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Marco Caligari, La rivoluzione dei container nel porto di Genova

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Marco Caligari, La rivoluzione dei container nel porto di Genova
Marco Caligari
La rivoluzione dei containers nel porto di Genova (1969-'83):
appunti su "lavoro artigianale", spazio e tempo.
Università Ca’ Foscari di Venezia
Tutor: prof. Michele Cangiani
Premessa
La mia ricerca dottorale intende rispondere alla seguente domanda: «Come si è modificato il
governo della forza lavoro portuale in relazione all’introduzione dei container?». Il presente saggio
ha l’obiettivo di enunciare le tre principali sezioni tematiche (controllo del processo lavorativo,
tempo e spazio) funzionali a rispondere al quesito in merito al principale porto italiano.
Nella parte introduttiva metterò a valore i contributi teorici, anche non direttamente riguardanti
questioni portuali, che stanno alla base del mio piano interpretativo degli eventi indagati e delle
fonti storiche consultate.
Nella prima sezione affronterò il tema del controllo del processo lavorativo, mostrando il piano
manageriale e l’innovazione delle competenze. Attraverso l’utilizzo di alcune fonti storiche
mostrerò il superamento della dimensione «artigianale» del singolo lavoratore ed analizzerò la
relazione fra il controllo del processo produttivo e le strutture collettive dei portuali.
Nella seconda parte mostrerò come i container abbiano determinato una cesura storica con il «portoemporio», determinando la ridefinizione del concetto di «spazio» portuale.
Nell’ultima sezione discuterò il concetto di «tempo», inteso come terreno di lotta per la sua
determinazione nel processo lavorativo, attraverso le analisi della Compagnia Unica Lavoratori
Merci Varie di Genova (CULMV) .
1
Quadro metodologico: controllo del processo lavorativo, spazio e tempo.
Controllo del processo lavorativo
Anders Bjorklund, analizzando il processo d’innovazione tecnologica nei porti in una prospettiva
globale, propone la seguente sequenza: uncino, gru, forklift e container1. Egli mostra chiaramente
come nel mondo portuale a cavallo fra anni Sessanta e Settanta è mutato radicalmente il rapporto
con gli strumenti del lavoro. La containerizzazione ha determinato una cesura storica per quanto
concerne il rapporto con la tecnologia e la sua funzione. La molteplicità e la complessità delle merci
in transito cessarono di essere l’elemento qualificante, essendo la varietà organizzativa dei prodotti
superata per importanza dall’unità di carico: il container. Il contributo metodologico di Harry
Braverman2 può fornire un’utile griglia interpretativa per indagare la «rivoluzione dei container» a
Genova. L’autore, secondo la lettura di Sam Davies, si è inserito all’interno della storiografia del
lavoro, segnando uno stacco per la duplice direzione proposta: da un lato per la definizione precisa
di “degradazione del lavoro” e dall’altro per un interesse nuovo per la funzione del management
della forza lavoro3.
L’interesse per tale approccio metodologico è stato suggerito dallo studio della letteratura anglofona
sui porti. La manipolazione della merce presso il porto, prima dell’introduzione dei container era
caratterizzata dalla manipolazione della merce pezzo per pezzo4, con un’enorme complessità e
imprevedibilità del lavoro5, e con elevata capacità di controllo da parte delle organizzazioni
operaie6. La complessità delle operazioni di carico e scarico e delle tipologie di merci rendeva
impossibile la standardizzazione del processo lavorativo, e quindi delle logiche manageriali
collegate ai lavori in serie e al controllo dei tempi della produzione7. La cesura storica fu prodotta
dai container. In merito al processo lavorativo Frank Broeze ha utilizzato il termine
«omologazione8», mentre, Peter Turnbull ha sottolineato che l’elemento di «standardizzazione» dei
1
A. Gjörklund, “Hamnarbetet och tekniken under 100 ar”, in Alla dagar alla natter. Fyra transporthistoriska essäer,
(Oskarshamn, 1997), citato in Anna Green, The work process, in S. Davies (eds.), Dock Workers: International
Explorations in Comparative Labour History, 1790-1970, Aldershot, 2000, p. 575.
2
Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico: la degradazione del lavoro nel XX Secolo, Einaudi, Torino 1978.
3
Sam Davies, Employers and dock labour: employment, work and industrial relations in international perspective, in
S. Davies (ed.), Dock Workers, op. Cit., p. 605.
4
Ibidem, p. 616.
5
E. Musso, C. Ferrari, M. Benacchio, E. Bacci, Porti, Lavoro, Economia, Le regioni portuali di fronte alla rivoluzione
logistica, Cedam, Padova 2004, p.119.
6
Colin J. Davis Waterfront Revolts. New York and London Dockworkers, 1946-61, Illinois University press, Chicago
2003.
7
J. John Bellamy Foster, On the waterfront: Longshoring in Canada, on Craing Heron and Robert Storey (ed.), On the
job, Confronting the Labour Process in Canada, Kingston and Montreal, 1986.
8
F. Broeze, “The globalisation of the oceans: containerisation from the 1950s to the present”, Research in Maritime
History, (2002), n.23.
2
container ha consentito la creazione di effetti fortemente innovativi sull’intero sistema portuale9.
Marc Levinson10 E Brian J. Cudahy11, invece, hanno dedicato molte energie per leggere
l’investimento manageriale del pioniere del trasporto attraverso i container: Malcom P. McLean.
Lo studio di H. Braverman si basa sull’ipotesi l’attività lavorativa degli operai si sia
progressivamente «degradata»12. L’autore descrive precisamente la capacità di Frederick Taylor di
fondare «il movimento della direzione scientifica del lavoro13, la quale si è sviluppata ponendo al
centro il controllo del processo lavorativo. Braverman precisa che «il taylorismo è un pezzo dello
sviluppo dei metodi di direzione e dell’organizzazione del lavoro, non della tecnologia, nel quale il
suo ruolo è stato marginale14». Egli sottolinea che « a Taylor non premeva molto il progresso
tecnologico. (…) Il suo interesse si appuntava sul controllo del lavoro15», innalzandone il concetto
su un piano del tutto nuovo quando ha «affermato che per una direzione adeguata è assolutamente
necessario prescrivere imperativamente al lavoratore l’esatta maniera in cui il lavoro deve essere
eseguito16».
Lo studioso nordamericano riconosce a F. Taylor la capacità di «formulare con chiarezza i principî
che ormai di rado vengono pubblicamente ammessi17», perciò li prende in esame diffusamente:
1. La dissoluzione del processo lavorativo dalle qualificazioni degli operai, rendendo il processo
lavorativo indipendente dalla tradizione e dalle conoscenze dei lavoratori.
2. Separazione dell’ideazione dall’esecuzione, eliminando gli elementi di autorganizzazione di una
comunità di lavoratori e automotivazione del singolo lavoratore. La linea manageriale intende
acquisire la capacità di direzione per poi imporre la metodologia e il ritmo lavorativo desiderato.
3. Il monopolio della conoscenza del processo lavorativo è funzionale a controllare ogni fase del
medesimo processo e del suo modo d’esecuzione18.
9
Peter Turnbull e Woolfson, C. & Kelly, Dock Strike: Conflict and Restructuring in Britain’s Ports, Aldershot,
Avebury 1992.
10
Marc Levinson, The box: how the shipping container made the world smaller and the world economy bigger,
Princeton Università Press, Princeton 2006.
11
B. J. Cudahy, Box Boats, How Container Ships Changed the World, Fordham University Press, Fordham 2006.
12
Sottolineo che il lavoro portuale anche dopo l’applicazione maggioritaria dei container non possa essere assimilato
alla dimensione della catena di montaggio. Il dibattito sulla natura dell’innovazione tecnologica è stato particolarmente
intenso, con l’utilizzo frequente di terminologia tipica della catena di montaggio.
13
Pp. 85-149.
14
Braverman precisa «E’ importante comprendere bene questo punto, giacché è di qui che deriva l’universale
applicazione del taylorismo al lavoro nelle sue varie forme e fasi di sviluppo, indipendentemente dalla natura della
tecnologia adottata». Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, op. cit., p. 86
15
Ibidem, pp.110
16
Ibidem, p. 90.
17
Ibidem, pp. 112-113.
3
La containerizzazione va interpretata come un processo di meccanizzazione del lavoro nei porti,
indagando da un lato il rapporto fra il singolo portuale e la tecnologia, in relazione alle competenze
e alle tradizionali metodologie di lavoro, come indicato da Björklund, e dall’altro come una nuova
relazione fra le comunità dei portuali e la tecnologia.
