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nobili e mercanti nella lucca del cinquecento
PER I TRENT'ANNI DI : NOBILI E MERCANTI NELLA LUCCA DEL CINQUECENTO ATTI DELLA GIORNATA DI STUDI IN ONORE DI MARINO BERENGO LUCCA – 21 OTTOBRE 1995 COMUNE DI LUCCA – 1998 A più di trent’anni dalla sua comparsa Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento appare ancora un’opera di grande vitalità. Essa appartiene a una stagione importante della storiografia italiana, caratterizzata da una riflessione critica sulla storia d’Italia, impegnata a cercare nel passato le ragioni dei problemi e dei ritardi che sembravano prolungarsi nel presente. Ma in quella stagione si è collocata con forte originalità. Nel ricostruire le vicende della piccola repubblica lucchese, gelosa custode della sua libertà, delle sue tradizioni repubblicane e della sua indipendenza, nel tempo pericoloso e critico delle guerre d’Italia, Marino Berengo ha creato un modello difficilmente ripetibile di storia cittadina, attenta agli aspetti politici come a quelli sociali, agli aspetti economici come a quelli religiosi. Le linee tematiche-guida con cui Berengo ha indagato la Lucca cinquecentesca – le forme del governo cittadino, l’economia mercantile e le sue trasformazioni, la famiglia e la nuova coscienza nobiliare, i rapporti tra città e contado, le inquietudini religiose e la diffusione della Riforma – hanno imposto la propria centralità nell’indagine storiografica sul Cinquecento italiano Riprese e sviluppate da altri studiosi sono state oggetto di confronto fra visioni diverse, hanno aperto discussioni in cui Nobili e mercanti è rimasto punto di riferimento vitale. Libro letto e amato da un pubblico non solo specialistico, esso è stato ed è per gli studiosi uno stimolo alla ricerca e un oggetto vivo di riflessione e di confronto. Per tutti questi motivi è sembrato al Comune di Lucca che il modo migliore di festeggiare i trent’anni dell’opera fosse di seguire quei filoni di ricerca con l’aiuto di alcuni degli studiosi – allievi o colleghi di Berengo – che hanno contribuito ad alimentarli. Il risultato è stato un ricco e articolato quadro storiografico a più voci, che dà conto delle continuità e dei mutamenti intercorsi in questo arco di tempo. Un quadro non celebrativo ma storico-critico, nel quale la Lucca di Berengo vive in una prospettiva lunga e mossa, e in questa trova il suo posto durevole. È dunque con particolare piacere che, a nome dell’Amministrazione Comunale di Lucca, presento oggi questa raccolta di studi nella certezza di offrire un contributo effettivo ed importante alla conoscenza della nostra storiografia. Nel ricordare tutti coloro che hanno fattivamente contribuito alla realizzazione del presente volume, il più vivo ringraziamento va naturalmente al Prof. Marino Berengo, già cittadino onorario, che con la sua attività di studioso ha saputo portare la nostra città in un circuito di riflessione culturale di alto livello, nel quale Lucca è divenuta un “modello” per gli studi italiani sul Cinquecento. Il Sindaco Pietro Fazzi Elena Fasano Guarini “Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento” trent’anni dopo Rileggere un libro a distanza di trent’anni – e tanto più un libro che si è visto nascere e ci è poi stato di lunga compagnia nella ricerca e nell’insegnamento – può essere occasione di riflessioni e di scoperte che vanno al di là dell’oggetto immediato della rilettura, per investire il rapporto che ad esso ci lega, e dunque gli sviluppi e le prospettive della attività che svolgiamo; per misurare la continuità ed i mutamenti intervenuti nel campo in cui operiamo. Nel nostro caso, in quello della ricerca storica dal 1965 ad oggi. Ciò vale naturalmente solo per i libri importanti, con i quali vale ancora la pena di confrontarsi, come è quello di Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento. Questo è il senso dell’incontro odierno, cui partecipano studiosi che sono stati compagni o allievi di Berengo, o si sono formati per altre strade; ma si sono tutti occupati di temi e problemi che in quell’opera hanno assunto una rilevanza particolare, ed in taluni casi di qui hanno preso originariamente forma, per avere poi vita autonoma, modificati ed alimentati anche da altre esperienze di ricerca, da dibattiti e discussioni. Trent’anni dopo la sua pubblicazione, la Lucca berenghiana appare un po’ come un crocevia tra direzioni di ricerca che successivamente hanno impegnato a lungo gli studiosi, con sviluppi ed esiti diversi, in parte consonanti, in parte dissonanti dalle posizioni là enucleate: la città e lo Stato, la famiglia e la nobiltà, le attività mercantili ed i rapporti tra città e campagna, il dissenso religioso e la confessionalizzazione nel Cinquecento. Altri presenteranno criticamente il lavoro compiuto e gli orientamenti maturati in tali direzioni. Inizialmente, tuttavia, è bene tornare al libro stesso e alle sollecitazioni – alle sorprese, vorrei dire – che la sua rilettura oggi può offrire. Questo io mi propongo di fare, a partire da alcuni aspetti solo apparentemente formali, che oggi noto e forse non notavo trent’anni fa. Il libro non ha introduzione, né premesse, né avvertimenti di sorta; non vi sono dunque richiami iniziali che consentano di stabilirne la genealogia ideale, né dichiarazioni che pretendano di chiarire le tesi e le scelte metodologiche sottese. Si entra subito in media res. “Nel Quattrocento non c’è Stato italiano che non abbia da lottare o temere per la sua libertà”. Questa la piana apertura, cui segue due sole pagine destinate a delineare il contesto generale, di “crisi” politica, in cui l’autore situa la vicenda lucchese: i pericoli che nell’Italia quattro-cinquecentesca incombono sugli Stati italiani: minacciati prima dall’interno nelle loro libertà comunali, dallo stabilirsi di regimi oligarchici o signorili e principeschi, poi tutti, repubbliche o principati che siano, dagli inizi del Cinquecento, con le guerre d’Italia e l’affermarsi dell’egemonia spagnola, anche dall’esterno, nella loro stessa indipendenza e sopravvivenza come Stati. A queste due pagine si salda il rapido disegno (cinque pagine) della politica seguita dalla minuscola repubblica lucchese, incline a cercare entro l’area di influenza della Spagna il possibile spazio di una sostanziale neutralità di fronte ai grandi conflitti europei; una neutralità che le è consentita dalla sua stessa posizione marginale e dalla sua “picciolezza” nonché dalla natura del suo sistema politico, da quel “governo (apparentemente) largo”, entro il quale riesce a mantenere gli equilibri interni indispensabili alla conservazione della città, e a ristabilirli, quando essi vengano scossi. Marginalità, “picciolezza” dello Stato, “larghezza” del governo sono in effetti qualità insistentemente esibite, quasi come baldanzosi baluardi, dai rappresentanti lucchesi nelle trattative e nei conflitti diplomatici. La stringata analisi delle scelte politiche della città cede rapidamente il passo a quella più ampia delle forze sociali che in essa operano e si confrontano: momento esplicativo essenziale, questo agli occhi di Berengo, che già nel suo primo lavoro, La società veneta alla fine del ‘7001, aveva considerato il loro studio un’esigenza prioritaria per spiegare le vicende politiche e culturali – in quel caso le forme assunte dal movimento giacobino e la diffusione delle idee democratiche – differenziando in questo il proprio cammino da quello del maestro, Delio Cantimori. Nel tessuto sociale Berengo aveva allora cercato le ragioni del declino di un’altra, più grande, repubblica cittadina. Fin dalle prime pagine emerge un aspetto fondamentale del libro: il suo immediato, continuo misurarsi con le fonti, cercate ed indagate lungo itinerari complessi, non esplicitamente dichiarati, ma chiaramente affioranti nel denso tessuto delle note. A Lucca sono inesistenti, per ragioni politiche che Berengo spiega, le storie ufficiali. Poche, benché avvincenti, sono le cronache e quei libri di ricordi che nel vicino contesto fiorentino hanno invece offerto un materiale di straordinaria ricchezza a chi, come Christiane Klapisch, ha studiato la storia della famiglia. È assente ogni tipo di fonte fiscale. È dunque l’archivio notarile a fornire la prima, benché non unica base della analisi del tessuto sociale e a riempire di concretezza e di vita i dati relativi alla distribuzione delle cariche cittadine, fondamentali nell’impianto della ricerca, ma in sé poco parlanti. Emerge subito anche un altro tratto stilisticamente rilevante del libro: il piacere dell’evocazione. Il materiale notarile non è trattato in modo sistematico e quantitativo, come più o meno negli stessi anni facevano alcuni studiosi francesi. È invece la 1 Firenze, Sansoni, 1956. straordinaria miniera di una densa serie di casi, in parte semplicemente richiamati a sostegno dell’analisi generale, in parte anch’essi oggetto di vivace evocazione narrativa. Si pensi all’uso dei testamenti. Da essi affiora l’immagine di un sistema cittadino fondato sulla centralità delle famiglie mercantili, caratterizzato dall’ansia della trasmissione del nome, e, con il nome, della casa avita e del patrimonio. Ma insieme sono restituite con rapidi tratti di penna singole vicende familiari, che illuminano, come oggi si direbbe e non si diceva allora, le “strategie” del ceto dominante cittadino: il sistema delle doti, il ricorso all’istituto dell’emancipazione, la pratica delle adozioni e delle legittimazioni; le “strategie”, appunto, attraverso le quali si manifestava la preoccupazione collettiva della conservazione del casato e la larga solidarietà tra i maschi della stessa casa. Di scorcio si intravvede anche la distribuzione, nell’ambito della famiglia, dei ruoli tra chi opera lontano da Lucca, nei fondachi di Lione e di Anversa, e chi resta o torna in città, impegnato, oltre che nella mercatura, in quell’esercizio delle cariche pubbliche, che garantisce, insieme al potere, l’onore della famiglia, ed è la prima ragione, secondo Berengo, del suo mantenersi tenacemente unita. Accanto alle famiglie mercantili si dispiegano le altre componenti che, pur escluse dai vertici del potere – dall’Anzianato –, costituiscono tra Quattrocento e Cinquecento il supporto indispensabile delle funzioni interne ed esterne di governo, i dottori ed i notai. Consulenti giuridici apprezzati di ogni atto legislativo; rappresentanti avveduti della città presso le corti straniere al tempo della nascente diplomazia, i dottori, a Lucca non meno che a Venezia (diverso è apparso il caso fiorentino)2, sono tuttavia oggetto di una diffidenza tenace, generata dal loro stesso sapere. Ben più integrati al mondo mercantile sono i notai, impegnati in attività di confine tra pubblico e privato, dotati di una cultura eminentemente pratica, anche quando abbiano trascorsi umanistici, come è il caso (per richiamare un nome tra i tanti che costellano le pagine loro dedicate) di Giovanni Ciuffarini, autore in gioventù di eleganti epistole latine di carattere grammaticale, e di celebrazioni della libertà lucchese intessute di passi tratti da Platone. Affiora infine dall’archivio notarile, insieme alla natura dei rapporti di produzione predominanti nel sistema mercantile lucchese, il mondo vario dell’artigianato cittadino. Emergono i tessitori, protesi all’acquisto del telaio e pronti ad indebitarsi a questo fine, ma sempre subalterni ai mercanti, fornitori della materia prima e tramite insuperabile per la collocazione del prodotto lavorato sul mercato; i garzoni e gli apprendisti; i muratori e gli addetti alle arti minori; i ricchi cuoiai, avvantaggiati dalla loro duplice qualità di artigiani e mercanti. 2 L. MARTINES, Lawyers and Statecraft in Renaissance Florence, Princeton, University Press, 1968. Il colloquio diretto con le fonti guida anche la ricostruzione delle vicende politiche lucchesi. Agli atti notarili si aggiungono ora le delibere degli Anziani e del Consiglio generale, i verbali dei Colloqui, le fonti diplomatiche, lucchesi, fiorentine e spagnole; le cronache, da quella – per non citare che le più importanti – solo recentemente pubblicata, del Civitali3, a quella, non meno straordinaria e ancora in attesa di edizione, di Gherardo Burlamacchi. Le fonti sono utilizzate e valutate criticamente, tanto per le informazioni che offrono, quanto nei loro significati impliciti e nei loro significativi silenzi; e il piacere dell’evocazione, lontano da ogni erudizione di tipo positivistico, diventa gusto del racconto storico. È il racconto a prevalere sulle esplicitazioni di tesi, sulle dichiarazioni di metodo. Nella “struttura narrativa” ancora in anni recenti è stato indicato il carattere distintivo della storia rispetto alle altre scienze umane4. Una scelta come quella di Berengo non era tuttavia scontata tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, anni di dibattiti intensi e di riflessioni e ricerche spesso dalle forti venature ideologiche, che investivano in modo diretto, primario, il senso e le direzioni complessive della storia d’Italia5. Ancora meno scontata, questa scelta può apparire a chi fa ricerca storica oggi, incalzato dall’aprirsi di altri dibattiti, dall’impiego di categorie interpretative e dalla moltiplicazione di strumenti di analisi mutuati anche da campi disciplinari non originariamente storici. Ed è scelta ricca di implicazioni, non soltanto sul piano dello stile. Quel gusto, quella scelta appaiono evidenti nella ricostruzione dei due profondi benché effimeri conflitti che interrompono la vita del “pacifico et populare Stato” tra l’inizio degli anni ‘20 e l’inizio degli anni ‘30 del Cinquecento: il moto – interno al ceto dominante – dei Poggi, “vecchio ceppo di grandi” di tradizione fazionaria; e quello degli Straccioni, che aggrega contro l’oligarchia di governo gli esponenti della classe artigianale e le famiglie “comode” e – “mediocri” escluse dal potere. È ancora evidente nell’analisi dei minuti eventi quotidiani – scontri di confine, contese intorno ai fuoriusciti – e dei contrasti politici più sostanziali che costituiscono la trama dei rapporti, a lungo conflittuali e gravidi di minacce reali o immaginarie, tra Lucca e la Firenze di Alessandro e più ancora di Cosimo I, che, con il suo potenziale espansionismo, incombe sulla repubblica confinante ben più della lontana e quasi protettiva figura dell’Imperatore. È infine evidente – quel gusto del racconto – nella ricostruzione dei due “trattati”, come allora si diceva, che in diverso 3 G. CIVITALI, Historie di Lucca, a cura di M.F. Leonardi, Roma, Istituto storico per l’età moderna e contemporanea, 1988, 2 voll. 4 Cfr. ad es. J. HABERMAS, Zum thema: Geschichte und Evolution, in “Geschichte und Gesellschaft”, 2, 1976, pp. 310-357. 5 Cfr. il quadro tracciato con prevalente ma non esclusiva attenzione alla storiografia sul ’700 e sul Risorgimento, da M. MIRRI, La storiografia italiana del secondo dopoguerra fra revisionismo e no, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna, il Mulino 1994, pp. 27-98. modo, tra la fine degli anni ‘30 e la metà dei ‘40, sorprendono drammaticamente la città, generando inquietudine profonda: la congiura alimentata dal “sogno principesco” di Pietro Fatinelli e l’eroico progetto cospiratorio di Francesco Burlamacchi, teso a restaurare il repubblicanesimo e il “vivere civile” in tutta la Toscana: progetti assai lontani l’uno dall’altro per gli ideali politici che li ispirano, ma accomunati dall’intento di rompere i chiusi equilibri oligarchici cittadini. È ancora una narrazione animata quella che, nell’ultimo capitolo, dipana il filo dei conflitti ecclesiastici che si aprono tra i vescovi, il capitolo di S. Martino, i poli conventuali di S. Frediano e S. Romano; e poi, attraverso le sfuggenti inquietudini religiose diffuse anche nelle più elevate famiglie mercantili, ma nascoste e protette dal governo cittadino, ci conduce fino alla più netta affermazione di correnti riformate, e quindi allo scioglimento dell’ “ecclesia lucensis” ed alla “partita”, negli anni ‘50, dei nuclei familiari più esposti. Per concludersi con la mortificante ricomposizione della vita religiosa cittadina, “seppur con una tonalità propria, nell’alveo religioso e confessionale della Controriforma”. La scelta di porre in luce in primo luogo la concretezza della ricerca risulta anche dalle note, intessute, come si è già accennato, di riferimenti al materiale d’archivio e ai testi coevi; aliene invece da richiami bibliografici che non siano indispensabili alla ricostruzione storica. Uno solo, se non sbaglio, il debito esplicitamente riconosciuto nei confronti di uno studioso precedente, quello verso Nino Tamassia, la cui opera non recente, La famiglia italiana nel secolo decimoquinto e decimosesto, “mi è stata di grande giovamento per tutta l’impostazione della ricerca sulla vita familiare lucchese”6. Pochi e contestuali i richiami al maestro, Delio Cantimori, così come quelli a Federico Chabod, entrambi citati nel capitolo su “La vita religiosa”. Assai parsimoniosi e circoscritti anche i riferimenti polemici: su Fernand Braudel, il cui impianto metodologico e la cui visione del Cinquecento pur erano a Berengo fortemente alieni, uno solo è lo spunto critico, quello che riguarda l’interpretazione generalizzata del banditismo come “fenomeno omogeneo” sulle due rive del Mediterraneo, dovunque riconducibile al “dramma della fame”7. Se ho voluto insistere su questi aspetti di stile, è non solo perché essi si rendono conto di alcune qualità che non si usa di solito rilevare a proposito dei lavori di storia, ma in questo caso, dopo trent’anni, viene spontaneo di notare: la freschezza e la vivacità del libro, ragione non secondaria del piacere, oltre che dell’interesse, che la sua rilettura ci offre. È in primo luogo perché rivelano il modo, peculiare dell’autore, di intendere la P. 40 n. l. L’opera del Tarnassia è stata pubblicata nel 1910. P. 356. Il riferimento è a F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953, II, pp. 876-94. 6 7 ricerca e la scrittura storica, di praticarne, vorrei dire, il mestiere e l’ “arte” nel senso in cui questi termini venivano usati nel mondo comunale e cittadino, a Berengo ben familiare. Proprio lo stile fa della Lucca berenghiana un modello difficilmente ripetibile, e di fatto non più riproposto dalla storiografia sulle città fino a oggi. Non, ovviamente, che il libro sia semplice narrazione di eventi, indagine positivistica di fatti: se così fosse non meriterebbe di discuterne insieme, trent’anni dopo la sua pubblicazione. Esso, al contrario, offre una visione complessiva della storia italiana nel Cinquecento, fortemente connotata da una tesi su cui torneremo, ma anche dalla connessione organica, e allora nuova, di problemi, linee, prospettive ancora oggi vitalmente operanti. Gli eventi infatti – anche i più clamorosi e drammatici – valgono agli occhi dell’autore per quanto rivelano; e, lungi dall’esaurirsi nel loro racconto, il libro trascorre continuamente da questo all’analisi dei processi che gli eventi sottendono e che si svolgono in una dimensione più lunga e più profonda. “Come la rivolta degli Straccioni –scrive Berengo in un passo che ha una chiara valenza metodologica – rivela ad un tratto la situazione che la ha silenziosamente preparata e le forze da cui è stata sostenuta, così le congiure di Pietro Fatinelli e di Francesco Burlamacchi testimoniano quante inquietudini e quanti contrasti abbiano accompagnato l’irrigidimento di quella società cittadina sulle uniche posizioni politiche a lei ormai consentite”8. Il gioco tra i tempi brevi e i tempi lunghi della storia (i tempi in cui “le strutture sociali maturano con lentezza le loro trasformazioni”, come due anni dopo la pubblicazione del libro, Berengo osserverà al primo convegno degli storici italiani, tenuto a Perugia nel 1967) 9 non obbedisce certo, nel libro, a scansioni simili a quelle che Fernand Braudel ha prima seguito nella sua pratica storica, e poi teorizzato esistere tra rapido succedersi degli eventi, movimenti congiunturali dell’economia e permanenze strutturali. Quel gioco traspare nell’aprirsi entro il racconto di cadenze più distese, nelle quali processi e tendenze, anche conflittuali, diventano oggetto immediato di analisi e riflessione. Si è visto come l’autore tracci inizialmente il disegno della società lucchese a partire dalle fonti notarili: questo disegno non sembra mutare sostanzialmente nel periodo abbracciato dalla ricerca, se non per il “declino” che, dopo la metà del secolo, pare colpire l’economia lucchese, senza modificarne, peraltro, i caratteri fondamentali. Non meno ampio è il quadro –anch’esso esorbitante i tempi del racconto politico – dedicato nel penultimo capitolo del libro al contado: al suo governo e ai suoi 8 9 Pp. 183-184. M. BERENGO, Il Cinquecento in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, I, Milano, Marzorati, 1970, p. 484. rapporti con la città; alle forme di sfruttamento della terra, nelle affollate Sei Miglia e nelle boscose vicarie; al comune rurale, alle sette contadine e al brigantaggio. In altri casi, più che i tempi, si dilatano gli spazi di osservazione. Penso alle pagine notissime che hanno costituito, come altri diranno, il punto di partenza di ulteriori ricerche sulla formazione di una comune, benché variegata, “coscienza nobiliare” nell’Italia della seconda metà del Cinquecento. Penso alle considerazioni sugli aspetti disparati che questa coscienza acquista nei diversi contesti, cortigiani e cittadini, e sui toni particolari che essa assume a Lucca, città di mercanti, retta da istituzioni che sfuggono fino agli anni ‘20 del secolo XVII a quelle forme di separazione di ceto più precocemente sanzionate per via istituzionale in altre realtà rubane, da Venezia alle piccole città della Marca pontificia. Ma possono anche essere richiamate le pagine, forse meno frequentemente ricordate, eppure fondamentali per chi voglia occuparsi delle forme della lotta politica del Cinquecento, sui caratteri delle “trame” segrete che in quel secolo pullulano nella penisola. “Trame” cospirative diverse le une dalle altre, come già si è visto, per la cultura che le nutre, cortigiana o fieramente repubblicana, oltre che per i motivi che le ispirano e i fini perseguiti; ma ricche di aspetti comuni. Le nuove “imprese”, nota Berengo, memore forse anche di alcune riflessioni machiavelliane, sono certo “memorabili ed eroiche”, ma lontane, ormai, dalla congiura “pazientemente intessuta, frutto dell’antica familiarità colla vita comunale ed attenta a quelle forze che dal suo seno possono esser tratte”, tendente a sfociare nel tradizionale “tumulto” cittadino; sono ormai condotte da “pochi” isolati e “affidate alle armi”10. Rispondono dunque a un mutamento generale del clima e dell’organizzazione delle forze politiche: si svolgono all’interno di cerchie ristrette di potere, di cui riflettono la chiusura. In questi scorci – e in molti altri ancora, sui quali ci si potrebbe a lungo soffermare – vengono proposti e perlustrati temi rimasti fondamentali nei successivi svolgimenti della storiografia sul secolo XVI, che anche oggi saranno in parte al centro della nostra riflessione: l’evoluzione delle forme del governo cittadino, tra larga partecipazione e consolidamento oligarchico; la natura della famiglia e le sue funzioni politiche; i rapporti tra ceti mercantili e ceti artigianali; la diffusione dell’ideologia nobiliare; i mutamenti della religiosità tra riforma e controriforma. Lucca, in effetti, è per Berengo testimonianza ed esempio degli sviluppi complessivi della storia d’Italia del Cinquecento. In quell’inquieto microcosmo, durevolmente repubblicano, si colgono gli aspetti molteplici – sociali, politici, culturali, religiosi – di un mondo che affronta, con esiti diversi, trasformazioni decisive, per non dire drammatiche. 10 Nobili e mercanti, p. 187. L’idea generale che domina la ricerca, la tesi che sovrasta è che il Cinquecento sia un secolo di “crisi” profonda, che segna nella storia d’Italia una rottura irrimediabile e l’inizio di un plurisecolare declino. Ritorniamo al passo con cui si apre il libro. “Nel Quattrocento non c’è Stato italiano che non abbia da lottare o da temere per la sua libertà”. Dappertutto incombe “l’insidiosa opera delle grandi famiglie”. Dappertutto si può aprire “la via al principato”, a volte “inavvertita e quasi spianata da un’interna e graduale evoluzione”, a volte tracciata “tra lotte e resistenze ostinate”. Nel Cinquecento il pericolo cambia natura e si aggrava: la “libertà” per cui lottano i cittadini, là dove hanno ancora spazio per farlo, non è solo, né prevalentemente, la conservazione degli istituti repubblicani e delle forme comunali. È anche la sopravvivenza dello Stato. Nello spazio di un trentennio l’ “ecatombe dei principati dell’Italia centrale”, l’insediamento degli Spagnoli a Napoli ed a Milano, la caduta prima della seconda repubblica pisana, poi, oltre la metà del secolo, di quella di Siena, infine la devoluzione di Ferrara sono “le maggiori tappe di una strada che conduce qui e altrove “alla falcidia delle autonomie cittadine” e “al rafforzamento delle giurisdizioni feudali”11. Non è difficile cogliere in queste parole quella stessa idea del Cinquecento italiano come “crisi di libertà o diciamo pure decadenza”, come “declino di quella civiltà urbana in cui le forme repubblicane di governo più avevan avuto presa”, che nel 1967 Berengo indicherà come patrimonio comune della storiografia politico-sociale del dopoguerra sull’Italia del Cinquecento, e farà propria12. Una visione che risultava già predominante nel bilancio storiografico dei precedenti cinquant’anni di studi sul Rinascimento tracciato nel 1950 da Federico Chabod13, alla quale lo storico valdostano aveva dato il suo personale contributo fin dai primi lavori dedicati a Niccolò Machiavelli, che di quella crisi era stato, a suo avviso, una delle voci più autorevoli14. Una visione le cui radici, attraverso l’Ottocento risorgimentale e post-risorgimentale – attraverso Carlo Cattaneo, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci – possono essere fatte risalire fino all’opera del Sismondi, che in quel secolo ebbe una straordinaria fortuna15. In questa tradizione Berengo si è calato con rigore ancora più univoco di Chabod. Mentre infatti agli occhi di quest’ultimo la “decadenza” era in qualche misura compensata Ibid. p. 11. Il Cinquecento, p. 486. 13 F. CHABOD, Studi di storia del Rinascimento in ID., Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, pp. 147-219. 