...

ST 38 - Società Italiana di Studi Araldici

by user

on
Category: Documents
37

views

Report

Comments

Transcript

ST 38 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 38 – Anno XX – Giugno 2014 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
UN’ANTICA ISTITUZIONE
REGGINA:
LA REALE ARCICONFRATERNITA DE’
NOBILI OTTIMATI
Cataclismi, guerre e devastazioni hanno lasciato ben poche
memorie della trimillenaria Reggio. Non va taciuto che
non sfigurano, rispetto alle periodiche tragedie telluriche e
agli incendi e ai saccheggi portati dalle schiere di Dionigi
il Vecchio e dalle fuste barbaresche di Kaireddin
Barbarossa e del Bassà Cigala, gli effetti della tradizionale
incuria e delle colpevoli scelte di taluni suoi amministratori che, in ogni tempo, ne hanno falcidiato il patrimonio artistico-monumentale e culturale Si registrano, per
fortuna, delle eccezioni e, tra queste, merita menzione la
Real Confraternita de’ Nobili Ottimati, che, almeno da
cinque secoli, è viva e vitale, seguitando a costituire non
soltanto un caposaldo di zelo religioso e di attività caritativa, ma valido esempio di sodalizio nobiliare.
La “cripta degli Ottimati” costituisce con ogni probabilità
l’unica tangibile memoria dell’altomedievale Katholiké di
stile bizantino, la vecchia cattedrale di quell’archidiocesi
fondata da San Paolo. Di dimensione assai ridotta, ma
artisticamente armonica, ricca di una splendida pavimentazione musiva cosmatesca e ancor oggi stimolante mistica suggestione. Gravemente danneggiato dalle orde del
Cigala, l’edificio era sopravvissuto ai distruttivi terremoti
del 1783 e del 1908, ma l’ostinazione di un Commissario
Regio, apparentemente motivata dalla insopprimibile necessità di prolungare una strada, portò, malgrado le resistenze opposte dai migliori cittadini e l’intervento autorevole del grande archeologo Paolo Orsi, alla sua distruzione
e ricostruzione in piazza Castello, dove ancor oggi sorge.
La tradizione volle, per secoli, che non si trattasse della
Katholiké, ma della cappella, edificata e dedicata alla SS.
Annunziata dal conte Ruggero d’Altavilla, che l’avrebbe
successivamente – una volta divenuto re di Sicilia - donata
ad alcuni esponenti dell’aristocrazia reggina. Ma tale
remota origine non trova suffragio in alcun documento:
non soltanto non si fa di essa cenno nell’atto costitutivo
della Congrega, risalente al 1583, ma sembrerebbe che a
Reggio Ruggero il Normanno, a differenza di suo fratello
Tancredi il Guiscardo, non abbia mai risieduto. Comunque, fu sulla base di questa tradizione che Ferdinando IV
di Borbone, in allora re di Napoli e di Sicilia, l’11 dicembre 1779 accolse l’istanza dei confratri di riaprire al
culto la chiesa (era stata chiusa e confiscata, perché erroneamente ritenuta di proprietà dei Gesuiti, che vi officiavano dal 1584) e concesse quindi, con R. Privilegio del 6
novembre del 1780, di porre chiesa e Congrega de’ Nobili,
sotto il titolo della Nunziata di Reggio, sotto la sua regale
protezione, perché di Regia Fondazione, secondo il parere
richiesto ed emesso dalla R. Camera di S. Chiara.
All’ingresso si vedono, infatti, due stemmi reali settecenteschi: ALTAVILLA e BORBONE:
Accanto a ognuno di essi è riportata l’immagine, a colori,
mendata degli errori araldici presenti nelle sculture reggine
e singolarmente, in particolare, nella prima arma, di
esecuzione ben più semplice della seconda. L’arma degli
ALTAVILLA, nella sua blasonatura di gran lunga più nota
e più diffusa, infatti, avrebbe dovuto risultare: D’azzurro,
alla banda scaccata di due tiri, d’argento e di rosso. Di
simili bande scaccate, invece, la scultura ne mostra due,
tanto ravvicinate tra loro da venire di fatto congiunte da
una sorta di cotissa in banda. Lo scudo a cartoccio è
accollato da trofei militari, tra i quali fanno anacronistico
spicco due bocche da fuoco. La seconda insegna regale è
una delle tante varianti della grande arma di BORBONE,
adottate da Ferdinando IV. Si tratta di un Partito di due,
troncato:nel 1°, d’ANGIÒ antico; nel 2°, inquartato di
LEÓN e di CASTIGLIA; nel 3°, inquartato in croce di
Sant’Andrea d’ARAGONA-SICILIA; nel 4°, di FARNESE;
nel 5°, di GERUSALEMME; nel 6°, di MEDICITOSCANA; sul tutto, di BORBONE moderno. Lo scudo,
timbrato come il primo da corona reale, carica un manto
privo di padiglione, ed è accollato a destra dai collari degli
ordini dello Spirito Santo e di San Ferdinando, a sinistra da
quelli del Costantiniano di San Giorgio e di Carlo III,
mentre pende dalla punta il Toson d’Oro, sovrastante il
San Gennaro. Tutto corretto, tranne il punto 2°, ove
l’inquartato CASTILLA y LEÓN trasgredisce la regola, che
vuole il castello-torre nei quarti 1 e 4 e il leone in quel-li 2
e 3, mentre il marmo mostra l’esatto contrario. Soltan-to
due gli antichi stemmi marmorei gentilizi superstiti:
FILOCAMO e GRISO. Il primo, riferito a famiglia di fondatori, il secondo, a famiglia successivamente aggregata.
Il primo è corretto.
L’arma FILOCAMO, timbrata da corona patriziale, è
accollata dalla croce ottagona Melitense, al pari di quella
GRISO. Quest’ultima (dalla notevole somiglianza con
quella dei della GATTA, patrizi napoletani al Seggio di
Nido) costituisce un alias, in cui il gatto, fermo, appare
rivolto e non è sostenuto da campagna alcuna. La singolare
goffaggine del felino si deve alla rappresentazione degli
arti posteriori, che appaiono dotati di ginocchia e loro
piegatura, quindi, simile a quella presente nei primati.
Con ogni probabilità, nei tempi che furono alle pareti
erano affisse le insegne gentilizie dei confrati, che in quel
momento storico componevano il pio sodalizio.
Trentatrè erano stati nel 1583 i fondatori della Congrega,
appartenenti a ventitré famiglie nobili di Reggio: BARONE, BOSURGI, CAMPOLO, CAPUA o di CAPUA, CHIRIACO, COMPAGNA DIANO, FERRANTE, FILOCAMO, FURNARI, de GIOVANNI, LABOCCETTA, LOGOTETA, MAZZA, MELISSARI, MONSOLINO, PARISIO, RICCA, RICCIULLO dal FOSSO, RICCOBONO,
SPANO’, SUPPA, TARSIA. Seguono concise notizie di
esse e le armi a colori. Per le loro blasonature, comprensive di alias e stemmi in bianco e nero, rinvio alla mia comunicazione sul ‘blasone reggino’, pubblicata negli Atti
del nostro Convivio del 2012.