Bernard Dubbeld, indagando il caso di Durban19, mostra la perdita d’importanza dei portuali nel
processo decisionale. Riprendendo il contributo di H. Braverman, egli incentra la propria narrazione
sulle organizzazioni collettive (gangs di lavoratori e sindacati) e il nuovo controllo del processo
lavorativo, indotto dall’innovazione dei containers. B. Bubbeld ha la capacità di descrivere
l’innovazione
tecnologica
considerando
sia
l’impatto
di
essa
sulle
consuetudini
dell’autorganizzazione lavorativa dei portuali sia la filosofia di fondo del nuovo piano manageriale.
Lo spazio portuale
Il contributo metodologico di Frank Broeze è essenziale per leggere la riformulazione del concetto
di «spazio portuale». Egli sostiene che «l’aspetto maggiormente rivoluzionario fu il superamento
dell’isolamento dello shipping nella catena dei trasporti. La logistica intermodale determinò
un’integrazione fra trasposto marittimo e terrestre come mai accaduto prima20», spiegando che
l’evento può esser descritto enunciando due principi molto semplici: da un lato l’omologazione dei
carichi in unità standardizzati per ridurre i tempi di permanenza nei porti e incrementare la
produttività del lavoro e dall’altro la creazione di un effettivo sistema intermodale con un servizio
porta-a-porta dal produttore al consumatore21. L’autore mostra che prima degli anni Sessanta le
merci erano collocate in sacchi, casse, scatole, pacchi, e successivamente nei pallet22sollevati dai
forklift. Analizzando l’affermazione della filosofia intermodale ci mostra il mutamento radicale
della natura dello spazio dei porti. Se nell’epoca pre-container il motivo principale di conflitti era il
tentativo d’industriali e armatori di usare bacini autonomi dalle organizzazioni dei lavoratori, tale
dinamica dopo l’avvento dei container si è innovata notevolmente, dato che il carico/scarico dei
container può avvenire in qualsiasi luogo consono, come potrebbe esser la fabbrica del mittente o
un interporto nell’entroterra23. David F. Wilson, in merito, ha sostenuto che il container è stato
18
Ibidem, pp. 113- 120.
Bernard Dubbeld, Breaking the Buffalo: The Transformation of Stevedoring Work in Durban Between 1970 and
1990, «Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis», (2003).
20
F. Broeze, The globalisation of the ocean, op. Cit., p. 10.
21
Ibidem, p. 9.
22
Termine internazione che indica un’attrezzatura utilizzata per l'appoggio di vari tipi di materiale, destinati a essere
immagazzinati nelle industrie, ad essere movimentati con attrezzature specifiche (carrelli elevatori e trnaspallet) e
trasportati con vari mezzi di trasporto.
23
F. Broeze, The globalisation of the ocean, p. 21.
19
4
concepito per attraversare i porti senza esser aperto24, e all’interno di tale progettualità a livello
mondiale furono costruiti interporti nell’entroterra per la manipolazione della merce, utilizzando
manodopera esterna al mondo tradizionale dei portuali25.
Il concetto di «tempo» all’interno del porto
Stephern Kern indaga come i radicali cambiamenti della tecnologia e della cultura abbiano creato
nuovi modi di pensare e di vivere lo spazio e il tempo26, a cavallo fra Ottocento e Novecento. Lo
storico nordamericano mostra la relazione fra la tecnologia e la «dimensione culturale», volendo
scongiurare un «determinismo tecnologico». La definizione e il controllo del futuro prossimo
interagì, secondo S. Kern, con il piano del controllo dell’operaio nella scienza manageriale,
sviluppata da Frederick Taylor27. Quest’ultimo lavorò sul concetto di velocità, capace di abbracciare
sia la dimensione spaziale che temporale all’interno nella dimensione lavorativa. Uno dei principali
obiettivi dell’«organizzazione scientifica» del lavoro di fabbrica era lo studio dei tempi di
produzione, la loro restituzione ai singoli lavoratori, aumentando la velocità, «evitando l’incostanza
degli umori mutevoli di un caposquadra28».
In una prospettiva globale, Wilson ha mostrato che la modalità di lavoro introdotta dai container ha
abbattuto i tempi di manipolazione dell’unità di trasporto e della nave in porto29. Devi Sacchetto,
indagando il lavoro dei marittimi, ha dimostrato che «l’eliminazione dell’immagazzinamento, che è
costituito da pile di container, ha reso molto più spedito il lavoro di smistamento»30. Sergio
Bologna, invece, ha messo in luce che gli strumenti informatici, connessi con i container, hanno
reso possibile la pianificazione dei tempi di lavoro presso il porto e la nascita del concetto di
puntualità in relazione all’arrivo dei navi portacontainer31. Nell’organizzazione della logistica
portuale, la maggiore velocità delle traversate oceaniche delle portacontainer e il rapido
attraversamento dei porti e la previsione delle operazioni di carico/scarico dei container hanno
delineato nuove pratiche di governo della forza lavoro addetta alla logistica portuale.
24
Ibidem, p. 138.
David F. Wilson, Dockers the impact of industrial charge, London, 1992, p. 142.
26
Stephern Kern, Il tempo e lo spazio, La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna1988, p. 7.
27
Ibidem, p. 120.
28
Ibidem, p. 147.
29
David F. Wilson, Dockers the impact of industrial charge, ( London, 1992), p. 142.
30
Devi Sacchetto, Fabbriche galleggianti: solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaka book, Milano 2009, p. 227.
31
Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, Letture sul sistema marittimo-portuale, Egea, Milano, 2010, p. 91.
25
5
Genova, il processo lavorativo: oltre la dimensione artigianale e il nodo del controllo.
Oltre la dimensione artigianale del singolo stivatore
La fine dell’arte dello stivaggio è un aspetto centrale del mutamento apportato dai containers, per
cui intendo mostrare come dopo la loro introduzione competenze tradizionali siano divenute non
più utili al processo produttivo. Sul piano del lavoro la rivoluzione dei container ha interrotto una
dinamica di lungo periodo caratterizzata da un sapere artigianale e da un’organizzazione del lavoro
di tipo cooperativo. Quest’ultimo elemento assunse un aspetto essenziale sia nella dimensione del
singolo portuale che all’interno della cooperazione delle gang in tutti in porti del globo32. La
condizione del porto ligure è stata descritta dalla seguente memoria scritta del portuale Gigi Boero:
I miei compagni avevano l’abilità di mettere la roba in modo da fare il piano sempre più in su, con una
particolare maniera di usare i ganci, usando la malizia nello stesso tempo, tanto che spostavano cento chili
come niente. (…) Belin, se ho imparato tanto da quegli uomini (…) Come si fa a spiegare come imbarcare
le botti di vermouth che andavano in Inghilterra? Che provino ora a fare una stiva come si mettevano una
volta. Oggi ci sono i container che hanno risolto tutto 33.
Le condizioni del lavoro portuale in merito alla prevedibilità delle operazioni e alla relazione
con le gru e i forklift, sono descritte da Tosonotti nel 1968, alla vigilia della costruzione della
prima calata per container a Genova:
Il lavoratore portuale è quasi un artigiano; e di fatto il tipo di organizzazione nel quale trova collocazione
è di stampo artigianale, anche se ancor oggi caratteristica di molti porti, alcuni dei quali
internazionalmente di primo grado. …) Le macchine nei porti hanno alleviato le fatiche degli scaricatori,
ma non hanno certo introdotto nuove sostanziali tecniche operative, come l’organizzazione del lavoro “a
catena”.34.
Dalla prima metà degli anni Settanta la figura storica, incentrata su conoscenze tradizionali
funzionali allo stivaggio e alla manipolazione delle casse e dei sacchi, diviene sempre meno utile al
processo lavorativo. Il container produce una progressiva revisione della figura storica del portuale
come sostenne la UIL nel 1976:
Le cause della situazione di crisi che colpiscono i porti vengono ravvisate nelle radicali trasformazioni
delle strutture dei traffici, nel progressivo modificarsi della tradizionale figura del portuale-cottimista,
32
Frederick Cooper, Dockworkers and labour history, in S. Davies (ed.), Dock Workers, op. Cit., p. 527.
Gigi Boero, La memoria del porto, Genova 2004, pp.107-108.
34
P. C. Tosonotti, Il lavoro Portuale: Compagnie e sindacati, appunti, Genova 1968, pp. 5 e 7.
33
6
nella trasformazione dei porti in punti di arrivo programmati di traghetti, nella divaricazione che si è
determinata tra portuali delle Compagnie e quelli degli altri Enti e imprese portuali35.
Al singolo portuale viene richiesta l’acquisizione delle nuove competenze essenziali per la
manipolazione dei contenitori, motivo per il quale la «scuola portuale» era concepita in funzione
della trasformazione del singolo portuale:
Con l’intendimento di favorire il progressivo aggiornamento dei lavoratori portuali sulle nuove tecniche
relative alle operazioni che vengono svolte nell’ambito dei porti ha luogo un primo ciclo di corsi
polivalenti presso la sede della «Scuola professionale».36.
