione che vivo con Dio? Gv 20,31 «Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Le parole con cui Giovanni conclude il suo Vangelo hanno un doppio significato: l’evangelista ha scritto il suo Vangelo per rafforza re la fede della comunità, ma anche in vista di una diffusione missionaria nei confronti dei non credenti. Mi domando: Quali motivazioni stanno alla base della mia testimonianza? Gv 6,30 «Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?». Si tratta di una sfida, che manifesta l’atteggiamento incredulo dei giudei, i quali pretendono ulteriori garanzie: vogliono vedere per credere. Il segno dei pani, per cui l’avevano riconosciuto come profeta e messia (6, 14-15), non era sufficiente per loro, esigono pertanto un intervento diretto di Dio con un prodigio eccezionale, compiuto sotto il loro sguardo. La loro richiesta presuntuosa si trova anche in Mc 8, 11-12. Mi domando: Che cosa pretendo che il Signore compia perché io possa essere una vera credente? Gv 2,11 «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Lo stesso evangelista rivela il carattere simbolico del “segno” di Cana, che aveva lo scopo di suscitare la fede messianica nei discepoli. Gesù rivela per la prima volta la sua identità trascendente (gloria), inaugurando il tempo della salvezza escatologica. Si tratta di una rivelazione parziale della sua divinità, che brillerà interamente soltanto nella sua esaltazione in croce. Il contesto nuziale dell’episodio e il miracolo esprimono l’arrivo del tempo messianico, predetto dai profeti. «Cana non è soltanto il primo dei segni operati da Gesù, 141 ma anche il loro principio, il loro prototipo e la loro origine» (Mateos-Barreto). L’episodio di Cana prefigurava ciò che si sarebbe attuato pienamente sul Golgota, quando dal costato trafitto di Gesù sarebbe sgorgato sangue e acqua, simbolo dello Spirito e della vita nuova. Mi domando: Quali sono i segni della vita nuova in me? In che cosa sono somigliante a Cristo? Quale docilità vivo nei confronti dello Spirito? Gv 6,47 «In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna». Per essere ammaestrati da Dio e ottenere la vita eterna è necessario credere nella parola di Gesù. Mi domando: Se la fede nasce dall'ascolto e la fede conduce alla vita eterna, io quale risposta dò alla Parola udita e meditata ogni giorno? Gv 12,44 «Gesù allora gridò a gran voce: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato». Si tratta di una sintesi solenne ed oracolare dell’insegnamento pubblico di Gesù. L’adesione di fede al suo messaggio si risolve nella fede al Padre che l’ha mandato come suo rivelatore. Mi domando: Che cosa significa per me credere in Dio Padre, Figlio e Spirito santo? Prega… Tutto in Dio Signore, rendimi capace di credere come se ti vedessi; lascia che ti abbia sempre presente allo spirito, come se tu mi fossi corporalmente e sensibilmente presente. Che io mi mantenga sempre unito a te, mio Dio nascosto ma vivente. Henri Newman 142 7ª Scheda mese di aprile 2014 2014 L’esistenza cristiana Nella fede l’io credente si espande per essere abitato da un Altro La fede da sola, se non si manifesta nei fatti, è morta. Qualcuno potrebbe anche dire: «C’è chi ha fede e c’è invece chi compie le opere». Ma allora mostrami come può esistere la tua fede senza le opere! Ebbene, io ti posso dimostrare la mia fede per mezzo delle opere, cioè con i fatti. Lettera di Giacomo 2, 18-20 Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 19-21 19. A partire da questa partecipazione al modo di vedere di Gesù, l’Apostolo Paolo, nei suoi scritti, ci ha lasciato una descrizione dell’esistenza credente. Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. “Abbà, Padre” è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza cristiana (cfr. Rm 8,15). La vita nella fede, in quanto esistenza filiale, è riconoscere il dono originario e radicale che sta alla base dell’esistenza dell’uomo, e può riassumersi nella frase di san Paolo ai Corinzi: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7). Proprio qui si colloca il cuore della polemica di san Paolo con i farisei, la discussione sulla salvezza mediante la fede o mediante le opere della legge. Ciò che san Paolo rifiuta è l’atteggiamento di chi vuole giustificare se stesso davanti a Dio tramite il proprio operare. Costui, anche quando obbedisce ai comandamenti, anche quando compie opere buone, mette al centro se stesso, e non riconosce che l’origine della bontà è Dio. Chi opera così, 143 