14 F. CHABOD, Del “Principe” di Niccolò Machiavelli, in ID., Scritti sul Machiavelli, (1925) Torino, Einaudi, 1964, pp. 40-55. 15 Sulla fortuna del Sismondi cfr. oggi la presentazione d P. Schiera a J. CH. L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, Torino, Boringhieri, 1996, pp. XLIV-XCV. 11 12 dall’avvio, evidente ad esempio nello Stato di Milano in età spagnola, alla formazione di più moderne strutture burocratiche e quindi di Stati più solidi, per Berengo – cui il tema dello “Stato moderno” resta estraneo – il tramonto dei sistemi e dei valori cittadini, dei “governi larghi” e della partecipazione democratica che in essi si esprime, apre solo un declino senza ritorno e porta al “trionfante particolarismo dei corpi, destinato a segnare tutta la storia italiana d’antico regime”16. Questo il quadro in cui si colloca anche la vicenda particolare di Lucca, “piccola ma ancor vivace repubblica cittadina”, ma anche “esempio della cristallizzazione che dalla metà del secolo XV ha bloccato l’afflusso di nuove forze nella vita politica italiana”. Al suo interno si spiega il processo che, pur senza bruschi mutamenti istituzionali né serrate, conduce, nel corso del Cinquecento, al consolidamento di una più ristretta oligarchia ai vertici del potere e allo svuotamento di fatto della “forma di reggimento in cui essi (i cittadini) hanno creduto e che, di stretta misura, sono riusciti a preservare nel generale naufragio della libertà italiana”. Intorno alla lettura della storia dell’Italia moderna come “decadenza” dopo la grande fioritura dell’età comunale, intorno alle categorie storiografiche che sono state impiegate in questa prospettiva e alla periodizzazione che ne è conseguita, la discussione è da tempo largamente aperta. Non solo si è fatta strada una valutazione positiva dello sviluppo economico cinquecentesco, ma la stessa “crisi del Seicento” è recentemente stata considerata più come una dislocazione dei poli e degli assi di attività e un mutamento degli equilibri in atto che come semplice “declino”. Sul piano politico l’idea della “decadenza” ha lasciato spazio da un lato all’analisi dei nuovi sistemi di potere emergenti, siano essi stati considerati o meno come graduale realizzazione del paradigma dello “Stato moderno”; dall’altro a quella della durevole peculiarità, in Italia come altrove, delle forme di organizzazione della società nell’antico regime. Riprendere queste discussioni non sarebbe affatto superfluo. Ma in questa sede è più utile notare che la storia della Lucca cinquecentesca, ricostruita da Berengo in modo profondamente simpatetico, può essere considerata anche come la vicenda esemplare di una lunga tenuta e di una riuscita ricerca di stabilità; come il risultato di uno sforzo di “conservazione”, e si potrebbe dire di inconsapevole applicazione della “ragion di Stato” prima che questa diventasse una dottrina politica diffusa, e venisse impiegata a sostegno dei principi ben più che delle città. Può essere letta come la storia di una delle non molte, ma neppur poche piccole repubbliche cittadine che, in Europa, riuscirono a sopravvivere a lungo negli interstizi di un sistema ormai dominato dalle grandi monarchie e dagli Imperi, grazie, da un lato, alla propria capacità di comporre i propri conflitti interni e di adeguarsi 16 Il Cinquecento, p. 494. al nuovo quadro europeo, dall’altro all’interesse che le stesse grandi potenze ebbero al loro mantenimento. Può essere letta (e Berengo stesso suggerisce di farlo) sullo sfondo della costruzione del sistema imperiale di Carlo V. Al suo lontano potere la “città imperiale” affidava la propria sicurezza e alla sua suprema autorità, tutoria e arbitrale, sia i membri dell’oligarchia che i loro avversari, si appellavano nel corso dell’aspro conflitto che li oppose all’inizio degli anni ‘30, sollecitandolo a intervenire al di là delle sue stesse intenzioni e del suo desiderio. Non è probabilmente mai giusto ridurre un lavoro di ricerca storica alle tesi generali che lo hanno sorretto. Questa riduzione, in ogni caso, non può essere applicata a Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento – modello per molti aspetti ancora innovativo di storia di una città nell’età moderna, entro il quale gli aspetti politici, istituzionali, sociali, culturali, religiosi si compongono in un disegno complessivo e alla città viene accostato il contado, che nella realtà italiana cinquecentesca ne rappresenta l’indispensabile complemento. Un modello di storia urbana “globale”, viene quasi spontaneo dire, con un termine appartenente ad una diversa tradizione storiografica, ma usato altrove anche da Berengo. In un senso, tuttavia, che con la tradizione della Annales ha ben poco a che fare, e conferisce al suo lavoro un colore particolare. Come si è osservato, è difficile trovare nella ricerca su Lucca la formulazione esplicita di scelte metodologiche. L’autore ha preferito affidarsi al giudizio degli studiosi solo attraverso la concretezza dei risultati raggiunti. Ma nel 1967, richiamando gli scritti di Delio Cantimori sulla periodizzazione del Rinascimento, Berengo non aveva difficoltà a sottolineare “l’esigenza di abbracciare globalmente tutti gli aspetti della realtà storica”. Ricordava anche, facendone proprio il rilievo, come Chabod, nel 1950 avesse criticato il rinchiudersi, nella tradizione storiografica italiana, dei due principali “tipi” di storia, la politica e la culturale, “in sfera propria e autonoma, a cui nessuno o assai fioco raggio di luce perviene dalla vicina”. “Dopo di allora, aggiungeva Berengo, questa frattura non si è colmata, ed è stata piuttosto l’attenzione per i fatti sociali, ideologici o religiosi a prendere il sopravvento, lasciando nello sfondo e quasi ritenendo già sufficientemente conosciuto quel gioco di forze entro cui era destinata a rimanere soffocata la ‘libertà italiana’”17. Questa la prospettiva – una prospettiva in primo luogo politica – in cui avvertiva l’esigenza della “globalità” come sforzo di saldare quelle storie troppo a lungo divergenti, e di recuperare, al tempo stesso, il senso delle dimensioni più larghe in cui si era consumata la drammatica vicenda dell’Italia cinquecentesca. Benché nel bilancio del 1967 fosse 17 Ibid., p. 484-85. ovviamente improprio per l’autore dichiararlo, non è difficile, per i lettori, scorgere nella lunga ricerca su Lucca il disegno di rispondere a quell’esigenza. È ancora ad uno scritto non lucchese – al bel saggio del 1974 su La città d’antico regime, scritto per introdurre un numero di “Quaderni storici” sulla città nella rivoluzione industriale18 – che bisogna rifarsi per vedere come questa ricerca, dilatandosi, abbia poi rappresentato una chiave di volta della successiva attività storiografica di Berengo, fino a dar luogo ad una linea di riflessione e di studio a cui egli sta ancora lavorando, entro orizzonti spaziali e temporali ora assai più vasti – quelli della città europea tra il secolo XIII e la pace di Westfalia a metà Seicento. In quel saggio si possono cogliere retrospettivamente, al tempo stesso, le ragioni di una scelta tematica che, quando venne compiuta, fu quasi solitaria negli studi cinquecenteschi e modernistici. Alla Lucca berenghiana può essere infatti parzialmente accostato, tra quanti videro la luce nella prima metà degli anni ‘60, un solo libro, la cui genesi ad essa fu peraltro strettamente legata, Nobiltà e popolo nella società veneta del ‘400 e del ‘500, di Angelo Ventura19. Nel 1974 Berengo poneva un rapporto di continuità/frattura tra la storia della città nel Medioevo e nell’età moderna. Rilevava come, per tracciare un profilo della città di antico regime, fosse opportuno “stabilire quale nesso sussista fra le tradizioni urbane della stagione comunale e quelle che si affermano, mutano o perdurano tra Quattro e Seicento quando la città...è sempre meno sinonimo dello Stato”. Constatava che la storia urbana era stata più coltivata per l’età dei comuni che per il periodo successivo e spiegava questo fatto con il peso minore che la città aveva avuto nello Stato territoriale che non in quello comunale. Poneva quindi tre interrogativi di fondo, che erano in qualche misura già emersi nello studio del caso lucchese. Si chiedeva cioè, in un’ottica ora ampiamente comparativa, se l’arco del declino così evidenziato era stato percorso da tutte le nazioni; “se la decadenza delle città allo schiudersi dell’età moderna si sia accompagnata o non si sia invece contrapposta alla decadenza o all’espansione economica e politica dello Stato di cui erano parte”; “se infine il ricambio o l’irrigidimento dei gruppi sociali e, più in particolare, della classe dirigente abbiano inciso in modo durevole e incancellabile nella storia di questo o quel popolo”20. Berengo gettava allora indirettamente qualche luce anche sui propri modelli storiografici, sulla genesi intellettuale delle proprie ricerche, e insieme sui motivi più profondi che le avevano ispirate. “Riprodurre dunque – scriveva – per l’età moderna alcuni “Quaderni storici”, 27, 1974, Laterza, pp. 661-692. Bari, Laterza, 1964. 20 La città d’antico regime, cit., p. 661. 18 19 temi e metodi d’indagine che la storiografia medievistica ha da tempo acquisito e ritornare a chiederci, sulla ricca scorta dei dibattiti svoltisi negli ultimi trenta o quarant’anni, come e perché la tradizione urbana sia insopprimibile e animatrice in alcune civiltà, mutevole e non caratterizzante in altre. Questo può essere un non disutile modo per avviare il dibattito sul passaggio dalla città preindustriale alla città industriale”. Il rapporto tra le proprie ricerche e quelle medievistiche di storia urbana fu posto dall’autore in ancor maggiore evidenza alcuni anni più tardi, nel corso dell’Intervista sulla città medievale a R.S. Lopez21. In quella registrazione fedele di un dialogo amichevole e non sistematico, ma denso e impegnativo, non è difficile cogliere, ancora una volta, la genesi medievistica (e più specificamente lopeziana) di alcuni dei nodi problematici già affrontanti da Berengo nella sua Lucca cinquecentesca: il ruolo delle arti e del patriziato; la funzione-chiave del notariato; e soprattutto la centralità del rapporto tra cittadini, comitatini e forestieri; l’attenzione ai conflitti interni, che a Berengo apparivano, come a Lopez, un’espressione di vitalità, tanto che il loro declino gli sembrava coincidere con la decadenza cittadina. Emergono al tempo stesso da questo scritto, così come da quello del 1974, le ragioni della predilezione di Berengo per il tema cittadino; e i motivi della partecipazione con cui, all’inizio degli anni ‘60, aveva raccontato la vicenda della Lucca cinquecentesca, città repubblicana tenacemente legata alla tradizione comunale del “governo largo” e ai valori della partecipazione cittadina, ma avviata allora a un lungo, mortificante silenzio. “Alla base della preferenza per la città medievale – scriveva Berengo nel 1974 – rispetto a quella signorile e regia, non è difficile cogliere una vocazione della cultura liberale che ha la sua più nobile e simbolica radice in Sismondi. Quando idea di città e idea di repubblica si differenziano e progressivamente si distanziano, lo studio dello Stato, della sua burocrazia, della sua corte, delle sue strutture, subentra a quello delle lotte tra sette e tra consortati e dello scontro tra nobili e popolo, patrizi e corporazioni, popolo grasso e popolo minuto. La costruzione di uno Stato diviene il polo di un interesse che, per il mondo comunale, si è fino ad oggi rivelato minore”. Anche su queste affermazioni e linee di lettura, sulla divaricazione ipotizzata da Berengo tra storia (e idea) della città e storia (e idea) dello Stato, la discussione può considerarsi oggi aperta. Questa divaricazione non sarebbe, ad esempio, probabilmente condivisa dagli storici anglosassoni, anch’essi di formazione liberale, che, seguendo un itinerario affatto diverso, hanno posto, come Quentin Skinner, la tradizione del “vivere politico” e delle virtù civili di origine comunale in rapporto al più ampio dibattito politico 21 Roma-Bari, Laterza, 1984. nell’Europa della Riforma e alle diverse visioni dello Stato che allora sono emerse22; o, come John Pocock, hanno studiato gli sviluppi di quella tradizione e di quel “linguaggio” nell’Inghilterra repubblicana di metà Seicento e nel dibattito costituzionale americano di fine Settecento23. Ma proprio per questo – perché ha messo in circolazione interrogativi e problemi, raccolto e rilanciato temi, elaborato linee di ricerca, proposto scelte metodologiche – Marino Berengo è stato in questi trent’anni ed è oggi uno dei punti di riferimento di chi si è occupato e si occupa della storia d’Italia nell'età moderna; e Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento è diventato parte ineliminabile del nostro patrimonio storiografico 22 23 Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, 2 voll., trad. it. Bologna, il Mulino, 1989. J. POCOCK, Il momento machiavelliano, 2 voll., trad. it. Bologna, il Mulino, 1980. Ann Katherine Isaacs Le città repubblicane Quando uscì Nobili e mercanti, lo sfondo sul quale si stagliava la vicenda della Repubblica lucchese nel primo Cinquecento appariva chiaramente delineato, e a fosche tinte. Le lezioni con le quali Marino Berengo aprì il suo primo corso cattedratico all’Università statale di Milano, quello dell’anno accademico 1963-64, illustravano le difficoltà incontrate dagli stati cittadini italiani del secolo XVI nel mantenere la loro indipendenza politica; in quelle successive si snodò la storia della scomparsa dei regimi larghi nelle città dell’Italia centro-settentrionale fra Quattro e Cinquecento. La problematica era quella enunciata nelle prime pagine di Nobili e mercanti, ma nel racconto della falcidia delle libertà comunali non rientravano solo le grandi repubbliche, destinate a soccombere o perlomeno ad inseguire il modello veneziano di stabilità a costo di soffocare la partecipazione dei cittadini minori alla gestione della cosa pubblica. Oltre a Firenze, Lucca e Siena, apparivano coinvolte nella stessa lotta epocale, e nello stesso tendenziale fallimento, Volterra, Pisa, Perugia e la miriade di città e cittadine che ancora all’inizio delle guerre d’Italia conservavano margini di autonomia e spazi di partecipazione popolare. Da una parte emergevano gli imperativi imposti dal duello Francia-Spagna, la volontà o la necessità che avevano gli stati della penisola di consolidare il loro dominio; dall’altra, i meccanismi specifici, le modifiche delle procedure elettorali e delle norme di accesso ai consigli, analizzati puntualmente, che segnalavano i cambiamenti intervenuti in ciascuna città. Per quanto fosse mosso e articolato il quadro, la tensione del racconto e la sua drammaticità erano ben vive, ancorate a giudizi di valore, a periodizzazioni, ad un sentire in cui rivivevano i temi della grande storiografia dei secoli precedenti, di Cattaneo e Sismondi, ma anche degli stessi fiorentini del Cinquecento: la centralità della città nella storia italiana, il tramonto delle repubbliche come scansione decisiva, l’ingresso degli eserciti stranieri e il consolidarsi dell’egemonia spagnola visti, se non come una catastrofe, per lo meno come causa d’un cambiamento di clima politico funesto per gli ordinamenti comunali e per le aspirazioni popolari. Fra le tante prospettive dalle quali oggi può essere utile tracciare la strada percorsa dalla storiografia dopo la pubblicazione di Nobili e mercanti, ho scelto quella delle città repubblicane, o meglio, del trinomio città, repubblica, libertà. Il nodo è centrale nel volume di Berengo, sebbene egli rifiuti di muoversi sul piano delle astrazioni costituzionali. Secondo la consuetudine dell’autore, i protagonisti, individuali e collettivi, affrontano le loro vicende nella concreta specificità della vita nel suo farsi. Basta leggere poche pagine per rendersene conto. Nemmeno le categorie politiche compaiono senza specificazioni. Nella Lucca di Berengo, “città” vuol dire “città di mercanti”, la “repubblica” è “piccola”, le “libertà” sono di diversi generi: “comunali”, in primo luogo, ma presto constatiamo che il vocabolo cambia di significato. Dalle “libertà” che si configuravano, sul piano degli ordinamenti interni, in un largo accesso alle cariche, garantito dalla rapida rotazione e da periodi di ineleggibilità, e in poteri di controllo sull’operato delle magistrature di vertice e sugli ufficiali forestieri, si passa ad una situazione in cui ci si deve accontentare di una “libertà” intesa come indipendenza politica rispetto ad altre potenze; una “libertà” che poteva essere conservata solo a prezzo di difficili scelte, sostanzialmente restringendo l’accesso alle cariche ad un gruppo limitato di famiglie. L’immagine della vita politica interna e dei rapporti, tesi o defilati, della piccola repubblica con i suoi grandi interlocutori emerge da un’analisi di fonti non inusuali (come i carteggi diplomatici e i registri delle Deliberazioni e dei Colloqui), ma viene narrata in modo evocativo. Lo stesso impiegato per creare l’indimenticabile quadro d’insieme del piccolo stato cittadino, in cui vivono e agiscono mercanti, tessitori, apprendisti o donne visti non come categorie astratte, ma come individui nel loro contesto sociale: il mercante che si preoccupa di collocare adeguatamente il figlio legittimato; la famiglia di tessitori di damaschi che contribuisce per la sua parte al rumore di telai battenti, rumore di fondo della città; la donna contadina delle Sei Miglia, che partorisce a Lucca per assicurare al figlio uno status migliore, o quella del ceto mercantile, che lascia per testamento la sua veste di maggior pregio al nipote più amato. Anche in questi casi, la scelta della documentazione e l’uso che ne viene fatto mirano a far intravedere i sentimenti, i modi di giudicare, le costrizioni, i problemi con i quali dovevano confrontarsi i lucchesi del Cinquecento. Accanto ai carteggi politici, ai verbali dei colloqui, parlano i testamenti e i contratti; per Berengo, il documento notarile è il mezzo d’elezione per introdurci in quel lontano mondo di affetti e di affari. Quell’immagine d’insieme nella sua ricchezza, abbraccia, e collega con la vicenda politica, i mercanti protagonisti dei traffici a Bruges o a Londra e i produttori della farina dolce nelle selve di Camaiore, ugualmente necessari per la vita della città. È un mondo che, nella sua concretezza, rifiutava di collocarsi passivamente nei grandi schemi storiografici allora in voga: nel libro di Berengo, i mercanti non sono borghesi; gli abitanti delle Vicarie conducono lotte tra di loro che nulla hanno a che fare con la lotta di classe; i tessitori hanno sì motivo di contestare i mercanti di panni, ma le loro lamentele e i mezzi di ritorsione – nonché la crisi internazionale che originò lo scontro – possiedono una loro indomabile specificità. Ed è questo mondo – lo stato cittadino, mercantile, artigiano con il suo dominio, ristretto ma vario per condizioni ambientali ed economiche – che viene difeso strenuamente, nella misura del possibile, dall’ostinato e tenace ceto di governo lucchese, mediante una politica cauta e defilata. Ne è un simbolo l’auto-rappresentazione della città diffusa dagli ambasciatori nelle corti d’Europa: dipingendo la repubblica come piccola, povera e imbelle, si sperava di guidarla indenne attraverso le insidie politiche dell’epoca. Indenne non ne uscì; anche Lucca dovette adeguarsi per molti aspetti ai nuovi imperativi del secolo: ed ecco, nelle pagine di Berengo, la chiusura oligarchica, la comparsa nel mondo mercantile di un sistema di valori nobiliari. Forse, la decisione di porre Lucca al centro di una ricerca cosi impegnativa rispondeva anche ad una valutazione di fattibilità: la vita di quella “piccola” repubblica e i suoi ordinati archivi potevano essere dominati da uno studioso di valore e ricondotti ad un quadro d’insieme cosa non sempre agevole per altre realtà urbane; ma deve aver avuto il suo peso una simpatia quasi affettiva del veneziano verso una città cosí diversa dalla Serenissima per dimensione e per splendore, ma vicina per la vocazione mercantile e per la lunga sopravvivenza delle forma repubblicana. Gli stessi Cenami e Bernardini, in esilio all’epoca di Paolo Guinigi, avevano atteso a Venezia, operosamente, mentre tramavano per la caduta del signore. Non è certo un caso che la lettura della Intervista sulla città medievale a Roberto Sabatino Lopez condotta da Berengo24 risulti cosí avvincente: la dialettica, che movimenta il dialogo, è basata anzitutto sulla diversa prospettiva cronologica degli interlocutori: quella dello studioso genovese delle città mercantili del periodo che precede la crisi del Trecento, e quella del veneziano attratto dalla vita delle città nei secoli successivi: la direzione dello sguardo cambia, ma i due osservano il fenomeno urbano con analoga simpatia. Nella città, per Lopez, avviene un’accelerazione dei contatti; in essa si può contribuire “all’evoluzíone dell’umanità”. È quindi il luogo per eccellenza di costruzione della “civiltà”. Ma qualsiasi piccolo centro non è in grado di svolgere funzioni cosí alte. “Un agglomerato”, ci dice Lopez, “non merita il rango di città se non è letteralmente un capoluogo”. Capoluogo non vuol dire necessariamente capitale; una città grande a sufficienza per risultare degna di interesse non è comunque “un concetto assoluto ma relativo”; può avere, secondo le epoche, le dimensioni di Lubecca o di Città del Messico. Ma senza dubbio è la città che detiene poteri di governo ad attirare l’attenzione di Lopez e del suo intervistatore. 24 R.S. LOPEZ, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Bari, 1984. Al riguardo, è significativo che Berengo abbia dedicato molta parte delle sue energie negli ultimi trent’anni alla definizione degli ambiti di autonomia che le singole città ed i loro gruppi dirigenti hanno saputo conquistare o conservare dal Medioevo al primo periodo moderno. Dopo metà Seicento, nella sua visione, pochi sono i centri che mantengono una reale autonomia politica; con l’indebolirsi delle città “libere” anche l’interesse dello studioso si affievolisce. In quest’ottica, gli inizi dell’età moderna e lo scontro fra le città “libere” e le grandi monarchie riorganizzate dopo la crisi del tardo Tre e primo Quattrocento acquistano una centralità assoluta. Il XVI secolo, quindi, si configura in Italia come una fase decisiva, quella della lotta per la sopravvivenza; una lotta il cui esito non era scontato. Su diversi piani, politico, culturale, religioso, i ceti cittadini oppongono una loro concezione del vivere associato a quella cortigiana e burocratica, propria del potere principesco. Il loro adeguarsi, graduale e quasi incruento, come a Lucca, o rapido e violento, come a Gand, è la trama delle vicende del secolo. Ma a prescindere dalla personalissima sensibilità dell’autore per il mondo cittadino del Cinquecento, in Nobili e mercanti vi sono alcune consonanze con altre letture generali della storia italiana che hanno influito sul modo in cui il volume si è collocato nel quadro storiografico. Berengo stesso dichiarava di avere un debito verso La Famiglia italiana di Tamassia e verso i due torni del Romier sulle guerre di religione. Il San Gimignano di Enrico Fiumi suscitava il suo interesse in quanto storia complessiva di una singola città. I rapporti, nella fase di ricerca e di elaborazione, di Nobili e mercanti con Nobiltà e popolo di Angelo Ventura sono noti e dichiarati25. Emergono e possono essere messe in evidenza alcune importanti assonanze con l’opera di Fernand Braudel, con quel suo praticare e teorizzare una storia che investa tutti gli aspetti della vita economica e politica e che li colleghi, opportunamente articolati secondo i loro tempi di mutamento, alla geografia fisica e umana dell’area considerata. Pur nell’ovvia diversità di scala rispetto al Mediterraneo di Braudel, considerato per alcuni aspetti in una prospettiva millenaria, anche nell’articolato quadro dello stesso lucchese offerto da Berengo troviamo descritte con singolare efficacia le diverse forme di organizzazione sociale e politica proprie della montagna, della collina e della città. Certamente sentiamo nelle pagine di Berengo echi dell’insegnamento di Cantimori e di Chabod. È piú mediata la consonanza con i temi gramsciani del Risorgimento26: il carattere N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano-Palermo-Napoli, 1911; L. ROMIER, Les origines politiques des guerres de réligion, Paris, 1912; E. FIUMI, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze, 1961; A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta fra ‘400 e ‘500, Bari, 1964. 26 A. GRAMSCI, Il Risorgimento, Torino, 1949. 