BARONE – Di presunta origine Scozzese, da Gragnano si
diramò in diverse città del regno, venendo sempre ascritta
al ceto patriziale o nobile. Presente a Reggio dalla prima
metà del secolo XV, il ramo reggino venne ricevuta più
volte, per giustizia, nell’Ordine Gerosolimitano, a partire
dal 1636 con Domenico, che fu Commendatore di Larino.
BOSURGI – Antica famiglia di Reggio, nota come nobile
dal secolo XV. Ricevuta per giustizia a Malta a far data dal
1712, con Giovan Domenico, un illuminista divento Gran
Priore di Messina nel 1734.
CAMPOLO – Originaria di Venezia, si diramò a Napoli,
dove godette nobiltà fuori Seggio, e in diverse città della
Sicilia, segnatamente a Messina, ove fu aggregata a quella
Mastra. Dette personaggi illustri e ricevette diverse infeudazioni. Un ramo si stabilì nel 1492 a Reggio e da esso
proviene Tiberio, ricevuto per giustizia nell’Ordine di Malta nel 1554 e distintosi per il valore dimostrato durante il
Grande Assedio del 1565. Fu Ammiraglio della Lingua
2
d’Italia, Commendatore di Sant’Evasio e, infine, Gran
Priore di Napoli.
CAPUA (di) – Originaria dell’omonima città campana,
detta in antico de ARCHIEPISCOPIS, godette del patriziato a Napoli (Seggio di Nido) e di nobiltà a Benevento, a
S. Pietro in Galatina e a Reggio, ove aveva preso dimora
nel 1271, con Giacomo, miles e nipote ex fratre di Bartolomeo, capostipite dei principi della Riccia e gran conti
d’Altavilla. Un altro ramo dei di Capua, questa volta appartenente proprio a quello dei principi della Riccia, venne
anch’esso aggregato alla nobiltà reggina nel 1744. I di
Capua reggini passarono per giustizia per Malta nel 1506
con Pier Francesco, che fu Commendatore di Brindisi.
CHIRIACO – D‘origine greca e fra le più antiche famiglie
reggine. Sincomio fu Regio Familiare di Carlo II d’Angiò
nel 1297. Alla metà del Seicento si trasferì a Maida.
COMPAGNA – Famiglia di Messina, che godette nobiltà
anche a Reggio, ove espresse un Sindaco nobile nel 1584.
Passò per giustizia per Malta nel 1507.
DIANO – D’origine liguro-piemontese e passata in Sicilia
nel secolo XIV, si diramò a Reggio, ove dette un Sindaco
nel 1504, Camillo, il quale, a compimento di un voto, fece
dipingere la venerata effigie della Madonna della Consolazione, affiancatasi all’antico San Giorgio nel patronato
della città. Passò per giustizia per Malta nel 1541, come
quarto nel processo Parisio.
FERRANTE – Tomaso Ferrante, ‘baron di Reggio’, prese
la croce e nel 1180 raggiunse Gerusalemme. Tra i secoli
XIV e XV ebbero tre Regi Familiari. Da Reggio un ramo
passò a Messina, ove fu ascritto a quella Mastra senatoria,
e un altro – quello dei marchesi di Ruffano – godette del
patriziato di Trani. La famiglia di Reggio passò per Malta
per giustizia nel 1857, come quarto nel processo Grimaldi.
FILOCAMO – Antichissimi a Reggio e d’origine greca,
vantano a capostipite un Aurelio, seguace del conte Ruggero d’Altavilla. Passarono per giustizia per Malta nel
1587, come quarto nel processo Melissari.
FURNARI – Nobile famiglia genovese, divenuta siciliana,
un ramo della quale si trapiantò nel secolo XV a Reggio,
venendo aggregata al ceto nobile. Simon Furnari da
Reggio fu dotto certosino (morto a Serra San Bruno verso
il 1560), autore di un celebre saggio sull’Orlando Furioso.
Passò per Malta per giustizia nel 1590, come quarto nel
processo Monsolino.
GIOVANNI, di – Diramazione della celebre famiglia iberica CENTELLES. Arrigo si portò da Messina a Reggio, al
seguito di Giovanni CENTELLES, che fu arcivescovo
della città dal 1528 al 1535. Il ramo reggino passò per
giustizia per Malta con Niccolò, nel 1560.
LABOCCETTA – Antichissima famiglia reggina, alla
quale la tradizione attribuisce il monaco basiliano Elia,
morto nel 1060 e divenuto Santo. Ebbe personaggi distintisi per cariche e valore militare. Passò per l’Ordine Gerosolimitano per giustizia, nel 1721, con Felice e Ludovico.
LOGOTETA – Nota a Reggio dal secolo XII, prese nome
dalla carica bizantina. In una bolla di Papa Innocenzo II,
del 1127, è citato ‘Dominus Leo de Logotheta, Rheginus’.
Di parte Sveva, dette, nel ‘300 e nel ‘400, due arcivescovi
a Reggio, entrambi di nome Guglielmo, e numerosissimi
protopapi. Giuseppe de Logoteta Mari (1758-1799), giurista e personaggio di spicco nel governo della Repubblica
Napoletana, della quale, assieme a Mario Pagano, tracciò
la costituzione, salì sul patibolo nel 1799, alla restaura-
zione di Ferdinando IV. Passò per giustizia nell’ Ordine di
Malta, come quarto nel processo Monsolino, nel 1633.
MAZZA – Originaria di Spagna, si stabilì a Reggio con
Giuseppe, che aveva seguito Carlo V nell’impresa di
Tunisi del 1535, e che nel centro calabrese divenne capitano del battaglione a cavallo di stanza, dando il suo nome a
una porta della città. La sua nobiltà generosa fu provata
anche per il passaggio per giustizia per Malta, nel 1792, in
qualità di quarto nel processo Suppa,
MELISSARI – Originari della finitima Fiumara di Muro,
dettero vita a una delle più illustri famiglie della città, nella
quale è loro memoria dal Duecento. Di gran censo, un suo
membro ottenne concessione da Alfonso d’Aragona della
Regia Familiarità e del feudo, detto ‘de Proditoribus’. Dette quindici Sindaci nobili a Reggio e passò numerose volte,
per giustizia, per l’ordine Gerosolimitano, a partire da Giovanni, nel 1580.
MONSOLINO – Venuti nel regno al seguito di Carlo
d’Angiò, è nota la loro presenza a Reggio, in qualità di nobili, dalla prima metà del secolo XIV. Si diramò a Messina
nel Quattrocento, venendo aggregata a quella nobiltà. Il loro passaggio, per giustizia, per l’Ordine Gerosolimitano
data dal 1598, con Giuseppe e Paolo. Nel 1664 Frà Nicolò
(passato per Malta nel 1664) fu il primo titolare della
Commenda melitense Monsolino, fondata dallo zio paterno, l’abate Eliseo.