chi vuole essere fonte della propria giustizia, la vede presto esaurirsi e scopre di non potersi neppure mantenere nella fedeltà alla legge. Si rinchiude, isolandosi dal Signore e dagli altri, e per questo la sua vita si rende vana, le sue opere sterili, come albero lontano dall’acqua. Sant’Agostino così si esprime nel suo linguaggio conciso ed efficace: «Ab eo qui fecit te noli deficere nec ad te», «Da colui che ha fatto te, non allontanarti neppure per andare verso di te». Quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce (cfr. Lc 15,11-24). L’inizio della salvez za è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza. Solo nell’aprirci a quest’origine e nel riconoscerla è possibile essere trasformati, lasciando che la salvezza operi in noi e renda la vita feconda, piena di frutti buoni. La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio, come riassume san Paolo: «Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Ef 2,8). 20. La nuova logica della fede è centrata su Cristo. La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente a un Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi. Ciò appare con chiarez za nell’esegesi che l’Apostolo delle genti fa di un testo del Deuteronomio, esegesi che si inserisce nella dinamica più profonda dell’Antico Testamento. Mosè dice al popolo che il comando di Dio non è troppo alto né troppo lontano dall’uomo. Non si deve dire: «Chi salirà in cielo per prendercelo?» o «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo?» (cfr. Dt 30,11-14). Questa vicinanza della Parola di Dio viene interpretata da san Paolo come riferita alla presenza di Cristo nel cristiano: «Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? – per farne cioè discendere Cristo –; oppure: Chi scenderà nell’abisso? – per fare cioè risalire Cristo dai morti» (Rm 10,6-7). Cristo è disceso sulla terra ed è risuscitato dai morti; con la sua Incarnazione e Risurrezione, il Figlio di Dio ha abbracciato l’intero cammino dell’uomo e dimora nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. La fede sa che Dio si è fatto molto vicino a noi, che Cristo ci è stato dato come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano. 21. Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore, a cui si è aperto nella fede, e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé. San Paolo può affermare: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), ed esortare: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,17). Nella fede, l’“io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Al144 tro, e così la sua vita si allarga nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù. Fuori da questa conformazione nell’Amore, fuori della presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori (cfr. Rm 5,5), è impossibile confessare Gesù come Signore (cfr. 1 Cor 12,3). Rifletti I contenuti dell’enciclica «Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio» (n. 19). Che cosa è la vita nella fede? Il n.19 della Lumen Fidei, riprendendo l’insegnamento di San Paolo, prima di tutto dice che la vita nella fede è esistenza filiale, dal momento che il credente in Cristo viene trasformato in una nuova creatura la cui dignità più alta è data dall’essere diventata figlia nel Figlio. Tale legame sottolinea che la condizione di base per l’esistenza cristiana è riconoscere quel dono originario che precede anche il proprio essere e ciò per un progetto di completa gratuità. Dato come assunto ciò, nessun uomo può vantare davanti a Dio di potere con le opere delle sue mani procurarsi giustizia e salvezza. Solo chi riconosce che la fonte della bontà è Dio vivrà una vita di fedeltà. L’apertura a Colui che ci precede: ecco la via saggia che apre il percorso alla salvezza! Al contrario ogni atteggiamento di autoesaltazione e di appropriazione indebita di onori è destinato alla più grande sterilità. «La nuova logica della fede è centrata su Cristo» (n.20). Qual è dunque la nuova condizione di chi si apre a Dio e centra la sua vita su Cristo? Essere amato nell’Amato! Cristo che abita nell’interiorità del credente lo trasforma dal di dentro e lo illumina passo dopo passo dall’origine alla fine. Da Dio, per Cristo, in Dio: da Dio veniamo, per Cristo abbiamo ottenuto la salvezza e per mezzo di Lui la nostra vita è in attesa di bearsi eternamente in Dio. Qualunque movimento che imprima un andamento disordinato alla nostra esistenza, va aborrito. Basti il monito di Sant’Agosti145 