25 non nazionale delle classi dirigenti delle singole città, l’investimento terriero a scapito della mercatura, l’incalzare delle monarchie d’oltralpe e del ducato di Firenze sono problemi anche della Lucca cinquecentesca, ma acquistano un senso molto diverso nelle mani di Berengo, cosí partecipe al mondo cittadino. La stessa tensione che compare in Gramsci come paradosso (la caduta della Repubblica fiorentina può spiacere moralmente, ma può e deve essere sostenuto che gli eserciti spagnoli rappresentavano lo “stato moderno”), riemerge in Berengo con altre premesse e conseguenze: mentre per Gramsci era evidente che la vita nazionale andava costruita superando il particolarismo, perché si formasse una borghesia nazionale, per Berengo la città non perde mai la sua importanza e il suo fascino. Il vero nucleo intorno al quale si dispiega Nobili e mercanti, e che trova un puntuale riscontro nell’impegno di Berengo nel mondo contemporaneo, è l’amore per la vita civile; un interesse profondo per come gli uomini costruiscono congiuntamente la loro vita sociale e politica, creando spazi e regole per dibattere, proporre, decidere e far eseguire le loro decisioni, in un quadro di ordinata, o anche meno ordinata, vita democratica. Per Berengo è un bene – un bene che comporta dei pericoli, ma non per questo meno importante – che la vita pubblica sia vivace. L’accortezza dei mercanti lucchesi nel pilotare la repubblica attraverso le tempeste del primo Cinquecento appare ammirevole. La risolutezza nell’adottare decisioni scomode (scomode soprattutto per gli altri, per gli artigiani e i tessitori, in verità); la compattezza nel far funzionare la vasta rete di comunicazioni, di informazioni, e di solidarietà; infine, in netto contrasto con Siena, la capacità di disciplinare i contrasti politici interni consentono ai lucchesi di salvare il salvabile. Ciò nondimeno, è indubbio che dalle tumultuose vicende del primo Cinquecento esce incrinato, ed infine sconfitto, il sistema di valori che stava alla base della vita cittadina; un altro ne subentra, di tipo nobiliare e aristocratico, che ribalta le vecchie gerarchie. Misurate sul nuovo metro, le tradizionali attività economiche non solo perdono prestigio, ma diventano talvolta incompatibili con la partecipazione al governo della repubblica. L’abilità dimostrata e il successo conseguito nella bottega, al banco di cambio e nei consigli non sono piú un viatico e una legittimazione ad un ruolo politico attivo. Si salva il salvabile, come abbiamo detto, ma si imbocca la via della subalternità rispetto all’Europa delle corti monarchiche e principesche con i loro eserciti vittoriosi. Nobili e mercanti è diventato subito un classico. È stato e continua ad essere molto letto. Ha influito fortemente, insieme a poche altre opere basilari (gli scritti sullo stato di Milano e sul Rinascimento di Chabod, il volume su Firenze di von Albertini, Gli eretici di Cantimori27) sulla nostra immagine del primo Cinquecento italiano. Tuttavia, per una serie di motivi solo in parte inerenti all’oggetto della ricerca, ha costituito un modello scarsamente imitato e in definitiva, forse, non imitabile. Pochi come il Berengo hanno saputo far rivivere il mondo del Cinquecento, contestualizzando e facendo parlare, con garbo affettuoso, una lettera di un ambasciatore o una scarna annotazione notarile. In parte perché altre realtà si prestano difficilmente ad un approccio globale: è meno agevole individuare e sintetizzare (situandoli in un arco cronologico ristretto) i fattori decisivi per le sorti future di Genova, di Firenze o di Siena. Nonostante le affinità e i diretti collegamenti con il mondo lucchese, le altre grandi città repubblicane hanno, non solo nel Cinquecento, una vita politica tanto piú complicata nelle manifestazioni esterne che non sembra realistico tentare di convogliarla in un’unica opera evocativa e paradigmatica, in cui si fondano politica interna ed estera, economia e società. Ma altre cause concorrono a spiegare la mancata diffusione e applicazione del modello storiografico berenghiano. Le coordinate ideali di Nobili e mercanti non sono state condivise senza discussione; il quadro globale, italiano ed europeo, in cui si colloca la svolta aristocratica di Lucca è stato osservato e interpretato in una prospettiva diversa. Ben presto, dopo la comparsa dell’opera su Lucca (e del volume di Ventura ad essa strettamente collegato nel dipingere il passaggio dalla vita comunale “larga” al prevalere, nel mondo cinquecentesco, di una ristretta oligarchia ereditaria, priva di senso dello stato e chiusa in un arrogante orgoglio di ceto), i primi lavori di Giorgio Chittolini mettevano in guardia contro le idealizzazioni del mondo cittadino. La crisi delle libertà comunali gli appariva il prodotto dell’inevitabile declino di organismi politici incapaci di gestire processi di ampliamento territoriale, e quindi vittime di quei medesimi processi piú efficacemente condotti dalle emergenti forze signorili. Una constatazione sofferta, quella di Chittolini: “è un amaro e singolare destino – egli affermava – che la crescita della civiltà urbana e comunale, suscitatrice di cosí grandi energie nella società italiana, trovasse un assetto politico e statuale a prezzo di quei principi di libertà che cosí precocemente aveva introdotto”; ma non per questo meno decisa. L’instaurarsi della signoria non viene presentato come la conseguenza di un deleterio eccesso di democrazia, o come – secondo la visione di Ventura – una rivincita 27 F. CHABOD, Lo stato di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1961; Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967; Lo stato di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971; R. VON ALBERTINI, Das florentinische Staatsbeiwusstsein im Ubergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, 1955, trad. it.: Firenze dalla Repubblica al Principato. Storia e coscienza politica, Torino, 1970; D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1939; ora Eretici italiani e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino, 1992. delle non ancora sconfitte aristocrazie, bensí come l’affermazione di un principio di organizzazione statale dopo la compiuta dimostrazione dell’incapacità dei comuni lombardi di mantenere il controllo sul loro contadi28. Nel complesso, la tematica del declino delle libertà cittadine fu soppiantata da quella, sostanzialmente antitetica, dello stato. L’interesse si spostò, anche per merito dello stesso Berengo, sulla configurazione territoriale degli stati italiani d’antico regime e sull’articolazione del potere al loro interno. Attraverso le ricerche per l’ “Atlante storico italiano”, si tentò di dare corpo mediante studi specifici alle esigenze espresse dal Vicens Vives nelle sue ultime, notissime pagine. Il lavoro su Lo stato mediceo di Cosimo I di Elena Fasano Guarini29, il primo di una nutrita serie di contributi sullo stato fiorentino, mise al centro dell’attenzione le modalità di costruzione dello stato territoriale, comprendendo in un’unica problematica le esperienze dei vari regimi susseguitisi a Firenze, comunal-repubblicani, signorili o principeschi che fossero. Negli scritti di Elena Fasano, il Duca di Firenze, nemico numero uno della repubblica di Lucca, appariva tra i principali protagonisti dell’opera di costruzione dello stato fiorentino, e quindi, in fondo, figura apprezzabile in un’ottica di sviluppo della statualità, inteso come un lungo percorso, non certo lineare, ma comunque positivo nella sostanza. Le oscillazioni di tale secolare processo non erano viste come dipendenti in modo significativo dalla forma del governo cittadino. Anzi, la costruzione dello stato territoriale trovava alcune delle sue scansioni piú importanti agli inizi del Quattrocento, quando la repubblica, scomparsa la minaccia viscontea, compí il suo piú notevole sforzo di espansione, dotandosi di nuovi organi centrali e periferici di controllo del dominio. Tutto ciò, è inutile dirlo, significava allontanarsi decisamente da una visione strutturata sulla contrapposizione repubblica-principato. La repubblica fiorentina di Bruni e di Salutati veniva proposta come parte della medesima storia di cui erano protagonisti Cosimo I e i suoi successori, non come antitesi ad essi. Sempre nei primi anni settanta tuttavia, comparve il volume di Michele Luzzati su Pisa30, che, mutatis mutandis, si collocava per alcuni aspetti sulla stessa linea di Nobili e mercanti. Segno dei tempi, di una stagione di grande impegno e di vivaci passioni politiche, sono il titolo, Una guerra di popolo, e l’argomento, vale a dire la parte rilevante Cfr. G. CHITTOLINI, La crisi delle libertà comunali e le origini dello stato territoriale, in La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado, Torino, 1979, pp. 1-35; la frase citata si trova nell’Introduzione a La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini, Bologna, 1979, p. 26. 29 E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze, 1973. 28 30 M. LUZZATI, Una guerra di popolo. Lettere private del tempo dell’assedio di Pisa (1494-1509), Pisa, 1973. svolta dai ceti popolari e dai contadini nella difesa della città che si era ribellata contro il dominio fiorentino. Nonostante la defaillance delle grandi famiglie quando le vicende belliche si volgevano al peggio, i popolani i contadini avrebbero mostrato una notevole determinazione nel difendere la libertà pisana. Partendo dalle lettere conservate nell’Archivio Roncioni e da un attento esame di altre testimonianze coeve, in quella sede il Luzzati non si prefiggeva certo di fornire un articolato quadro di storia sociale alla maniera di Nobili e mercanti; un obiettivo da lui perseguito poi in numerosi altri studi specifici. Piuttosto, l’opera mirava a sottolineare quella che, pur nella specificità del contesto, appariva come una circostanza stupefacente e nuova: il fatto che la città di Pisa, in guerra contro Firenze, avesse concesso la cittadinanza ai contadini; dimostrando con ciò che le repubbliche italiane del periodo, contrariamente a quanto in genere sostenuto, erano in grado, almeno nelle fasi di emergenza, di accogliere organicamente al loro interno persino lavoratori della terra; di superare il limite apparentemente invalicabile rappresentato dalle mura cittadine. Anche nell’opera di Luzzati, comunque, il baricentro è costituito dalla problematíca della difesa delle libertà cittadine nell’epoca delle guerre d’Italia. La vicenda trattata, ovviamente, era diversa da quella di Lucca, perché Pisa già da tempo aveva perso la sua “libertà”, e perché contrariamente a Lucca, venne poi sconfitta. In ogni caso, in Una guerra di popolo troviamo non solo l’idea che i tentativi di proteggere la libertà repubblicano-comunale sono un oggetto degno di interesse storiografico, ma anche la testimonianza che, a Pisa, la strenua lotta di difesa portò la democrazia comunale alle sue estreme conseguenze, e rese finalmente capace la città di “aprirsi” politicamente nel confronti del contado, e, addirittura, a sostenere militarmente le ragioni di un altro popolo in rivolta, quello genovese nel 1506. Con questi slanci contrasta la posizione assunta dai ceti benestanti, che, minacciati dal basso, si mostrarono disposti a rinunciare alle loro stesse pretese di autonomia, analogamente a quanto accadde a Firenze e a Lucca in circostanze simili. In genere, però, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Nobili e mercanti il tema delle libertà cittadine non suscitò particolare interesse negli storici italiani nel tardo Medioevo e del primo periodo moderno. Tanto meno sembrava loro opportuno privilegiare la categoria delle città repubblicane. Urgeva invece studiare gli antichi stati italiani nel loro formarsi e nelle loro interne articolazioni, a prescindere dalle grandi e contrapposte tipologie costituzionali. Quello della “libertà” diventò tema di ricerca inerente al Settecento, senza che si ravvisasse un collegamento necessario fra le libertà, conservate o erose, a Lucca e nelle altre città cinquecentesche e quelle lasciate in eredità dall’Illuminismo e dalla rivoluzione francese. L’interesse per le repubbliche rimase vivo soprattutto presso gli storici stranieri, in particolare inglesi ed americani. In Italia, invece, la lezione di Gramsci – che indicava nella retorica del comune uno degli ostacoli che impedivano di comprendere il vero percorso della storia nazionale e i motivi profondi della sua diversità rispetto a quello dei grandi paesi d’oltralpe venne presa molto seriamente, con minore duttilità di quella dimostrata da Berengo, la cui visione, contrariamente alle apparenze, non contrasta in modo insanabile con quella gramsciana. Dopo tutto, entrambi individuavano una svolta negativa per i destini della penisola in quella fase in cui i mercanti cominciarono a privilegiare l’investimento fondiario, ed i piccoli stati italiani incontrarono crescenti difficoltà a difendere i loro interessi nel confronto con le potenti monarchie europee. Ma si trattava pur sempre di modi diversi di affrontare il travagliato processo di crisi del mondo comunale e di affermazione di oligarchie portatrici di una cultura aristocratica. Inoltre, la valenza fortemente ideologica che il concetto di repubblica aveva assunto nella storiografia statunitense lo rese ancor meno utilizzabile in Italia. Mentre Angelo Ventura aveva ribadito la vocazione democratíca del comune medievale (contro la formulazione di Ercole circa la legittimazione popolare delle signorie), i piú sottolinearono l’incolmabile distanza che separava le repubbliche cittadine, con le loro strutture politiche oligarchico-cetuali, dagli ideali e dalle pratiche delle odierne democrazie, fondate sui principi del suffragio universale e della rappresentanza. Il tema repubblicano divenne una sorta di terreno minato, anche a seguito delle dure reazioni suscitate da opere come quelle di Lane, Bowsma, Pocock, o addirittura di Baron, che apparivano inficiate da sovrapposizioni e collegamenti indebiti31. Era comunque difficile far convivere in uno stesso mondo ideale il Giangaleazzo Visconti di Baron, un despota principe del male (e forte abbastanza per suscitare l’eroica difesa di Firenze, nonché l’umanesimo civile e la fioritura rinascimentale) con quei duchi di Milano che il Chittolini ci mostrava intenti a creare uno stato regionale, concedendo merum et mixtum imperium ai facinorosi potentes sorti dalla disintegrazione del potere dei comuni. Il tema della città, invece, e non solo in Italia, ebbe maggiore sviluppo. Vennero seguite molte direzioni di ricerca, senza però un pregiudiziale collegamento tra realtà urbana e specifici ordinamenti costituzionali. In Italia si accettò abbastanza tranquillamente l’idea che la città di antico regime fosse per definizione soggetta al dominio di ristrette oligarchie, incapace di evolvere verso forme genuinamente democratiche. Pochi ritennero che valesse Su questi aspetti, R. PECCHIOLI, Dal “mito di Venezia” all’ “ideologia americana”. Itinerari o modelli della storiografia sul repubblicanesimo dell’età moderna, Venezia, 1983; A. MOLHO, Gli storici americani e il Rinascimento italiano, in “Cheiron”, 16, 1991, pp. 9-28. 31 la pena continuare a distinguere fra governo “largo” e governo “stretto”, anche se proprio con quei concetti gli uomini del ‘500 non solo descrivevano realtà politíche antitetiche, ma affrontavano momenti anche cruenti di lotta politica. Una volta assunte le grandi monarchie territoriali come espressione e “luogo” di realizzazione storica di un concetto di “stato moderno” dal forte valore paradigmatico, gli stati cittadini repubblicani, cioè le città autonome, libere o sovrane, non potevano che apparire forme atipiche e residuali, se non addirittura arcaiche, e comunque destinate ad avere un sempre più scarso rilievo nelle vicende europee. Mentre delle città continuavano a suscitare interesse la funzione economica, l’evoluzione demografica, e piú frequentemente ancora le strutture urbanistiche, la loro importanza in quanto organismi politici è riemersa solo lentamente, di scorcio, grazie a ricerche comparative, e come risultato di indagini decennali condotte in Italia sulle strutture di controllo o di organizzazione territoriale degli stati di antico regime, senza specifico riferimento alla problematica repubblicana. Come compaiono oggi, dopo trent’anni, i temi della libertà, della città, della repubblica che hanno un rilievo cosí grande in Nobili e mercanti? Certamente si intrecciano secondo una combinatoria diversa. Le città dell’Italia centro-settentrionale – forse soprattutto le città “suddite”, e persino i centri minori – sono oggetto di attenzione in quanto elementi costitutivi di tutti gli stati, e viene loro riconosciuta una funzione importante nell’organizzazione territoriale anche di quelli piú estesi. Per esempio, gli atti del convegno sugli statuti promosso dall’Istituto storico italo-germanico in Trento danno molto peso al contributo delle città alla costruzione ed articolazione degli ordinamenti politico-istituzionali dei maggiori stati32. In Toscana e nel Veneto in particolare, si è dedicata molta attenzione ai rapporti fra le città suddite e le città dominanti, indagando le modalità dell’espansione territoriale e le sue conseguenze per le strutture centrali e periferiche33. Piú in generale, ci si è interessati alle città minori, o addirittura alle “quasi-città”34; e al persistere di un’eredità comunale-repubblicana anche negli stati 32 G. CHITTOLINI, Statuti e autonomie urbane. Introduzione, in Statuti città territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna, 1991, 7-46. 33 Indicazioni bibliografiche in A.K. ISAACS, States in Tuscany and Veneto, 1200-1500, in The Urban belt and the Emerging modern state, cit. sotto a nota 13; per una visione d’insieme, Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, 1994; ed ora, E. FASANO GUARINI, “Etat moderne” et anciens états italiens: éléments d’histoire comparée, in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 45, 1, 1998, pp. 15-41. 34 Cfr., ad es., G. CHITTOLINI, Terre borghi e città in Lombardia alla fine del Medioevo, in Metamorfosi di un borgo, Vigevano in età visconteo-sforzesca, Milano, 1992, pp. 7-30; F. ANGIOLINI, Centri minori e società nella Toscana moderna, in Town and country: historiographical traditions and research prospects/Città e campagna: tradizioni storiografiche e prospettive di ricerca, a cura di A.K. Isaacs, Pisa, signorili o principeschi, visibile nella complessa stratificazione di organismi e funzioni risalenti a periodi diversi. A livello europeo sono state promosse alcune ricerche collettive, programmaticamente orientate verso un approccio comparativo, che hanno messo in luce l’importanza delle città come uno deglì elementi organizzatori di tutti gli stati. Le città non compaiono piú unicamente come elementi residuali contrapposti alle monarchie trionfali. Ne è risultato un quadro in cui la specificità delle aree per eccellenza della fioritura urbana resiste solo in parte: ciò che prima poteva sembrare una diversità strutturare incolmabile fra le zone delle grandi città autonome e il resto d’Europa oggi appare piuttosto come una differenza di grado. Grazie agli studi, fra gli altri, di De Vries35, si ha ben presente il fenomeno di lungo periodo della concentrazione delle città europee su una cosiddetta cintura urbana. Tuttavia, lo sforzo di ripensare in un’ottica comparativa la storia degli stati e delle città, prescindendo quanto piú possibile dalle consolidate tradizioni storiografiche nazionali, ha portato a riconoscere il ruolo delle città nella costruzione di tutti gli stati, e non soltanto di quelli italiani, dei Paesi Bassi, del Sud della Francia, della Svizzera o della Catalogna. Non viene píú tracciata una linea cosí netta di demarcazione fra le aree dove le città pesano e il resto dell’Europa. Persino in contesti ritenuti per molto tempo privi di città dotate di rilevanti autonome politiche, si cominciano ora a studiare con maggiore attenzione i concreti ambiti di potere del centri urbani36. In questo modo, oggi si può agevolmente immaginare un’Europa di città che godono di gradi variabili di autonomia, secondo i tempi e le zone, senza un inevitabile riferimento agli stati-nazione consolidatisi in seguito. Si tratta di un approccio interpretativo forte, paradossalmente non lontano da quello che Berengo ha da lungo tempo adottato nelle sue indagini sulle città europee dal Medioevo fino a metà ‘600: indagini volte a precisare affinità e differenze fra le diverse realtà urbane e il loro grado di autonomia rispetto ai principi. 1997, pp. 79-90. 35 J. DE VRIES, European Urbanization (1500-1800), London 1984. 36 Ad es. Res publica. Burgershaft in Stadt und Staat, Berlin, 1988; City System and State Formation, a cura di W. Blockmans, C. TILLY, “Theory and Society”, 18, 1989, rist.: Cities and the rise of States, a.d. 1000 to 1800, Boulder, San Francisco, Oxford, 1994; nonché i molti volumi, ancora in parte in corso di stampa, attinenti alla serie della European Science Foundation, The Origins of the Modern State in Europe, 13th to 18th centuries; sulle città, A.K. ISAACS, M. PRAK, Cities, bourgeoisies and states in Power elites and State Building, a cura di W. Reinhard, Oxford, 1996; W. BLOCKMANS, T. BRADY, G. DILCHER, A.K. ISAACS, A. MUSI, H. VAN NIEROP, The Urban Belt and the Emerging Modern State, in Resistance, Representation and Community, a cura di P. Blickle, Oxford, 1997. Un ulteriore passaggio, decisivo ma problematico, è quello del rapporto fra il mondo cittadino del tardo Medioevo e del primo periodo moderno e le forme statuali emerse successivamente alla rivoluzione francese. È tutt’altro che pacifico che esista un nesso diretto fra i sistemi politici recenti o attuali – repubblicani, parlamentari o monarchico-costituzionali – e le repubbliche cittadine con i loro ordinamenti comunali. Pur abbandonando l’idea grossolana di un “tradimento della borghesia”, si è spesso preferito studiare i casi in cui, nei grandi rivolgimenti dell’età moderna, i gruppi cittadini, oligarchici o persino artigiani, hanno agito in difesa di diritti acquisiti piuttosto che per conquistare spazi politici piú avanzati. Già il dibattito intorno alle comunidades di Castiglia aveva finito per imboccare questa via, scartando l’idea di Maravall che da un sollevamento di città, in caso di vittoria, sarebbe potuta scaturire una monarchia costituzionale di tipo “moderno”: si metteva qui e altrove l’accento su quanto nell’azione delle singole città mirava ad una difesa persino miope di consolidati privilegi. Alla stagione degli studi sulle grandi città europee dotate di un’autonomia economica e politica sufficiente per renderle adatte ad una ricostruzione storica globale – quale ad esempio la Valladolid di Benassar – è subentrato un interesse piú marcato per le interazioni, in uno spazio politico ampio, delle città con altri luoghi e fonti di potere. Gli studi di Chevalier sulle Bonnes villes o di Brady sulla Confederazione elevetica indagano momenti corali di rapporto fra le città ed il potere monarchico o di città fra di loro, mentre altre ricerche impegnative hanno fatto conoscere una vasta gamma di vicende e di strategie particolari relative a singole realtà urbane. Lavori come quelli di Descimon su Parigi, di Schneider su Tolosa, di te Brake su Deventer, hanno mostrato come le città e i vari gruppi cittadini al loro interno si atteggiano diversamente rispetto ai grandi mutamenti in atto. In linea con una diffusa atmosfera revisionista, si è sottolineata la specificità di ciascun momento e ciascun gruppo di attori, diffidando di schemi interpretativi generali37. Un’eccezione sui generis è il volume di Helen Nader sui piccoli centri nella Spagna degli Asburgo38. Paradossalmente, la Nader ha sostenuto di aver trovato una libertà 37 Ad es., B. BENASSAR, Valladolid an siècle d’or, Paris, 1967; R. GASCON, Grand commerce et vie urbaine au XVIe siècle. Lyon et ses marchands, Paris, 1971, 2 vols., G. STRAUSS, Nuremberg in the Sixteenth Century, New York, London, Sydney, 1966; B. CHEVALIER, Les bonne villes de France du XIVe au XVIe siècle, Paris, 1982; T. BRADY, Turning Swiss. Cities and Empire (1450-1550), Cambridge, 1985; R. DESCIMON, Qui étaien les Seize? Mythes et réalités de la Ligue parisienne (1585-1594), Paris, 1983; R. SCHNEIDER, From Municipal Republic to Cosmopolitan City: Public Life in Toulouse 1478 to 1789, Ithaca, 1989; W. PH. TE BRAKE, Regents and Rebels. The Revolutionary world of and Eighteenth century Dutch City, Cambridge, Mass., Oxford, 1989. 38 H. NADER, Liberty in Absolutist Spain. The Habsburg Sale of Towns (1516-1700), Baltimore-London, 1990. crescente nella Spagna del Cinque-Seicento in virtú delle numerose vendite di villaggi prima facenti parte dei domini delle città maggiori. Ciò avrebbe fatto sí che una parte rilevante della popolazione potesse accedere a forme di vita politica organizzata, liberandosi dallo strapotere dei grandi centri e trattando direttamente con i signori giurisdizionali. Certo, la “libertà” viene cosí ad ubicarsi in centri che nulla hanno a che vedere con i “capoluoghi” cosmopoliti di Lopez. Tuttavia la proposta è indicativa di uno dei modi in cui la capacità di “autodeterminazione” e di auto-organizzazione di tutti gli agglomerati urbani, in questo caso anche molto piccoli, continua a sollecitare una riflessione sui veri luoghi della partecipazione alla gestione della cosa pubblica, nonché, come negli intenti dell’autrice, sulle caratteristiche degli stati monarchici d’antico regime. Ma veniamo brevemente agli studi sulle città repubblicane svolti in Italia negli ultimi anni. Dato il percorso che abbiamo sommariamente tracciato, e la tendenza piú generale a respingere schemi dicotomici, non sorprende se oggi si preferisce parlare, non di “repubblica” come entità astratta contrapposta alla signoria o al principato, ma, semmai, di “repubbliche”, come specifici organismi politici di derivazione cittadina assai diversi tra di loro, anche per grado di autonomia. Come il problema dello “Stato” si presenta ora sotto forma di esigenza di conoscere le singole formazioni statali senza tentare di misurare una loro minore o maggiore coincidenza con un modello di “stato moderno” molto teorico, anche le repubbliche vengono viste al plurale, e non si dimenticano le quasi-repubbliche, le ex-repubbliche e le pre-repubbliche, categorie nelle quali potremmo inserire città come Lucca sotto i Guinigi, Siena sotto i Petrucci, o Genova sotto i re di Francia e i duchi di Milano, città che avevano davanti a loro decenni o addirittura secoli di vita indubbiamente repubblicana. Non ci si limita piú quindi ad usare il concetto di “repubblica” per indicare stati cittadini dotati di un’autonomia politica assoluta. Piuttosto, si tende a collocare le singole città all’interno di una graduatoria che va da Venezia, da un lato, all’apice dell’autonomia, fino a città (ad esempio Bologna, per Angela De Benedictis39) che si trovano inserite in stati non repubblicani – e persino rilevando come la forte eredità cittadina dà un carattere repubblicano a molti stati signorili o principeschi, come ad esempio quello fiorentino. Provocatoriamente, Mario Ascheri ha intitolato Repubblica continua un suo recente saggio sulla Siena medicea, per mettere in rilievo il grado notevole di autonomia che la città, pur 39 A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europa nello stato della Chiesa, Bologna, 1995. sconfitta, conservò nei primi due secoli di dominio granducale, contrariamente a quanto avvenne, a suo avviso, in epoca lorenese40. Sulle città ancora repubbliche a tutti gli effetti in epoca moderna sono comparsi numerosi studi. Opere recenti su Lucca hanno arricchito notevolmente le nostre conoscenze (penso in primo luogo a quelle di Simonetta Adorni-Braccesi, Franca Leverotti, Rita Mazzei e Renzo Sabbatini41) . Di Venezia, oggetto di una vastissima storiografia, non potremo qui citare che alcune opere. Abbiamo già accennato al particolare sviluppo delle indagini sull’organizzazione della terraferma veneta. Tuttavia si può dire che gli studi sulle due città prendono come dato di fatto scontato la loro condizione di repubbliche; e da ciò deriva una scarsa inclinazione a problematizzare tale concetto político-storiografico attraverso un approccio comparativo che tenga conto delle caratteristiche e dei problemi comuni alle varie realtà repubblicane. Non mancano, tuttavia, studiosi interessati ad indagare la specificità degli ordinamenti repubblicani. Grazie in primo luogo ai lavori di Cozzi e del suo gruppo, si è individuato nella giustizia un campo utile per verificare concretamente le modalità di costruzione e di organizzazione del potere negli stati del primo periodo moderno. Collegata con quest’indirizzo è l’ampia ricerca comparativa sui giudici di Rota guidata da Elena Fasano Guarini. In quell’ambito, studiando l’istituzione delle Rote nei primi decenni del ‘500, ho cercato di dimostrare come le città “repubblicane” (Genova, Siena, Lucca, Firenze), avessero, a causa delle analoghe strutture del consenso, adottato soluzioni istituzionali simili per far fronte ai problemi giuridici, giurisdizionali e politici dell’epoca42. La città di Genova e lo stato genovese, che molti anni fa Berengo indicava come ingiustamente trascurati dagli storici, vengono attualmente studiati in diverse prospettive e sono oggetto di un vivace dibattito. Di fronte a chi (Osvaldo Raggio, Edoardo Grendi) ha ritenuto di privilegiare gli ambiti locali di organizzazione della vita sociale, in dichiarata polemica con la storiografia sullo stato, altri, come Vito Piergiovanni, Rodolfo Savelli, Carlo 40 M. ASCHERI, Repubblica continua, in I Libri dei Leoni. La nobiltà di Siena in età medicea (1557-1737), Milano, 1996. 