PARISIO – Di remota origine francese, seguirono in Italia
gli Altavilla, stabilendosi poi a Rogliano, da dove presero
anche dimora nella prossima Cosenza. Ruggero, feudatario
di Figline e di S. Stefano, prese parte nel 1188 alla crociata, voluta da Guglielmo il Buono. Ebbero feudi e titoli ed
espressero un Gran Cancelliere del regno. Pietro (14731545) ricevette la porpora cardinalizia nel 1535. Aulo Giano (1470-1522), che, secondo l’uso del tempo, alterò il suo
cognome in Parrasio, fu umanista di spicco, professore di
eloquenza nelle università di Roma, Milano e Vicenza e
fondatore a Cosenza nel 1511 della prestigiosa Accademia
Parrasiana. Si diramarono un diverse città, ottenendo sempre pieno riconoscimento della loro nobiltà. Gaspare e
Matteo, nipoti ex sorore del neo-eletto arcivescovo di
Reggio Calabria, Gaspare Ricciullo dal Fosso, lo
seguirono nella città dello Stretto nel 1561, venendo
immediatamente ag-gregati a quella nobiltà. Il ramo
reggino passò per giusti- zia per Malta con Gaetano e
Giacinto, nel 1744.
RICCIULLO dal FOSSO – Famiglia di Rogliano, ov’è tuttora fiorente, passò a Reggio nel 1561 con Gaspare, dell’
Ordine dei Minimi, eletto Arcivescovo di Reggio Calabria.
Ascritta nel 1562 alla nobiltà reggina, dette più Sindaci.
Aloisio fu Governatore della città nel 1680-81. Avevano
evidentemente lasciato la città dalla metà del Seicento,
come mostrano i Parlamenti e la loro reintegra nella nobiltà reggina nel 1792. Fu ricevuta per giustizia nell’Ordine
Gerosolimitano nel 1541,come quarto nel processo Parisio.
RICCOBONO - Famiglia nota nella nobiltà reggina, a partire dal secolo XVI, di probabile origine ligure.
SPANÓ – Famiglia antica e illustre di Reggio, creduta di
origine greca, di nobiltà documentata dal secolo XV. Dette protopapi, uomini di cultura e scienza. Domenico Spanò
Bolani pubblicò a Napoli, nel 1857, la sua fondamentale
storia di Reggio. Agamennone Spanò, generale della Repubblica Napoletana, venne giustiziato nella reazione del
1799. Venne ricevuta per giustizia nell’Ordine Gerosolimitano nel 1587, come quarto nel processo Melissari.
SUPPA – Famiglia di antica nobiltà reggina, come tale
nota sin dal Trecento. Annibale, fedele al bon roi René
d’Angiò, lo seguì in Francia nel 1442, ottenendo in guiderdone la Regia Familiarità. Passò per giustizia per Malta nel
1548, in qualità di quarto nel processo Ricca e Frà Gaetano
fu ricevuto nel 1792.
TARSIA – Originaria di Cosenza e aggregata a quel
patriziato, si diramò a Reggio, ove la sua nobiltà fu
riconosciuta dal secolo XV. Passò per giustizia per Malta
nel 1645, in qualità di quarto nel processo Musitano.
Barone
Bosurgi
Campolo
(di) Capua
Chiriaco
Compagna
Diano
Ferrante
Filocamo
Furnari
di Giovanni
Laboccetta
Logoteta
Mazza
Melissani
Monsolino
Parisio
Ricca
3
Ricciulli
Riccobono
Suppa
Spanò
Tarsia
Gran parte della nobiltà di Reggio, nel tempo, fece
ingresso nella Confraternita e l’ingresso in essa era ambito
non soltanto per la protezione concessa dal sovrano, ma in
quanto l’appartenenza alla Congrega dell’Annunciata era
ritenuta prova per l’ammissione agli ordini cavallereschi
nobiliari, primo e più prestigioso tra tutti, quello di San
Giovanni Gerosolimitano, detto di Rodi e poi di Malta. Gli
statuti della Congrega, infatti, ponevano tra i requisiti di
base la nobiltà dei confrati e imponevano a quanti
richiedessero l’ammissione di fornire prova piena di
“avere goduto due secoli di nobiltà generosa, ovvero la
onorificenza d’essere passati all’Ordine cavalleresco di
giustizia dell’Ordine Gerosolimitano”.
Beghe interne provocarono una scissione nel 1664, quando
un gruppo di confrati, pur conservando l’appartenenza all’
Annunziata, vollero dar vita a un nuovo sodalizio, detto l’
Oratorio o Congregazione di San Domenico, perché avente
sede nel Collegio dei PP. Domenicani. I fondatori furono
24, appartenenti a dodici famiglie: CAPUA (di), FERRANTE, FOTI, GENOESE, del GIUDICE, LABOCCETTA, MUSITANO, PAGANO, PLUTINO, SACCO, SPANÓ,VITALE. Anche la Congregazione di San Domenico
richiedeva ai ‘postulanti’ analoghe prove di nobiltà.
Per quasi un secolo l’aperta rivalità tra le due Congreghe
trovò poco edificante campo di scontro nell’accaparramento delle aste del baldacchino, detto Pallio, durante le
principali funzioni religiose. Poi, la chiusura dell’Annun
ziata verso il 1776, a seguito della cacciata dei Gesuiti, e,
infine, la sua folgorante riapertura, con il R. Decreto di
Ferdinando IV dell’11 giugno 1782. L’Annunziata ribadì
nel suo Regolamento, con analitica severità, la natura nobiliare del sodalizio: “Quando accade doversi aggregare in
questa nostra Congregazione degli Ottimati qualche nuovo
fratello, ne facci esso, che desidera essere aggregato, memoriale alli Sig.ri Officiali della Banca, Priore ed Assistenti, li quali convocano li Sig,ri della Consulta, unitamente discutendo dell’affare, determineranno doversi o no
ricevere e commettersi tal memoriale e determinandosi
dalla maggior parte di detti Sig.ri della Banca e consulta
doversi ricevere, si farà commessa al Mo de’ Novizij, ed i
due de’ fratelli consultori per l’informo della probità,
costumi, condizione, ed altri requisiti necessari, e circa la
condizione (nobiliare) il pretendente dovrà far constare,
con valevoli documenti, che restar poi devono conservati
nell’Archivio di questa Venerabile Regal Congregazione,
4
essere egli individuo di famiglia Nobile Ottimate o sia
delle più principali di Città Regia, quali famiglia abbia
goduta l’onorificenza di essere passata all’abito
Cavalleresco di giustizia della Religione Gerosolimitana,
oppure che abbia goduto per lo spazio di due secoli una
nobiltà generosa col suo titolo primordiale bastevole ad
essere ammesso all’ordine de’ Cavalieri Gerosolimitani...”. Unico punto scoperto, rispetto le costituzioni La
Valette, la prova dei residui tre quarti di nobiltà generosa.
L’Annunziata e San Domenico seguitarono per oltre un
secolo a procedere in parallelo, guardandosi talora in
cagnesco, sino a quando, sfumati gli antichi livori ed estintosi, frattanto, un certo numero di famiglie di confrati, decisero, nel 1906, di fondersi in un’unica Arciconfraternita.