no: «Da colui che ha fatto te, non allontanarti neppure per andare verso di te» (De continentia, 4,11: PL 40,356). «Nella fede, l’“io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore» (n.21). Fuori di ogni schema di logica umana, il messaggio cristiano insegna che la fede in Gesù ci fa incontrare il totalmente Altro, Colui che è assolutamente diverso e tuttavia, nel nostro cuore, paradossalmente più vicino a noi di noi stessi. Grazie a Lui si affaccia nel nostro cuore il desiderio, la nostalgia di incontrare l’altro, compiendo un esodo da noi. Papa Francesco ci ammaestra a tal proposito: «Si può dire che lo sguardo della fede ci porta ad uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita la città. Ci porta a uscire incontro all’altro perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, perché percepisce che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di domi nio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che guarda col desiderio di servirlo – a mettere meglio a fuoco il suo stesso “oggetto proprio e amato”, Gesù Cristo venuto nella carne. […] L’uscire da se stessi incontro all’altro si risolve nella vicinanza, in atteggiamenti di prossimità» (J.M. Bergoglio, Dio della città, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 35-36,48). Medita… La Parola interroga la vita Rm 8,15 «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito ricevuto dai cristiani non è uno Spirito che porti alla schiavitù e al timore, ma alla vita e alla salvezza. Mi domando: La consacrazione battesimale e la consacrazione religiosa che qualità di vita di figlia di Dio hanno sviluppato in me? Che significa per me chiamare Dio “Abbà” sotto l’azione dello Spirito? 146 1 Cor 4,7 «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?». È necessaria la grazia nella volizione del bene. Ef 2,8 «Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» Il principio della salvezza non è né l’uomo né le sue opere, ma unicamente la fede che è dono di Dio. Nel campo della fede l’uomo non ha argomenti validi per menare vanto di sé. Mi domando: Sto davanti a Dio con presunzione, vantando di procurarmi ogni bene con le mie mani, o addirittura penso di non avere alcun bisogno di Dio? Da che cosa viene il vanto di me stessa? Dt 30, 11-14 «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua boc ca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». Mentre la saggezza a volte è presentata come inaccessibile, qui si afferma che la parola del Signore è molto vicina. La fedeltà non è un compito impossibile, ma alla portata di tutti. Questo è per Israele la vera saggezza e una prova speciale dell’amore di Dio. Mi domando: La bocca e il cuore, la preghiera e la vita, le azioni e l'interiorità... Vivo l'unità di vita o lascio che io sia divisa? Quale conversione mi è chiesta da Dio perché la mia esistenza sia credibile? 147 Rm 10, 6-7 «Invece la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? Questo significa farne discendere Cristo; oppure: Chi discenderà nell'abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti». La giustizia gradita a Dio non è inaccessibile, perché dal cielo è discesa con Cristo nell’incarnazione, e dall’abisso è risalita nella risur rezione. Ef 3,17 «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità…». Rafforzamento dell’uomo interiore (v. 16); inabitazione di Cristo nei cuori (v. 17a); unione nell’amore (v 17b): tre aspetti che danno pie nezza alla vita cristiana. Cristo rinnova perennemente la sua dimora tramite la fede. L’unione nell’amore è espressa da due immagini: fon dazione e radicamento. Mi domando: confrontandomi con i tre aspetti che rendono l'esistenza espressione della pienezza cristiana, su chi debbo fondare la mia vita e quali valori debbono ispirare le mie scelte? Prega… Tutto in Dio Mio Dio, dammi la fede, la fede vera, la fede pratica, la fede che fa entrare il Vangelo nella mia vita… La fede di chi costruisce sulla pietra E non la fede morta di chi costruisce sulla sabbia. Charles de Foucauld 148 8ª Scheda mese di maggio 2014 2014 La forma ecclesiale della fede Se la fede non vive dentro la Chiesa, perde il suo equilibrio «Credere» è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre». Catechismo della Chiesa Cattolica Ascolta Dalla Lumen Fidei n. 22 22. In questo modo l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale. Quando san Paolo parla ai cristiani di Roma di quell’unico corpo che tutti i credenti sono in Cristo, li esorta a