41 E. LEVEROTTI, Popolazione, famiglie, insediamento. Le Sei Miglia lucchesi nel XIV e XV secolo, Pisa, 1992; S. ADORNI BRACCESI, Una città infetta. La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, 1994; R. SABBATINI, I Guinigi fra ‘500 e ‘600. Il fallimento mercantile e il rifugio nei campi, Lucca, 1979; R. MAZZEI, La società lucchese del Seicento, Lucca, 1977. 42 Stato società e giustizia nella repubblica veneta, a cura di G. Cozzi, Roma, 1980; G. COZZI, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982; Rote, senati e tribunali supremi nell’Italia dell’antico regime, a cura di A. Bettoni e M. Sbriccoli, Milano, 1993; sugli studi sulla giustizia in generale, A. ZORZI, Tradizioni storiografiche e studi recenti sulla giustizia nell’Italia del Rinascimento, in “Cheiron”, 16, 1991, 27-28. Bitossi e Arturo Pacini43 hanno indagato la repubblica nel suo complesso, mettendo in primo piano le vicende politiche interne ed estere della città dominante. Fra l’altro, si è giunti cosí a teorizzare esplicitamente che la libertà di agire necessaria per i mercanti e banchieri genovesi, cosí importanti per l’assetto economico-finanziario europeo del ‘500 e del ‘600, dipendesse strettamente dalla capacità di mantenere la “libertà” di Genova, intesa come autonomia politica ma anche come ordinamento repubblicano. Tale ordinamento si dimostrò capace di fornire adeguati luoghi di confronto e di elaborazione delle decisioni alle varie componenti di una società cittadina fortemente conflittuale. In definitiva la ricchezza e il peso a livello europeo della Superba sono visti come legati in modo necessario alla riconquista e alla conservazione della forma repubblicana, con i suoi complessi meccanismi elettorali e i suoi persino estenuanti dibattiti. Quanto a Siena, il Due e il Trecento sono apparsi i secoli piú adatti ad essere trattati in quadri d’insieme44. Per il periodo che va dalla caduta dei Nove nel 1355 alla fine della repubblica due secoli dopo, la stupefacente varietà delle forme istituzionali e la vita politica sempre parossistica hanno reso difficile trovare sicuri criteri di indagine. I lavori di numerosi studiosi, fra i quali Mario Ascheri, Giuliano Catoni, Giuseppe Chironi, Maria Ginatempo, Petra Pertici, Christine Shaw, e chi scrive, hanno fornito ormai un materiale utile per individuare le costanti del sistema politico senese. Si è potuto definire come principali modulazioni possibili della vita politica cittadina il governo “largo” condotto dai consigli e i governi “stretti” retti da Balie o da signori, e dimostrare che ciascun tipo di regime trovava sostegno in particolari gruppi, formati, definiti e continuamente rimodellati dal processo politico stesso45. 43 O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino, 1990; E. GRENDI, Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino, 1993; V. PIERGIOVANNI, Il sistema europeo e le istituzioni repubblicane di Genova nel Quattrocento, in “Materiali per la storia della cultura giuridica”, XIII (1983), I, pp. 3-46; R. SAVELLI, La Repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano, 1981; C. BITOSSI, Il Governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, 1990; ID., “La Repubblica è vecchia”. Patriziato e governo a Genova nel secondo settecento, Roma 1995; A. PACINI, I presupposti politici del secolo dei genovesi. La riforma del 1528, in “Atti della società ligure di storia patria”, 1990. 44 D. WALEY, Siena and the Sienese in the Thirteenth Century, Cambridge, 1991; W. BOWSKY, A Medieval Italian Commune. Siena under the Nine (1287-1355), Berkeley, 1981; trad. it.: Un comune italiano nel medioevo. Siena sotto il regime dei Nove (1287-1355), Bologna, 1986. 45 Indicazioni bibliografiche aggiornate in M. ASCHERI-P. PERTICI, La situazione politica senese del secondo Quattrocento (1455-1479); A.K. ISAACS, Cardinali e spalagrembi. Sulla vita politica a Siena fra il 1480 e il 1487 e G. CHIRONI, Nascita della signoria e resistenze oligarchiche a Siena: l’opposizione di Niccolò Borghesi a Pandolfo Petrucci (1498-1500), in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, Politica economia cultura arte, III, a cura di R. Fubini, Pisa, 1996 e in ASCHERI, Repubblica continua, cit. È da segnalare infine, per il suo interesse rispetto ai temi qui trattati, uno dei lavori di Isabella Lazzarini sulla Mantova del tardo Medioevo. Mantova, è ovvio, non era una “repubblica”. Tuttavia, come avviene in quasi tutte le città dell’Italia centro-settentrionale, la base comunale continua a vivere al di sotto e accanto alle successive stratificazioni istituzionali prodotte dal governo signorile. È relativamente agevole osservare stratificazioni analoghe anche negli stati piú forti, come quello fiorentino. La Lazzarini, tenendo conto dell’ubicazione delle strutture urbane e delle abitazioni delle diverse famiglie, ricostruisce in modo originale i cambiamenti nei legami sociali che accompagnano l’evoluzione delle forme d’esercizio del potere nel passaggio dal comune e alla signoria. Si tratta di un metodo suggestivo per indagare le logiche diverse dei due sistemi46. Tangenzialmente a questo quadro di studi specifici sui sistemi politici repubblicani nei vari momenti e contesti, Maurizio Viroli47 ha recentemente riproposto con molto slancio il “repubblicanesimo” come valore etico-politico attuale, sulla scia di dibattiti di ambito angloamericano sulla morale e sulla sua definizione, individuale o politico-sociale. Su un altro versante, ma con qualche punto di affinità, Pierangelo Schiera ha voluto che fosse ripubblicata la Storia delle repubbliche italiane del Sismondi48, per riaprire il dibattito sulle forme politiche in grado di garantire una reale partecipazione dei cittadini nel mondo attuale. Il rinnovato interesse per gli antichi stati cittadini può rallegrare chi studia quella realtà, ma impone anche molta cautela per evitare il rischio di un uso strumentale ed anacronistico di formulazioni attinenti a contesti ben diversi dal nostro. E concludo. I nemici delle repubbliche e del repubblicanesimo hanno spesso avuto buon gioco ad ironizzare sugli aspetti prettamente ideologici della celebrazione del vivere civile. Samuel Johnson, fedele alla monarchia hannoveriana e sostenitore dell’ordine costituito, pensava che fosse meglio per la società che l’antica nobiltà godesse dei posti di potere. Come pretendere infatti che il popolo obbedisca a uomini nuovi? I “repubblicani” per Johnson erano, piú che fautori di una particolare forma di governo, “rivoluzionari”, pronti a pescare nel torbido, mettendo in pericolo l’ordinato meccanismo della società. “In republicks”, ebbe a dire, “there is not respect for authority, but a fear of Power”49. Nella sua visione, le repubbliche sono costituite su una pulsione negativa, di democraticismo se 46 I. LAZZARINI, Gerarchie sociali e spazi urbani a Mantova dal Comune alla Signoria gonzaghesca, Pisa, 1994. 47 M. VIROLI, Dalla politica alla ragione di stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma, 1994. 48 J.-CH.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane, con presentazione di P. Schiera, Torino, 1996. 49 J. BOSWELL, Life of Samuel Johnson, Oxford, ed. 1953, p. 464. non di anarchia, contrariamente a ciò che avviene nelle monarchie costituzionali, dove vige un giusto rispetto per il sovrano e per le autorità. Thomas Hobbes, in un brano spesso citato dal Leviatano, che è difficile non ricordare qui, evocò l’immagine della Lucca del suo tempo (dove si trovava ancora scritto “on the Turrets...in great characters” la parola “LIBERTAS”), per sostenere che la libertà che si elogia è quella dei sovrani, non quella degli uomini privati. Per Hobbes se la cosa pubblica è “Monarchicall, or Popular, the Freedome is still the same”, vale a dire, sussiste unicamente la “Libertie to resist, or invade other people”. Il lucchese non doveva ritenersi piú libero, rispetto allo stato, dell’abitante di Costantinopoli50. Il punto, come abbiamo visto, è ancora dibattuto. Nella nostra epoca, dedita agli studi sulla “costruzione” e sulla “decostruzione”, sembra ineludibile un richiamo ai “fatti” che ancori le interpretazioni storiografiche a situazioni documentabili del passato, alla “verità storica”51. E nonostante i dubbi che può suscitare un eccesso di “attualísmo”, sembra inevitabile che anche lo storico piú attento ai pericoli delle proiezioni anacronistiche si interessi degli aspetti del passato la cui importanza emerge dalle vicende odierne. L’autogoverno cittadino, e quindi anche la ricca esperienza delle città politicamente autonome del medioevo e dell’età moderna – non nelle forme eterne, ma nella mobile esperienza di organizzazione della vita civile secondo norme riconosciute ma sottoposte a discussione ed ad una continua rielaborazione – è un oggetto di studio ancora rilevante. Su entrambi questi piani, Nobili e mercanti mantiene inalterata la sua importanza. T. HOBBES, Leviathan, Part II, Chapter 21. Ad esempio E. HOBSBAWM, On History, London, 1997, spec. Identity history is not enough, rist. di The Historian between the Quest for the Universal and the Quest for Identity, in “Diogenes”, 42-4 1994; G. GINZBURG, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, 1991, p. 12. 50 51 Paolo Malanima Il tema del mercante In molte città dell’Italia settentrionale la mercatura permise a tante famiglie nuove di affermarsi prima nella vita economica e poi anche nella gerarchia sociale e nelle cariche pubbliche. Si trattò del canale di mobilità ascendente di maggiore importanza nel tardo Medioevo e nella prima Età moderna. Fu esso a produrre, con onde successive, l’avvicendamento al vertice della società e della politica. Viceversa fu proprio quando le difficoltà economiche ridussero le possibilità di arricchimento per famiglie nuove che anche il ricambio nella struttura sociale e nelle attività politiche divenne più difficile. Di tutto questo la storia della città di Lucca offre numerosi esempi. Lo riconosceva Marino Berengo, nella sua opera del 1965, quando attribuiva ai successi commerciali “l’idoneità ad inserirsi nella vita pubblica”1 per le famiglie in ascesa. Era stato poi il “diffuso declino delle attività mercantili”2 nella seconda metà del Cinquecento a provocare la chiusura oligarchica del governo della Repubblica. Le difficoltà economiche avevano contribuito allora a consolidare il potere della nobiltà cittadina rendendo impossibile il successo sociale di case nuove. Ne era seguita “l’esclusione di ogni altro ceto dalla vita pubblica”3, al di fuori del ristretto gruppo delle famiglie dominanti4. Quando Berengo studiava Lucca, l’attenzione per il ruolo del mercante nella vita economica, sociale e anche politica era ben piú viva nella ricerca storica di quanto non sia oggi. Una ricostruzione per sommi capi della storiografia relativa al mercante può essere utile per ricostruire lo sfondo sul quale si colloca anche la specifica ricerca di Berengo. Il tema del mercante è uno di quelli che nello studio della storia economica hanno occupato a lungo una posizione centrale. Sono poi scivolati in secondo piano e sono infine scomparsi senza che nessuno se ne sia accorto. Il periodo in cui si è svolta questa vicenda è, piú o meno, quello che va dall’inizio del secolo ai primi anni ‘70. In questi decenni l’attenzione per i grandi personaggi è stata forte, non solo nel campo della storiografia economica, ma anche in quelli della storia politica, della storia militare, di quella sociale, di quella religiosa, di quella culturale. Il ruolo consapevole degli uomini nei processi storici veniva considerato allora assai più importante di quanto non si faccia oggi. Oggi l’attenzione viene rivolta piuttosto a quei processi di trasformazione di lungo periodo che ínfluenzano la condotta degli uomini anziché esserne condizionati. Temi quali la formazione dello Stato, l’organizzazione amministrativa, i cambiamenti delle strutture sociali, le mentalità religiose, hanno preso il posto dell’interesse per i sovrani e per i governanti, per l’ascesa sociale individuale o familiare, per i papi e per gli eretici. Si è avuta una graduale spersonalizzazione della storia. Nel settore della storia economica o economico-sociale il fenomeno è stato particolarmente evidente. Il caso dell’interesse per i mercanti lo dimostra bene. Un tempo il mercante, e specialmente il mercante medievale, era fra gli argomenti privilegiati della ricerca. In Italia si studiavano i Medici, i Bardi o il Datini, mentre fuori d’Italia l’attenzione era rivolta ai Ruiz, ai Fugger, ai Welser… Era M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1965, p. 65. Ivi, p. 257. 3 Ivi. 4 Qualche elemento su queste vicende anche in H. KELLENBENZ, I grandi mercanti e la mobitità sociale nell’Europa dal Cinque al Settecento, in “Annali della Facoltà di Economia e commercio di Verona”, s. I, III, 1968-69, pp. 45-62. 1 2 convinzione diffusa che i mercanti avessero rappresentato per secoli l’elemento piú dinamico e innovatore nella vita economica. Il dinamismo dell’economia sarebbe dipeso dalle loro iniziative. Si pensava in particolare che i mercanti fossero stati gli artefici del sistema capitalistico. Questo sistema, caratterizzato, a quanto si riteneva, dalla presenza d’ingenti capitali, dal dinamismo, dalla gestione razionale degli affari, avrebbe trovato la sua origine già all’epoca dello slancio economico medievale. E gli artefici ne sarebbero stati dapprima i mercanti italiani, poi quelli tedeschi, infine quelli olandesi e inglesi. Mercanti e capitalismo, dunque. Per maggiore concretezza si possono rammentare pochi nomi. Ricordiamo innanzitutto Pirenne. Sia con i suoi contributi personali, sia per i dibattiti che la sua opera suscitò a lungo, Pirenne può essere veramente considerato come lo storico che piú di altri ha influenzato l’interesse per il mercante nella storia economica. Per Pirenne il capitalismo è caratterizzato dall’impresa come sua cellula operativa dagli investimenti, dal profitto commerciale, dalla speculazione razionale. Le sue radici si possono trovare nel tardo Medioevo e particolarmente nelle città italiane. Alle origini l’elemento dinamico è costituito da quei piccoli mercanti, sradicati dal mondo agrario e feudale, che animano le città in espansione e vi introducono lo spirito del profitto razionale. Si formano piú tardi vere dinastie di banchieri e mercanti che operano in un quadro geografico sempre piú ampio. Il capitalismo dell’Occidente ha dunque, secondo Pirenne, il suo protagonista. Questo punto di vista, quando fu elaborato dallo storico belga, e cioè fra la prima guerra mondiale e la fine degli anni Venti, era in accordo con l’atmosfera prevalente che caratterizzava anche altre discipline quali la teoria economica e la sociologia. Si può solo ricordare il ruolo centrale nel processo dello sviluppo capitalistico che veniva allora assegnato da Schumpeter all’imprenditore. Era proprio l’imprenditore a combinare creativamente gli inerti fattori della produzione. I mercanti medievali potevano essere considerati piú o meno come gli imprenditori del primo capitalismo. Nella teoria sociologica Weber aveva sollecitato l’attenzione per lo spirito razionale nel perseguimento del guadagno. Si trattava del carattere distintivo del sistema capitalistico, a suo giudizio, e nel calvinismo trovava i suoi elementi costituitivi. Le discussioni seguite alla sua opera contribuirono a dilatare l’interesse per questo aspetto delle relazioni fra religione ed economia. Vi erano gruppi sociali ed economici che avevano anticipato quel tipo di razionalità che Weber individuava nell’uomo d’affari calvinista? Il mercante medievale venne subito individuato da alcuni come un suo lontano progenitore. Anche Sombart ricostruí, fra l’inizio del secolo e gli anni Trenta, il percorso dello spirito faustiano caratteristico, come diceva, del capitalismo europeo ricercandone le premesse in gruppi sociali e individui. Contro Pirenne, Sombart tese, però, a minimizzare il ruolo del mercante medievale. I temi ricorrenti della sua opera, scrisse Sapori, furono due: «l’affermazione che la ricchezza medievale, i patrimoni e poi i capitali, si formarono con i proventi della proprietà fondiaria; e che lo spirito dell’età di mezzo, fu universalmente “spirito artigiano”»5. Anche i mercanti non rivelarono alcuno spirito capitalistico. I mercanti medievali vennero allora studiati, soprattutto da storici italiani, per contrastare questa opinione e dimostrare il loro “spirito capitalistico”. S’intensificò anche per questo l’interesse per la condotta degli affari in epoca medievale. Se guardiamo al caso italiano, l’attenzione al mercante medievale è stata forte particolarmente nell’arco di tempo compreso fra l’inizio degli anni Venti e primi anni Settanta. Si possono ricordare, per i loro contributi in questo tipo di tematica, i nomi di Gino Luzzato, Armando Sapori, Roberto Sabatino Lopez, Federigo Melis. Insieme alle tante diversità dell’oggetto specifico della loro ricerca e del tono della loro ricostruzione, essi rivelano diverse analogie. La loro attenzione è orientata a rivendicare l’originalità del mercante italiano e la sua forte impronta nell’economia e nella società. Il loro bersaglio polemico è spesso, in maniera piú o meno scoperta, la ricostruzione riduttiva di Sombart. L’ampiezza dell’orizzonte del mercante, la sua razionalità nella gestione, l’origine mercantile e non fondiaria delle sue fortune rendono inaccettabile, a loro giudizio, la ricostruzione del mercante medievale proposta da Sombart. Proprio questa intenzione polemica è alla base delle tante ricerche sulla gestione degli affari, sulle pratiche bancarie, sulla psicologia, sulla formazione delle fortune e dei capitali. Ebbe a scrivere, ad esempio, Federigo Melis nel 1964 che con il controllo di settori diversi come quelli della banca, dell’industria, della navigazione, il “grande mercante...assomma nelle sue mani, con l’atto principale dello scambio quello accessorio del servigio della navigazione, dominandolo, in una immensa distensione territoriale e di tempo”. Possiamo quindi riscontrare in lui – sono ancora sue parole – “quella qualità somma che il Sombart gli aveva negato per tale epoca e per vari secoli ancora: il dominio del mercato, nella sua piú ampia accezione”6. Quali sono i lineamenti del mercante emersi dalle ricerche dei passati decenni relative all’Italia? Soffermiamoci ora su alcuni di essi7. Vedremo poi le ragioni del progressivo A. SAPORI, Werner Sombart, in Studi di storia economica, Firenze, Sansoni, 1985, II, p. 1100 (I ed. 1947). E. MELIS, Werner Sombart e i problemi della navigazione nel Medioevo, in I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 68 (I ed. 1964). 5 6 7 J. DAY, Medieval merchants and financiers, in The medieval market economy, Oxford, Blakwell, 1987. minore interesse per questo tema e delle critiche che sono state rivolte ai risultati in questo campo. Chi è? Il mercante è l’elemento centrale della città europea. Nella città vive; grazie alla città forma le sue fortune. Esse sono sempre legate alle attività di scambio che le città rendono possibili. Molto poco esse derivano, come riteneva Sombart, dalla proprietà della terra. La terra è di rado il punto di partenza; quasi sempre lo è la città col suo dinamismo economico. Proprio sul collegamento fra città e mercante alcuni elementi sono stati sviluppati nella lunga intervista di Marino Berengo a Roberto Sabatino Lopez del 19848. Si ricordano qui le differenze fra la città antica e quella asiatica da una parte e la città europea dall’altra. Mentre i primi due modelli di città sono contraddistinti da una popolazione di proprietari terrieri e funzionari, la città europea appare come città borghese, popolata da mercanti e artigiani e governata da case mercantili. L’opposizione – si potrebbe dire in termini weberiani – è quella fra una città di consumatori e una città dì produttori. Sostiene Lopez che “la città medievale per eccellenza è una città di mercanti e (generalmente in posizione subordinata) di artigiani”9. Gli affari. Proprio in questo settore di ricerca si sono avuti i risultati più interessanti. Lo studio delle tecniche di affari ha potuto ricostruire la nascita d’innovazioni numerose. Il mercante medievale è apparso come l’artefice di queste tecniche nuove. Dall’Italia settentrionale esse si sono poi diffuse nel resto d’Europa. Si possono solo ricordare le ricerche su tipi di società commerciali come la commenda, la societas maris, la colleganza, sulle forme del credito e della banca, sulla contabilità, sul diritto commerciale. L’evoluzione del mercante attraversa diversi stadi che corrispondono a tecniche di affari differenti. Si va dal mercante itinerante della prima espansione medievale, ricordato spesso da Pirenne; al mercante sedentario, che ha la sua residenza in un centro urbano importante; al grande banchiere con interessi in attività mercantili, creditizie, industriali, assicurative. Questa compresenza di diversi interessi nella stessa persona rimane un tratto distintivo del mercante italiano ancora in età moderna. La mentalità e l’istruzione. Si deve studiare il mercante medievale “con occhi medievali” e non “con occhi moderni”, scriveva Sapori10. Cosí facendo ci si accorge allora che esso manifesta una mentalità razionale, calcolatrice e innovatrice. Lo rivelano soprattutto le tecniche della gestione commerciale e in particolare l’introduzione della partita doppia nella Toscana del XIII secolo. Questo razionalismo mercantile era in parte R.S. LOPEZ, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 12. Ivi, p. 12. 10 A. SAPORI, La cultura del mercante italiano, in Studi, cit., I, p. 86. 8 9 anche il risultato dell’istruzione. La formazione del giovane mercante avveniva sia in modo privato che pubblico; anche nella scuola con lo studio del latino e della matematica. Essa avveniva, però, dopo i 14-15 anni, soprattutto con l’apprendistato in qualche impresa di affari, in qualche banco o in qualche filiale su piazze lontane in Italia e all’estero. Venivano assimilate in questo modo le pratiche della gestione razionale degli affari11. Anche Sombart, nonostante la sua opera di minimizzazione della mercatura medievale, era stato costretto ad ammettere già nel 1913 che “l’Italia è senza dubbio la terra dove si è sviluppato per primo lo spirito capitalistico”12. Le origini. Per quanto riguarda le origini delle grandi dinastie commerciali, il quadro presenta una notevole varietà. La proprietà di qualche terra può costituire talora il punto di partenza. In altri casi esso e rappresentato dalla pratica nell’artigianato. In altri casi ancora è da individuare nel piccolo commercio. Se la base di partenza è diversa nei diversi casi, tante analogie presenta invece la vicenda successiva. Sono i profitti commerciali realizzati che alimentano piú ampi investimenti, i quali a loro volta consentono nuovi profitti, e cosí via. Il capitale si forma all’interno stesso dell’attività mercantile e alimenta una spirale espansiva. Solo in parte proviene da fuori dell’attività commerciale vera e propria. La terra. Qual è il ruolo della terra nei patrimoni mercantili? Se la proprietà fondiaria non è all’origine delle fortune, qual è la funzione che essa svolge nelle successive fasi della vita familiare? Il tema ha ricevuto molta attenzione. Si è parlato di “corse alla terra” di case mercantili sia per il tardo Medioevo che per la prima età moderna. L’acquisto di beni fondiari è un comportamento consueto del mercante. Sin dalle prime fortune commerciali una parte dei profitti trova la via dell’acquisto di terra. Si tratta talora di un orientamento volto a redistribuire la ricchezza in settori diversi e a sottrarre alle incertezze del commercio parte del patrimonio. Talaltra l’investimento in terre vuole essere la base per preparare l’ascesa sociale. Esso può essere, infine, il modo per riconvertire in beni immobili i capitali allorché gli affari attraversano una congiuntura difficile. Ciò sarebbe accaduto nel Quattrocento, quando “la corsa alla terra” si manifestò “con intensità maggiore di ogni altro movimento del genere nei secoli precedenti”13. Una nuova “corsa Al proposito si veda anche U. TUCCI, La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna, Il Mulino, 1981, pp 43-94. 12 W. SOMBART, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano, Longanesi, 1978, p. 105 (I ed. tedesca 1913). 11 R. ROMANO, Il mercante italiano tra Medioevo e Rinascimento, in Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971, p. 97. 