L’autoriforma delle strutture collettive è effetto del mutamento delle competenze richieste ai singoli
portuali e dell’omologazione delle prestazioni lavorative del singolo stivatore portuale.
Il nodo del controllo del processo lavorativo e le strutture collettive
La dimensione che principalmente avvicina la trasformazione dei porti all’impostazione
metodologica di Harry Breverman è relativa allo spostamento della capacità di controllo del
processo lavorativo dalle organizzazioni degli stivatori ai terminalisti. Frank Broeze37 dedica una
parte interessante della propria narrazione per mostrare la connessione tra la dimensione dello
spostamento del controllo del processo lavorativo e il destino della dimensione comunitaria del
lavoro, legata a tradizioni, consuetudini e reti sociali. Per esprimere tale passaggio, Broeze utilizza
la seguente testimonianza di un docker di Liverpool:
They didn’t just sack the men and we all lost our jobs. They broke up a community. It wasn’t just the job.
Most people in this room started on the dock as young men. You grew up together, you knew the
families, you knew how many kids and how many grandkids, you’d probably been to weedings or
communions or whatever. We’ve lost a community38.
Non è presente nel mio piano interpretativo una lettura «deterministica», funzionale a sostenere che
a Genova la costruzione del primo terminal del Mediterraneo abbia prodotto immediatamente una
marginalizzazione dell’istituto della Compagnia. Quest’ultima negli anni settanta intraprese un
lungo percorso di «autoriforma» per rispondere, appunto, al mutamento del lavoro richiesto dai
container.
35
Archivio Storico del Centro Ligure di Storia Sociale (ACLSoc), Fondo Camera del Lavoro, B. misc. XXI, Fasc. UIL,
«Dibattito sulla piattaforma per i lavoratori dei porti”, Intervento di Belgiovine Carlo (UILPORTI /UIL).
36
Archivio Storico Privato CULMV (AS-CUMV), CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1980, p. 11.
37
Frank Broeze, The globalisation of the oceans, op. Cit., 243.
38
Ibidem.
7
Nella prima metà degli anni Ottanta si procede alla progressiva messa in discussione della
Compagnia Portuale e della valorizzazione dell’impresa privata per la gestione dei terminal
container. Dal 1983 la CULMV conobbe un esodo importantissimo e fu introdotta nel dibattito
pubblico la possibilità di superare la dimensione pubblica del controllo del porto. Nel 1989 si visse
a Genova un conflitto per via dei decreti Prandini, che aprirono la strada al superamento del
monopolio della gestione del carico e scarico delle merci da parte dei portuali aderenti alle
Compagnie Portuali e alla nascita dei terminalisti39.
In Italia l’istituto della Compagnia Portuale è stato centrale nel governo del lavoro per la parte
principale del XX secolo; esso nacque nel 1929 come strumento di disciplinamento dei portuali,
attraverso una catena del controllo che vedeva nella squadra uno degli elementi centrali. Nel
dopoguerra la CULMV si caratterizzava per una dimensione di autogoverno, e per il fatto che la
cultura degli operai si formava e si trasmetteva all’interno delle squadre. Quindi, per leggere il venir
meno della capacità di controllare il processo lavorativo nel porto genovese è necessario porre al
centro dell’analisi la relazione CULMV-squadre dei portuali. Con l'introduzione dei container si è
sviluppata una progressiva erosione della gang. Al medesimo tempo, essa ebbe una funzione
primaria nella Compagnia Lavoratori Portuali nel suo sforzo di sviluppare la propria autonomia e la
riproduzione dei portuali, anche in relazione all’immissione dei figli. La CULMV nacque nel 1946
formata da sei sezioni che prevedevano competenze differenti40. Le strutture delle squadre
mutarono radicalmente e nella prima metà degli anni Settanta si produsse il superamento delle
Sezioni.
A livello mondiale l’introduzione dei container produsse «decimazione della forza lavoro41»
descritta da Frank Broeze42. Nel caso italiano, l’esodo dei portuali ha mutato la natura della
CULMV. L’espulsione della manodopera fu dovuta ad un incremento della produttività del singolo
portuale43. Sul piano quantitativo il numero dei soci della CULMV in tre anni diminuì di 1474,
passando da 5436 nel 1982 a 3962 dell’85, ovvero una riduzione del 27% in soli tre anni.
I Libri Blu di Roberto D’Alessandro, presidente del Consorzio Autonomo Portuale di Genova dal
1983, hanno ridisegnato le linee di governo del porto, prospettando la progressiva privatizzazione
di alcune calate per la movimentazione dei container. Il tema della gestione della direzione del
lavoro era centrale nella misura in cui si prospettava una «nuova organizzazione del lavoro (…)
39
M. Massimo, Gli anni che sconvolsero il porto di Genova, Sagep, Genova 1999, p. 41.
AS-CULMV, CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1946, Genova 1946.
41
Frank Broeze, The globalisation of the oceans, op. Cit., pp. 237-238.
42
Ibidem.
43
Archivio Autorità Portuale di Genova (AsAPG), Consorzio Autonomo del Porto di Genova, Bilancio 1985, p. 6.
40
8
eliminando i laccioli (…) per restituire la funzione di governo e controllo del sistema44». Il
Presidente del Consorzio Autonomo del Porto propone sia il superamento della tradizionale figura
del portuale che della commistione dei compiti:
L’organizzazione del lavoro è ancora basata su presupposti preindustriali. …) Regia, direzione, gestione
e operazioni non fanno capo a responsabilità distinte ma coesistono, si oppongono e si sovrappongono, in
organismi carichi di potenziale antagonismo.45».
Sul piano qualitativo la presente ricerca dovrà avere la capacità di mostrare come sia divenuto egemone il
progetto di netta divisione fra l’esecuzione operaia e la progettazione manageriale, con quale termini e
strumenti comunicativi, perfettamente descritta nel contesto veneziano:
Le conclusioni sono state tratte dal professor Calogero Muscarà, ordinario di Geografia economica il
quale ha chiarito che il problema dei porti oggi non è tanto un problema di distanza geografica, quanto di
organizzazione, ed ha precisato che la questione va affrontata sotto due aspetti: strutturale organizzativa.
«Ognuno deve tornare a svolgere la propria funzione: gli imprenditori quella imprenditoriale e i lavoratori
quella di lavorare, altrimenti si giunge all’autogestione46».
La direzione della CULMV aveva fotografato la dinamica manageriale nel 1987, con le seguenti parole:
Il 1987 sarà probabilmente ricordato nella storia della Compagnia (…) per la gravità dell’attacco di cui
essa è stata fatta oggetto (…) si veniva evidenziando un progetto che mirava (…) ad una estromissione
dei lavoratori stessi da tutte le sedi decisionali (…) con obiettivo finale il sostanziale smembramento della
struttura di Compagnia47.
Il concetto di tempo al porto di Genova
La nozione di tempo è essenziale nella definizione del lavoro, essendo strumento di potere per il
controllo del processo lavorativo.
Il Consorzio Autonomo del Porto nel 1966, giunta la prima nave portacontainer, era cosciente che la
nuova tecnica avrebbe determinato «una riduzione nel tempo di trasporto, la resa della merce
avrebbe comportato la riduzione di tempo di circa il 30%.48». Tale innovazione fu registrata dalla
CGIL, la quale, nella prima metà degli anni Settanta, sviluppava un’analisi del mutamento
dell’organizzazione del lavoro portuale, secondo la quale «la spinta alla creazione degli interporti
44
AsAPGe, Consorzio Autonomo del Porto Porto, Linee Programmatiche per lo sviluppo del porto di Genova, Luglio
1984 – Luglio 1985, pp.45-47.
45
AsAPG, Consorzio Autonomo del Porto Porto, Linee programmatiche per lo sviluppo del porto di Genova, 31
maggio 1984. P..
46
Anonimo, Tavola rotonda organizzata dai giovani imprenditori. Venezia. Il porto soffocato dai costi eccessivi, «Il
Gazzettino», 25/03/1980».
47
AsAPGe, CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1987, p. 5.
48
Fondo Privato CISCO, B. 1, Fascicolo 1/a, Sottofascicolo «articolo sulle conferenze di San Giorgio 1966», Mario
Ravedati, Il porto di Genova e i containers, p. 550.
9
nell’entroterra esigeva la ristrutturazione dei servizi atti a garantire un transito veloce dei container e
una permanenza limitata della porta container rispetto alle navi tradizionali49».