Alla prima risultavano ascritti individui delle famiglie
BATTAGLIA, BOSURGI, CATIZZONE, FERRANTE,
FILOCAMO, FLESCA, FOTI, FURNARI, GENOESE,
GRANATA, GRISO, LABOCCETTA, LAVAGNA,
MARRAMENTOLA, MELISSARI, MICELI, MUSITANO, PALESTINO, PLUTINO, RAMIREZ, SACCO,
SPANÓ BOLANI, SURICI, TRAPANI, VALENTINO.
Alla seconda, BOSURGI, FERRANTE, FILOCAMO,
FOTI, GENOESE, GRISO, LABOCCETTA, MANTI,
MELISSARI, MUSITANO, PLUTINO, SACCO, SPANO’ BOLANI, VITALE.
Saltano agli occhi le doppie appartenenze, più apparenti
che reali, giacché il riferimento andrebbe fatto agli individui.
Il 4 giugno 1906 ebbe luogo un’assemblea, alla quale
parteciparono i confrati delle due Congreghe. A unanimità
dei presenti, si stabilì di dare vita alla Reale Arciconfraternita dei Nobili Ottimati, intitolata a Maria Vergine Annunziata e a San Domenico, mantenendo in vigore
espressamente, tra l’altro, quanto stabilito dal Regolamento del 1782 in ordine alle prove nobiliari. Il regno
d’Italia, con R. D. 23 aprile 1906, aveva dato preventivo
assenso alla fusione.
Probabilmente gli archivi delle due congreghe avranno
contenuto dei documenti di notevole interesse, forse in
parte prodotti in originale (cosa non rara a quel tempo), ma
il terremoto del 1908 li ha dispersi per sempre.
Il sodalizio degli Ottimati vede oggi ancora congregati gli
esponenti della nobiltà di Reggio Calabria, al pari di altre
confraternite, non meno antiche e illustri, presenti a Napoli, Palermo, Messina, Catania e numerosi diversi centri del
già reame delle Due Sicilie, che in termini analoghi esigono dagli appartenenti garanzia comprovata di appartenenza a famiglia di nobiltà generosa.
Angelo Scordo
cenno bibliografico
F. ARILLOTTA, P. CATANOSO GENOESE, M. MESIANO, P.
PORCHI PROVAZZA, I mosaici degli Ottimati, Reggio Calabria, 1885
P. CATANOSO GENOESE, manoscritto sulle famiglie nobili di Reggio
Calabria
P. CATANOSO GENOESE, Notizie sulla R. Arciconfraternita de’ Nobili
Ottimati in Reggio Calabria, in RIVISTA ARALDICA, a. 1959, pp. 109111
C: G: MALACRINO, F. TODESCO, I marmi del pavimento medievale
della chiesa della SS. Annunziata (c.d. degli Ottimati) a Reggio Calabria
in MARMORA, a. 2011, n, 7, Pisa-Roma, 2012, pp. 55-92
A. M. PALESTINO, La Venerabile Real Congregazione de’ Nobili
Ottimati di Reggio sotto il titolo della SS. Annunziata, Reggio di Calabria,
1856
D. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio Calabria da’ tempi primitivi sino
al 1797, voll. 2, Napoli, 1857
Un annoso blasone
Entrando nell’androne subito si presentarono, sopra
entrambi i lati, due grandi porte con cappello sagomato.
Queste erano dotate di maniglie in ferro battuto forgiato,
ornate da corone.
Un’asta arrugginita, scorreva dentro passanti fissati ai
muri, fino in alto, tra un nugolo di ragnatele, dove, un piccolo braccio di leva, dava lo strappo ad un filo che, scomparendo dentro un buco e attraversando stanze, andava a
scuotere un lontano campanello.
La scialbatura della casa era di un ocra antico, indistruttibile, e le finestre, sagomate nello stesso stile delle porte,
avevano presenziato all’“affaccio” di molte generazioni.
Gli stessi arredi, all’interno della casa, legati alla memoria
dei “vecchi” continuavano a testimoniare di quelle vite signorili.
Potevano anche passare decenni, del presente secolo, che,
lí dentro, tutto era rimasto “come una volta”!
L’epoca presente era ormai «tutto movimento» e, del tutto
priva, della pietà per il passato ed “incattivita” contro gli
stessi segni del tempo.
Dentro quelle mura, tuttavia, tutto restava fermo.
Il valore dei pensieri e delle cose rimaneva immutato.
La pátina antica aveva tutto protetto.
Le ore non entravano in quel luogo.
Così, stando là dentro, si poteva sospendere la vita ed il
consumarsi del tempo.
Uscendo in giardino e passando tra i vialetti inghiaiati, un
arco di pietra semi-trapezoidale, sosteneva, tra un trionfo
di cordonature, di fiocchi e di pezzi di colonna sbrecciati,
un “antico blasone”.
Osservandolo attentamente, questo annoso simbolo lapideo, avrebbe voluto comunicarci molte cose…!
Per prima, la propria identità, poi la propria anagrafe temporale; forse, anche, la ragione della propria collocazione…ma, il trascorrere dei secoli, l’incuria, con l’aggiungersi della stoltezza degli uomini, non glielo avevano
consentito.
A chi lo osservava poteva, infatti, solamente manifestare,
una lista orizzontale, nella sua metà, con due simboli
quasi-sferici e forati nel centro, che l’accompagnavano.
Uno sopra e, l’altro, sotto.
Da tutto ciò si poteva desumere che si rappresentava con le
“figure alterate”.
Il lavorìo del tempo o l’ignoranza degli artisti o la cattiveria delle nuove ideologie, avevano, dunque, cancellato
la sua concreta e reale testimonianza.
Le alterazioni araldiche possono, infatti, giungere a tale
misura da modificare le pezze in figure e, le figure, in
figure diverse da quelle originali e, con esse, l’intero impianto comunicativo.
L’osservatore ben sapeva quale fosse la composizione
dell’arma ornativa del giardino e a chi fosse appartenuta
ma, un visitatore terzo, non l’avrebbe certamente, mai più,
potuta immaginare!
La figure alterate, tuttavia, in araldica, non risultano infrequenti.
Infatti, i rocchi di scacchiera, i raggi di carbonchio, i
vepri, i bolzoni,
i gigli e le rose, sono tutte figure alterate.
Esse “nascono” già con una alterazione manomissoria!
Nel “caso nostro” l’arma illeggibile si sarebbe dovuta così
blasonare:
D’oro, alla fascia d’azzurro, accompagnata da due rose,
di otto petali, di rosso.
Secondo la descrizione del narrante, dunque, nessuno
avrebbe mai potuto immaginare, in quei due simboli quasisferici e “forati” in centro, delle rose e, tanto meno, in
quella “lista” consumata ai lati, una fascia.
Le due rose si sarebbero potute confondere, infatti, con
delle rotelle da sperone e, la lista, in una fascia scorciata.