13 alla terra” si sarebbe verificata poi nel Seicento, in relazione col declino delle attività commerciali e industriali. Le aspirazioni. Il gruppo di riferimento di ogni famiglia di mercanti che diventa ricca è quello della nobiltà. Un gruppo di riferimento “borghese” non esiste. Ruggiero Romano ha scritto di una sorta di “mimetismo sociale per cui questo mercante cerca – attraverso il tenore di vita in belle case su pacifiche campagne – di assimilarsi ai nobili”14. È stato detto spesso che una famiglia non rimane nella mercatura per piú di due-tre generazioni. Poi diviene nobile, se ci riesce. Altrimenti rimane fra le famiglie medie discretamente agiate. Si tratta di un meccanismo importante nel ricambio sociale del mondo preindustriale. Pirenne ne fece la base di una sua visione della storia europea secondo la quale la crescita economica sarebbe stata sospinta da classi capitalistiche (classes de capitalistes) alternatesi nelle posizioni di testa15. La storia del capitalismo sarebbe cosí ritmata proprio dal dinamismo di famiglie mercantili in successione. È stato detto talora che alla fine del Cinquecento e nel primo Seicento la stagnazione e poi il declino delle attivita commerciali avrebbero interrotto questo ciclo di ricambio. Ciò avrebbe provocato una sorta di “tradimento della borghesia”16. Ugo Tucci ha scritto di “un mutamento degli atteggiamenti morali e dei quadri politici e sociali in senso aristocratico-nobiliare”17. Le famiglie “borghesi” avrebbero assunto caratteri nobiliari mentre sarebbero mancate famiglie nuove di mercanti arricchiti a prendere il loro posto. In realtà il tradimento della borghesia è un fenomeno costante di ogni famiglia di mercanti. Quel che accade alla fine del Cinquecento è l’interruzione, per ragioni economiche, dell’ascesa di famiglie nuove. Un esempio può essere quello di Lucca cosí come appare proprio dalle pagine di Berengo. Gradualmente il mercante è scomparso dal proscenio. Quando ancora compare in studi recenti esso non costituisce il centro dell’attenzione, fra gli artefici della vita economica. Rappresenta solo uno degli elementi in gioco. Si pensi, ad esempio, alla corrente di studi, dalla metà degli anni Settanta, sulla protoindustria. Uno dei tempi da approfondire, a quanto era stato indicato sin dai primi contributi, avrebbe dovuto essere quello del mercante, dell’organizzatore di quel sistema dell’industria a domicilio rurale, che era al Ivi, p. 98. H. PIRENNE, Les périodes de l’histoire sociale du capitalisme, Bruxelles, Librairie du “peuple”, 1922. 16 Ne parlò già, come è ben noto, F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, II, pp. 770 ss. 17 U. TUCCI, La psicologia, cit., p. 55. 14 15 centro dell’interesse. Ma proprio il mercante è rimasto nell’ombra e le nostre conoscenze al proposito si sono arricchite di poco. Quali sono gli orientamenti della ricerca nel campo della storia economico-sociale che hanno contribuito ad emarginare il tema del mercante? Circa il peso reale dei commerci nella vita economica alcuni dubbi avevano presentato già storici delle passate generazioni, come Gino Luzzatto e Ives Renouard; piú tardi anche Braudel. Di fronte alla tendenza a ingigantire i traffici, le navi, le case di commercio, le banche, i capitalismi, già essi si erano interrogati sul rilievo reale, nella vita economica complessiva, di queste attività. La risposta era stata che queste attività erano in fin dei conti assai meno significative di quanto non si sarebbe indotti a ritenere sulla base dei tanti studi dedicati ad esse18. È quanto verificò Luzzatto a proposito dei traffici navali veneziani19. Se questo è vero, poteva diventare legittimo allora rivolgere l’attenzione a settori economici più significativi come l’agricoltura. Cominciava ad apparire paradossale la concentrazione di energie e capacità in campi di ricerca come quello della mercatura mentre tanto poco si sapeva del mondo agricolo. E inoltre: indagando il dinamismo di un settore minoritario come quello della mercatura e trascurando gli aspetti piú tradizionali, ma ben piú importanti in termini di quantità, non si finiva per dare dell’economia medievale un’immagine troppo moderna e lontana dalla realtà delle cose? Un tempo, nel campo della teoria economica, veniva attribuita notevole importanza all’investimento di capitale. Si riteneva che fosse proprio l’incremento nella formazione del capitale a determinare la crescita del prodotto. Anche l’industrializzazione veniva considerata come un processo a catena innescato dall’aumento degli investimenti. Questo clima esercitò la sua influenza anche sugli storici che si occupavano del mondo preindustriale. Se dunque era l’investimento a determinare la crescita economica, da chi potevano provenire gli investimenti? Quasi mai dai gruppi sociali interiori, costretti a spendere tutto il loro reddito per far fronte alle proprie necessità; non certo dai nobili, interessati piú alla spesa che all’impiego produttivo delle loro risorse. Rimanevano i gruppi sociali intermedi e in particolare i mercanti, direttamente coinvolti nella attività produttive. Per studiare il capitale si doveva studiare il mercante. Piú di recente, però, la convinzione della centralità del capitale nella vita economica è diventata sempre meno salda nel pensiero economico. Tanti altri aspetti sono sembrati più importanti dell’investimento: Come ha notato piú volte R. ROMANO in Tra due crisi, cit. G. LUZZATTO, La storia economica di Venezia dall’XI al XVI secolo, Venezia, Centro internazionale delle arti e del costume, 1961, passim. 18 19 dalla tecnica all’istruzione agli elementi extra-economici. Anche per questa strada si riduceva per lo storico l’interesse della ricerca sull’investimento mercantile. Se il ruolo del mercante come investitore può non apparire cosí centrale come un tempo nella vita economica, si potrebbe ritenere che rimanga invece rilevante il suo ruolo come innovatore nelle tecniche. Si sa come la tecnica sia venuta acquistando importanza nella teoria economica quale elemento decisivo in ogni processo di crescita. Si può pensare allora che al mercante spetti il ruolo di innovatore nelle tecniche di affari, in quelle bancarie e in quelle industriali. Ma è proprio cosí? Oggi, nella storia delle tecniche, c’è la tendenza a sottolineare piuttosto i piccoli cambiamenti impersonali che i grappoli di innovazioni, come fu fatto sulla scia di Schumpeter. E i cambiamenti impersonali sono l’opera di piccolissimi operatori, che spesso occupano una posizione marginale negli affari e di cui non si ricorda mai neppure il nome. Sembra improbabile che al mercante-imprenditore del Medioevo possa essere attribuito un merito particolare in questo processo dell’innovazione. Forse gli rimane solo quello di essersi trovato in condizioni propizie per cogliere elementi favorevoli in un’atmosfera favorevole. Come del resto quasi sempre accade. Per quanto, infine, concerne il mercante quale anticipatore di una mentalità calcolatrice e razionalista, capitalistica insomma, si può solo ricordare quanto ebbe a scrivere Braudel, e cioè che qualcuno, fra di loro, era razionalista, qualcun altro spendaccione, qualcuno risparmiatore, qualcuno astuto, qualcuno fortunato20. Tutto ciò non vuol dire che non si studino piú o che non si studieranno piú i mercanti. Qualcosa, però, è cambiato. È cambiato lo spirito con cui vengono studiati. Oggi negli archivi dei mercanti si fa ricerca per capire quali e quante merci circolassero nelle economie del passato, per comprendere le strutture dei mercati e le forme di circolazione, per analizzare l’articolazione sociale e i suoi cambiamenti. In questi nuovi interessi di ricerca il mercante compare piú come un mezzo che un fine. Si è visto prima che per lungo tempo il tema del mercante si è collegato con quello della nascita del capitalismo. È interessante notare, in conclusione, che insieme alla scomparsa del mercante dal proscenio della storia economico-sociale si è avuta la scomparsa, anche questa inosservata, del capitalismo. Si tratta di un altro cambiamento di rilievo nel modo con cui si osserva oggi la storia. Questo cambiamento va ben al di là del tema del mercante e richiederebbe ben altra attenzione. 20 F. BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Torino, Einaudi, 1982, II, p. 404. Claudio Donati Nobiltà e coscienza nobiliare nell’Italia del Cinquecento1 Sono molti anni che Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento compare tra i libri che gli studenti possono scegliere per sostenere l’esame del mio corso universitario di “Storia degli antichi stati italiani”. Questa lunga consuetudine con un testo pubblicato un trentennio fa è legata a una ragione che rappresenta forse il migliore elogio che si possa fare a una ricerca di storia: la lettura del libro continua ad appassionare e coinvolgere i nuovi lettori, cosí come chi vi si era avvicinato negli anni Sessanta e Settanta. E quando si cerca di comprendere le ragioni di questo gradimento, emerge una varietà di motivazioni, Si riproduce, con qualche lieve modifica e integrazione, il testo pronunciato a Lucca il 21 ottobre 1995. L’apparato documentario è ridotto al minimo, e intende soprattutto fornire indicazioni precise sui libri e articoli citati o richiamati nel testo, e inoltre segnalare alcuni studi, pubblicati in epoca successiva all’incontro lucchese, i quali si ricollegano per qualche verso agli argomenti trattati (Milano, gennaio 1997). 1 legate alla ricchezza dei contenuti e all’ampiezza dei problemi che nel libro vengono trattati o anche soltanto sfiorati. Cosí accade che qualche studente particolarmente preparato e sensibile riesca a cogliere e a renderci partecipi di significati e motivi del volume, che a noi erano sfuggiti. A tale proposito, voglio richiamare un episodio di alcuni anni fa. Avevo chiesto a una esaminanda quale fosse, a suo parere, il tema principale del libro di Berengo, e lei in risposta aveva richiamato una frase che compare nelle primissime pagine del volume. Rileggiamola insieme: “sono in particolare le piccole repubbliche e i piccoli principati ancora faticosamente sopravvissuti, ma poco attivi sia sul piano diplomatico che su quello militare, a tradire, con straordinaria ricchezza di fatti e di temi, la profonda trasformazione che la società italiana viene attraversando”2. Sollecitata a precisare le caratteristiche di questo processo di trasformazione, con mia grande sorpresa la studentessa aveva cominciato a tracciare una sorta di mappa di “non – trasformazioni”. Né una rivoluzione della struttura economica, né il ribaltamento dei rapporti tra città e contado, né l’adesione a una nuova confessione religiosa, e neppure riforme sostanziali della costituzione politica avevano caratterizzato il Cinquecento italiano; quasi tutti questi ambiti, e altri ancora, avevano attraversato sí, nella prima metà del secolo, tensioni, lacerazioni, fratture, ma nessuno singolarmente preso aveva subito in quel periodo un sovvertimento davvero radicale. Ma allora Berengo aveva avuto torto nell’indicare una profonda trasformazione della società italiana, e si doveva parlare invece di una sostanziale continuità, se non addirittura di immobilismo? No, secondo la studentessa il cambiamento c’era stato; ma lei non riusciva a definirlo con i parametri che le erano evidentemente piú noti, quelli cioè dell’economia, della politica e del diritto. D’improvviso, le venne in mente qualcosa: il clima! Sul momento non capii; poi, grazie alle sue un po’ confuse spiegazioni, mi resi conto di quel che aveva voluto dire. Nobili e mercanti si chiude col commento di Berengo al passo di una lettera di Luis de Requesens a Filippo II del novembre 1567: “come l’ambasciatore spagnolo finemente avvertiva, a mutare era il clima stesso della città; e quel suo ostinato aderire alle forme della vita comunale, che le aveva fatta apparire pericolosa 2 M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi 1965, p. 12. ed estranea all’equilibrio politico italiano, si era attenuato inserendosi, seppur con una tonalità propria, nell’alveo religioso e sociale della Controriforma”3. Il clima, questa metafora apparentemente banale attinta dalla metereologia, appariva come una chiave interpretativa quanto mai felice per cogliere uno dei principali motivi conduttori del libro. Una sorta di bufera aveva scosso l’Europa e il Mediterraneo nel primo Cinquecento, e l’Italia nel suo complesso vi si era trovata coinvolta. Quando la tempesta era passata, il clima appariva mutato: un osservatore avrebbe avuto forse difficoltà a indicare con precisione quanto avessero influito in questa modificazione le variazioni della temperatura, quelle delle precipitazioni, quelle connesse al regime dei venti; ma certo non avrebbe avuto dubbi nell’affermare che il clima non era piú lo stesso di cinquant’anni prima. La parola “clima” ritorna altre volte nel libro di Berengo, ad esempio là dove si parla degli “uomini che per lo spazio di quasi mezzo secolo siamo venuti seguendo in quell’evoluzione che doveva consentir loro di adeguarsi al nuovo clima dell’Italia signorile e spagnola, facendo propria una coscienza nobiliare cui i padri erano stati estranei”4. Ecco dunque precisarsi i connotati di questo nuovo clima, a metà Cinquecento ormai stabilizzatosi, rispetto al vecchio: l’egemonia spagnola di contro alla libertà d’Italia, il prevalere dei principati con la parallela eclissi di tante repubbliche, una diffusa coscienza nobiliare al posto di una mentalità a forte impronta cittadinesca e popolare. A Lucca il primo di questi tre caratteri nuovi ebbe un peso certamente minore rispetto ad altre città e stati regionali italiani, mentre il secondo non la coinvolse affatto (a differenza che a Firenze e a Siena). È invece il terzo carattere nuovo ad attirare l’attenzione di Berengo, che alla coscienza nobiliare dedica un paragrafo del suo libro, che possiamo considerare centrale sia come collocazione, sia per importanza nell’economia complessiva della ricerca. Non è un caso che tale paragrafo si chiuda con una formula icastica che potrebbe far da epigrafe all’intero volume, e che val la pena di richiamare. Scrive dunque Berengo che negli anni Sessanta del Cinquecento “lo Stato era ancora pacifico, e forse non lo era mai stato altrettanto, ma non era piú popolare”: ormai “la distinzione tra nobili e non nobili” era “a Lucca, come in tutta Italia, un fatto compiuto”. La nobiltà poteva esser piú o meno gradita, “ma ormai anche a Lucca esisteva e aveva coscienza di sé”, tanto da far dire nel 1568 al cavaliere di Malta fra’ Paulo Cenami “che non da godere in questa nostra republica, ma da la antichità delle case e da l’esser vissuto continuamente come gentil huomini senza far 3 4 Ibidem, p. 454 (il corsivo è mio). Ibidem, p. 453. arte vile e mechaniche, si doveano conoscere i gentil huomini, e quelli che poteano pigliare l’ordine di cavalleria”5. Appare evidente da queste citazioni l’accento posto da Berengo sulla vastità e sulla pervasività del fenomeno: infatti “il bisogno di definire il concetto di nobiltà e i compiti che ad essa spetta assolvere in un ben ordinato consorzio civile, assume nell’Italia del secondo Cinquecento un forte sapore di attualità. In Italia il dibattito sulla nobiltà non è, ovviamente, un fatto nuovo del pieno e del tardo Cinquecento, ma certamente nuovo è il suo continuo riferimento al problema del potere politico. E il dibattito che ora si accende costituisce per lo piú la giustificazione teorica, ben di rado la condanna, di quel progressivo accentramento del potere in ceti e in gruppi ben circoscritti, e ormai quasi dinasticamente caratterizzati, che si sta verificando in tutta le penisola”6. La penisola, l’Italia nel suo complesso, è dunque al centro di queste pagine: per un momento Lucca e i suoi mercanti restano sullo sfondo, e sul proscenio balzano il letterato veneto-istriano Girolamo Muzio, il gentiluomo ferrarese Annibale Romei, il nobile monferrino Stefano Guazzo, il giurista pavese Giacomo Menochio. Si tratta di poche pagine, che sono state però continuamente richiamate dagli storici del Cinquecento e del Seicento, proprio perché, attraverso appropriate citazioni di testi, Berengo ci restituisce nella sua concretezza un momento cruciale della storia d’Italia. Ma al di là di queste pagine, incentrate sulla trattatistica (e cioè sulla esplicita affermazione e divulgazione di un’ideologia che ha la sua figura chiave nel “gentiluomo”, e non piú nell’ “uomo civile”), Berengo sfiora il tema dell’affermarsi di una coscienza nobiliare nell’Italia del Cinquecento in molte parti della sua trattazione. Come ho detto all’inizio, il volume è troppo ricco, perché possa essere rinchiuso entro i recinti di un unico motivo conduttore: eppure, se proprio volessimo cercare una nota dominante, non sarebbe azzardato rintracciarla proprio nell’idea che nel corso del Cinquecento maturò in Italia (o in gran parte d’Italia) una sorta di “rivoluzione culturale”, attraverso la quale la penisola non si presentò piú come un modello, magari usurato e convenzionale, ma pur sempre presente, di “vita civile”, ma come un esempio, addirittura esportabile, di ideologia nobiliare e di comportamenti consoni al gentiluomo. Una rapida scorsa alle pagine del libro potrà confermare questo punto. Nel primo capitolo, ad esempio, soffermandosi sulle “famiglie maggiormente partecipi alla vita pubblica”, Berengo ricorda che sono “quelle che, ancora semplicemente 5 6 Ibidem, pp. 262-263. Ibidem, p. 252. denominate come cittadine, fra mezzo secolo verranno, e da tutti, dette nobili”7. Poco piú avanti, accennando ai libri di ricordi di famiglie lucchesi giunti sino a noi, egli osserva che essi “non parlano mai di quelle origini mitiche ed eroiche che verso la metà del secolo già tante case italiane cominciano a vantare”8. Nel quarto capitolo sono messi a confronto da un lato l’atteggiamento confuso e smarrito di Pandolfo Cenami di fronte a un maestro dí umanità “tanto litterato e di sí gratiata eloquenza” che lo ha truffato (siamo nel 1511), e dall’altro la fierezza di Giuseppe Bernardini che nel 1565 rivendica la propria familiarità con le lettere e con le scienze “convenienti a gentil uomo nato in città libera”. Ma a quali lettere e quali scienze allude il Bernardini? “Il sapere parlare di fortificazione”, ritenuta “cosa molto conveniente alla professione sua acciocché, quando si fosse trovato in luogo che se ne trattasse, potesse dire l’opinione sua con qualche fondamento”. È trascorso mezzo secolo: ora “il mercante si è fatto nobile. ( ... ) Le leggi della repubblica lucchese non sono, sulla carta, mutate che di poco; ma la sua classe dirigente si è internamente trasformata, si è inserita nella lenta ma ben definita evoluzione che tutta la società italiana viene attraversando”9. Ho voluto largheggiare nelle citazioni letterali di Nobili e mercanti non solo per la soddisfazione che il lettore ricava da un linguaggio limpido e preciso e da un periodare che, senza perdersi in circonvoluzioni e in acrobazie dialettiche, punta all’essenziale; ma soprattutto perché mi premeva che fosse ben chiaro, attraverso le parole stesse dell’autore, che cosa significasse per il Berengo del libro su Lucca l’affermarsi di una coscienza nobiliare nell’Italia del Cinquecento. Una volta messo in luce questo punto, vorrei affrontare due questioni. In primo luogo, è il caso di domandarsi se, nei trent’anni successivi alla pubblicazione del libro su Lucca, Berengo si sia mantenuto fedele all’interpretazione originaria, o l’abbia in parte modificata, e in quale direzione. In secondo luogo, sarebbe importante verificare quanto e come le tesi di Berengo, e piú in particolare l’uso delle fonti da lui fatto per sostenerne la validità, abbiano influenzato le successive ricerche di storia italiana della prima età moderna. Per quanto riguarda il primo punto, mi limiterò ad alcune brevi e non sistematiche osservazioni. Innanzitutto, credo che si possa dire che il tema dell’ “aristocratizzazione” della società italiana nel secondo Cinquecento, se è rimasto ben presente negli scritti di Berengo, ha perduto quella centralità che aveva avuto negli anni Sessanta, non solo nel libro su Lucca, ma anche nella rassegna dedicata al Cinquecento e composta in occasione Ibidem, p. 32. Ibidem, p. 34. 9 Ibidem, pp. 267-270. 7 8 del primo convegno di scienze storiche di Perugia del 196710, e pure (in certa misura) nella relazione su nobiltà e amministrazione nell’Italia del Rinascimento, scritta insieme a Furio Diaz e presentata nel 1970 al XIII congresso internazionale di scienze storiche di Mosca11. Già nel saggio su La città di antico regime, pubblicato nel 1974, le città italiane e le loro classi dominanti appaiono come attori di una rappresentazione piú vasta, che abbraccia tutta l’Europa urbana, da Valladolid a Colonia, da Metz a Berna, da Gand a Lubecca, da Riga a Spalato, e non si limita al secolo XVI, ma comprende insieme (direbbero gli storici tedeschi, sempre piú familiari a Berengo) lo Spätmittelalter e la frühmoderne Zeit12. Però, anche in questo panorama cosí ampliato, i patriziati italiani cinquecenteschi conservano la loro peculiarità, in una direzione che ci richiama ancora le linee di fondo del libro su Lucca: “fu solo nell’Italia centro-settentrionale, non in Germania, non in Fiandra, non in Castiglia che il patriziato, emerso dalla fioritura comunale, seppe proporsi ed imporsi [nel secondo Cinquecento] come unica possibile classe dirigente e assorbire, senza scorie e strascico di ricordi, la vecchia nobiltà; e seppe perpetuare il suo dominio per tutta l’età dell’antico regime, sin sulla soglia dello scorso secolo”13. Un anno dopo, nel 1975, apparve sulle pagine della “Rivista storica italiana” un articolo14, che prendeva le mosse da un volume di Giorgio Borelli sui patrimoni di una trentina di famiglie nobili di Verona tra XVII e XVIII secolo15, per sviluppare alcune considerazioni, su cui Berengo tornerà a piú riprese (ad esempio, nel 1981 in un finissimo intervento dedicato a Foscolo e il mito del patriziato16, e da ultimo nel 1994 nella raccolta di scritti in onore di Pasquale Villani con una nota intitolata Ancora a proposito di patriziato e nobiltà17). Quel che Berengo proponeva, era di introdurre nella storia dell’Italia M. BERENGO, Il Cinquecento, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni. Atti del I Congresso nazionale di scienze storiche (Perugia, 9-13 ottobre 1967), Milano, Marzorati 1970, volume I, pp. 485-501. 11 M. BERENGO-F. DIAZ, Noblesse et administration dans l’Italie de la Renaissance. La formation de la bureaucratie moderne, in: XIIIe Congrès International des Sciences Historiques (Moscou, 16-23 Août 1970), Mockba, Nauka 1970, pp. 151-163. 12 M. BERENGO, La città di antico regime, in “Quaderni Storici”, IX, 1974, pp. 661-692. 13 Ibidem, p. 670. 14 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in “Rivista storica italiana”, LXXXVII (1975), pp. 493-517. 15 G. BORELLI, Un patriziato della Terraferma veneta tra XVII e XVIII secolo. Ricerche sulla nobiltà veronese, Milano, Giuffrè 1974. 16 In: Lezioni su Foscolo, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 11-20. 17 In: P. MACRY e A. MASSAFRA (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna, Il Mulino 1994, pp. 517-528. 10 moderna la distinzione tra patriziato e nobiltà, ben nota agli storici delle Fiandre, della Germania e della Svizzera18. Val la pena di riportare la piú recente formulazione di tale proposta: “sia per l’Italia comunale e signorile, sia per quella della prima età moderna, credo che occorra usare una tendenziale distinzione tra le famiglie che mantengono il loro prevalente centro di insediamento in quella città in cui esercitano cariche pubbliche, e lo fanno in modo non occasionale ma o preferenziale rispetto gli altri cittadini o addirittura ereditario; e quelle che invece, anche se posseggono un palazzo urbano, esercitano una giurisdizione di tipo feudale in quel contado, e riconoscono lí, nelle terre in cui sovente portano il titolo gentilizio nel cognome, il centro della loro attività e del loro prestigio. Chiamare patrizie le prime, nobili le seconde, è un uso che è rimasto estraneo al contemporanei; ma che a noi può riuscire utile”19. Effettivamente questa dicotomia pare ben descrivere la situazione di molte, anche se non di tutte le realtà urbane dell’area italiana. Berengo ricorda le famiglie gentilizie delle città pugliesi, studiate da Angelantonio Spagnoletti, “circondate alle loro spalle e compresse nel loro retroterra da forze profondamente diverse, quelle baronali”20, e l’espansione quantitativa e geografica dei grandi e piccoli patriziati della Marca pontificia di fronte al contemporaneo e massiccio regresso della “declinazione feudale”, tema al centro dell’attività di ricerca del compianto Bandino Giacomo Zenobi21. Aggiungerci, tra i tanti altri esempi che si potrebbero fare, uno di quelli che meglio conosco, quello della città di Trento, dove nel Settecento risultava ben chiara la distinzione tra un patriziato legato alla magistratura consolare urbana ma presente con una sempre piú significativa rappresentanza nel capitolo della cattedrale, e una nobiltà feudale trentino-tirolese che in 18 Forse si possono rintracciare i primi segni, sia pur impliciti, di questa proposta nella parte conclusiva del saggio Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto, in Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti (“Medioevo e Umanesimo, nn. 17-18), Padova, Antenore 1974, pp. 27-65. 19 M. BERENGO, Ancora a proposito di patriziato, cit., p. 524. 20 Il richiamo, non esplicitato, è forse al lavoro di A. SPAGNOLETTI, “L’incostanza delle umane cose”. Il patriziato di Terra di Bari tra egemonia e crisi (XVI-XVIII secolo), Bari, Edizioni dal Sud 1981, o piú probabilmente al successivo saggio dello stesso autore, Il patriziato barese nei secoli XVI e XVII. La costruzione di una difficile egemonia, in: M.A. VISCEGLIA (a cura di), Signori., patrizi, cavalieri in Italia centro-meridionale nell’Età moderna, Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 108-121, dove l’argomento è ripreso in un’ottica meno unilaterale. 