non vantarsi; ognuno deve valutarsi invece «secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12,3). Il credente impara a vedere se stesso a partire dalla fede che professa: la figura di Cristo è lo specchio in cui scopre la propria immagine realizzata. E come Cristo abbraccia in sé tutti i credenti, che formano il suo corpo, il cristiano comprende se stesso in questo corpo, in relazione originaria a Cristo e ai fratelli nella fede. L’immagine del corpo non vuole ridurre il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio, ma sottolinea piuttosto l’unione vitale di Cristo con i credenti e di tutti i credenti tra loro (cfr. Rm 12,4-5). I cristiani sono "uno" (cfr. Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere. Si capisce allora perché fuori da questo corpo, da questa unità della Chiesa in Cristo, da questa Chiesa che – secondo le parole di Romano Guardini – «è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul 149 mondo», la fede perde la sua “misura”, non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi. La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti. È da questo luogo ecclesiale che essa apre il singolo cristiano verso tutti gli uomini. La parola di Cristo, una volta ascoltata e per il suo stesso dinamismo, si trasforma nel cristiano in risposta, e diventa essa stessa parola pronunciata, confessione di fede. San Paolo afferma: «Con il cuore infatti si crede […], e con la bocca si fa la professione di fede…» (Rm 10,10). La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio. Infatti, «come crederanno in colui del quale non han no sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annun ci?» (Rm 10,14). La fede si fa allora operante nel cristiano a partire dal dono ricevuto, dall’Amore che attira verso Cristo (cfr. Gal 5,6) e rende partecipi del cammino della Chiesa, pellegrina nella storia verso il compimento. Per chi è stato trasformato in questo modo, si apre un nuovo modo di vedere, la fede diventa luce per i suoi occhi. Rifletti I contenuti dell’enciclica «La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti». Vivendo la sua esistenza sotto la regia dello Spirito, il credente viene conformato a Cristo e di Lui parla, Lui confessa, Lui annuncia. In Lui riflette se stesso, perché «la figura di Cristo è lo specchio in cui scopre la propria immagine realizzata». In Cristo è presente il corpo che è la Chiesa, dunque il cristiano si comprende dentro questo corpo. E c’è di più, sottolinea l’enciclica al n. 22: la considerazione del credente come parte dell’“uno” non comporta una diminuzione di dignità o di perdita di identità. In realtà più forte e disinteressato è il servizio che si esprime per l’edificazione del corpo della Chiesa, maggiormente il credente ha consapevolezza di sé e la stes sa sua fede riceve equilibrio, forza e spazio per sostenersi. Se dunque «La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti». Il cristiano realizza 150 la sua vocazione e missione imprimendo alla sua vita un respiro di confessione missionaria a partire dalla suo vissuto ecclesiale. È nel grembo della Chiesa che il credente in Cristo ascolta la Parola e impara a proclamarla, e questa Parola diventa la sua confessione di fede, visibile nella comunione dei credenti. Tale comunione viene testimoniata non solo nel contesto litur gico, ma anche nelle relazioni fraterne, in una corretta vita morale, nell’ade sione al comandamento dell’amore in armonia con la Chiesa universale. Vale la pena allora riprendere quanto ancora il Pontefice sottolinea. «La fede non è un fatto privato, una concezione individualista», peggio ancora, un’opinione personale; dal momento che nasce dall’ascolto deve potere muovere il cristiano all’annuncio, quest’ultimo non può essere una voce fuori coro, ma il canto dell’unità che nasce dal costato di Cristo. Chi crede testimonia con le parole e le opere la scelta della Chiesa di servire i piccoli che sono i prediletti del Signore, perché così ha fatto il suo Maestro. Medita… La Parola interroga la vita Rm 12, 3 «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non va lutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato». Paolo, facendo appello alla sua qualità di apostolo, si rivolge a tutti i singoli fedeli. La prima cosa che richiede loro è di mantenere i loro pensieri e le loro aspirazioni nei giusti limiti, senza peccare per eccesso, senza deviare: ognuno, infatti, nell’ambito della comunità ec clesiale ha una qualifica particolare datagli da Dio. La vita della comunità cristiana si qualifica esclusivamente nell’ambito della fede. È il risultato oggettivo e collettivo della fede dei singoli. In questa prospettiva la misura che Dio spartisce non riguarda un grado diverso di fede donato a ciascuno, ma piuttosto di diverso aspetto, una diversa qualifica che la fede assume in ogni individuo e che sfocia poi nella diversità funzionale delle membra del corpo mistico di Cristo. 