Il mutamento della relazione con il tempo era oggetto d’interesse della CULMV nel 1971, come
risulta dalla relazione annuale:
I trasporti a mezzo di navi porta contenitori promuovono sempre maggiormente la unitizzazione dei
carichi, accelerando il processo di revisione dei porti, i quali diventano sempre meno centri di sosta
prolungata in cui il solo elemento spazio svolge ruolo fondamentale, per assumere la funzione di punto
transitante della merce abbisognevole di operazioni rapide, quasi, sincronizzate50.
A pochi anni dall’introduzione dei container l’analisi rapporto tempo/lavoro racchiude sia il
concetto di velocità che quello di sincronizzazione, possibile solo attraverso un diverso uso del
tempo per pianificare il lavoro dei diversi attori, tra cui i camionisti.
La prevedibilità dei tempi delle operazioni dei portuali negli anni Ottanta è un tema enunciato dalla
CULMV, permanendo all’interno di una logica di flessibilità gestita dalla medesima organizzazione
dei portuali51. Oltre al tema della sincronizzazione delle operazioni di diversi soggetti operanti al
porto, la nuova concezione del tempo implica una nuova importanza della puntualità e della
programmazione, in antitesi con il casual labour:
Vi è il radicale mutarsi dei moduli di traffico, che ha trasformato radicalmente la classica figura del
portuale legato alla casualità del lavoro; vi è altresì l’eliminazione di quel serbatoio rappresentato a suo
tempo della massa di avventizi, di occasionali, di raccogliticci, vero serbatoio di sottooccupati o di
sottosalariati. Oggi le cose sono cambiate, nel senso che ormai tutto è programmabile nei traffici. Oggi la
merce richiede spazio, rese a costi bassi e certi, chiede puntualità nelle operazioni52.
Nei prossimi sviluppi della ricerca dovrò sviluppare l’indagine sull’innovazione del concetto
di «tempo» al porto di Genova in altre direzioni, ma sempre connesse con il governo della
forza lavoro.
49
Archivio Centro Ligure Storia Sociale, Fondo CdL Genova, Busta XXI, f. Fascicolo - CGIL-FILP NAZIONALE
1973/1977, Documento elaborato dalla Segreteria nazionale della FILP-CGIL, su mandato del Comitato Centrale, per
il dibattito preparatorio del IX congresso (da utilizzare per le relazioni verbali nelle assemblee di base, nei congressi
locali, provinciali e regionali della Federazione)», p.4.
50
Archivio storico CULMV Genova: CULMV, Relazione annuale 1971, p. 12.
51
AsAPG, Compagnia Unica fra i lavoratori delle merci varie del porto di Genova, Proposta di organizzazione e costi
operativi per il terminal contenitori, Genova, novembre 1986, p. 6.
52
AsCLStoSo, Fondo Cdl, Busta XXI, Fasc. “UIL-Trasporti, “Dibattito sulla piattaforma per i lavoratori dei portiIntervento di Belgiovine VCarlo.
10
Il porto di Genova oltre l’emporio.
Lo spazio portuale, prima dell’avvento dei container, si configurava come l’emporio delle merci,
dato che il trasporto portuale era caratterizzato dalla rottura di carico. Il permanere della merce,
nella sua molteplicità, presso l’emporio qualificava sia il landscape che il processo lavorativo. Nel
1965 il CAP sosteneva che «nel sistema delle grandi vie di comunicazione i porti sono dei noli di
passaggio e di trasformazione dei flussi di movimento. Le caratteristiche di questi nodi assumono aspetti del
tutto particolari per effetto di due condizioni determinanti», costituite da:
•
un grande assortimento di qualità e di quantità delle partite di merce che formano oggetto
dei movimenti;
•
Un radicale cambiamento dei valori dei carichi unitari dei diversi vettori mediante cui si
effettuano i movimenti;
Non meno di 8-10 sono «i tipi di condizionamento delle merci» (prodotti secchi alla rinfusa,
prodotti liquidi alla rinfusa, sacchi, balle, fusti, casse, pezzi singoli, pezzi raggruppati, sacchi, balle,
fusti, casse ecc.)53.
La natura dell’emporio è comprensibile leggendo le memorie scritte dell’ex console Paride Batini:
C’era un’intensa attività di lavorazione e trasformazione del prodotto, che qui veniva commercializzato e
confezionato. (…) non ci limitavamo allo sbarco e all’imbarco, ma giornalmente dislocati alle dipendenze
operative delle botteghe, diventavamo una sorta di commessi di fiducia dei commercianti (…)
partecipavamo insomma alla vita di un emporio non solo transitava, ma veniva trasformata ed elaborata,
creando lavoro e commercio. (…) la gran varietà di merci, le tipologie d’imballaggio, la diversificazione
delle operazioni rendevano la nostra attività interessante e mai noiosa54.
Lo spazio del porto assunse progressivamente una versione geografica nuova, per via della fine
della rottura di carico. Il container divenne l’elemento centrale, provocando l’omologazione visiva e
produttiva, perché semplicemente la molteplicità delle merci smise di esser visibile e accessibile ai
medesimi portuali. Il porto perse velocemente la qualifica di luogo di manipolazione/trasformazione
della merce, poiché il lavoro di carico e scarico avveniva nelle fabbriche o negli interporti di nuova
generazione nell’entroterra, come osservano i dirigenti del CAP nella prima metà degli anni
Settanta:
Nasce il trasporto intermodale che ha come presupposto quello della limitazione della rottura di carico e
le manipolazioni intermedie (…). Il porto, investito da questo processo, si trasforma radicalmente e viene
53
AsAPG, “Il Porto di Genova” Anno LIX, Ottobre 1965, Filippo Beltrame, Centri portuali di raccolta deposito e
smistamento merci generali, p. 21.
54
Paride Batini, L’occasionale. Storia di un porto e della sua gente, Marietti, Genova 1991, pp. 30-32.
11
ad assumere sempre più le caratteristiche di un punto dove le merci devono sostare il meno possibile e
devono esser celermente smistate: scompare il vecchio “porto-emporio” e nasce un nuovo tipo di porto55.
Il porto si viene a trovare all’interno del commercio intermodale, con la funzione di realizzare una
«struttura ottimale di flussi (…) intesa come un’unica “pipeline” tra spedizioniere e destinatario56».
Anche nel dibattito italiano, come nel Nord America, era centrale l’integrazione fra trasposti
terrestri e marittimi, dato che già nel 1966 i dirigenti del CAP esprimevano il seguente proposito:
Con i container, in fondo, noi estendiamo oltremare le autostrade e le ferrovie europee e viceversa, senza
nessun carro ferroviario e nessuna automotrice debba attraversare l’Atlantico57.
Il porto muta progressivamente perché viene inserito all’interno della catena del commercio
intermodale58. Anche la sua raffigurazione spaziale muta progressivamente, utilizzando
terminologie che fino ad allora trovano riscontro nella fabbrica, come suggerito da Sergio
Bologna59. In merito, la descrizione di un report di viaggio di studio nei porti del Nord Europa
introduce tale innovazione:
L'architetto svedese Leindenboirg di Gotenborg sta mettendo a punto un altro sistema (…) capace di
movimentare 15000 containers per nave nelle 24 ore (…) ricorre al largo impiego di nastri trasportatori
per il trasferimento dei containers da deposito a nave e viceversa (…) l'intero sistema sarebbe altamente
automatizzato e richiederebbe l'impiego si soli 20 uomini operare su 7 navi per un totale di circa 10.500
containers60.
La dimensione spaziale, sia sul piano fattuale che della narrazione, da una parte, ci aiuta a mettere a
fuoco il superamento dell’anomalia del porto in relazione ai piani manageriali della produzione
industriale e, dell’altra, la relazione con le tradizionale comunità dei lavoratori portuali.
55
AsCLStoSo, Fondo CdL, Busta XXI, fascicolo «Consorzio Autonomo del Porto, Rapporti CAP-sindacati, 1972-‘78»,
Relazione per la conferenza del CAP, p. 2.
56
AsCISCO, Fasc. 38 - «Convegno “La funzione degli inland terminals nel sistema a containers” – Piacenza 13 giugno
1971.». doc. 1 – Camera di Commercio Industria, artigianato e agricoltura, Piacenza, Atti tavola rotonda sul tema: la
funzione degli inland terminals nel sistema a containers, Piacenza 12 giugno 1971, p. 27.
57
AsCISCO, B. 1, Fascicolo 1/a, Sottofascicolo «articolo sulle conferenze di San Giorgio 1966», Mario Ravedati, Il
porto di Genova e i containers, p.548.
58
M. Levinson, The box: how the shipping container, cit., p. 264- 278.
59
Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, op. cit., p. 96.
60
AsAPGe, Bollettino del Consorzio Autonomo del Porto, 1972. P. 404.