21 Berengo cita il saggio di B.G. ZENOBI, Feudalità e patriziati cittadini nel governo della “periferia” pontificia del Cinque-Seicento, in: M.A. VISCEGLIA (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri, cit., pp. 94-107. Di Zenobi si veda anche: Tarda feudalità e reclutamento delle élites nello Stato pontificio, Urbino, Università degli Studi 1983. quello stesso capitolo deteneva la maggioranza dei seggi, possedeva una residenza in città, ma non entrava nelle magistrature civiche22. Questo tema delle dicotomia patriziato-nobiltà è senz’altro di grande suggestione, ma a mio avviso appare un po’ lontano da quello che era il leit motiv del libro su Lucca, cioè l’“aristocratizzazione” della società italiana nel Cinquecento e l’affermarsi di una coscienza nobiliare. Posso sbagliarmi, ma credo che il concetto stesso di “aristocratizzazione” sia stato da Berengo usato per l’ultima volta proprio nell’articolo del 1975, e subito accantonato con una motivazione garbata nella forma, ma severa nella sostanza: “accade sovente che nel constatare la chiusura di classe dei gruppi dirigenti, e il monopolio ereditario del potere che essi si vengono assicurando nelle città e nei contadi, si provi un senso di astrattezza”; di qui, la necessità di abbandonare questo tema “astratto” per dedicarsi invece allo studio “concreto” delle “famiglie nobili, le loro tradizioni, la loro cultura, il loro patrimonio, e infine la natura stessa del loro peso nella vita pubblica”23. Noterò, per inciso, che un simile suggerimento cadeva su un terreno ben predisposto ad accoglierlo: gli archivi delle famiglie nobili, fino agli anni Sessanta utilizzati prevalentemente da nobiluomini che si dilettavano di araldica e di genealogia (anche se con qualche significativa eccezione: si pensi a John Stuart Woolf24), cominciavano a diventare, e sempre piú lo sarebbero diventati in seguito, una delle fonti privilegiate dal ricercatori di storia dell’età moderna25. Ma per riprendere il filo del discorso, risulta a mio avviso evidente il progressivo distacco di Berengo dal concetto di “aristocratizzazione” come chiave interpretativa della storia della società italiana cinquecentesca. Forse in tale distacco era presente la volontà di prendere C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea 1975, in particolare pp. 264-285. 23 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà, cit. 24 S.J. WOOLF, Studi sulla nobiltà piemontese nell’epoca dell’assolutismo, in “Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, serie IV, 1963, pp. 1-243. 25 Dei numerosissimi studi recenti dedicati a casate nobili italiane, che hanno fatto ricorso prevalentemente ad archivi familiari, ne ricorderemo tre relativi all’area veneta, rappresentativi di altrettante impostazioni di ricerca: G. GULLINO, I Pisani del Banco e Moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea 1984; R. DEROSAS, I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinque all’Ottocento, in: G. BUSETTO-M. GAMBIER (a cura di), I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia 1987, pp. 43-60; A. MENNITI IPPOLITO, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 1996. 22 le distanze da antiche e nuove interpretazioni storiografiche, incentrate sul concetto di “decadenza”, quella plurisecolare decadenza italiana che sarebbe iniziata proprio in coincidenza e a causa del processo di “aristocratizzazione”26. Non saprei dire se col trascorrere degli anni sia mutata in Berengo la stessa valutazione complessiva del Cinquecento come secolo di “frattura irreversibile nella storia italiana”27; certo è che questo tema non è stato piú affrontato direttamente da lui28. Se vogliamo passare ora alla seconda questione che mi sono proposto di affrontare, appare indubitabile che tanto il libro su Lucca, quanto (sia pure in misura diversa) i successivi interventi su città e patriziati, hanno alimentato una ricca messe di studi, che ispirandosi piú o meno esplicitamente alla lezione di Berengo, si sono occupati dei problemi legati allo sviluppo e al consolidamento di una coscienza nobiliare nell’Italia della prima età moderna. Di qui in avanti vorrei appunto soffermarmi su alcuni di tali studi, senza con questo pretendere di tracciare un rendiconto esauriente, sia a causa della davvero imponente bibliografia che in questi trent’anni si è accumulata29, sia perché, avendo scritto anch’io qualcosa sull’argomento, finirei fatalmente per parlare di lavori miei: il che non sta bene, né varrebbe richiamare come giustificazione la circostanza che il genere letterario dell’autorecensione ha alle spalle una lunga e talora illustre consuetudine. Non ci si aspetti dunque un vero e proprio bilancio degli studi, ma piuttosto una rassegna rapsodica, che, partendo dalle fonti che Berengo ha usato o alle quali ha fatto cenno nel suo libro, si proponga di sviluppare qualche considerazione sui modi in cui il tema della coscienza nobiliare è stato trattato negli studi storici degli ultimi anni. Cominciamo dalla trattatistica, che Berengo tra i primi (insieme ad Angelo Ventura)30 ha utilizzato largamente in uno studio di storia sociale e istituzionale. Questo tipo di fonte Si ricordino, ad esempio, i molti interventi di RUGGIERO ROMANO, in particolare quelli raccolti nel volume Tra due crisi. L’ltalia del Rinascimento, Torino, Einaudi 1971; e si veda ora Paese Italia. Venti secoli di identità, Roma, Donzelli 1994, in particolare pp. 73-91. 27 L’espressione si trova in un saggio di ELENA FASANO GUARINI, che se ne è servita in senso polemico, per respingerne la validità euristica: Gli Stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattro e Cinquecento: continuità e trasformazioni, in “Società e Storia”, XXI, 1983, pp. 617-639 (la citazione è a p. 630). 28 Il tema, al centro di molte ricerche degli anni Settanta (tra le piú originali e importanti ricordo quella di G. POLITI, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, Milano, SugarCo 1976), è stato ripreso da C. VIVANTI, La crisi del Cinquecento: una svolta nella storia d’Italia?, in “Studi Storici”, XXX, 1989, pp. 5-23. 29 Basti dire che, per il solo periodo 1988-1994, ho schedato non meno di 150 titoli di contributi relativi a nobiltà, patriziati, aristocrazie, oligarchie di città (e quasi-città), province, stati italiani tra Quattrocento e primo Ottocento. Dati i criteri artigianali con cui la schedatura è stata condotta, è del tutto ragionevole ritenere che la cifra suddetta sia di gran lunga inferiore ai titoli effettivamente pubblicati nel periodo preso in esame. 30 A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento, Milano, Unicopli 1993 (prima edizione: Bari, Laterza 1964), pp. 189-251. 26 letteraria ha conosciuto una straordinaria fortuna presso la storiografia dell’ultimo ventennio, soprattutto (anche se non esclusivamente) per merito di quegli studiosi che, raccolti intorno al centro di studi “Europa delle corti”, hanno dedicato alla trattatistica, con speciale attenzione a quella cinquecentesca, convegni, pubblicazioni monografiche, censimenti bibliografici, riedizioni di testi31. Grazie a queste iniziative Il libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, ma anche La civil conversazione di Stefano Guazzo (uno degli autori ricordati da Berengo), sono diventati veri e propri livres de chevet, da leggere non tanto come espressione di un momento e di un ambiente storico determinato, quanto come autentici “codici” dell’antico regime in Italia e in tutta Europa: un antico regime dai confini cronologici indistinti, per certi versi tramontato (non senza il rimpianto di molti degli studiosi coinvolti) tra Sette e Ottocento, per altri aspetti considerato ancor vivo e vegeto tra noi e dentro di noi. È comprensibile come una tale impostazione, per quanto sorretta da una straordinaria conoscenza dei testi e da uno stile espositivo di inimitabile raffinatezza (penso, per citare un solo, ma davvero prestigioso nome, alle ricerche di Amedeo Quondam), resti tuttavia estranea alle questioni che aveva posto Berengo nella sua trattazione del dibattito cinquecentesco sulla nobiltà in Italia; anche perché lo sguardo risulta concentrato quasi esclusivamente, talvolta ossessivamente, su un’unica realtà, cioè la corte del principe, considerata come il laboratorio politico per eccellenza dell’antico regime, al punto che cortigiano e nobile, cosí come corte e potere, finiscono per costituire un’endiadi pressoché inscindibile32. Espressione di una tale 31 La collana “Biblioteca del Cinquecento” dell’editore Bulzoni di Roma, che pubblica i lavori di “Europa delle Corti”, è arrivata nel 1994 a 62 titoli. Ci limiteremo a ricordare, tra i piú recenti: C. MOZZARELLI (a cura di), “Famiglia del Principe e famiglia aristocratica, volumi due (1988); G. PATRIZI (a cura di), Stefano Guazzo e la civil conversazione (1990); M. FANTONI, La corte del granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento (1994). Non tutti i volumi della collana, a dire il vero, sono orientatí in un’ottica “cortigiana”: se ne distacca, ad esempio, quello di C. DI FILIPPO BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento (1988) che, attraverso l’approfondito studio dell’attività di quattordici intellettuali operanti nel mondo delle stamperie veneziane fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo, ha potuto trarre alcune conclusioni generali “sulle modificazioni rilevabili nell’ambito della trattatistica veneziana nel lungo periodo” (p. 7). 32 Questa idea, presente in tanti, notissimi e brillanti interventi di Cesare Mozzarelli, ha trovato da ultimo una espressione tipica della nostra epoca attuale (anche per il linguaggio adottato) nella premessa a una raccolta di saggi incentrati sulla corte medicea: “l’esame di argomenti a prima vista eterogenei scaturisce da una precisa scelta di target: scandagliare il ruolo ed il significato di un selezionato corpus di fenomeni che caratterizzano un modo complesso di esercitare (e non tanto di rappresentare) la sovranità. Dal clientelismo alle naumachie, dalla foggia delle livree al protocollo delle udienze, dall’assetto spaziale al funzionamento degli uffici: il fattore unificante dell’apparentemente ingovernabile molteplicità è cioè la forma cortigiana del potere” (FANTONI, La corte del granduca, cit., pp. 11-12). E si veda ora, in una prospettiva per molti versi analoga, anche se maggiormente sensibile al tema delle trasformazioni dello spazio urbano in rapporto alla dinamica politica della prima età moderna, la monografia di S. MANTINI, Lo spazio sacro della Firenze medicea. Trasformazioni urbane e cerimoniali pubblici tra Quattrocento e Cinquecento, Firenze, Loggia dÈ Lanzi,1995. tendenza degli studi, forse non direttamente legata alle attività di “Europa delle corti”, ma certo ispirata alla lezione di quel centro di studi, è la monografia che Stefano Prandi ha dedicato ai Discorsi di Annibale Romei, un altro trattato ricordato da Berengo nel paragrafo sulla coscienza nobiliare. Prandi ha inteso “far emergere dal testo soprattutto la sua incidenza sugli equilibri teoretico-ideologici della trattatistica rinascimentale, particolarmente in rapporto al tipo paradigmatico di tale tradizione, Il libro del cortegiano; è quindi “sulla possibilità di letture trasversali che questo studio tenta di costruire la propria validità”33. Secondo Prandi, l’opera del Romei va letta secondo un “criterio sovrastorico e idealizzante” e la sua elaborazione non può considerarsi legata “ad eventi storici particolari, ma soltanto a motivazioni filologiche”34. In un successivo paragrafo, però, viene un poco attenuata la rigidezza di queste asserzioni iniziali, e riconosciuta la necessità di “inalveare le articolazioni teoretiche verso precise coordinate storiche”35. Due esempi, che lo stesso autore richiama, mostrano quanto questo “inalveamento” possa giovare alla miglior comprensione del trattato tardo-cinquecentesco da lui esaminato, e ad illuminare al tempo stesso le coordinate della discussione sulla nobiltà in quel periodo. Ecco, ad esempio, la disputa sulla superiorità delle armi e delle lettere, che, nel libro del Romei, vede su posizioni contrapposte Giulio Cesare Brancaccio e Francesco Patrizi: è uno scontro (osserva Prandi) “privo di qualsiasi elemento di mediazione e testimonia la grande tensione tardorinascimentale attorno a tali temi, che si manifesta con accresciuta evidenza nello Stato di Alfonso II”. Quando il Brancaccio proclamava che duchi, re e imperatori “cavalieri e non mai dottori si appellano, e nelle giostre armati, nÈ tornei e in mezzo le battaglie ancora tra guerrieri compariscono, né mai fra circoli di giureconsulti o d’altri letterati a disputar s’apprestano”36, chi avrebbe potuto dargli torto? Ma dargli ragione avrebbe significato riconoscere ciò che la maggioranza dei trattattisti italiani della fine del Cinquecento, ferraresi compresi, si rifiutava di riconoscere, cioè che non esisteva altra nobiltà all’infuori della milizia cavalleresco-feudale. Questo è un nodo essenziale della discussione sulla nobiltà e in quel periodo, e non solo in Italia: basti pensare alla Francia nell’epoca delle guerre di religione37. E dunque, almeno per questo aspetto, il testo del Romei ci appare tutt’altro che svincolato dalla realtà storica del tempo, e le conversazioni che vi sono rappresentate tutt’altro che convenzionali. A questo proposito, nel libro di Prandi c’è un altro 33 S. PRANDI, Il “Cortegiano” ferrarese. I “Discorsi” di Annibale Romei e la cultura nobiliare nel Cinquecento, Firenze, Olschki 1990, pp. 5-6. 34 Ibidem, pp. 70-72. 35 Ibidem, p. 186. 36 Ibidem, pp. 203-209. 37 Si veda, ad esempio, il bel libro di G. HUPPERT, La bourgeois gentilshommes, Chicago-London, The University of Chicago Press 1977 (trad. it.: Bologna, Il Mulino 1978). punto che merita di essere ricordato. L’autore segnala l’esistenza, nella biblioteca comunale di Ferrara, di una Apologia composta dal Romei contro certi ch’havevano detto ch’egli, nel suo discurso della nobiltà, aveva intaccato li serenissimi di Firenze. Il riferimento era a un passo della prima edizione veneziana del 1585 (significativamente soppresso nella seconda e piú diffusa edizione del 1586), in cui uno degli interlocutori dei Discorsi aveva fatto, pur senza nominarlo, una chiara allusione al granduca di Toscana, confrontando “quelle famiglie, che sono in principato per le centinaia d’anni, anzi per tempo immemorabile”, come gli Estensi, con “quelle che nel loro principato sono nuove, ( ... ) et che anchor nella memoria delli huomini vive la loro privata conditione. Perché, se ad una certa occulta virtú che nel seme dÈ nobili si presume gli honori si hanno da distribuire, quanto maggior virtú si ha da presumere in un antichissimo sangue, del quale sia discesa una numerosissima e non mai interrotta serie di principi per heroica virtú gloriosissimi, che in un sangue cittadinesco, i cui antecessori habbiano piú tosto ricevuto splendore dalla mercantia e dallo eccesso delle private ricchezze che da segnalata virtú o da principato?”. Ma ce n’era ancora per i signori di Firenze: “quelli i cui maggiori dalli istessi popoli sono stati eletti e chiamati al principato, e che i titoli con virtú e valore si hanno procacciato, di gran lunga debbono precedere a quelli che, trahendo origine dalla tirannide, tuttavia possiedono un violento principato, e che i gran titoli piú tosto con danari che con virtú s’hanno mercato”38. Come si può notare, il linguaggio e le argomentazioni della trattatistica nobiliare venivano qui usate per svalutare le origini di un principato, “nuovo”, “tirannico”, “dai compri onori”, e per di piú “di origini mercantili e cittadinesche”. Ben poco rarefatta e criptica, dunque, appare l’atmosfera che si respira in questi testi a stampa, come giustamente hanno rilevato quegli studiosi che, meno vincolati ai codici paradigmatici della letteratura sulla corte, si sono imbattuti, nelle loro ricerche, in qualche trattato cinquecentesco. Uno dei primi a collegare magistralmente, sulla scia dei libri di Berengo e Ventura, la trattatistica sulla nobiltà e il problema del potere politico nel pieno e tardo Cinquecento, è stato Gigi Corazzol in un saggio dedicato a un fallito tentativo di riforma del Consiglio di Feltre, promosso tra il 1558 e il 1567 da un gruppo di nobili “protestanti de iure sanguinis”, i quali intendevano “costringere la maggioranza dei consiglieri ad accogliere il principio che il sangue doveva conferire automaticamente il diritto al godimento dei pieni poteri politici”. Le loro tesi (nota Corazzol) ricalcavano quelle espresse nei Dialoghi dell’onore attribuiti a Giambattista Possevino, che contarono 38 S. PRANDI, Il “Cortegiano” ferrarese, cit., p. 19. ben cinque edizioni tra il 1553 e il 1564; cosí come la posizione della maggioranza del Consiglio, che trovò una articolata esposizione nel discorso pronunciato nel 1567 da Bonifacio Pasole, consigliere di recentissima nobiltà, “si poneva in una linea di pensiero per molti aspetti vicina a quella che di lí a qualche anno avrebbe seguito Girolamo Muzio nel suo Gentiluomo, cioè la necessità di affiancare al sangue la virtú personale, “il che in concreto voleva dire che il gruppo dirigente cittadino intendeva tener fermo il diritto di operare una selezione all’interno del ceto privilegiato”39. Un altro bell’esempio dei nessi fra trattatistica e vita quotidiana della nobiltà si incontra nel libro che Anna Pizzati ha dedicato a Conegliano e al suo territorio nel XVI secolo. L’autrice riporta una supplica presentata al doge nel 1564 da un abitante di quel centro quasi-urbano, Daniele Collalto, “per essermi successo il maggior tradimento, sforzo et violentia in cassa mia”, vale a dire lo stupro e il rapimento dell’unica figlia Caterina, di 15 anni, da parte di Alessandro Montalban, uno dei “primi del locho”, ricco di “parentadi, dependentie, ricchezze et favori”, il quale già in altre circostanze aveva dato prova di tracotanza e sfrontatezza. Ma chi era questo non commendevole personaggio? La Pizzati lo identifica con uno degli interlocutori di un dialogo sulla nobiltà pubblicato la prima volta nel 1548, e sottolinea la congruità del suo comportamento violento con le idee sostenute nel dialogo40. È proprio Alessandro quello che difende Caino “signore e nobile fatto da Dio” a cui Abele “meno nobile” doveva ubbidire, “il che se fatto avesse, non sarebbe stato forse da Cain ucciso”41. Ed è ancora Alessandro a sostenere che la nobiltà dei natali può riscattare da qualunque malefatta, e arriva a dire che “se si ritroveranno nobili che siano dagli huomini reputati rei, forse non saranno eglino così da Dio ritenuti”; insomma, era possibile, e anzi probabile, che le violenze commesse dai nobili rientrassero in un superiore disegno divino. Questa teoria, dunque, era messa in bocca, in un dialogo a stampa pubblicato nel 1548, a un feudatario friulano che di lí a un quindicennio sarebbe stato incolpato proprio di un atto di violenza: ce n’è abbastanza, crediamo, per non ritenere astratti, convenzionali e meramente letterari i contenuti di tanta trattatistica cinquecentesca. Rimaniamo nell’area veneta. 39 G. CORAZZOL, Una fallita riforma del Consiglio di Feltre nel ‘500, “Rivista Bellunese”, n.6, 1975, pp. 287-299 (le citazioni alle pp. 292-293). L’autore ha ripreso questi temi anche in successive ricerche: si veda soprattutto G. CORAZZOL-L. CORRA’, Esperimenti d’amore. Fatti di giovani nella Feltre del Cinquecento, Feltre, Libreria Pilotto 1981, in particolare pp. 166-176. 40 A. PIZZATI, Conegliano. Una “quasi città” e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche / Canova Editrice 1994, pp. 83-86. L’opera, in cui Alessandro compariva come interlocutore, era Il nobile. Ragionamenti di nobiltà partiti in cinque libri, Firenze Torrentino 1548, di cui compariva autore Marco della Fratta e Montalbano, fratello dello stesso Alessandro. Per un inquadramento di questo testo mi permetto di rinviare al mio libro L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza 1988, pp. 69-78, 87-90. 41 Su questo tema (da me sfiorato ne L’idea di nobiltà, cit., pp. 19, 69, 72-75, 88-89) si veda ora: R J. QUINONES, The Changes of Cain, Princeton University Press 1992. Claudio Povolo, nell’ultima parte di un saggio dedicato alla “conflittualità nobiliare” nella repubblica di Venezia nel secondo Cinquecento, narra i conflitti tra fazioni rivali che si svolsero a Vicenza nel primo Seicento, e che culminarono nel 1619 in uno scontro armato tra le schiere del conte Onorio Capra e quelle dei fratelli Manfredo e Gabriele da Porto42. Le vicende di questa lunga “faida” (come la definisce Povolo) ebbero un riflesso interessante sul piano della produzione editoriale: nel 1598 uscí infatti il Trattato delle offese e del modo di far paci di Paolo Antonio Valmarana, e nel 1619 (cioè proprio “nel momento in cui la faida si era riaccesa in maniera distruttiva”) il Modo del far pace in via cavalleresca e christiana per sodisfattion di parole nelle ingiurie fra privati di Giulio Cesare Valmarana. I nomi degli autori e i titoli erano simili, ma i due trattatelli avevano impostazione molto diversa: mentre Paolo Antonio, fedele alla tradizione della scienza cavalleresca, sosteneva che le offese dovevano trovar riparazione grazie all’opera di arbitri scelti dai contendenti senza ricorrere alla giustizia dei tribunali, Giulio Cesare (che dedicava significativamente il suo scritto al doge veneziano) affermava che la vendetta “in questo secolo s’aspetta direttamente al Magistrato, nel venturo solo a Dio”43. Ancora una volta, dunque, la trattatistica da un lato ci si presenta strettamente legata a vicende contingenti e concrete, e dall’altro lato ci aiuta, magari in concorso con le fonti d’archivio, a gettar luce su evoluzioni politiche e culturali di grande importanza storica. Tra queste un posto di rilievo merita certamente il tema del rapporto tra ideologia nobiliare e Controriforma cattolica, delineato quasi vent’anni fa da Paolo Prodi44, e successivamente ripreso in alcuni studi (non molti, a dire il vero), che hanno fatto largo ricorso alla trattatistica coeva45. Proprio alla trattatistica cinque-seicentesca intorno alla corte cardinalizia ha dedicato un’ampia ricerca Gigliola Fragnito, la quale è giunta alla conclusione che la presenza nobiliare “non sembra essere riuscita ad imporre in maniera 42 C. POVOLO, La conflittualità nobiliare in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della Repubblica di Venezia: alcune ipotesi e possibili interpretazioni, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali, Lettere e Arti”, CLI, 1992-1993, pp. 89-139. 43 Ibidem, pp. 135-139. 44 P. PRODI, Istituzioni ecclesiastiche e mondo nobiliare, in: C. MOZZARELLI-P. SCHIERA (a cura di), Patriziati e aristocrazie nobiliari. Ceti dominanti e organizzazione del potere nell’Italia centro-settentrionale dal XVI al XVIII secolo. Atti del seminario tenuto a Trento il 9-10 dicembre 1977, presso l’Istituto Storico italo-germanico, Trento, Libera Università degli Studi 1978, pp. 64-77. 45 Non proprio dalla trattatistica, ma da una fonte per molti versi affine come l’autobiografia, prende le mosse il saggio comparativo di M. ROSA, Nobiltà e carriera nelle “Memorie” di due cardinali della Controriforma: Scipione Gonzaga e Guido Bentivoglio, in: VISCEGLIA (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri, cit., pp. 231-255. E si ricordi pure la ricostruzione di un “genere letterario-trattatistico tipico dell’antico regime”, che Daniela Frigo, richiamandosi espressamente a un famoso saggio di Otto Brunner (ma citando pure le considerazioni di Berengo sul palazzo avito come “centro materiale della vita domestica”), ha svolto nel volume Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’ “economica” tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni 1985. incisiva i suoi valori e la sua cultura dell’onore nelle corti dei cardinali”, in quanto “la letteratura sul cardinale e la sua corte continuerà a rispecchiare una situazione assai piú articolata socialmente”46. Però l’autrice segnala, sia pure come voce isolata, la Pratica cortigiana morale et economica (1604) del recanatese (ma legato all’ambiente ferrarese) Sigismondo Sigismondi, che era familiare del cardinale Pietro Aldobrandini: in questo testo si prescriveva che i ministri maggiori del cardinale fossero scelti tra “huomini molto virtuosi, nobili e ricchi”47. Si trattava di una miscela difficile a realizzarsi concretamente, soprattutto a causa della “mutazioni legate all’evoluzione della funzione del cardinale”48. Ma gli stretti rapporti del Sigismondi con il nipote del papa regnante inducono a ritenere che, nel primo Seicento, l’aspirazione a una rigida “aristocratizzazione” delle corti cardinalizie fosse ancor viva tra una parte almeno della nobiltà italiana, restia ad accettare un’accentuata “burocratizzazione” dell’apparato ecclesiastico. In ogni caso, il tema risulta di grande interesse e merita di essere sviluppato e approfondito. In conclusione, vorrei ricordare che l’esame della trattatistica in un contesto politico-istituzionale ha avuto un’importanza non piccola nel rinnovamento degli studi sulla nobiltà napoletana. Penso, in particolare, al saggio di Giuliana Vitale su Modelli culturali nobiliari a Napoli tra Quattro e Cinquecento49, ai molti contributi di Giovanni Muto, in particolare quello su I trattati napoletani cinquecenteschi in tema di nobiltà50, ad alcune note filologiche di Simona Pezzica51, agli studi di Maria Antonietta Visceglia, soprattutto quello sulla donna aristocratica a Napoli fra Quattro e Seicento52. Quel che emerge da queste ricerche è la circostanza che Napoli, ancora negli ultimi anni del Cinquecento (e forse oltre), risulta essere “uno dei pochi, forse l’unico centro d’Italia”53, in cui il dibattito 46 G. FRAGNITO, La trattatistica cinque e secentesca sulla corte cardinalizia. Il “vero ritratto d’una bellissima e ben governata corte”, in “Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico”, XVII, 1991, pp. 135-185. Della stessa autrice si veda anche: Cardinal Courts in Sixteenth Century Rome, in “Journal of Modern History”, LXV, 1993, pp. 26-56. 47 G. FRAGNITO, La trattatistica, cit., p. 166-169. 48 Ibidem, p. 176. 49 In “Archivio storico per le province napoletane”, CV, 1987, pp. 27-103. E della stessa autrice: La nobiltà di seggio a Napoli nel basso medioevo: aspetti della dinamica interna, in “Ibidem”, XVI, 1988, pp. 151-169. 50 In: Sapere e/è potere. Discipline, Disputa e Professioni nell’Università Medievale e Moderna. Il caso bolognese a confronto. Volume III: Dalle discipline ai ruoli sociali (a cura di A. De Benedictis), Bologna, Comune di Bologna / Istituto per la Storia di Bologna 1990, pp. 321-343. 51 Tra cui: Note preliminari sul trattato inedito “la vera nobiltà” di Giulio Cortese, in “Quaderni dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale”, n. 5, 1988, pp. 75-95. 52 M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, Guida 1988, pp. 141-174. E della stessa autrice si veda il saggio Un groupe social ambigu. Organisation, stratégies et représentation de la noblesse napolitaine, XVIe-XVIIe siècles, in “Annales E.S.C.”, XLVIII, 1993, pp. 819-851. 