151 Mi domando: Il mio percorso di fede che qualità di vita cristiana e religiosa imprime alla testimonianza della mia comunità? Dalla fede delle persone con cui condivido la vita e l’apostolato che apporti di crescita e di testimonianza ricevo? Rm 12, 4-5 «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri». L’immagine del corpo con le varie membra illumina i rapporti tra cristiani della stessa comunità. Ognuno è chiamato a collaborare con i fratelli valutando i suoi doni o «carismi», per non ignorarli né sopravalutarli. Mi domando: Che cosa faccio dei doni ricevuti? Li metto al servizio del ben comune o li nascondo per non essere disturbata? Che cosa posso dire circa la maturazione della mia coscienza ecclesia le e della responsabilità morale che ho nel far crescere le membra della mia comunità? Gal 3, 28 «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». A Cristo appartengono tutti i credenti senza discriminazione etnica, né sociale, né naturale. Mi domando: Il mio amore e il mio servizio sono gratuiti, imparziali, giusti e generosi? Se non è così so darne le ragioni? Rm 10,10 «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza». L’uomo per avere la salvezza dovrà dare il suo assenso nell’intimo della sua personalità ed esprimerlo poi esteriormente nell’ambito della comunità cristiana in cui vive, professando la sua fede e invocando Cristo nella preghiera. 152 Rm 10,14 «Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» I giudei al tempo di Paolo potevano ascoltare il Vangelo non solo in Palestina, ma anche nelle comunità della diaspora, dove erano arrivati gli apostoli e i discepoli. Mi domando: Ascolto con fede la Parola? Con quale fede la vivo? A quale missione mi chiama? Prega… Tutto in Dio Beati quelli che, sconcertati dalla prova, conservano la loro fiducia in te. Beati quelli che, sotto l’impressione della tua assenza, continuano a credere nella tua vicinanza. Beati quelli che, non avendoti visto, vivono la ferma speranza di vederti un giorno. Amen! Ignacio Larrañaga 153 2.2.2. Esercizi Spirituali sul Tema «S SE NON CREDERETE, NON COMPRENDERETE» Chi: 1) Mons. Paolo Iovino 2) P. Salvatore Vacca O.F.M. Cap. 3) P. Francesco Crivellari SSS 4) Don Vito Impellizzeri Dove: 1) Collegio di Maria di Cefalù (PA) 2) Collegio di Maria di Cefalù (PA) 3) Casa generalizia – Palermo 4) Centro di spiritualità – Carini (PA) Quando: 1) 2-6 gennaio 2014 2) 27-31 maggio 2014 3) 23-28 giugno 2014 4) 14-19 luglio 2014 2.2.3. Festa della S. Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe È il nostro abituale appuntamento con la spiritualità di Nazareth, modello ispiratore della nostra missione e della nostra vita comunitaria. Ogni comunità della Congregazione cercherà di celebrarla nel modo più consono alla sua realtà, senza tralasciare di rinnovare il suo atto di consacrazione alla santa Famiglia. Dove: In ogni comunità della Congregazione. Quando: 29 dicembre 2013 2.2.4. Celebrazioni corradiniane Meta: 154 Ogni comunità della Congregazione, insieme ai destinatari della sua azione educativa apostolica e della sua animazione ai diversi livelli, vive con particolare intensità e solennità la memoria del Fondatore, Pietro Marcellino Corradini, e si impegna a diffonderne il culto con gioia, nella certezza che il dono di santità, traboccante dal suo cuore innamorato di Dio, è memoria della nostra chiamata a diventare volto vivente della bontà divina e della sua predilezione per ogni uomo. Come: a) b) Celebrazione del Dies Natalis del Servo di Dio Dove: In ogni comunità collegina Quando 8 febbraio 2014 Celebrazione della nascita del Servo di Dio Dove: In ogni comunità collegina Quando: 2 giugno 2014 155 2.3. ORGANIZZAZIONE DELLA COMUNITÀ Meta: Ogni comunità definisce una qualche organizzazione interna in modo da distribuire più efficacemente la corresponsabilità e la coordinazione delle attività interne ed esterne da realizzare. Perché: *Il vecchio modello di comunità privilegiava la dipendenza e la subordinazione, piuttosto che la reciprocità