La rosa, in araldica, non si presenta, infatti, mai, allo stato
naturale.
Ad essa furono tolti, il calice ed il gambo; si contarono le
sue foglie e, in questo modo, fu molto “ravvicinata” alla
forma di un rosone ornativo e, per l’appunto, ad una rotella
da sperone.
Anche il giglio si presenta quale “figura alterata” e risulta,
pertanto, molto difficile immaginarlo nella sua figura
naturale.
Esso si manifesta, per lo più, simile ad un doppio acciarino
addossato e legato ed appuntito; ad un ferro di alabarda; ad
un’ape e, quandanche, al monogramma di Cristo.
Il vepre (ciliegio selvatico di sette rami, simile ad un
candelabro gotico) è “figura alterata” (mai presente nelle
armi italiane). Così anche:
Le pantere manifeste in forma di animali chimerici dalle
fauci fiammeggianti.
I serpenti, intrecciati tra loro, sono, facilmente, scambiati
per anelletti.
I monti ridotti in forma di colonnine arrotondate;
Gli aquilotti trasformati in alerioni; I merli in merlotti; Le
anatre in anatrelle; I ferri da “mulino” in pezzi “da guerra”; Le rocche “da guerra” in pezzi “da scacchiera”; I
caducei in fulmini alati e, via discorrendo…!
Queste: le più frequenti alterazioni presenti tra le
molteplici figure araldiche.
Tra gli animali non mancano aquile, leoni, delfini e grifoni, tutti “dismembrati” che vengono a costituire, soprattutto nelle armi tedesche, “campi” che appaiono “rabescati”.
Un’altra alterazione, che portò scompiglio nella lettura
araldica degli scudi, fu quella dovuta alla trasformazione
degli smalti.
Come ben sappiamo, infatti, l’araldica, alla propria nascita,
non presentava i “ben noti” sette colori che, poi, successivamente, divennero stabili (il giallo ed il bianco che si
trasformarono in oro ed argento e che diventarono “metalli”; il rosso, l’azzurro, il verde, il nero ed, infine, il porpora) me ne esistettero bensì altri, quali: il cannellato, il
sanguigno, l’aranciato, il grigio ed il ferro.
Di questi ultimi, avvennero, successivamente, delle
definitive trasformazioni e, quindi, la “scomparsa”, diciamo, “per sovrapposizione”.
Infatti, il grigio, si stabilizzò in azzurro; il ferro in argento; il cannellato e l’aranciato in giallo; il sanguigno in
porpora.
Solamente nel Regno Unito esistono ancora il sanguigno
ed il cannellato.
In Olanda, l’aranciato; in Portogallo, il ferro ed il bronzo
, anche se, molto rari.
Queste “trasformazioni”, limitative dei colori araldici,
dovute a sovrapposizioni oppure a cattive interpretazioni
artistiche, oppure ad azioni chimiche inconsapevoli dei
colori medesimi, sono risultate, tuttavia, “utili” al fine di
poterne restringere il campo simbolico interpretativo.
Generalmente, i metalli, con il trascorrere del tempo, ed a
5
causa delle condizioni termiche, sono stati sempre i “primi” a modificarsi.
Troveremo, pertanto, l’oro, trasformato in verdescuro;
l’argento in piombo e, tutto ciò, per “deposito ossidativo” .
In ragione di ciò, armi originarie “purissime”, con il
trascorrere del tempo, diventarono “false” o difficilmente
leggibili!
L’annoso blasone rimasto nei secoli quale “testimonianza”
di una antica casata alessandrina, decorata del decurionato,
portava, racchiuso nel suo “alterato” discorso, la storia,
senza tempo, dei Gavigliani, perpetrata nel piccolo spazio,
di un silente giardino.
Da una fonte araldica documentale del sec.XV:
l’arma centrale è quella appartenente alla famiglia
GAVIGLIANI (qui specificata nell’etimo GAVIANI,
dalla onomastica dialettale GAVIÁN, poi in GAVIGLIANI
definitivo).
L’arma è accompagnata, a sinistra, da quella dei Gamberini
e, a destra, da quella dei Gamondi.
Queste tre casate feudali alessandrine, tutte alleate tra loro,
concorsero alla fondazione della città ed occuparono, prima,
cariche consolari, poi, furono organiche nel governo
oligarchico decurionale.
Il legame tra i Gamberini ed i Gamondi fu così stretto ed
ereditario da formare un casato unitario, quello dei
Gamberini-Gamondi che fiorì, splendido, nella Milano
spagnola del sec.XVII.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
COGNOME, SIGILLI e STEMMI
Le mutazioni di un segno d’identità – Parte II
COMPARSA DEGLI STEMMI
Gli stemmi appaiono nel corso del 12° secolo e
vengono rapidamente catalogati in un codice sociale,
allo stesso tempo aperto ma rigoroso. È proprio l’esistenza di queste regole che differenzia il sistema araldico europeo da tutti gli altri sistemi di emblemi, anteriori e posteriori, militari o civili.
Esistono in numerose culture dei segni che hanno la
funzione di indicare l’identità degli individui e dei
gruppi e far conoscere il loro posto o il loro rango
nell’insieme della società. Questi segni si esprimono
attraverso formule molto diverse e prendono posto su
dei supporti di qualsiasi natura: il corpo, l’abito, i
gioielli e le collane, le stoffe, la casa, gli edifici ed i
monumenti, le armi da guerra, il mobilio e gli oggetti
della vita quotidiana ed anche gli animali domestici o il
bestiame. Alcuni fra questi segni vengono organizzati in
veri e propri sistemi, che obbediscono a delle regole
6
rigorose di composizione, di utilizzazione, di rappresentazione e di trasmissione. Altri hanno invece un uso più
flessibile o più libero. Tutti, comunque, presentano la
particolarità di essere portatori di una forte dimensione
simbolica e di esprimere sempre più di quello che hanno
come funzione di dire.
Gli stemmi rientrano in queste categorie di segni. Essi
possono definirsi come “degli emblemi colorati, specifici di un individuo, di una famiglia o di una collettività
e sottoposti, nella loro composizione e rappresentazione, a delle regole particolari, che sono quelle del
blasone”.
Nascita del sistema araldico
La questione dell’origine degli stemmi è stata sempre al
centro di grandi discussioni. Dalla fine del Medioevo,
gli autori di trattati dell’arte del blasone avanzano
diverse ipotesi per cercare di spiegarla. Nei secoli seguenti, il numero di queste ipotesi non cessa di aumentare. Alcune, completamente fantastiche, come
quelle che attribuiscono l’invenzione degli stemmi ad
Adamo, ad Alessandro, a Giulio Cesare o a re Artù,
sono state confutate e rigettate quasi immediatamente.