53 PEZZICA, Note preliminari, cit., p. 86. sulla nobiltà conservava vivacità di accenti e concreti legami con una dialettica politica tutt’altro che rinchiusa entro le coordinate della “aristocratizzazione”54. Sarebbe tuttavia gravemente riduttivo pensare che lo studio della coscienza nobiliare debba essere condotto attraverso una sola categoria di fonti, e cioè i trattati. Nel suo libro su Lucca, Berengo ne ha indicate molte altre, come i libri di ricordi e le genealogie, i testamenti e in generale le carte notarili, i processi: tutte fonti che sono state utilizzate, a volte con esiti davvero importanti, dagli studiosi che si sono occupati del tema della nobiltà nell’Italia cinquecentesca. Qui mi limiterò, come per la trattatistica, solo ad alcune esemplificazioni. Fino a qualche decennio fa lo studio dei “libri di famiglia” o “ricordanze” o “mernorie” era prevalentemente circoscritto all’area toscana, meglio ancora fiorentina: l’epoca d’oro di questi testi era collocata nei secoli XIV e XV, con un legame stretto e organico al processo di affermazione del mercante come figura sociale. E non a caso tale fonte ha attirato soprattutto l’attenzione degli storici dell’economia fiorentina, da Sapori a Melis a De Roover, o, piú tardi, di storici-antropologi come Christiane Klapisch-Zuber, che se ne è servita per cercare di cogliere il significato della famiglia nel primo Rinascimento fiorentino, cioè essenzialmente nel Quattrocento55. Ma nell’ultimo decennio, probabilmente in seguito all’interesse che storici della letteratura e filologi (come Raul Mordenti, Leonida Pandimiglio, Fulvio Pezzarossa, Gian Mario Anselmi, Luisa Avellini) hanno riservato a questo genere di testi, proponendone una tipologia e sollecitandone un inventario, ci si è resi conto che i libri di famiglia non sono un genere limitato alla Toscana, e tanto meno a Firenze, né scompaiono dopo la metà del Cinquecento, anche se mutano di significato e di destinazione56. In un convegno tenuto a San Marino e a Bologna nel 1993 sono state presentate relazioni su libri e memorie familiari non solo di Firenze e di Lucca, ma anche di Viterbo, di città del Veneto, di Perugia57. Proprio riguardo a quest’ultimo centro A proposito di questo tema è da riprendere in mano e rileggere un altro grande libro pubblicato negli stessi anni di Nobili e mercanti: alludo naturalmente a R. VILLARI, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari, Laterza 1967. 55 C. KLAPISCH-ZUBER, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari, Laterza 1988. 56 Si veda, ad esempio, l’articolo di J. BOUTIER, Les “notizie diverse” di Niccolò Gondi (1652-1720). A propos de la mémoire et des stratégies familiales d’un noble florentin, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps modernes”, XCVIII, 1986, pp. 1097-1151, che si occupa di un quaderno “spettante agli interessi di mia casa, e famiglia, per memoria dÈposteri”, che il Gondi cominciò a stendere dal novembre 1709. Questo documento non si presenta piú, come nei libri di famiglia del Trecento e del Quattrocento, come una compilazione di “care scritture”, bensí come una raccolta di atti ufficiali, soprattutto testamenti, da utilizzare nel caso di liti ereditarie o in occasione della presentazione di prove di nobiltà per l’ammissione agli ordini cavallereschi. 57 La Memoria e la Città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna (a cura di C. Bastia e M. Bolognani; responsabile culturale F. Pezzarossa), Bologna, Il Nove 1995. 54 risultano di grande interesse le pagine sui libri di famiglia, presenti in una recente monografia di Erminia Irace58. Essi sono complessivamente otto, e si collocano tra il 1494 e il 1655; in realtà tutti ospitano annotazioni scritte nella seconda metà del Cinquecento, e ben sei continuarono ad essere aggiornati nella prima metà del Seicento. Se ne deduce perciò che l’epoca di maggior diffusione di questo genere di scritture fu il secolo compreso tra il 1550 e il 1650, che coincise con l’età in cui piú vivo si manifestò a Perugia il dibattito sulla nobiltà; inoltre, lo status degli scriventi corrisponde “all’aristocrazia che affondava le proprie radici nel passato comunale, la cerchia delle ‘famiglie antichÈ per definizione”. Queste caratteristiche cronologiche e sociali dei libri di famiglia perugini, secondo l’autrice, sono da collegare al fatto che in quel periodo si manifestò “il bisogno del patriziato di mantenere viva la coscienza familiare della distinzione sociale, raccontando le ragioni della propria diversità” dalle famiglie emergenti, che non potevano vantare un passato di glorie urbane, ma cercavano la propria legittimazione sociale fuori dalla città, ad esempio nella carriera militare o negli uffici minori pontifici. La tarda “serrata” del 1670, modellata sulla normativa espressa in materia di requisiti nobiliari dall’Ordine di Malta, avrebbe posto fine a quella che la Irace definisce “situazione fluida che aveva connotato fino ad allora le vicende del ceto di vertice cittadino”, e avrebbe determinato anche l’esaurimento dei libri di famiglia. Significativamente, nell’ultimo di questi, redatto poco oltre la metà del Seicento, Pompeo Barzi esprimeva l’utopia di ritornare all’epoca comunale, prima dell’edificazione nel 1540 della vituperata Rocca Paolina, simbolo del sovvertimento del governo antico della città e dello stravolgimento dei suoi equilibri sociali. Come si può arguire da questi rapidi cenni, la assai tarda chiusura nobiliare di Perugia ricostruita dalla Irace non è facilmente riconducibile entro il solco della periodizzazione cinquecentesca proposta dal modelli concettuali elaborati negli ultimi decenni, dall’ “aristocratizzazione” piú volte ricordata a proposito del libro di Berengo, al “sistema patrizio” di Cesare Mozzarelli59, alle “oligarchie formalizzate” di Bandino Zenobi60. Ho accennato al fatto che, nel suo libro, la Irace utilizza largamente come fonte le prove di nobiltà per l’aggregazione agli ordini cavallereschi: si tratta di un tipo di materiale documentario che risulta molto utile per lo studio dell’evoluzione della coscienza nobiliare 58 E. IRACE, La nobiltà bifronte. Identità e coscienza aristocratica a Perugia tra XVI e XVII secolo, Milano, Unicopli 1995, pp. 159-172. 59 C. MOZZARELLI, Il sistema patrizio, in MOZZARELLI-SCHIERA (a cura di), Patriziati e aristocrazie nobiliari, cit., pp. 52-63. 60 B.G. ZENOBI, Corti principesche e oligarchie formalizzare come “luoghi del politico” nell’Italia dell’età moderna, Urbino, Argalia 1993. E dello stesso autore: Le “ben regolate città”. Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma, Bulzoni 1994. fra Cinque e Seicento. Se è d’obbligo un richiamo ai numerosi contributi che, nel corso degli anni, Franco Angiolini ha dedicato all’Ordine di Santo Stefano61, una menzione particolare meritano i volumi di Angelantonio Spagnoletti su Stato, aristocrazie e ordine di Malta nell’Italia moderna62, proiettato verso gli esiti settecenteschi di questi rapporti, e su Principi italiani e Spagna nell’età barocca63, dove ampio spazio e dedicato all’Ordine del Toson d’oro e al granducato di Spagna come strumenti di integrazione delle grandi casate italiane nel “sistema imperiale” asburgico64. Almeno un cenno merita un’altra fonte, per certi versi affine ai libri di famiglia, cioè le genealogie, cui le “Annales” hanno dedicato nel 1991 un intero numero65, e che per qualche anno Roberto Bizzocchi ha posto al centro dei suoi interessi di ricerca fino a produrre un volume che reca il titolo suggestivo Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna66, libro dotto, originale, magari talvolta proclive a tranciare giudizi estremizzanti volti a épater les historiens, ma certamente degno di essere letto e meditato. A Bizzocchi non interessa affatto la genesi e lo svolgimento del processo di “aristocratizzazione”: al centro della sua analisi è la “cultura nobiliare” antropologicamente intesa, che segnò in modo profondo il panorama ideologico europeo dell’età moderna, e il cui connotato fondamentale fu la “continuità della storia” affermata e difesa contro ogni evidenza contraria, la durata intesa come il “valore piú adatto a dare un senso alla vita e al mondo, a spiegare la gerarchia sociale, nelle sue stesse trasformazioni, in riferimento all’ordine tradizionale”67. A proposito di genealogie vorrei citare anche le pagine che a questo tema ha dedicato Paola Lanaro Sartori nella sua monografia dedicata all’oligarchia veronese del Cinquecento68. Si tratta delle genealogie domestiche promosse, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, dalle maggiori famiglie della città, dai Canossa ai Malaspina, dai Da Monte ai Bevilacqua. L’autrice, nel solco dell’interpretazione Ora raccolti nel volume I cavalieri e il principe. L’Ordine di Santo Stefano e la Società Toscana in Età Moderna, Firenze, EDIFIR 1996. 62 Roma, École française de Rome 1988. 63 Milano, Bruno Mondadori 1996. 64 SPAGNOLETTI, Principi italiani e Spagna, cit., pp. 51-128. 65 Si tratta del n° 4 del 1991, con contributi di A. Burguière, R. Bizzocchi, C. Maurel, ecc. Si veda anche: G. LABROT, Hantise généalogique, jeux d’alliances, souci esthétique. Le portrait dans les collections de l’aristocratie napolitaine, XVIe-XVIIIe siècles, in “Revue Historique”, n. 576, 1990, pp. 281-304. 66 Bologna, Il Mulino 1995. In precedenza Bizzocchi aveva pubblicato sull’argomento due articoli: La culture généalogique dans l’Italie du seizième siècle, in “Annales E.S.C.”, XVLI, 1991, pp. 789-805; “Familiae Romanae” antiche e moderne, in “Rivista Storica Italiana”, CIII, 1991, pp. 355-397. 67 BIZZOCCHI, Genealogie incredibili, cit., pp. 218-219. 68 P. LANARO SARTORI, Un’oligarchia urbana nel Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, Torino, Giappichelli 1992, pp. 210-216. 61 generale che caratterizza la sua ricerca, sostiene che “queste opere costituiscono con la loro descrizione di un passato eroico e cavalleresco legato soprattutto all’esercizio delle armi i mattoni su cui poggera tutta l’opera mistificatoria di creazione di un mito aristocratico feudale”69, che non aveva riscontro nel concreto operare dei membri di queste famiglie vissuti nel Quattrocento e nel primo Cinquecento, i quali ci si presentano intimamente legati alla vita politica cittadina e alle attività mercantili. Un’altra fonte molto utile per lo studio della coscienza nobiliare è rappresentata dagli epistolari. Nel dilagare delle ricerche che hanno fatto ricorso a questo genere di documenti70, apparentemente facili da affrontare, ma in realtà insidiosi e meritevoli perciò di una grande prudenza critica, val la pena di ricordare che uno dei primi a farne uso per lo studio delle “relazioni familiari nell’aristocrazia” è stato un sociologo, Marzio Barbagli, nel suo fortunato libro Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo71. Barbagli, rilevando il modificarsi delle forme allocutive tra XV e XVI secolo, che da un repertorio a due forme (“tu e voi”) passò a un sistema piú complesso e gerarchicamente segnato (“Vossignoria, il Signore, Lei, Voi, tu”) sostiene che ciò fu dovuto non tanto all’influenza della lingua e della cultura spagnola, quanto al “processo di ‘aristocratizzazionÈ avvenuto in Italia”, e rileva, sulla scorta di testi cinquecenteschi (tra cui le Lettere di Luca Contile del 1564), “che la nuova gerarchia degli allocutivi nasceva per designare e segnalare una gerarchia sociale”72. E tuttavia nel Cinquecento “permaneva nelle famiglie dell’aristocrazia una certa insicurezza linguistica, tipica dei periodi di mutamento”, che si manifestava nell’uso alternato della terza persona singolare e della seconda plurale73. Alla fine del nostro rapido rendiconto non possiamo fare a meno dì dedicare almeno qualche parola ad una fonte per la quale Berengo, fin dai tempi del libro su Lucca, ha nutrito e continua a nutrire una predilezione specialissima: intendo dire le filze e i registri degli archivi notarili74. Questo tipo di fonte è una miniera inesauribile per quasi ogni Ibidem, p. 214. Mi limiterò a ricordarne una tra le piú significative: R. AGO, Carriere e clientele nella Roma barocca, Roma-Bari, Laterza 1990. 71 Bologna, Il Mulino 1984, in particolare pp. 265-351. 72 Ibidem, p. 283. 73 Ibidem, p. 318. 74 Vale la pena di ricordare almeno tre contributi esemplari di Berengo, in cui predomina la fonte notarile: Introduzione a C. TARELLO, Ricordo di agricoltura, Torino, Einaudi, 1975, pp. XIII-XLV; Lo studio degli atti notarili dal XIV al XVI secolo, in: Fonti medievali e problematica storiografica. Atti del Congresso internazionale dell’Istituto Storico Italiano (1883-1973) (Roma, 22-27 ottobre 1973), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo 1976, volume I, pp. 149-172; Africo Clementi agronomo padovano del Cinquecento, in: Miscellanea Augusto Campana (“Medioevo e umanesimo”, n. 44), Padova, Antenore 1981, pp. 27-69. 69 70 genere di ricerca, anche se presenta non poche difficoltà di utilizzazione, come bene ha messo in evidenza Paolo Cammarosano nel suo manuale sulle fonti scritte medievali, che per molti riguardi è utile anche per la prima età moderna75. Nel caso specifico dello studio della coscienza nobiliare, gli atti notarili che piú sono stati utilizzati sono certamente i testamenti e le doti: penso, ad esempio al saggio di Maria Antonietta Visceglia su Strategie successorie e regimi dotali76;ma utili spunti offrono anche gli inventari post mortem, ad esempio quelli delle biblioteche, proficuamente utilizzati, tra gli altri, da Claudio Rosso nel suo studio sui segretari di stato dei duchi di Savoia tra Cinque e Seicento77. Sulla fecondità dell’uso del notarile per il tema che sono venuto fin qui illustrando, vorrei richiamare i risultati di una ricerca in corso sulle famiglie decurionali milanesi del Cinquecento, che mi auguro Letizia Arcangeli voglia proseguire e perfezionare. Ma già dallo spoglio di 151 testamenti emergono dati molto significativi sulla coscienza che i testatori avevano del loro ruolo politico-sociale e sull’evoluzione di tale coscienza in rapporto al tema della nobiltà. Mi limiterò a qualche citazione, ringraziando l’amica Arcangeli che mi ha consentito di anticipare qui il frutto di ricerche da lei promosse78. Circa un terzo dei testamenti analizzati contiene riferimenti a titoli posseduti e a cariche ricoperte dal testatore. Per quel che riguarda i titoli feudali, è interessante osservare che quanto piú un personaggio è di antica e nota famiglia signorile, tanto meno sente il bisogno di precisare per esteso i suoi titoli. Cosí, ad esempio, i Borromeo: se Giovanni testando nel 1492 si definisce “comes Aronae”79, suo figlio Filippo nel 1508 è designato solo come “comes”80, e cosí anche i decurioni Camillo nel 154381 e Giulio Cesare nel 157182 (si tratta del nipote e rispettivamente del bisnipote di Giovanni). Un discorso simile si può fare per i P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Firenze, La Nuova Italia Scientifica 1991, pp. 267-276. 76 In: VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., pp. 11-105. 77 C. ROSSO, Una burocrazia di antico regime: i segretari di stato dei duchi di Savoia, I (1559-1637), Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria 1992, pp. 344-365. 78 I dati sono tratti dalla tesi di laurea di C. PROVANTINI, Casato, strategie familiari, eredità: le famiglie decurionali milanesi nel XVI secolo, Università degli studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990-91, che è stata proposta e guidata da Letizia Arcangeli; la quale, da parte sua, ha trattato questi temi, per quel che riguarda il primo Cinquecento, nel saggio Gian Giacomo Trivulzio, marchese di Vigevano e il governo francese in Lombardia (1499-1518), di prossima pubblicazione nel volume curato da G. CHITTOLINI E P. PISSAVINO, Vigevano e i territori circostanti alla fine del medioevo, Milano, Unicopli. 79 Archivio di Stato di Milano: Notarile, cart. 1316, not. Gio. Pietro Cantú, 15 novembre 1492. 80 Ibidem, cart. 7283, not. Luigi Croce: 13 settembre 1508. 81 Ibidem, cart. 9651, not. Francesco Grassi: 30 giugno 1543. 82 Ibidem, cart. 13090, not. Rolando Mazza: 2 dicembre 1571. 75 Trivulzio83. Invece chi è stato infeudato di recente, e magari è nato da un mercante ed esercita lui stesso la mercatura, sente il bisogno di sbandierare per filo e per segno i nomi delle sue giurisdizioni. Massimiliano Stampa, castellano di Porta Giovia e consigliere di Carlo V, nel suo testamento del 1543 pone un accento particolare sui suoi titoli: “marchese di Soncino, conte di Ripalta, marchese di Montecastro”84; il mercante Gio. Agostino Litta, che ha acquistato il titolo nel 1573, testando nel 1576 viene definito “marchese di Gambolò, conte di Valle”85; Guido Cusani, anch’egli di famiglia mercantile, nel 1600 è designato come “marchio et comes Ripae Carminiani Pontis Albarolae”86. Quanto a Gerolamo Sovico, che ottuagenario, fa testamento nel 1590, egli sente il bisogno di soffermarsi dettagliatamente sui meriti della sua famiglia. Dopo aver raccomandato ai figli di non far nulla “quod non conveniat nobilitati domus et familiae nostrae, quam scient affinitatem habere cum diversis nobilibus familiis huius inclitae civitatis”, Gerolamo si produce in una lunga enumerazione di famiglie imparentate con la propria, tra cui i Trivulzio e i Calco. Ma non basta: il testante ricorda ancora che suo padre fu questore del Magistrato Ordinario e lo zio, senatore di Milano e podestà di Parma e Piacenza, ricoprí diverse altre cariche “maxime tempore libertatis Mediolani”; e richiama poi i privilegi che a piú riprese erano stati elargiti ai Sovico dai duchi di Milano, da “alios principes” (locuzione volutamente vaga, dietro cui si nascondevano i re di Francia), da Carlo V e da papa Pio V. La conclusione di questo excursus, i cui connotati non risultano molto dissimili da una “prova di nobiltà” per l’ammissione a un ordine cavalleresco o a un collegio professionale, merita di essere citata testualmente, quasi a suggello di queste nostre considerazioni sulle fonti per lo studio della coscienza nobiliare nel Cinquecento: “volui recensere non iactantia, sed quia haec quandoque prodesse poterunt tum posteritati meae ad imitanda rnaiorum vestigia tum vero penes ignaros, quia memoria est labilis”87. Nel tardo Cinquecento sono definiti con l’appellativo di “comes”, senza ulteriori specificazioni, sia il decurione Gio. Giacomo Teodoro Trivulzio (Archivio di Stato di Milano: notarile, cart. 14009, not. Gio. Giacomo Spagnoli: 12 febbraio 1575) sia Giorgio Trivulzio suo fratello (Archivio di Stato di Milano: Fondo Trivulzio-Archivio Milanese, cart. 276: 27 aprile 1580). 84 Archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano: Litta, cart. 10: 13 gennaio 1543. 85 Ibidem: cart. 10: 18 ottobre 1576. 86 Archivio di Stato di Milano: Fondo Trivulzi -Archivio Milanese, cart. 288: 9 dicembre 1600. 87 Archivio di Stato di Milano: Notarile, cart. 15894, not. Gio. Stefano Daverio: 14 settembre 1590. 83 Giorgio Chittolini Il contado e la città 1. La riproposizione di un tema storiografico. L’argomento che Nobili e mercanti introduceva nel suo quinto capitolo, intitolato Il contado, non risultava, nei primi anni ‘60, ovvio o scontato. Non lo era per gli storici dell’età moderna, fra i quali la viva attenzione rivolta alle campagne e al mondo rurale (soprattutto per i secoli XVII-XIX) si indirizzava piuttosto al problema delle “origini del capitalismo agrario” e della “moderna borghesia terriera”1. E non era molto presente nemmeno fra i medievisti, nonostante la tradizione antica e illustre di studiosi come Romolo Caggese, Gioacchino Volpe o Gino Luzzatto: la rassegna che Giuseppe Martini dedicava nel 1967 alla storiografia sul medioevo non registrava questo tema fra quelli avvertiti come vivi e dibattuti nei vent’anni precedenti2. Una certa attenzione al problema della distribuzione della proprietà fondiaria, dei contratti agrari, del regime fiscale delle terre possedute da rurali e cittadini nella piena e tarda età comunale avevano mostrato in quegli anni studiosi non “accademicamente” medievalisti, quali Enrico Fiumi, nelle sue ricerche sull’economia toscana e sui centri urbani della regione, o David Herlihy, in un capitolo del suo libro su Pisa, o Rosario Romeo nella sua ricerca su Origgio; e ai loro lavori faceva soprattutto 1 Cfr. M. MIRRI, La storiografia italiana del secondo dopoguerra fra revisionismo e no, in AA.VV., Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massafra, Bologna 1994, pp. 27-102; qualche spunto in A. GIARDINA, Emilio Sereni e le aporie della storia d’Italia, in “Studi storici”, XXXVII (1996); pp. 693-719 (alle pp. 698, 717-18). 2 G. MARTINI, Basso Medioevo, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Atti del I Congresso nazionale di scienze storiche organizzato dalla società degli Storici Italiani, Perugia 9-13 ottobre 1967, Milano, 1970, vol. I, pp. 79-471. riferimento la rassegna che nel 1963 Emilio Cristiani dedicava ai problemi dei rapporti fra città e contado3. Solo di lí a qualche tempo avrebbero cominciato a vedere la luce le poderose ricerche di Elio Conti –anch’esse nate piuttosto dalla prospettiva di ricerca dei colleghi “modernisti”, della ricostruzione cioè della formazione della struttura agraria moderna del territorio fiorentino4 – ; e ancora dopo si sarebbe assistito, nell’ambito della medievistica, a quel diffuso, generazionale rinnovamento di interesse per gli studi di storia agraria che avrebbe segnato i decenni successivi5. Nemmeno per Berengo il problema centrale di ricerca, nel momento in cui, nello scorsi degli anni ‘50, si era rivolto alla Lucchesia cinquecentesca, era costituito dalle campagne: il suo tema era quello della città, di una società urbana, analizzata in tutto il ventaglio degli aspetti possibili, dalle istituzioni politiche all’economia, dalla vita religiosa alla ideologia politica. Ma proprio l’intento di restituire della società urbana lucchese del Cinquecento un’immagine piena e compiuta aveva fatto sí che l’autore si trovasse sospinto fuori della cerchia delle mura, a seguire i molti fili che legavano cosí strettamente mondo urbano e mondo rurale – relazioni economiche, scambi demografici, rapporti di potere, scontri politici e amministrativi –: in una rete che nelle “Sei miglia” e poi nelle terre piú vicine alla città risultava quanto mai fitta e intensa. Una prospettiva diversa, quindi, da quella di Fiumi (che era soprattutto di storia dell’economia, e delle sinergie economiche fra centri urbani e borghi, comunità e terre di “contadi” toscani); una prospettiva analoga piuttosto a quelle di Luzzatto, o di Caggese. Anche se il contado lucchese che ne usciva era ben lontano dal presentare quei caratteri “irreali” che secondo il Fiumi avevano i contadi di Caggese (oggetto cioè di uno sfruttamento cieco e sistematico da parte delle città), ben risultava come esso si trovasse fortemente segnato e influenzato – nella sua organizzazione giurisdizionale e amministrativa, ma anche economica e sociale – dal dominio di Lucca: e ciò per l’ormai 3 E. CRISTIANI, Città e campagna nell’età comunale e in alcune pubblicazioni dell’ultimo decennio, in “Rivista storica italiana”, LXXV (1963), pp. 829-845. Ad alcuni anni prima risaliva l’intervento di E. FIUMI, Sui rapporti economici fra città e contado nell’età comunale, in “Archivio storico italiano”, CXIV (1956), pp. 18-68. 4 Sull’opera di E. Conti cfr. La società fiorentina nel Basso Medioevo. Per Elio Conti, Roma 1995. 5 D. BALESTRACCI, Medioevo italiano e medievistica. Note didattiche sulle attuali tendenze della storiografia, Roma 1996, pp. 73 ss. Sul rilievo che ha avuto la storia agraria e rurale (soprattutto per i secoli XII-XVI) nella ricerca degli anni 1965-1985 (“la maggiore novità della storiografia italiana di quest’ultimo ventennio”) cfr. G. CHERUBINI, La storia dell’agricoltura fino al Cinquecento, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, vol. I, Antichità e Medioevo [Atti del Convegno della società degli storici italiani, Arezzo, 2-6 giugno 1986], Roma-Bari 1989, pp. 333-354 (citazione a p. 349). antico processo di assorbimento delle campagne nel sistema di governo urbano che il comune lucchese, cosí come gli altri comuni italiani, avevano realizzato attraverso la costruzione degli stati cittadini. Non tutto il territorio rurale allo stesso modo, con la stessa capillarità e intensità: che anzi Berengo mostrava bene come l’influenza della città si allentasse nelle aree periferiche, e assumesse forme diverse, passando dalle Sei miglia, alle vicarie, alla montagna: ma nel quadro sempre di un controllo che il “pacifico et populare stato” lucchese non poteva rinunciare ad esercitare. Nel dare rilievo a questo tema, mi pare che il libro di Berengo esprimesse, e continui a esprimere, un forte richiamo a quello che è un nodo centrale della storia della società italiana: la profonda influenza economica e politica esercitata sulle campagne dalla società urbana e dalla città, e, correlativamente, l’influenza che sulla stessa vita cittadina e sulla società urbana ne deriva. Dimostrando inoltre una particolare attenzione – pur in una prospettiva di ricerca attenta alla “storia sociale”, prospettiva non molto diversa, mi pare, da quella dei suoi giovani colleghi modernisti che studiavano l’origine del capitalismo nelle campagne (come Villani, Mirri, Zangheri, Giorgetti, Villari, per citarne alcuni) – alle “mediazioni del politico”, e cioè all’azione delle istituzioni politico-amministratíve sugli assetti della società. Richiamo forte, dicevo, perché il tema dei rapporti città-campagna risultava proposto come nodo centrale e campo di indagine essenziale nella prospettiva di una storia globale della società lucchese (e della società italiana) del Rinascimento. Il quadro che Berengo offriva della città e delle campagne lucchesi (e delle relazioni fra esse intercorrenti) era infatti straordinariamente ricco di temi e di spunti in tante direzioni, spesso nuovi e originali, temi e spunti ai quali molte ricerche successive si sono poi rifatte (storia delle mentalità, delle sette, del brigantaggio, spunti che io qui trascurerò). Ma fra questi numerosi temi mi pare che il problema del significato sociale e politico che, per una città, assumevano i rapporti con il contado, avesse un rilievo particolare. Questo volevo notare anche in considerazione di quella che talvolta è stata, negli anni successivi, la storia della città. La straordinaria potenzialità del tema città come oggetto di ricerca si è manifestata, come è noto, in una amplissima varietà di prospettive e di orientamenti di indagine, rivolti agli innumerevoli aspetti dell’universo urbano: e non solo da parte degli storici in senso stretto, ma anche da parte dei cultori di altre discipline – geografi, urbanisti, sociologi, antropologi – che nel loro lavoro hanno attinto a materiali storici. Come pochi altri il tema della città è diventato campo privilegiato di ricerche multidisciplinari6. Con risultati senz’altro positivi, per la ricchezza di dimensioni e la varietà degli aspetti dell’universo urbano che questa apertura dell’obiettivo a 360 gradi ha 6 Cfr. ad esempio Storia e storie delle città, a cura di D. Romagnoli, Parma 1988. consentito di cogliere. Con un risvolto forse negativo, perché proprio la grande varietà e ricchezza di temi che vengono compresi sotto l’etichetta di “storia urbana”, comportano forse il rischio della scomposizione e dissezione del concetto di città, della perdita di esso come oggetto unitario e complessivo di ricerca. La “dissoluzione” del concetto di città del resto è già stata oggetto di dibattiti, fra sociologi e storici dell’economia soprattutto7: e anche in questo ambito si è constatato che proprio l’allargamento del campo d’indagine a realtà e situazioni fortemente differenziate, a temi e aspetti tanto vari ed eterogenei, ha reso difficile mantenere fisso un denominatore comune – la città appunto, come punto focale della ricerca – che potesse tenere insieme prospettive cosí diverse. Nel libro di Berengo, pur nella ricchezza di temi affrontati, era tuttavia fortemente avvertito e proposto questo senso complessivo della realtà urbana, ed era sottolineata l’importanza centrale che per le città italiane aveva il rapporto col contado. 