12
Marco Caligari
La rivoluzione dei containers nel porto di Genova (1969-'83):
appunti su "lavoro artigianale", spazio e tempo.
Università Ca’ Foscari di Venezia
Tutor: prof. Michele Cangiani
Premessa
La mia ricerca dottorale intende rispondere alla seguente domanda: «Come si è modificato il
governo della forza lavoro portuale in relazione all’introduzione dei container?». Il presente saggio
ha l’obiettivo di enunciare le tre principali sezioni tematiche (controllo del processo lavorativo,
tempo e spazio) funzionali a rispondere al quesito in merito al principale porto italiano.
Nella parte introduttiva metterò a valore i contributi teorici, anche non direttamente riguardanti
questioni portuali, che stanno alla base del mio piano interpretativo degli eventi indagati e delle
fonti storiche consultate.
Nella prima sezione affronterò il tema del controllo del processo lavorativo, mostrando il piano
manageriale e l’innovazione delle competenze. Attraverso l’utilizzo di alcune fonti storiche
mostrerò il superamento della dimensione «artigianale» del singolo lavoratore ed analizzerò la
relazione fra il controllo del processo produttivo e le strutture collettive dei portuali.
Nella seconda parte mostrerò come i container abbiano determinato una cesura storica con il «portoemporio», determinando la ridefinizione del concetto di «spazio» portuale.
Nell’ultima sezione discuterò il concetto di «tempo», inteso come terreno di lotta per la sua
determinazione nel processo lavorativo, attraverso le analisi della Compagnia Unica Lavoratori
Merci Varie di Genova (CULMV) .
1
Quadro metodologico: controllo del processo lavorativo, spazio e tempo.
Controllo del processo lavorativo
Anders Bjorklund, analizzando il processo d’innovazione tecnologica nei porti in una prospettiva
globale, propone la seguente sequenza: uncino, gru, forklift e container1. Egli mostra chiaramente
come nel mondo portuale a cavallo fra anni Sessanta e Settanta è mutato radicalmente il rapporto
con gli strumenti del lavoro. La containerizzazione ha determinato una cesura storica per quanto
concerne il rapporto con la tecnologia e la sua funzione. La molteplicità e la complessità delle merci
in transito cessarono di essere l’elemento qualificante, essendo la varietà organizzativa dei prodotti
superata per importanza dall’unità di carico: il container. Il contributo metodologico di Harry
Braverman2 può fornire un’utile griglia interpretativa per indagare la «rivoluzione dei container» a
Genova. L’autore, secondo la lettura di Sam Davies, si è inserito all’interno della storiografia del
lavoro, segnando uno stacco per la duplice direzione proposta: da un lato per la definizione precisa
di “degradazione del lavoro” e dall’altro per un interesse nuovo per la funzione del management
della forza lavoro3.
L’interesse per tale approccio metodologico è stato suggerito dallo studio della letteratura anglofona
sui porti. La manipolazione della merce presso il porto, prima dell’introduzione dei container era
caratterizzata dalla manipolazione della merce pezzo per pezzo4, con un’enorme complessità e
imprevedibilità del lavoro5, e con elevata capacità di controllo da parte delle organizzazioni
operaie6. La complessità delle operazioni di carico e scarico e delle tipologie di merci rendeva
impossibile la standardizzazione del processo lavorativo, e quindi delle logiche manageriali
collegate ai lavori in serie e al controllo dei tempi della produzione7. La cesura storica fu prodotta
dai container. In merito al processo lavorativo Frank Broeze ha utilizzato il termine
«omologazione8», mentre, Peter Turnbull ha sottolineato che l’elemento di «standardizzazione» dei
1
A. Gjörklund, “Hamnarbetet och tekniken under 100 ar”, in Alla dagar alla natter. Fyra transporthistoriska essäer,
(Oskarshamn, 1997), citato in Anna Green, The work process, in S. Davies (eds.), Dock Workers: International
Explorations in Comparative Labour History, 1790-1970, Aldershot, 2000, p. 575.
2
Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico: la degradazione del lavoro nel XX Secolo, Einaudi, Torino 1978.
3
Sam Davies, Employers and dock labour: employment, work and industrial relations in international perspective, in
S. Davies (ed.), Dock Workers, op. Cit., p. 605.
4
Ibidem, p. 616.
5
E. Musso, C. Ferrari, M. Benacchio, E. Bacci, Porti, Lavoro, Economia, Le regioni portuali di fronte alla rivoluzione
logistica, Cedam, Padova 2004, p.119.
6
Colin J. Davis Waterfront Revolts. New York and London Dockworkers, 1946-61, Illinois University press, Chicago
2003.
7
J. John Bellamy Foster, On the waterfront: Longshoring in Canada, on Craing Heron and Robert Storey (ed.), On the
job, Confronting the Labour Process in Canada, Kingston and Montreal, 1986.
8
F. Broeze, “The globalisation of the oceans: containerisation from the 1950s to the present”, Research in Maritime
History, (2002), n.23.
2
container ha consentito la creazione di effetti fortemente innovativi sull’intero sistema portuale9.
Marc Levinson10 E Brian J. Cudahy11, invece, hanno dedicato molte energie per leggere
l’investimento manageriale del pioniere del trasporto attraverso i container: Malcom P. McLean.
Lo studio di H. Braverman si basa sull’ipotesi l’attività lavorativa degli operai si sia
progressivamente «degradata»12. L’autore descrive precisamente la capacità di Frederick Taylor di
fondare «il movimento della direzione scientifica del lavoro13, la quale si è sviluppata ponendo al
centro il controllo del processo lavorativo. Braverman precisa che «il taylorismo è un pezzo dello
sviluppo dei metodi di direzione e dell’organizzazione del lavoro, non della tecnologia, nel quale il
suo ruolo è stato marginale14». Egli sottolinea che « a Taylor non premeva molto il progresso
tecnologico. (…) Il suo interesse si appuntava sul controllo del lavoro15», innalzandone il concetto
su un piano del tutto nuovo quando ha «affermato che per una direzione adeguata è assolutamente
necessario prescrivere imperativamente al lavoratore l’esatta maniera in cui il lavoro deve essere
eseguito16».
Lo studioso nordamericano riconosce a F. Taylor la capacità di «formulare con chiarezza i principî
che ormai di rado vengono pubblicamente ammessi17», perciò li prende in esame diffusamente:
1. La dissoluzione del processo lavorativo dalle qualificazioni degli operai, rendendo il processo
lavorativo indipendente dalla tradizione e dalle conoscenze dei lavoratori.
2. Separazione dell’ideazione dall’esecuzione, eliminando gli elementi di autorganizzazione di una
comunità di lavoratori e automotivazione del singolo lavoratore. La linea manageriale intende
acquisire la capacità di direzione per poi imporre la metodologia e il ritmo lavorativo desiderato.
3. Il monopolio della conoscenza del processo lavorativo è funzionale a controllare ogni fase del
medesimo processo e del suo modo d’esecuzione18.
9
Peter Turnbull e Woolfson, C. & Kelly, Dock Strike: Conflict and Restructuring in Britain’s Ports, Aldershot,
Avebury 1992.
10
Marc Levinson, The box: how the shipping container made the world smaller and the world economy bigger,
Princeton Università Press, Princeton 2006.
11
B. J. Cudahy, Box Boats, How Container Ships Changed the World, Fordham University Press, Fordham 2006.
12
Sottolineo che il lavoro portuale anche dopo l’applicazione maggioritaria dei container non possa essere assimilato
alla dimensione della catena di montaggio. Il dibattito sulla natura dell’innovazione tecnologica è stato particolarmente
intenso, con l’utilizzo frequente di terminologia tipica della catena di montaggio.
13
Pp. 85-149.
14
Braverman precisa «E’ importante comprendere bene questo punto, giacché è di qui che deriva l’universale
applicazione del taylorismo al lavoro nelle sue varie forme e fasi di sviluppo, indipendentemente dalla natura della
tecnologia adottata». Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, op. cit., p. 86
15
Ibidem, pp.110
16
Ibidem, p. 90.
17
Ibidem, pp. 112-113.
3
La containerizzazione va interpretata come un processo di meccanizzazione del lavoro nei porti,
indagando da un lato il rapporto fra il singolo portuale e la tecnologia, in relazione alle competenze
e alle tradizionali metodologie di lavoro, come indicato da Björklund, e dall’altro come una nuova
relazione fra le comunità dei portuali e la tecnologia.