Altre, che si basavano su argomenti più seri, hanno avuto vita più lunga, ma sono state, a poco a poco, intaccate dai lavori degli araldisti della fine del 19° secolo e
degli inizi del 20°. È in tale contesto che tre teorie, che
avevano avuto per molto tempo il favore degli araldisti,
risultano oggi ab-bandonate. In primo luogo quella della
filiazione diretta e continua fra gli emblemi (militari o
familiari) impie-gati nell’antichità greco-romana ed i
primi stemmi del 12° secolo. Quindi quella, che per
molto tempo è stata la preferita dagli araldisti tedeschi,
di una influenza privilegiata dei runi, delle insegne
barbare e dell’emblematica germano-scandinava del 1°
millennio sulla formazione dell’araldica feudale. Infine
- e soprattutto poiché ha avuto la vita più lunga - la
teoria di una origine orientale, basata sulla
assimilazione di una cultura mus-sulmana (o bizantina)
da parte degli Occidentali nel corso della 1^ Crociata.
Quest’ultima teoria, che ha prevalso per molto tempo,
oggi viene respinta da parte di tutti gli specialisti.
Questi sono tutti d’accordo nell’affermare che la comparsa degli stemmi in Europa occidentale non è per
nulla dovuta alle Crociate, né all’Oriente e neanche alle
invasioni barbare, come neppure all’antichità romana,
ma, piuttosto, che essa risulta legata, da un lato alle
trasformazioni della società medievale dopo l’anno mille e dall’altro all’evoluzione degli equipaggiamenti militari fra la fine dell’11° secolo ed il primi decenni del
12°. Di fatto, non esistevano ancora degli stemmi all’
epoca della 1^ Crociata, ma essi lo saranno in occasione
della 2^ Crociata. Si osserva, in effetti, che, fra queste
due date, i combattenti occidentali, resi irriconoscibili, a
causa del cappuccio della loro “cotta di maglia” che sale
fino al mento e dal “para naso” del loro elmo (che
scende sul viso), prendono progressivamente l’abitudine
di fare rappresentare sulla grande superficie del loro
scudo, dalla forma quasi ellittica, delle figure che servono come segni di riconoscimento nel cuore della battaglia o del combattimento ed ancor più nel corso dei
vari tornei. Queste figure sono di norma geometriche,
floreali, oppure rappresentano animali. Esse vengono
dipinte a colori e diventano dei veri e propri stemmi, a
partire dal momento in cui il loro uso risulta abituale
presso determinati personaggi, oppure la loro rappresentazione obbedisce a qualche principio semplice, fisso e
ricorrente. Questo fenomeno può essere situato in un
periodo di poco antecedente alla metà del 12° secolo,
fra il 1130 ed il 1150.
intero. Gli altri, tutti gli altri (i fratelli, i figli, i nipoti),
non ne hanno diritto e devono introdurre nello stemma
di famiglia delle leggere modifiche, che indicano che
essi non sono il “capo d’arme”, ovvero il primogenito
della branca primogenita. Questa modifica viene
chiamata “brisura”. Le donne non seguono la stessa
regola: le figlie non sposate portano le stesse armi del
padre con lo scudo romboidale o a losanga, mentre le
donne sposate portano, di norma, affiancate nello stesso
scudo le armi del marito e quelle del padre.
Scudo Normanno – inizio XII secolo
Armi di cavalieri tedeschi XIII-XIV secolo
Gli stemmi ed il nuovo ordine sociale
Tuttavia, questa origine materiale, connessa con l’evoluzione dell’equipaggiamento militare non riesce a
spiegare tutto. La comparsa degli stemmi si collega più
profondamente al nuovo ordine sociale che interessa
tutta la società occidentale nell’epoca feudale. Come i
nomi patronimici, che nascono nella stessa epoca e
come gli attributi iconografici, che iniziano a
moltiplicarsi nelle immagini, l’araldica porta dei segni
di identità nuovi per una società in corso di
riorganizzazione. Essa aiuta a posizionare gli individui
nei gruppi e questi gruppi nell’insieme del sistema
sociale. Per questa ragione gli stemmi, che all’origine
erano soprattutto un emblema individuale, operano un
rapido innesto sul complesso della parentela. A partire
dalla fine del 12° secolo, nell’ambito di una stessa
famiglia, il loro uso diventa ereditario ed è proprio
questo carattere ereditario e familiare che fornisce il
loro assetto definitivo. Ormai, all’interno di una stessa
famiglia, un solo individuo, il primogenito del ramo
primogenito, porta lo stemma familiare “pieno”, ovvero
Esempi di brisure possibili
Le brisure si incontrano specialmente nei paesi
dell’araldica “classica”, vale a dire in quelli che hanno
visto nascere gli stemmi sul campo di battaglia nel 12°
secolo: Francia, Inghilterra, Scozia, Olanda, Svizzera,
Germania renana ed Italia del centro nord. Altrove, esse
sono più rare se non inusitate. Apporre una brisura su
uno stemma di famiglia, perché si è un figlio cadetto, si
può fare in molti modi: aggiungere o tagliare una figura,
inserire un lambello, una cotissa, cambiare un colore,
invertire il colore di fondo con quello della figura, ecc..
7
Agli inizi le brisure non creano problemi all’interno
della famiglia e sono pertanto ben visibili, ma, in
seguito, diventa meno gradito proclamare con molta
forza che si è un cadetto della famiglia e si preferisce
una brisura più discreta, il più delle volte per mezzo
dell’aggiunta di una piccola figura.
La diffusione degli stemmi.
Inizialmente utilizzati dai prìncipi e dai grandi signori,
gli stemmi vengono progressivamente adottati dall’ insieme dell’aristocrazia occidentale. Agli inizi del 13°
secolo, tutta la piccola e la media nobiltà ne risulta
provvista, poi, con il passare dei decenni, il loro impiego si estende ai non combattenti, ai non nobili ed a
differenti persone morali. In tal modo, uno dopo l’altro,
le donne, gli ecclesiastici, i patrizi ed i borghesi, gli
artigiani, le città, le associazioni dei mestieri, le comunità civili e religiose adottano degli stemmi ed in certe
regioni (Normandia, Svizzera, Fiandra, Gheldria) li utilizzano, a volte, anche i contadini. Nulla vieta a chicchessia di adottarne uno e di farne un uso privato che
più gli aggrada. D’altra parte il dibattito sulla “vera”
nobiltà era inconcludente ed un giurista fiorentino
scriveva, nel 1377, che era da reputarsi nobile anche chi
trattava “mercatanzie nobili ed oneste non vili, trafficando panni e lane” (escludendo in tal modo il
commercio al minuto). Comunque, conviene partire dal
presupposto giuridico, sostenuto già nel 14° secolo da
Bartolo da Sassoferrato, eminente maestro dello
Studio perugino, nel suo “Tractatus de Insignii set
Armis”, secondo il quale “così come i nomi sono stati
inventati per distinguere gli uomini, allo stesso modo e
con lo stesso scopo sono state inventate le insegne”, ne
consegue che chiunque può fregiarsi di uno stemma con
l’unica condizione – è sempre Bartolo a ricordarcelo –
che non appartenga già ad un altro. Questa abitudine si
diffonde in Italia in maniera impressionate ed ogni mercante, ogni bottegaio che abbia un po’ di soldi ed un
minimo di superbia, fa a gara con i suoi simili per farsi
dipingere uno scudo dal pittore più in voga, mentre gli
altri si arrangiano come possono. Emblematico di questa atmosfera è Francesco Sacchetti che, nel suo Trecentonovelle, rende, in modo simpatico, questa frenesia
di apparente nobiltà. Lo stesso Giovanni Boccaccio, in
una sua novella, fa lanciare da una suocera di sangue
blu un’invettiva contro questi “parvenu”: “Mercantuzzi
di feccia d’asino … come gli hanno tre soldi, vogliono
le figliole de’ gentili uomini e delle buone donne per
moglie” e “fanno arme” e dicono “io son de’ cotali”.