e la valorizzazione delle diversità. *Il perpetuarsi di questo modello rischia di ostacolare la convergenza delle energie, il mobilitarsi insieme verso compiti nuovi, la creatività personale e comunitaria. *Una nuova concezione dinamica, partecipativa e dialogale della comunità corrisponde, invece, al disegno di Dio che ci chiama alla santità non isolatamente, ma insieme. Inoltre, la partecipazione ad uno stesso carisma, da esprimere con rinnovata fedeltà, porta a definire traguardi di crescita nel dono vicendevole di sé in favore della stessa comunità e per il bene di coloro a cui siamo inviate. Come: 2.3.1. Incontro per formulare il calendario delle attività della comunità, definendo tempi e modalità di ogni iniziativa apostolica e degli incontri comunitari. 2.3.2. Incontro per verificare il cammino apostolico e comunitario. Chi: La Superiora locale Quando: 2.3.1. ottobre 2013 2.3.2. maggio-giugno 2014 156 PROGRAMMA 3° Servizio alla Formazione Obiettivo: Il servizio alla formazione iniziale e permanente, tramite lo studio e l’esperienza, aiuta le persone nelle diverse fasi esistenziali ad integrare e riesprimere, secondo le circostanze dei tempi, gli elementi essenziali della vita collegina. E questo affinché le sorelle raggiungano l’unità di vita. Perché: La formazione, in un mondo prevalentemente statico, si basava sul valore della “tradizione”, con conseguente dualismo tra un’istituzione/comunità rigida e ripetitiva, e una persona chiamata alla santità in un cammino di crescita nella conformazione a Cristo. La formazione ha il suo punto di partenza nel dono della vita e della vocazione, a cui la persona deve rispondere. Ma come questa vocazione è nel dono di sé, così la comunità diviene spazio di formazione nel la misura in cui promuove un rapporto di amore vicendevole. L’istituzione deve servire le persone e la comunità nel loro dovere di formazione permanente. Ciò è esigito dalla stessa fraternità e dall’impegno per una comune vocazione e missione da svolgere in un mondo in continuo cambiamento, in rapporto alle sfide attua li e sulla base di un costante adattamento alle nuove condizioni. 157 3. Ambiti del servizio alla formazione 3.1. Formazione iniziale 3.2. Formazione permanente 3.1. FORMAZIONE INIZIALE Meta: In un clima di preghiera, di studio e di riflessione, le giovani che si preparano alla Vita religiosa collegina, nelle diverse fasi di questo percorso di maturazione, vivono esperienze specifiche di formazione e di apostolato per orientarsi verso una progressiva configurazione a Cristo e per essere aiutate a verificare la loro idoneità alla missione propria della Congregazione. Vivono questo tempo come esercizio di testimonianza della loro vocazione. Perché: * La formazione deve essere diretta alla crescita integrale delle persone secondo il progetto di Dio (cfr. Costituzioni 32): essa, pertanto, riguarda l’ambito più propriamente dottri nale, ma anche il versante spirituale ed apostolico. * Ogni vocazione esige una risposta. Per darla in modo sicuro e responsabile, la giovane deve rendersi disponibile a collaborare con i diversi agenti della formazione (lo Spirito santo, anzitutto, e le maestre in formazione). * Il periodo di formazione è il luogo dell’incontro con Dio e con gli altri: ci si scopre con-chiamati per un servizio di testimonianza che superi le diversità culturali nell’ottica di una missione condivisa. Come: 158 1) Incontri di formazione specifica. 2) Esperienze spirituali (deserti, convivenze, esercizi spirituali…). 3) Frequenza ai corsi di teologia di base e di catechesi. 4) Partecipazione a varie iniziative di pastorale vocazionale e di animazione giovanile. 5) Presenza a diversi momenti di incontro e di preghiera. Responsabili: Sr. Caterina Tuzzolino, Sr. Emilia Msungu, Sr. Felisia Mbifile e l’équipe di formazione in Tanzania e in Kenya. Quando: Durante il corso dell’anno. 3.2. FORMAZIONE PERMANENTE 3.2.1. Convegno per Suore giovani sul tema: «La Parola nutre la fede e la speranza della Vita religiosa» Chi: A cura dell’USMI Regionale Dove: Centro di spiritualità – Carini (PA) Quando: 31 ottobre – 3 novembre 2013 3.2.2. Convegno per tutte le Suore sul tema: «Credo, quindi sono! L’identità pasquale della vi ta consacrata» Chi: Don Vito Impellizzeri Dove: Casa generalizia Quando: 27 aprile 2014 (I gruppo) 4 maggio 2014 (II gruppo) 3.2.3. Settimana Biblica Chi: Don Angelo Passaro Dove: Casa generalizia – Palermo Quando: 1-5 luglio 2014 159 PROGRAMMA 4° Strutture di