Bernard Dubbeld, indagando il caso di Durban19, mostra la perdita d’importanza dei portuali nel
processo decisionale. Riprendendo il contributo di H. Braverman, egli incentra la propria narrazione
sulle organizzazioni collettive (gangs di lavoratori e sindacati) e il nuovo controllo del processo
lavorativo, indotto dall’innovazione dei containers. B. Bubbeld ha la capacità di descrivere
l’innovazione
tecnologica
considerando
sia
l’impatto
di
essa
sulle
consuetudini
dell’autorganizzazione lavorativa dei portuali sia la filosofia di fondo del nuovo piano manageriale.
Lo spazio portuale
Il contributo metodologico di Frank Broeze è essenziale per leggere la riformulazione del concetto
di «spazio portuale». Egli sostiene che «l’aspetto maggiormente rivoluzionario fu il superamento
dell’isolamento dello shipping nella catena dei trasporti. La logistica intermodale determinò
un’integrazione fra trasposto marittimo e terrestre come mai accaduto prima20», spiegando che
l’evento può esser descritto enunciando due principi molto semplici: da un lato l’omologazione dei
carichi in unità standardizzati per ridurre i tempi di permanenza nei porti e incrementare la
produttività del lavoro e dall’altro la creazione di un effettivo sistema intermodale con un servizio
porta-a-porta dal produttore al consumatore21. L’autore mostra che prima degli anni Sessanta le
merci erano collocate in sacchi, casse, scatole, pacchi, e successivamente nei pallet22sollevati dai
forklift. Analizzando l’affermazione della filosofia intermodale ci mostra il mutamento radicale
della natura dello spazio dei porti. Se nell’epoca pre-container il motivo principale di conflitti era il
tentativo d’industriali e armatori di usare bacini autonomi dalle organizzazioni dei lavoratori, tale
dinamica dopo l’avvento dei container si è innovata notevolmente, dato che il carico/scarico dei
container può avvenire in qualsiasi luogo consono, come potrebbe esser la fabbrica del mittente o
un interporto nell’entroterra23. David F. Wilson, in merito, ha sostenuto che il container è stato
18
Ibidem, pp. 113- 120.
Bernard Dubbeld, Breaking the Buffalo: The Transformation of Stevedoring Work in Durban Between 1970 and
1990, «Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis», (2003).
20
F. Broeze, The globalisation of the ocean, op. Cit., p. 10.
21
Ibidem, p. 9.
22
Termine internazione che indica un’attrezzatura utilizzata per l'appoggio di vari tipi di materiale, destinati a essere
immagazzinati nelle industrie, ad essere movimentati con attrezzature specifiche (carrelli elevatori e trnaspallet) e
trasportati con vari mezzi di trasporto.
23
F. Broeze, The globalisation of the ocean, p. 21.
19
4
concepito per attraversare i porti senza esser aperto24, e all’interno di tale progettualità a livello
mondiale furono costruiti interporti nell’entroterra per la manipolazione della merce, utilizzando
manodopera esterna al mondo tradizionale dei portuali25.
Il concetto di «tempo» all’interno del porto
Stephern Kern indaga come i radicali cambiamenti della tecnologia e della cultura abbiano creato
nuovi modi di pensare e di vivere lo spazio e il tempo26, a cavallo fra Ottocento e Novecento. Lo
storico nordamericano mostra la relazione fra la tecnologia e la «dimensione culturale», volendo
scongiurare un «determinismo tecnologico». La definizione e il controllo del futuro prossimo
interagì, secondo S. Kern, con il piano del controllo dell’operaio nella scienza manageriale,
sviluppata da Frederick Taylor27. Quest’ultimo lavorò sul concetto di velocità, capace di abbracciare
sia la dimensione spaziale che temporale all’interno nella dimensione lavorativa. Uno dei principali
obiettivi dell’«organizzazione scientifica» del lavoro di fabbrica era lo studio dei tempi di
produzione, la loro restituzione ai singoli lavoratori, aumentando la velocità, «evitando l’incostanza
degli umori mutevoli di un caposquadra28».
In una prospettiva globale, Wilson ha mostrato che la modalità di lavoro introdotta dai container ha
abbattuto i tempi di manipolazione dell’unità di trasporto e della nave in porto29. Devi Sacchetto,
indagando il lavoro dei marittimi, ha dimostrato che «l’eliminazione dell’immagazzinamento, che è
costituito da pile di container, ha reso molto più spedito il lavoro di smistamento»30. Sergio
Bologna, invece, ha messo in luce che gli strumenti informatici, connessi con i container, hanno
reso possibile la pianificazione dei tempi di lavoro presso il porto e la nascita del concetto di
puntualità in relazione all’arrivo dei navi portacontainer31. Nell’organizzazione della logistica
portuale, la maggiore velocità delle traversate oceaniche delle portacontainer e il rapido
attraversamento dei porti e la previsione delle operazioni di carico/scarico dei container hanno
delineato nuove pratiche di governo della forza lavoro addetta alla logistica portuale.
24
Ibidem, p. 138.
David F. Wilson, Dockers the impact of industrial charge, London, 1992, p. 142.
26
Stephern Kern, Il tempo e lo spazio, La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna1988, p. 7.
27
Ibidem, p. 120.
28
Ibidem, p. 147.
29
David F. Wilson, Dockers the impact of industrial charge, ( London, 1992), p. 142.
30
Devi Sacchetto, Fabbriche galleggianti: solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaka book, Milano 2009, p. 227.
31
Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, Letture sul sistema marittimo-portuale, Egea, Milano, 2010, p. 91.
25
5
Genova, il processo lavorativo: oltre la dimensione artigianale e il nodo del controllo.
Oltre la dimensione artigianale del singolo stivatore
La fine dell’arte dello stivaggio è un aspetto centrale del mutamento apportato dai containers, per
cui intendo mostrare come dopo la loro introduzione competenze tradizionali siano divenute non
più utili al processo produttivo. Sul piano del lavoro la rivoluzione dei container ha interrotto una
dinamica di lungo periodo caratterizzata da un sapere artigianale e da un’organizzazione del lavoro
di tipo cooperativo. Quest’ultimo elemento assunse un aspetto essenziale sia nella dimensione del
singolo portuale che all’interno della cooperazione delle gang in tutti in porti del globo32. La
condizione del porto ligure è stata descritta dalla seguente memoria scritta del portuale Gigi Boero:
I miei compagni avevano l’abilità di mettere la roba in modo da fare il piano sempre più in su, con una
particolare maniera di usare i ganci, usando la malizia nello stesso tempo, tanto che spostavano cento chili
come niente. (…) Belin, se ho imparato tanto da quegli uomini (…) Come si fa a spiegare come imbarcare
le botti di vermouth che andavano in Inghilterra? Che provino ora a fare una stiva come si mettevano una
volta. Oggi ci sono i container che hanno risolto tutto 33.
Le condizioni del lavoro portuale in merito alla prevedibilità delle operazioni e alla relazione
con le gru e i forklift, sono descritte da Tosonotti nel 1968, alla vigilia della costruzione della
prima calata per container a Genova:
Il lavoratore portuale è quasi un artigiano; e di fatto il tipo di organizzazione nel quale trova collocazione
è di stampo artigianale, anche se ancor oggi caratteristica di molti porti, alcuni dei quali
internazionalmente di primo grado. …) Le macchine nei porti hanno alleviato le fatiche degli scaricatori,
ma non hanno certo introdotto nuove sostanziali tecniche operative, come l’organizzazione del lavoro “a
catena”.34.
Dalla prima metà degli anni Settanta la figura storica, incentrata su conoscenze tradizionali
funzionali allo stivaggio e alla manipolazione delle casse e dei sacchi, diviene sempre meno utile al
processo lavorativo. Il container produce una progressiva revisione della figura storica del portuale
come sostenne la UIL nel 1976:
Le cause della situazione di crisi che colpiscono i porti vengono ravvisate nelle radicali trasformazioni
delle strutture dei traffici, nel progressivo modificarsi della tradizionale figura del portuale-cottimista,
32
Frederick Cooper, Dockworkers and labour history, in S. Davies (ed.), Dock Workers, op. Cit., p. 527.
Gigi Boero, La memoria del porto, Genova 2004, pp.107-108.
34
P. C. Tosonotti, Il lavoro Portuale: Compagnie e sindacati, appunti, Genova 1968, pp. 5 e 7.
33
6
nella trasformazione dei porti in punti di arrivo programmati di traghetti, nella divaricazione che si è
determinata tra portuali delle Compagnie e quelli degli altri Enti e imprese portuali35.
Al singolo portuale viene richiesta l’acquisizione delle nuove competenze essenziali per la
manipolazione dei contenitori, motivo per il quale la «scuola portuale» era concepita in funzione
della trasformazione del singolo portuale:
Con l’intendimento di favorire il progressivo aggiornamento dei lavoratori portuali sulle nuove tecniche
relative alle operazioni che vengono svolte nell’ambito dei porti ha luogo un primo ciclo di corsi
polivalenti presso la sede della «Scuola professionale».36.