Naturalmente, tutto questo non era solo vanità ma rispondeva ad una esigenza precisa di riconoscimento sociale. In un mondo semianalfabeta, uno stemma, “segno” di identificazione personale, svolgeva la funzione
che hanno oggi i marchi di fabbrica, la firma, la carta
intestata o il biglietto da visita.
Naturalmente, questa democrazia non poteva durare a
lungo ed i primi a reagire saranno i Savoia nel 1430 che
promulgano una serie di restrizioni all’uso dello stemma
(tradizione antica, concessione imperiale, ducale, e per i
borghesi al solo membro della famiglia che aveva ereditato la casa paterna).
Poiché queste limitazioni, intervenute nel tempo, non
erano sufficienti a creare una netta distinzione fra nobili
8
e borghesi e non potendosi ragionevolmente operare
“all’interno” dello scudo, senza alterare le regole araldiche esistenti, la tendenza fu quella di operare “all’esterno” dello stesso. Prendendo ad esempio dei cimieri che
già dalla fine del 1200 sormontavano gli scudi dei cavalieri o di coloro che esercitavano funzioni podestarili,
venne così codificata una serie di attributi, in araldica
“timbri”, come corone, elmi e copricapi, che ornavano
lo stemma e che contribuivano a fornire un effettivo
contrassegno di nobiltà, ciascuno col proprio grado e
dignità. In definitiva, se ciascuno bene o male poteva
fregiarsi di uno stemma, solo il nobile poteva “timbrare
la sua arma” con i simboli del suo grado. Ecco dunque
la codificazione delle corone che si distinguono per il
numero delle “vette visibili” (cinque per i re e tre per i
principi) e per il numero di “perle” (nove per i conti,
cinque per il visconte– 3 grandi e due piccole inframmezzate; cinque per i nobili di antica data) o dei “fioroni” (cinque per il Duca, tre, alternate da punte, per
quella di marchese). Per il barone esiste, invece, una
corona tradizionale composta da un cerchio con sei giri
di perle attorcigliati, di cui tre visibili.
Corona Reale
Corona ducale
corona di marchese
corona di conte
corona di visconte
corona di barone
Fra i timbri vale la pena spendere due parole sui cimieri, che riprendono una tradizione che risale agli elmi
dei soldati dell’antica Grecia e di Roma. Formato inizialmente da un berretto conico e diventato ben presto
di tipo, diciamo “pentolare” per una maggiore protezione, esso si prestava, nella parte superiore a diventare
la base su cui porre classiche creste di penne o di piume
(in inglese il cimiero di dice Crest) o ardite e fantasiose
costruzioni in legno, stoffa e gesso che conosciamo. Di
norma, il cimiero ripropone la figura araldica dello
scudo o della cotta d’arma del cavaliere o della gualdrappa del cavallo, al punto che l’insieme, per un cavaliere che risultava irriconoscibile, costituiva una riproposizione della sua identità. Oltre alle piume non vanno
dimenticati i “lambrecquini”, quei pezzi di stoffa dei
colori dello scudo che, mantenuto sull’elmo con un
cercine, copriva la nuca del cavaliere dal calore dei
raggi del sole sul suo copricapo.
L’uso dei colori
Gli stemmi si compongono di due elementi: figure e colori, che prendono posto in uno scudo delimitato da un
perimetro, la cui forma risulta, nello specifico, indifferente ed ininfluente. La forma triangolare allungata,
ereditata dagli scudi, non è in effetti un obbligo, ma agli
inizi risultava la più frequente. Ma esistono anche stemmi inscritti in un cerchio, in un ovale, in un quadrato, o
una losanga (caso frequente per le armi femminili a partire dal 15° secolo), ma anche innumerevoli stemmi il
cui perimetro è quello specifico del supporto sul quale
vengono rappresentati.
Elmo con scudo e lambrecchini – Arma Sforza
In realtà, é essenzialmente attraverso i sigilli che questa
assunzione di stemmi si è estesa ai non combattenti. In
effetti, ben presto, signori e cavalieri non si accontentano più di far dipingere sul loro scudo lo stemma che
avevano adottato, essi lo faranno rappresentare sulla
loro bandiera, sulla gualdrappa del cavallo, sulla loro
cotta d’armi e quindi sui differenti beni mobili ed immobili che loro appartengono, fra i quali principalmente
il loro sigillo, simbolo dello loro personalità giuridica.
A poco a poco, le persone che posseggono un sigillo
prendono l’abitudine di riempirne il campo (lo spazio
del sigillo) per mezzo di stemmi, alla moda nell’ambiente aristocratico. A tal riguardo, risulta significativo
un dato: si conoscono nell’Europa occidentale circa 1
milione di stemmi medievali; orbene, su questo milione,
i tre quarti sono conosciuti attraverso sigilli e quasi la
metà sono degli stemmi di personaggi non nobili. Tanto
per fare un esempio, tipicamente italiano, nel 1372 a
Prato, importante emporio industriale e commerciale dei
panni del medioevo, dopo la peste nera, aveva circa 6
mila abitanti. Di questi, circa il 10% della popolazione
costituiva, il ceto dirigente della città, ovvero un centinaio di casati, dei quali solo una quindicina derivante
dal ceto magnatizio antico. Ebbene di tutte queste famiglie ben il 70% disponeva di uno stemma conosciuto.
Geograficamente, gli stemmi non hanno avuto come
origine un luogo ben definito, in quanto essi sono simultaneamente apparsi in diverse regioni dell’Europa
occidentale: i paesi situati fra la Loira ed il Reno,
l’Inghilterra meridionale, la Svizzera e l’Italia del nord.
In seguito, la loro diffusione si è propagata a tutte le
altre regioni, a partire da questi poli. Agli inizi del 14°
secolo, tutto l’Occidente risulta definitivamente conquistato da questa nuova moda, che inizia ad estendersi
verso tutta la cristianità orientale. La diffusione geografica e sociale degli stemmi si accompagna ad una loro
diffusione materiale: sempre un maggior numero di oggetti, stoffe, abiti, opere d’arte e monumenti si coprono
di stemmi; essi vi giocano un triplice ruolo: segno di
identità, segno di comando o di possesso, motivo ornamentale.
parte della gamma dei colori utilizzabili
Arma di Thomas Baskerville Mynors Baskerville
All’interno dello scudo, colori e figure, non si impiegano né si combinano a caso. Esse obbediscono a delle regole di composizione, poco numerose, ma vincolanti.