Governo Obiettivo: L’autorità della Congregazione, ai suoi diversi livelli, generali e locali, si esercita come servizio alla ricerca della volontà di Dio e alla gene rosa e coerente subordinazione di tutto e di tutte alla sua attuazione, mediante la partecipazione e la corresponsabilità organica e differen ziata per realizzare con efficacia la vocazione e la missione della Congregazione nella Chiesa e nella società. Perché: L’autorità, in un mondo statico e verticale, si esercitava come garante del compimento della legge, ma in un modo dinamico ed interdipendente essa si eser cita in termini di promozione. L’autorità nella Chiesa è una diaconia alla realizza zione della vocazione alla comunione con Dio e al servizio dell’umanità. È una mediazione necessaria perché la comunità realizzi la volontà di Dio cercata insieme. Abbiamo bisogno di passare da una concezione dell’autorità, considerata come il centro della Vita religiosa, ad una che la considera animatrice e guida della comunità. 160 4. Strutture di Governo Meta: Le strutture fondamentali del Governo della Congregazione, in ragione del loro servizio, si dispongono ad un ascolto attento dello Spirito santo per animare la fedeltà della Congregazione al suo progetto carismatico e per suscitare la sua risposta obbediente al Vangelo di Gesù. Come: 4.1. Incontro – Celebrazione per le Superiore Consegna del Dossier 2013/2014 «CREDO PER SERVIRE ED ANIMARE!» Chi: Madre Paolina Mastrandrea, Superiora generale Dove: Casa generalizia Quando: 5-6 ottobre 2013 161 PROGRAMMA 5° Servizio alla Spiritualità comunitaria e al Rinnovamento permanente Obiettivo: L’équipe apposita, accolta strutturalmente come situazione normale nella vita della Congregazione, coglie le sfide che la società e la Chiesa pongono in ordine all’educazione alla fede e alla maturazione comunitaria ed elabora proposte ed ipotesi di intervento da presentare al Consiglio generale e nei momenti istituzionali: elabora il Piano ed altre proposte di rinnovamento da offrire all’autorità; promuove la spiritualità comunitaria e l’ascesi corrispondente, come espressione, senso e fine del Piano stesso. E que sto perché tutta la Congregazione risponda sempre meglio alla sua vocazione alla santità comunitaria. Perché: L’urgenza di stare al passo con il cambiamento della società richiede questo servizio di costante ascolto della Parola di Dio nella storia. La Congregazione è chiamata a compiere una funzione profetica nella storia. Ciò implica la disponibilità ad attuare il rinnovamento in modo permanente. Dobbiamo accettare il servizio di un’équipe, la cui funzione è quella di mantenere la Congregazione in stato di continua conversione. La sola autorità, a causa delle esigenze di animazione della Congregazione, non è in condizione di dedicare tempi lunghi allo 162 studio e all’elaborazione di proposte, che però può ricevere da quest’équipe insieme all’aiuto per la loro attuazione. 163 5. Servizio alla Spiritualità comunitaria e al rinnovamento permanente Meta: I membri dell’équipe, secondo la loro funzione, approfondiscono il loro patrimonio specifico, programmano le attività relative al servizio della spiritualità comunitaria per l’anno 2013/2014, animano momenti di riflessione e di verifica intercomunitaria, elaborano gli strumenti corrispondenti. Perché: * Non si può esercitare la funzione di animazione di un dinamismo comunitario senza acquisire competenze specifiche. * Il rinnovamento della Congregazione, nel servizio che rende alla Chiesa, è legato, in parte, all’esistenza e al funzionamento di un organismo permanente di riflessione, elaborazione di proposte ed animazione corrispondente. * L’attuazione dei programmi esige tempi di riflessione e di elaborazione. Come: 1) Revisione dell’anno 2013/2014 2) Elaborazione 2014/2015 Chi: della per l’anno L’équipe di servizio alla spiritualità comunitaria e al rinnovamento permanente. Quando: 1) Maggio 2014 2) Maggio – giugno 2014 164 programmazione PROGRAMMA 6° Amministrazione dei beni materiali Obiettivo: I beni materiali della Congregazione sono ammi nistrati ed utilizzati corresponsabilmente e come segno di un’unica comunità dallo stile familiare e in favore della solidarietà all’interno e all’ester no della Congregazione per offrire una efficace testimonianza di povertà e di giustizia. Perché: Il mondo attuale vive e soffre una profonda ingiustizia strutturale, per cui ci sono persone, gruppi e na zioni sempre più ricchi ed altri sempre più poveri. La Chiesa e i religiosi in essa sono chiamati a rendere testimonianza della dimensione universale dei beni di questo mondo. Questo è il fondamento del consiglio evangelico della povertà contro l’accumulo del potere economico. Alla povertà personale bisogna aggiungere quella collettiva (cfr. PC 13). I beni della Congregazione sono dei suoi membri: quindi spetta a tutte le suore essere corresponsabili nell’amministrazione e nell’uso di essi per poter offri re la massima testimonianza di trasparenza e di leggerezza. 