L’autoriforma delle strutture collettive è effetto del mutamento delle competenze richieste ai singoli
portuali e dell’omologazione delle prestazioni lavorative del singolo stivatore portuale.
Il nodo del controllo del processo lavorativo e le strutture collettive
La dimensione che principalmente avvicina la trasformazione dei porti all’impostazione
metodologica di Harry Breverman è relativa allo spostamento della capacità di controllo del
processo lavorativo dalle organizzazioni degli stivatori ai terminalisti. Frank Broeze37 dedica una
parte interessante della propria narrazione per mostrare la connessione tra la dimensione dello
spostamento del controllo del processo lavorativo e il destino della dimensione comunitaria del
lavoro, legata a tradizioni, consuetudini e reti sociali. Per esprimere tale passaggio, Broeze utilizza
la seguente testimonianza di un docker di Liverpool:
They didn’t just sack the men and we all lost our jobs. They broke up a community. It wasn’t just the job.
Most people in this room started on the dock as young men. You grew up together, you knew the
families, you knew how many kids and how many grandkids, you’d probably been to weedings or
communions or whatever. We’ve lost a community38.
Non è presente nel mio piano interpretativo una lettura «deterministica», funzionale a sostenere che
a Genova la costruzione del primo terminal del Mediterraneo abbia prodotto immediatamente una
marginalizzazione dell’istituto della Compagnia. Quest’ultima negli anni settanta intraprese un
lungo percorso di «autoriforma» per rispondere, appunto, al mutamento del lavoro richiesto dai
container.
35
Archivio Storico del Centro Ligure di Storia Sociale (ACLSoc), Fondo Camera del Lavoro, B. misc. XXI, Fasc. UIL,
«Dibattito sulla piattaforma per i lavoratori dei porti”, Intervento di Belgiovine Carlo (UILPORTI /UIL).
36
Archivio Storico Privato CULMV (AS-CUMV), CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1980, p. 11.
37
Frank Broeze, The globalisation of the oceans, op. Cit., 243.
38
Ibidem.
7
Nella prima metà degli anni Ottanta si procede alla progressiva messa in discussione della
Compagnia Portuale e della valorizzazione dell’impresa privata per la gestione dei terminal
container. Dal 1983 la CULMV conobbe un esodo importantissimo e fu introdotta nel dibattito
pubblico la possibilità di superare la dimensione pubblica del controllo del porto. Nel 1989 si visse
a Genova un conflitto per via dei decreti Prandini, che aprirono la strada al superamento del
monopolio della gestione del carico e scarico delle merci da parte dei portuali aderenti alle
Compagnie Portuali e alla nascita dei terminalisti39.
In Italia l’istituto della Compagnia Portuale è stato centrale nel governo del lavoro per la parte
principale del XX secolo; esso nacque nel 1929 come strumento di disciplinamento dei portuali,
attraverso una catena del controllo che vedeva nella squadra uno degli elementi centrali. Nel
dopoguerra la CULMV si caratterizzava per una dimensione di autogoverno, e per il fatto che la
cultura degli operai si formava e si trasmetteva all’interno delle squadre. Quindi, per leggere il venir
meno della capacità di controllare il processo lavorativo nel porto genovese è necessario porre al
centro dell’analisi la relazione CULMV-squadre dei portuali. Con l'introduzione dei container si è
sviluppata una progressiva erosione della gang. Al medesimo tempo, essa ebbe una funzione
primaria nella Compagnia Lavoratori Portuali nel suo sforzo di sviluppare la propria autonomia e la
riproduzione dei portuali, anche in relazione all’immissione dei figli. La CULMV nacque nel 1946
formata da sei sezioni che prevedevano competenze differenti40. Le strutture delle squadre
mutarono radicalmente e nella prima metà degli anni Settanta si produsse il superamento delle
Sezioni.
A livello mondiale l’introduzione dei container produsse «decimazione della forza lavoro41»
descritta da Frank Broeze42. Nel caso italiano, l’esodo dei portuali ha mutato la natura della
CULMV. L’espulsione della manodopera fu dovuta ad un incremento della produttività del singolo
portuale43. Sul piano quantitativo il numero dei soci della CULMV in tre anni diminuì di 1474,
passando da 5436 nel 1982 a 3962 dell’85, ovvero una riduzione del 27% in soli tre anni.
I Libri Blu di Roberto D’Alessandro, presidente del Consorzio Autonomo Portuale di Genova dal
1983, hanno ridisegnato le linee di governo del porto, prospettando la progressiva privatizzazione
di alcune calate per la movimentazione dei container. Il tema della gestione della direzione del
lavoro era centrale nella misura in cui si prospettava una «nuova organizzazione del lavoro (…)
39
M. Massimo, Gli anni che sconvolsero il porto di Genova, Sagep, Genova 1999, p. 41.
AS-CULMV, CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1946, Genova 1946.
41
Frank Broeze, The globalisation of the oceans, op. Cit., pp. 237-238.
42
Ibidem.
43
Archivio Autorità Portuale di Genova (AsAPG), Consorzio Autonomo del Porto di Genova, Bilancio 1985, p. 6.
40
8
eliminando i laccioli (…) per restituire la funzione di governo e controllo del sistema44». Il
Presidente del Consorzio Autonomo del Porto propone sia il superamento della tradizionale figura
del portuale che della commistione dei compiti:
L’organizzazione del lavoro è ancora basata su presupposti preindustriali. …) Regia, direzione, gestione
e operazioni non fanno capo a responsabilità distinte ma coesistono, si oppongono e si sovrappongono, in
organismi carichi di potenziale antagonismo.45».
Sul piano qualitativo la presente ricerca dovrà avere la capacità di mostrare come sia divenuto egemone il
progetto di netta divisione fra l’esecuzione operaia e la progettazione manageriale, con quale termini e
strumenti comunicativi, perfettamente descritta nel contesto veneziano:
Le conclusioni sono state tratte dal professor Calogero Muscarà, ordinario di Geografia economica il
quale ha chiarito che il problema dei porti oggi non è tanto un problema di distanza geografica, quanto di
organizzazione, ed ha precisato che la questione va affrontata sotto due aspetti: strutturale organizzativa.
«Ognuno deve tornare a svolgere la propria funzione: gli imprenditori quella imprenditoriale e i lavoratori
quella di lavorare, altrimenti si giunge all’autogestione46».
La direzione della CULMV aveva fotografato la dinamica manageriale nel 1987, con le seguenti parole:
Il 1987 sarà probabilmente ricordato nella storia della Compagnia (…) per la gravità dell’attacco di cui
essa è stata fatta oggetto (…) si veniva evidenziando un progetto che mirava (…) ad una estromissione
dei lavoratori stessi da tutte le sedi decisionali (…) con obiettivo finale il sostanziale smembramento della
struttura di Compagnia47.
Il concetto di tempo al porto di Genova
La nozione di tempo è essenziale nella definizione del lavoro, essendo strumento di potere per il
controllo del processo lavorativo.
Il Consorzio Autonomo del Porto nel 1966, giunta la prima nave portacontainer, era cosciente che la
nuova tecnica avrebbe determinato «una riduzione nel tempo di trasporto, la resa della merce
avrebbe comportato la riduzione di tempo di circa il 30%.48». Tale innovazione fu registrata dalla
CGIL, la quale, nella prima metà degli anni Settanta, sviluppava un’analisi del mutamento
dell’organizzazione del lavoro portuale, secondo la quale «la spinta alla creazione degli interporti
44
AsAPGe, Consorzio Autonomo del Porto Porto, Linee Programmatiche per lo sviluppo del porto di Genova, Luglio
1984 – Luglio 1985, pp.45-47.
45
AsAPG, Consorzio Autonomo del Porto Porto, Linee programmatiche per lo sviluppo del porto di Genova, 31
maggio 1984. P..
46
Anonimo, Tavola rotonda organizzata dai giovani imprenditori. Venezia. Il porto soffocato dai costi eccessivi, «Il
Gazzettino», 25/03/1980».
47
AsAPGe, CULMV, Relazione e bilancio dell’esercizio 1987, p. 5.
48
Fondo Privato CISCO, B. 1, Fascicolo 1/a, Sottofascicolo «articolo sulle conferenze di San Giorgio 1966», Mario
Ravedati, Il porto di Genova e i containers, p. 550.
9
nell’entroterra esigeva la ristrutturazione dei servizi atti a garantire un transito veloce dei container e
una permanenza limitata della porta container rispetto alle navi tradizionali49».