La regola principale riguarda l’impiego dei colori. Questi sono in numero limitato e portano nella lingua francese del blasone dei nomi specifici: argent (argento o
bianco), or (oro o giallo), gueules (rosso), azur (azzurro o blù), sable (nero) e sinople (verde). Questi colori
araldici sono dei colori assoluti, concettuali, quasi immateriali: le loro sfumature non contano. Il blù, può
essere indifferentemente chiaro o scuro, violaceo, ecc. .
Questo fatto non ha alcuna importanza, né alcun
significato; quello che conta è l’idea del blù e non la
rappresentazione materiale e cromatica di questo colore.
araldica non impiega a caso i suoi colori: li ripartisce in
due gruppi. Nel primo essa pone l’argento e l’oro, detti
anche metalli; nel secondo, il rosso, il nero, il blù ed il
verde. La regola fondamentale dell’impiego dei colori
vieta, al momento della creazione degli stemmi, di
sovrapporre o affiancare (giustapporre) (ad eccezione
per i piccoli dettagli, come la lingua o gli artigli degli
animali) due colori che appartengono allo stesso gruppo. Si prenda il caso di uno scudo la cui figura è un
leone. Se il campo dello scudo è rosso, il leone potrà
essere d’argento o d’oro e non potrà essere né blù, né
nero, né verde, che appartengono allo stesso gruppo del
9
rosso. Inversamente, se il campo dello scudo è d’argento, il leone potrà assumere tutti colori rimanenti, ad
eccezione dell’oro. Questa regola fondamentale esiste
sin dalle origini degli stemmi ed è stata sempre e dovunque rispettata (le eccezioni superano raramente l’1
% dei casi). Si ritiene che tale regola sia stata tratta
dalle bandiere e che sia connessa con questioni di visibilità e dall’uso dei colori nella pittura. I primi stemmi, in genere tutti bicromatici, sono, in effetti, dei segni
visivi realizzati per essere visti da lontano.
Le figure e partizioni
Il repertorio delle figure è, evidentemente, molto più esteso di quello dei colori. A dire il vero, esso risulta praticamente illimitato: qualsiasi animale, vegetale, oggetto o forma geometrica può diventare una figura dello
stemma o del blasone. Del resto, con lo scorrere dei secoli, un numero sempre maggiore di nuove figure si aggiungono ad arricchire il repertorio. Nella nostra epoca,
ad esempio, diverse città, che sono sedi di aeroporto,
inalberano nei loro stemmi persino persino due sci in
croce di S. Andrea (in decusse). Ma se tutto può teoricamente diventare figura di un blasone, non tutto però
lo diventa. Nei decenni che seguono la comparsa degli
stemmi, nel 12° secolo, il repertorio si limita ad una
ventina di figure. In seguito, questo numero aumenta,
ma fino alla fine del Medioevo il totale delle figure di
uso corrente non supera la cin-quantina. È, soprattutto
nel 17° e 18° secolo, che la diversificazione del repertorio diventa decisamente più grande. Ciò nondimeno,
l’uso moderno di nuove figure, inusitate in araldica,
come capanne trogloditiche, forme di formaggio, computer, apparati di trasmissione ecc. appaiono decisamente inadeguate nel contesto di una arte, come quella
del blasone, ormai consolidata e secolare.
Per lungo tempo, i vegetali e gli oggetti della vita
quotidiana sono rimasti assai rari. Le figure che si incontrano più spesso nel Medioevo sono rappresentate
per un terzo dagli animali (leone ed aquila in special
modo, ma anche cinghiale, lupo, cervo, animali
domestici, uccelli e pesci di tutti i tipi, dragoni, grifoni
e creature chimeriche),
sbarre, bande e per un ultimo terzo da piccole figure,
anch’esse più o meno geometriche, che possono
occupare qualsiasi posto nello scudo, come bisanti,
torte, anelli, circoli, losanghe, plinti, croci, ecc. .
I primi blasoni presentano una struttura semplice: una
figura di un colore posta in un campo di un altro colore.
Poiché essi sono costruiti per essere visti da lontano, il
disegno della figura è schematizzato e tutto quello che
può aiutare ad identificarla è sottolineato o esagerato:
linee di contorno delle figure geometriche, teste, zampe
o code degli animali, foglie e frutti degli alberi. La
figura occupa tutto il campo dello scudo ed i due colori,
vivi e netti, vengono associati secondo la regola
sopradetta. Ben diversa sarà la loro articolazione nei
secoli seguenti, dove suddivisioni ripetute dello scudo
(inquartato, contrinquartato), sovrapposizioni (figure
attraversate, scudetti sul tutto, ecc.) daranno la
possibilità di moltiplicare le figure, per aggiungere
pezze araldiche di parentela, di pretensione, di
appartenenza (e … chi più ha più ne metta). Il risultato
complessivo, molto spesso, diventa un “indefinibile ed
inestricabile guazzabuglio cromatico” (riservato a
specialisti del settore), ben lontano dalla chiarezza,
dallo spirito e dalla funzione primigenia assolta dai
primi stemmi. Ecco, dunque, che molte famiglie antiche
cominceranno a snobbare questa moda degli stemmi
sovraccarichi, specie del 1700, per ritornare alla antica
semplicità, riaffermando indirettamente, in tal modo,
l’autentica anzianità del loro lignaggio.
Questi pochi principi, nati sul campo di battaglia e dei
tornei, costituiscono ancora oggi la base dello stile
araldico, quello che ogni disegnatore dovrebbe sforzarsi
di seguire, per rimanere fedele allo spirito originale del
blasone.
Massimo Jacopi
Appendice
per un terzo da figure geometriche, risultanti dalla
divisione dello scudo in un certo numero di fasce, pali,
10
In un notiziario dedicato ad esperti dell’araldica certo
potrebbe apparire superfluo aggiungere altri elementi ai
tanti già illustrati, ma essendo capitato fortunosamente
nella mani della redazione il volume Planches du
Blason dell’edizione livornese dell’Encyclopédie del
d’Alambert con una interessante serie di disegni dello
e
Scattaglia si è pensato di riprodurne alcuni.
Figure
Elmi
11
Stemmi
Inserimento di nuovi studi nella rubrica Studi del sito
Si segnala che sono stati di recente inseriti nella rubrica
Studi del sito della Società gli studi:
Il giudizio di legittimità sugli Ordini Cavallereschi di Elio
Satti.
Il patrimonio araldico delle Chiese di Chioggia e non
solo … di Giorgio Aldrighetti.
Stemmi dei consegnamenti d’Arme Piemontesi non
presenti nel Patriziato Subalpino – Parte I e II di
Federico Bona
Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci
Direttore
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Comitato redazionale
Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey,
Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo
Testata del periodico
di † Salvatorangelo Palmerio Spanu
Indirizzi postali
Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino
Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16
10092 Beinasco (Torino)
Sito Internet
www.socistara.it
Posta elettronica
[email protected]
[email protected]
I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico
in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto
pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il
punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno
pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza.
La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche
modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico.
12
Fly UP