165 PROGRAMMA 7° Servizi tecnici Obiettivo: La Congregazione, ai suoi diversi livelli, ha ser vizi tecnici di informazione, comunicazione e segreteria che favoriscono e assicurano i rapporti di tutte le Suore in tutte le direzioni, a servizio della comunione e dell’efficacia della mis sione. Perché: La nostra è diventata l’era dell’informazione in tempo reale: non si concepiscono ritardi oltre certi limiti. La comunicazione è parte del diritto-dovere alla partecipazione. La segreteria è quindi necessaria per assicurare la trasmissione delle informazioni, l’unità e il servizio tempestivo dell’autorità a tutta la Congregazione. Bisogna superare un certo modo di intendere la povertà che ci pregiudica riguardo ad un uso appropriato degli strumenti per la crescita del corpo comunitario. 166 7. Servizi tecnici La segreteria qualifica il proprio servizio secondo criteri apostolici al fine di * subordinare le informazioni alla missione; * fornire alle comunità contenuti e sussidi educativi; * far circolare l’informazione su quanto si fa e si vive poiché ciò è espressione e servizio della comunione. A tale scopo il periodico SALUS, con uscita bimestrale, viene curato da un membro della Congregazione con la collaborazione di alcuni laici. 167 APPENDICE A. COME ELABORARE IL PIANO DI LAVORO (Apostolato e vita interna della comunità) a. Leggere attentamente ed eventualmente riformulare, adattandolo alla propria situazione, l’obiettivo specifico di ciascun settore a livello di Congregazione. b. Leggere i perché e dialogare per capirne meglio il significato. c. Fare la scelta delle iniziative per raggiungere l’obiettivo fissato. d. Elaborare accuratamente i dettagli di ognuna delle iniziative decise e il tempo della loro attuazione. e. Precisare i tempi in cui deve iniziare la preparazione delle iniziative decise e il tempo della loro attuazione. f. Determinare la responsabile generale di tutto il programma e le responsabili eventuali per ognuna delle iniziative decise. g. Verificare nelle riunioni periodiche come procede quanto programmato. h. Fare la revisione di quanto programmato dopo l’attuazione del programma. N.B. Tenere presente ciascun ambito di ogni settore. Conservare accuratamente per iscritto tanto il piano di lavoro, quanto le revisioni dei vari programmi. Inviare una copia del piano di lavoro elaborato al Consiglio generale entro ottobre 2013. 168 B. METODO PER LA REVISIONE a. Rileggere l’obiettivo con i suoi perché. b. Rileggere il proprio obiettivo a livello comunitario. c. Ricordare le iniziative nel loro insieme e chiedersi: *risultati raggiunti (fatti-segno) *cose non riuscite (fatti-lacuna) *problemi incontrati (fatti-problema) *valutare se si crede di avere raggiunto o meno l’obiettivo. d. Elaborare suggerimenti da inviare al Consiglio generale. e. Fare una comunicazione di vita sull’esperienza vissuta. N.B. Inviare una copia della revisione al Consiglio generale entro il 15 maggio 2014. 169 INDICE PRESENTAZIONE Obiettivi a lunga scadenza Obiettivi a breve scadenza 5 8 11 1. APOSTOLATO DELLA COMUNITÀ 1.1. Pastorale scolastica 1.2. Pastorale familiare 1.3. Pastorale vocazionale 1.4. Pastorale dei minori 1.5. Pastorale missionaria 13 14 24 58 60 61 2. VITA INTERNA DELLA COMUNITÀ 2.1. Studio e riflessione -Schede mensili per gli incontri comunitari -Incontri intercomunitari 2.2. Liturgia – Preghiera – Spiritualità -Schede mensili per i ritiri spirituali -Esercizi spirituali -Celebrazione della S. Famiglia -Celebrazioni Corradiniane 2.3. Organizzazione della comunità 63 64 68 104 105 108 154 154 154 156 3. SERVIZIO ALLA FORMAZIONE 3.1. Formazione iniziale 3.2. Formazione permanente 157 158 159 4. STRUTTURE DI GOVERNO 160 5. SERVIZIO ALLA SPIRITUALITÀ COMUNITARIA 162 6. AMMINISTRAZIONE DEI BENI MATERIALI 164 7. SERVIZI TECNICI Appendice: -A. Come elaborare il Piano di lavoro -B. Metodo per la revisione 165 167 168 170 A cura della Congregazione delle Suore Collegine della S. Famiglia 171