Il mutamento della relazione con il tempo era oggetto d’interesse della CULMV nel 1971, come
risulta dalla relazione annuale:
I trasporti a mezzo di navi porta contenitori promuovono sempre maggiormente la unitizzazione dei
carichi, accelerando il processo di revisione dei porti, i quali diventano sempre meno centri di sosta
prolungata in cui il solo elemento spazio svolge ruolo fondamentale, per assumere la funzione di punto
transitante della merce abbisognevole di operazioni rapide, quasi, sincronizzate50.
A pochi anni dall’introduzione dei container l’analisi rapporto tempo/lavoro racchiude sia il
concetto di velocità che quello di sincronizzazione, possibile solo attraverso un diverso uso del
tempo per pianificare il lavoro dei diversi attori, tra cui i camionisti.
La prevedibilità dei tempi delle operazioni dei portuali negli anni Ottanta è un tema enunciato dalla
CULMV, permanendo all’interno di una logica di flessibilità gestita dalla medesima organizzazione
dei portuali51. Oltre al tema della sincronizzazione delle operazioni di diversi soggetti operanti al
porto, la nuova concezione del tempo implica una nuova importanza della puntualità e della
programmazione, in antitesi con il casual labour:
Vi è il radicale mutarsi dei moduli di traffico, che ha trasformato radicalmente la classica figura del
portuale legato alla casualità del lavoro; vi è altresì l’eliminazione di quel serbatoio rappresentato a suo
tempo della massa di avventizi, di occasionali, di raccogliticci, vero serbatoio di sottooccupati o di
sottosalariati. Oggi le cose sono cambiate, nel senso che ormai tutto è programmabile nei traffici. Oggi la
merce richiede spazio, rese a costi bassi e certi, chiede puntualità nelle operazioni52.
Nei prossimi sviluppi della ricerca dovrò sviluppare l’indagine sull’innovazione del concetto
di «tempo» al porto di Genova in altre direzioni, ma sempre connesse con il governo della
forza lavoro.
49
Archivio Centro Ligure Storia Sociale, Fondo CdL Genova, Busta XXI, f. Fascicolo - CGIL-FILP NAZIONALE
1973/1977, Documento elaborato dalla Segreteria nazionale della FILP-CGIL, su mandato del Comitato Centrale, per
il dibattito preparatorio del IX congresso (da utilizzare per le relazioni verbali nelle assemblee di base, nei congressi
locali, provinciali e regionali della Federazione)», p.4.
50
Archivio storico CULMV Genova: CULMV, Relazione annuale 1971, p. 12.
51
AsAPG, Compagnia Unica fra i lavoratori delle merci varie del porto di Genova, Proposta di organizzazione e costi
operativi per il terminal contenitori, Genova, novembre 1986, p. 6.
52
AsCLStoSo, Fondo Cdl, Busta XXI, Fasc. “UIL-Trasporti, “Dibattito sulla piattaforma per i lavoratori dei portiIntervento di Belgiovine VCarlo.
10
Il porto di Genova oltre l’emporio.
Lo spazio portuale, prima dell’avvento dei container, si configurava come l’emporio delle merci,
dato che il trasporto portuale era caratterizzato dalla rottura di carico. Il permanere della merce,
nella sua molteplicità, presso l’emporio qualificava sia il landscape che il processo lavorativo. Nel
1965 il CAP sosteneva che «nel sistema delle grandi vie di comunicazione i porti sono dei noli di
passaggio e di trasformazione dei flussi di movimento. Le caratteristiche di questi nodi assumono aspetti del
tutto particolari per effetto di due condizioni determinanti», costituite da:
•
un grande assortimento di qualità e di quantità delle partite di merce che formano oggetto
dei movimenti;
•
Un radicale cambiamento dei valori dei carichi unitari dei diversi vettori mediante cui si
effettuano i movimenti;
Non meno di 8-10 sono «i tipi di condizionamento delle merci» (prodotti secchi alla rinfusa,
prodotti liquidi alla rinfusa, sacchi, balle, fusti, casse, pezzi singoli, pezzi raggruppati, sacchi, balle,
fusti, casse ecc.)53.
La natura dell’emporio è comprensibile leggendo le memorie scritte dell’ex console Paride Batini:
C’era un’intensa attività di lavorazione e trasformazione del prodotto, che qui veniva commercializzato e
confezionato. (…) non ci limitavamo allo sbarco e all’imbarco, ma giornalmente dislocati alle dipendenze
operative delle botteghe, diventavamo una sorta di commessi di fiducia dei commercianti (…)
partecipavamo insomma alla vita di un emporio non solo transitava, ma veniva trasformata ed elaborata,
creando lavoro e commercio. (…) la gran varietà di merci, le tipologie d’imballaggio, la diversificazione
delle operazioni rendevano la nostra attività interessante e mai noiosa54.
Lo spazio del porto assunse progressivamente una versione geografica nuova, per via della fine
della rottura di carico. Il container divenne l’elemento centrale, provocando l’omologazione visiva e
produttiva, perché semplicemente la molteplicità delle merci smise di esser visibile e accessibile ai
medesimi portuali. Il porto perse velocemente la qualifica di luogo di manipolazione/trasformazione
della merce, poiché il lavoro di carico e scarico avveniva nelle fabbriche o negli interporti di nuova
generazione nell’entroterra, come osservano i dirigenti del CAP nella prima metà degli anni
Settanta:
Nasce il trasporto intermodale che ha come presupposto quello della limitazione della rottura di carico e
le manipolazioni intermedie (…). Il porto, investito da questo processo, si trasforma radicalmente e viene
53
AsAPG, “Il Porto di Genova” Anno LIX, Ottobre 1965, Filippo Beltrame, Centri portuali di raccolta deposito e
smistamento merci generali, p. 21.
54
Paride Batini, L’occasionale. Storia di un porto e della sua gente, Marietti, Genova 1991, pp. 30-32.
11
ad assumere sempre più le caratteristiche di un punto dove le merci devono sostare il meno possibile e
devono esser celermente smistate: scompare il vecchio “porto-emporio” e nasce un nuovo tipo di porto55.
Il porto si viene a trovare all’interno del commercio intermodale, con la funzione di realizzare una
«struttura ottimale di flussi (…) intesa come un’unica “pipeline” tra spedizioniere e destinatario56».
Anche nel dibattito italiano, come nel Nord America, era centrale l’integrazione fra trasposti
terrestri e marittimi, dato che già nel 1966 i dirigenti del CAP esprimevano il seguente proposito:
Con i container, in fondo, noi estendiamo oltremare le autostrade e le ferrovie europee e viceversa, senza
nessun carro ferroviario e nessuna automotrice debba attraversare l’Atlantico57.
Il porto muta progressivamente perché viene inserito all’interno della catena del commercio
intermodale58. Anche la sua raffigurazione spaziale muta progressivamente, utilizzando
terminologie che fino ad allora trovano riscontro nella fabbrica, come suggerito da Sergio
Bologna59. In merito, la descrizione di un report di viaggio di studio nei porti del Nord Europa
introduce tale innovazione:
L'architetto svedese Leindenboirg di Gotenborg sta mettendo a punto un altro sistema (…) capace di
movimentare 15000 containers per nave nelle 24 ore (…) ricorre al largo impiego di nastri trasportatori
per il trasferimento dei containers da deposito a nave e viceversa (…) l'intero sistema sarebbe altamente
automatizzato e richiederebbe l'impiego si soli 20 uomini operare su 7 navi per un totale di circa 10.500
containers60.
La dimensione spaziale, sia sul piano fattuale che della narrazione, da una parte, ci aiuta a mettere a
fuoco il superamento dell’anomalia del porto in relazione ai piani manageriali della produzione
industriale e, dell’altra, la relazione con le tradizionale comunità dei lavoratori portuali.
55
AsCLStoSo, Fondo CdL, Busta XXI, fascicolo «Consorzio Autonomo del Porto, Rapporti CAP-sindacati, 1972-‘78»,
Relazione per la conferenza del CAP, p. 2.
56
AsCISCO, Fasc. 38 - «Convegno “La funzione degli inland terminals nel sistema a containers” – Piacenza 13 giugno
1971.». doc. 1 – Camera di Commercio Industria, artigianato e agricoltura, Piacenza, Atti tavola rotonda sul tema: la
funzione degli inland terminals nel sistema a containers, Piacenza 12 giugno 1971, p. 27.
57
AsCISCO, B. 1, Fascicolo 1/a, Sottofascicolo «articolo sulle conferenze di San Giorgio 1966», Mario Ravedati, Il
porto di Genova e i containers, p.548.
58
M. Levinson, The box: how the shipping container, cit., p. 264- 278.
59
Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, op. cit., p. 96.
60
AsAPGe, Bollettino del Consorzio Autonomo del Porto, 1972. P. 404.
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