2. Alcuni “caratteri originali” della città italiana. Di fatto questo tema ha continuato ad animare la ricerca; e anzi l’attenzione allo stretto legame della città con le campagne, e al significato forte che esso ha avuto nella storia della società italiana, è rimasta ben viva fra gli storici, e si è forse accentuata in questi ultimi decenni, pur presentandosi con sfaccettature diverse, a seconda delle differenti prospettive secondo cui è stata affrontata. Da un lato infatti è forse venuta diminuendo l’attenzione per aspetti della vita urbana – come le manifatture, i mercanti, le arti – che non comportavano un’analisi specifica del rapporto del centro urbano con le campagne circostanti. L’immagine della città medievale italiana come luogo di una nuova economia manifatturiera e mercantile, di una nuova società borghese, come cellula di sviluppo di un tipo di economia e di un tipo di società nuove e “moderne”8 si è forse venuta appannando, o ha suscitato minore interesse9. A. TOSI, Verso un’analisi comparativa delle città, in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, a cura di P. Rossi, Torino 1987, pp. 29-49. 8 Oltre al contributo di P. Malanima in questo volume cfr. ancora BALESTRACCI, Medioevo italiano e medievistica, cit., pp. 40, 48-49, 51. 9 Si vedano le considerazioni critiche di G. ROSSETTI, Il comune cittadino: un tema inattuale? in L’evoluzione delle città italiane nell’XI secolo, a cura di R. Bordone e J. Jarnut, Bologna 1988, pp. 25-45. Cfr. anche P. BREZZI, Le relazioni tra la città e il contado nei comuni italiani, in “Quaderni catanesi di studi classici e medievali”, V (1983), pp. 201-234, e, piú di recente, G. PINTO, Città e campagna in Storia dell’economia italiana, I, Dal crollo al trionfo, a cura di R. Romano, Torino 1990, pp. 213-232, alle pp. 222 e ss. 7 E ugualmente mi sembra diminuita l’attenzione alle lotte sociali e politiche del comune, esaminate in una prospettiva solo urbana. D’altro canto, e correlativamente, si è manifestata, come già si è detto, una nuova e crescente attenzione al mondo e alla società rurale, e si è fatta piú viva l’esigenza di vedere la stretta connessione della città con la campagna, e, quindi di condizionamento che la fisionomia della città subiva, cosí come, correlativamente, il peso determinante di essa nel plasmare la fisionomia delle campagne. Una dozzina di anni fa Renato Bordone poteva parlare di “ritorno alla terra” come orientamento caratteristico di molte ricerche condotte sull’età comunale, fra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80. Egli si riferiva soprattutto a lavori come quelli di Hagen Keller, di Alfred Haverkamp, di Philip Jones, e intendeva l’espressione “ritorno alla terra” nel senso di una attenzione particolare a forme specifiche dì organizzazione sociale e politica, oltre che economica, del mondo “rurale”, e all’importanza che esse mantenevano a lungo; e anche e soprattutto nel senso dell’influenza che esse esercitavano sull’organizzarsi stesso del mondo comunale, sulla fisionomia della società urbana10. Si potrebbe notare che orientamenti di questo genere, per questo e altri periodi della storia medievale, si erano manifestati già in precedenza, come occasionale contrappunto all’urbanocentrismo prevalente. Giovanni Santini in particolare già nei primi anni ‘60 aveva polemizzato contro la tendenza alla reductio ad unum – alla città, cioè – della storia dei diversi territori italiani: prospettiva che egli giudicava inadeguata e fuorviante per lo studio di numerosi regioni; e richiamava l’attenzione su altre forme di organizzazione territoriale non meno importanti di quelle promosse dai comuni urbani11. Ma negli anni ‘70 in effetti quegli orientamenti si erano fatti piú forti e diffusi; e gli spunti e gli stimoli che derivavano da ricerche come quelle di Keller o Jones, (ricerche, forse non a caso, di autori stranieri: meno condizionati da tradizioni storiografiche prevalenti al di qua delle Alpi) si inserivano in prospettive e orientamenti piú generali di ricerca, e si collegavano a interpretazioni complessive della storia d’Italia in cui il rilievo della città comunale veniva fortemente ridimensionato, quando addirittura non si giungeva 10 R. BORDONE, Tema cittadino e ritorno alla terra nella storiografia comunale recente, in “Quaderni storici”, XVIII (1983), pp. 255-277. Cfr. anche P. CAMMAROSANO, Città e campagna: rapporti politici ed economici, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Perugia 1988, vol. I, pp. 303-349. 11 G. SANTINI, Il comune di valle nel Medioevo. La costituzione del Frigano, Milano 1960, in particolare pp. 5-9; e si vedano considerino anche i vari spunti presenti già in lavori di G. Fasoli, E Cusin, e altri, citati in G. CHITTOLINI, Città e contado nella tarda età comunale. A proposito distudi recenti, in “Nuova rivista storica”, LIII (1969), pp. 706-719. Ma cfr. anche V. FUMAGALLI, Città e campagna nell’Italia medievale. Il centro nord, secoli VI-XIII, Bologna 1979, e vedi piú avanti, note 34-38. a rovesciare la prospettiva tradizionale, della città come principio ideale, fermento attivo e civilizzatore della storia della penisola (come ad esempio notava Rosario Villari a proposito dell’immagine della città che proponevano i primi volumi della Storia d’Italia Einaudi12). Erano interpretazioni che sottolineavano piuttosto gli irrisolti elementi di arretratezza che l’esperienza comunale aveva lasciato alla società italiana del tardo medioevo e della età moderna, nonostante la fase dello slancio cittadino; interpretazioni in cui il vecchio tema della “decadenza” della società italiana nell’età moderna si trasformava, per taluni, in quello della rifeudalizzazione, o del “blocco” piú che millenario di cui avrebbe sofferto la storia italiana. Il ruolo della campagna, del mondo rurale, delle sue forme di organizzazione economica sociale e politica, in confronto alla città, veniva cosí ad essere accentuato e caricato di significati forti, in un clima in cui le tematiche delle lunghe durate e delle storie immobili si legavano ad echi di letture gramsciane13. I dibattiti che seguirono misero in luce, mi pare, alcune forzature, in quelle interpretazioni14. Ma non risultava forzata o caduca – sulle tracce del resto della tradizione illustre di Ottokar e Sestan – la riaffermazione del fatto che in Italia accanto alla dimensione weberiana e pirenniana, la città possedesse una dimensione di capoluogo territoriale, di nucleo di organizzazione politica di un territorio, che in altri paesi europei essa non sempre possedeva; e rimaneva il riconoscimento delle “due anime” delle città della penisola, secondo l’espressione di Philip Jones (cosí come di una “duplice esistenza” aveva parlato Ottone di Frisinga): una “antica, urbana e civica, una seconda medievale, mercantile e borghese, determinate entrambe dalla sua posizione mediterranea, intermedia fra Occidente e Oriente, fra l’antico e il nuovo mondo”15. Città “medievale europea” in senso weberiano a pieno titolo: ma città che ereditava una tradizione antica di rapporti col R. VILLARI, Caratteri originali e prospettive di analisi: ancora sulla Storia d’Itatia Einaudi, in “Quaderni storici”, IX (1974), p. 546. 13 Cenni in G. CHITTOLINI, Alcune considerazioni sulla storia politico-istituzionale del tardo Medioevo: alle origini degli “Stati regionali”, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, II, 1976, pp. 401-419, alle pp. 411-415. Cfr. anche E. FASANO GUARINI, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale fra Quattro e Cinquecento: continuità e trasformazioni, in “Società e storia”, VI (1983), pp. 617-639; C. VIVANTI, La crisi del Cinquecento: una svolta nella storia d’Italia?, in “Studi storici”, XXX (1989), pp. 5-23; MIRRI, La storiografia italiana del secondo dopoguerra, cit. 14 Oltre a BORDONE, Tema cittadino e ritorno alla terra, cit., cfr. ad esempio S. POLICA, Basso Medioevo e Rinascimento: “rifeudalizzazione” e “transizione”, in “Bullettino dell’istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano”, 88 (1979), pp. 287-316; P. CAMMAROSANO, L’economia italiana nell’età dei Comuni e il “modo feudale di produzione”: una discussione, in “Società e storia”, II (1979), pp. 495-520. 15 P. JONES, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in Storia d’Italia Einaudi, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. II (Dalla caduta dell’Impero romano al sec. XVIII), Torino 1974, pp. 1469-1810, in particolare pp. 1495-1540 (la citazione è a p. 1554). Cfr. anche O. CAPITANI, Introduzione in H. PIRENNE, Le città del Medioevo, Bari, 1971 pp V-XLVIII. 12 territorio, che il comune consolidava, dando corpo a veri e propri “stati cittadini”; e città che confermava, per questo, caratteri propri rispetto alle città di altri paesi europei16. Donde, mi sembra, quel carattere di eccezione che in tanti aspetti va riconosciuto alle città italiane, ogni volta che vengono confrontate con quelle d’oltralpe. Come avviene – se alcuni di questi aspetti vogliamo ricordare – in quel profili complessivi di storia dell’urbanizzazione costruiti prevalentemente sulla base di parametri demografici o econometrici (penso a lavori come quelli di Cox Russel, Hohenberg e Lees, o Bairoch, o De Vries17): lavori che non sempre riescono a dar piena ragione, per l’Italia, delle linee di evoluzione dei sistemi urbani, o del disegnarsi dei reticoli e delle gerarchie di centri: e ciò appunto perché quei parametri non sanno sempre cogliere le stratificazioni antiche di legami fra città e territori, che risultano invece essenziali a spiegare nella nostra penisola il formarsi e il modificarsi dei sistemi urbani, dei rapporti di gerarchia o di complementarità fra i diversi centri. Analogamente, la precoce vocazione “territoriale” e “statale” dei comuni italiani (assai piú precoce della tendenza alla “territorializzazione” avvertita in seguito anche da altre città europee18) fa sí che, sul piano della storia economica, debbano essere riconosciuti spesso come primari gli interessi fondiari e agricoli dei cives, accanto a quelli manifatturieri e mercantili, a determinare l’elaborazione delle loro strategie politiche ed economiche19. Cosí come, sul piano della storia politica, questo ruolo “territoriale” svolto dalla città (non semplice isolotto compreso all’interno di domini principeschi, ma chiave di volta di organizzazione autonoma di territori20; e piú tardi, negli stati regionali, elemento di mediazione fra governo centrale e comunità rurali21) rende improponibile per l’Italia quella Per una messa a punto recente, e una discussione ampia sul “carattere ‘bifrontÈ della città italiana”, cfr. M. GINATEMPO, Gerarchie demiche e sistemi urbani nell’Italia bassomedievale: una discussione, “Società e Storia”, XIX (1996), pp. 347-383, cit., pp. 347-383; ma cfr. anche W. BLOCKMANS, La manipulation du consensus. Systhèmes de pouvoir à la fin du Moven Age, in Principi e città alla fine del Medioevo, a cura di S. Gensini [Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo, Collana di studi e ricerche, 6], Pisa 1996, pp. 433-447. 17 Cfr. ancora M. GINATEMPO, Gerarchie demiche e “sistemi urbani”, cit., (con ampie indicazioni bibliografiche); EAD, Le città italiane, XIV-XV secolo, in XXII Semana de Estudios Medievales, Estella: Poderes publicos en la Europa medieval (Principados, Reinos y Coronas), Pamplona 1997, pp. 149-208. 18 Y. BAREL, La ville médiéval: système social, sistème urbaine, Grenoble 1977, pp. 299 ss. 19 Di recente S.R. EPSTEIN, Town and Country: economy and institutions in late medieval Italy, in “The Economie History Review”, XLVI, 3 (1993), pp. 453 -477. Cfr. anche piú avanti, note 48 e 53. 20 Qualche cenno nell’introduzione al volume L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania: secoli XIII-XIV, a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna 1994 (Organizzazione territoriale e distretti urbani nell’Italia del tardo Medioevo, pp. 7-26). 21 Quel ruolo di mediazione che in altri paesi è esercitato dalla nobiltà territoriale: cfr. G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano 1996, p. XV; G. POLITI, Gli statuti impossibili. La rivoluzione tirolese del 1525 e il “programma” di Michael Gaismair, Torino 1995, pp. XII-XV. 16 contrapposizione principi/città in cui il primo termine indicherebbe la spinta verso un’organizzazíone politica e statale (con quanto ciò comporta di “coercizione”, di interessi prevalentemente “territoriali”, di espansione politica e militare, etc.), e il secondo termine invece le forze dell’economia, di un’economia soprattutto manifatturiera e mercantile, che poco si sarebbero curate di promuovere e sostenere forme e strutture proprie di organizzazione statale, e si sarebbero mostrate attente solo a tutelare quei loro specifici interessi economici (soprattutto commerciali) all’interno delle diverse strutture statali principesche o monarchiche in cui potevano venire a trovarsi22. Donde ancora quelle particolari caratteristiche che i legami fra città e contado conferiscono alla società urbana: un legame che fa delle aristocrazie e dei patriziati cittadini l’espressione più tipica della nobiltà, in Italia, e che ridimensiona drasticamente lo spazio di poteri e di possesso fondiario che può mantenere una nobiltà non cittadina23; un legame ancora (per ricordare un ultimo esempio) che, nel creare fra proprietari e contadini particolari e stretti rapporti di dipendenza, impedisce alla fine del Medioevo l’esplodere di quei “furori contadini” che altrove in Europa si traducono in violente rivolte, e che in Italia si smorzano e si disperdono entro l’armatura disciplinata di rapporti in cui la città ha saputo imbrigliare il contado24. Il nostro tema ha continuato quindi ad essere al centro dell’attenzione di molti studiosi: e dare qui conto della ricchissima produzione di questi anni non è possibile. Mi limiterò a toccarne brevemente due aspetti, cercando di vedere, da un lato, come le ricerche compiute abbiano bene messo in luce una grande varietà di situazioni geografico-politiche in cui il rapporto città-contado viene a configurarsi (in età comunale, ma con caratteristiche C. TILLY, Coercion, Capital and European States, New York-Oxford 1990; e ancora C. TILLY & W.P. BLOCKMANS (edd.), Cities and the Rise of States in Europe, A.D. 1000 to 1800, Boulder -San Francisco- Oxford 1994 (in particolare gli interventi dei due curatori: TILLY, Entanglements of European Cities and States, pp. 1-27; BLOCKMANS, Voracious States and obstrucing Cities: An Aspect of State Formation in Preindustrial Europe, pp. 218-250). Sulla specificità della situazione italiana, per contro, cfr. G. CHITTOLINI, Cities, City-States and Regional States in North-Central Italy, in “Theory and Society”, 18 (1989), pp. 689-706; EPSTEIN, Town and Country, cit. 23 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in “Rivista storica italiana”, 87 (1975), pp. 493-517; ID., Ancora a proposito di patriziato e nobiltà, in Fra storia e storiografia, cit., pp. 517-28. Si veda poi C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988. 24 Si vedano i vari contributi raccolti nel recente volume miscellaneo Protesta e rivolta contadina nell’Italia medievale, a cura di G. Cherubini [“Annali dell’istituto Cervi” vol. 16, 1995], in particolare quelli di M.G. NICO OTTAVIANI, Sistemi cittadini e comunità rurali nell’Umbria del Due-Trecento, pp. 83-113, di R. MUCCIARELLI e G. PICCINNI, Un’Italia senza rivolte? Il conflitto sociale nelle aree mezzadrili, pp. 173-205 e dello stesso CHERUBINI, Premessa, pp. 11-15. Per il caso, abbastanza eccezionale, di un’aperta rivolta contadina nel cuore dell’Italia padana cfr. D. ANDREOZZI, La rivolta contadina del 1462 nell’episcopato di Piacenza, pp. 65-81. 22 spesso di lunga durata); dall’altro come si siano meglio chiarite le tappe dell’evoluzione di questo rapporto nella sua lunga storia fra la tarda età comunale e la prima età moderna. 3. Una differenziata geografia di contadi. In effetti non sono pochi i contributi significativi che in questi ultimi anni ci hanno aiutato a intendere le diverse caratteristiche della geografia dei contadi quale si presenta nell’Italia comunale; a intendere cioè la varietà di situazioni in cui prende corpo e diversamente si configura un rapporto città-contado nei differenti contesti, fino a dar luogo a quadro assai diversificato25. Sono risultati confermati da un alto, alcuni caratteri di lungo periodo del reticolo urbano della penisola, alcune forti partizioni, riconducibili in gran parte alle forme dell’antica urbanizzazione romana. Partizioni forti, e ben riconoscibili anche in campi di studio diversi da quelli della storia politica: come è avvenuto di rilevare ad esempio a Carlo Ginzburg e ad Enrico Castelnuovo quando, interrogandosi sui concetti di centro e di periferia nella storia dell’arte italiana, e identificando i “centri” con le “città”, si sono trovati però di fronte a diversi tipi di città, e in particolare ad alcuni tipi di città soltanto che potessero essere considerate come “centri”: le città situate a nord appunto di una linea ideale (fra Grosseto e Rimini) che distingue due diversi tipi di urbanizzazione realizzatisi in età romana; al nord un’urbanizzazione piú regolare e pianificata, nel suo disegno a maglie larghe, nella ricerca di equilibrio e proporzioni fra centri urbani e campagne (corroborata in seguito da un robusto e precoce impianto diocesano), al sud un’urbanizzazione piú spontanea, affollata e fluida26. Situazioni già in origine diverse, dunque, di cui vari studi, su singoli casi, hanno permesso dì verificare modifiche intervenute successivamente: ad esempio (e in particolare) nel momento cruciale fra tardo antico e altomedioevo (in cui si e venuto costituendo ed assestando il reticolo delle circoscrizioni diocesane27); o in conseguenza del 25 Mi permetto di rinviare al mio Città, comunità e feudi, cit., pp. 1-18, ove è tradotto il saggio A geography of the “Contadi” in Communal Italy pubblicato nel volume Portraits of Medieval and Renaissance Living: Essays in Memory of David Herlihy, edited by S. Cohn, Jr. and S. Epstein, Arm Arbor 1996, pp. 417-38. 26 E. CASTELNUOVO e C. GINZBURG, Centro e periferia, in Storia dell’arte italiana, pt. I, Metodi e problemi, a cura di G. Previtali, vol. I, Questioni e metodi, Torino 1979, pp. 285-352, alle pp. 301-306. 27 C. VIOLANTE, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il Medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. Rossetti, differente grado di sviluppo urbano in diverse aree dopo il Mille (uno sviluppo piú facilmente ricostruibile ora, nei suoi parametri demografici almeno, grazie alla messa a punto di M. Ginatempo e L. Sandri)28. Tali modifiche hanno dato vita anch’esse ad assetti e sistemi urbani spesso poi cristallizzatisi, nel lungo periodo, a definire quel “numero chiuso” (o poco modificabile) di città che troviamo in età comunale e rinascimentale, e a delineare geografie di contadi differenziate fa loro (per l’ampiezza dei territori, la natura dei rapporti fra centro urbano e campagne), anche se in tutti questi casi ritorna la costante di un centro, grande o piccolo, intorno a cui si e organizzato un territorio legato alla sua città, e da essa dipendente. Cosí all’interno dell’area centrosettentrionale – quella in cui il moto di espansione urbano e comunale è risultato piú diffuso e piú intenso – sono state messe in luce, ad esempio, le differenze fra i caratteri del reticolo urbano dell’area centrale padana – che riproponeva in larga misura il disegno e i caratteri dell’antica urbanizzazione romana – e quelli delineatisi ad esempio in Toscana, area di confine fra i due modelli di urbanizzazione sopra ricordati29; ovvero nelle Marche, con una fittezza di “microcittà”, di piccoli contadi, di distretti castrensi30 (e forme particolari di “comitatinanza”31); o nell’Umbria, dal paesaggio ugualmente variegato32. Con forte rilievo inoltre sono state messe in luce quelle situazioni in cui il modello città-contado appare piú debole, o non capace di porsi come struttura generalizzata di organizzazione del territorio. Ciò è stato notato ad esempio per ampie aree poste a oriente e Bologna 1977, pp. 83 -112. Cfr. anche M.P. BILLANOVICH, Le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale fra la tarda antichità e l’alto medioevo, in “Italia medievale e umanistica”, 34 (1991), pp. 1-39. 28 M. GINATEMPO, L. SANDRI, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990. E. GABBA, La città italica, in Modelli di città cit., pp. 109-16, a p. 122. Sugli sviluppi successivi (accanto a F. SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, a cura di R. Barbolani di Montauto, con una Introduzione, di E. Sestan, Firenze 1975) cfr. ora A. ZORZI, L’organizzazione del territorio in area fiorentina tra XIII e XIV secolo, in L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania, cit., pp. 279-349. 30 Il rinvio è soprattutto ai lavori di S. Anselmi e di G.B. Zenobi. Cfr. ora l’ampia ricognizione bibliografica di E PIRANI, Medioevo marchigiano e identità storica. Una verifica attraverso la recente storiografia, in “Quaderni medievali”, 42, dicembre 1996, pp. 73-103. 31 J.-C. MAIRE VIGUEUR, Guerres, conquête du contado et transformations de l’habitat en Italie centrale au XIIIe siècle, in Castrum 3: Guerre, fortification et habitat dans le monde méditerranéen au Moyen Age, actes recueillis et présentés par Andrè Bazzana, Madrid-Rome 1988, pp. 271-78; ID, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, vol. VII/2, Torino 1987, pp. 115-118 e 125-129: ove si illustra un “modello marchigiano di conquista del contado”, realizzato attraverso la distruzione dei castra conquistati e il trasferimento forzato di molti degli abitanti del centro dominante. 32 Un’ampia ricognizione degli studi compiuti in A. GROHMANN, Caratteri ed equilibri tra centralità e marginalità, in AA.VV, L’Umbria, Torino 1989, pp. 5-72. 29 a occidente della stessa Italia padana, che pure presenta l’esemplificazione forse piú tipica e forte del sistema città-contado33. Qualche anno fa un importante articolo di Sante Bortolami sottolineava opportunamente l’inadeguatezza di uno schema – quello di un’Italia “inter civitates ferme divisa” – che “ha enfatizzato per il centro nord della penisola tale prospettiva, sino a renderla esclusiva e scontata”. A quello schema egli contrapponeva le peculiarità dello sviluppo di vaste zone dell’Italia, e in particolare della “marca trevigiana”: non solo per il profondo rimaneggiamento subito dal reticolo urbano antico, in conseguenza della decadenza di vari centri e la fondazione di nuovi, in età altomedievale, ma anche – e in conseguenza di quei generali mutamenti – per la presenza lunga di forti ceppi signorili, per l’organizzazione “non urbanocentrica del territorio”, per il modificarsi delle frontiere politiche e dei confini dei “contadi”, rispetto ai calchi antichi municipali e diocesani34. Egli sottolineava una situazione di debolezza urbana: che trova riscontro, in effetti, nella Vicenza comunale disegnata da G. Cracco, “comune di famiglie” o “città-satellite”, piuttosto che vera e propria città-stato35; o nei caratteri di Trevigiano, segnato, ancora in età moderna, da una scarsa capacità di controllo da parte della città, soprattutto rispetto ai “centri minori” del territorio36; o nella larga fioritura di borghi e terre, privi di dignità e tradizione urbane, ma forti e vitali, nei territori delle antiche diocesi di Aquileia e Concordia37. Caratteristiche in parte analoghe sono state piú di recente sottolineate per l’attuale regione del Piemonte occidentale, “territori senza città”, si è detto, con loro proprie dinamiche di organizzazione politico-territoríale, con l’emergere quindi, in primo piano, di terre e borghi e castelli che già in età comunale, sull’onda della crescita dei secoli XI-XIII, Pure con alcune differenze fra le diverse aree: cfr. G.M. VARANINI, L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana nei secoli XIII-XIV (Marca Trevigiana, Lombardia, Emilia), in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania, cit., pp.133-233. 34 S. BORTOLAMI, Frontiere politiche e frontiere religiose nell’Italia comunale: il caso delle Venezie, in Castrum 4: Frontière er peuplement dans le monde méditerranéen au Moyen Age, Actes du colloque d’Erice-Trapani, 18-25 septembre 1988, recueillis et présentés par J.-M. Poisson, Rome-Madrid 1993, pp. 211-238, in particolare p. 217. 35 G. CRACCO, Da comune di famiglie a città satellite, in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a cura di G. Cracco, Vicenza 1988, pp. 73-138. 33 G. DEL TORRE, Il Trevigliano nei secoli XV e XVI. L’assetto amministrativo e il sistema fiscale, Treviso-Venezia 1990, pp. 23 ss. Su alcuni “centri minori” del Trevigiano si possono vedere ora i volumi pubblicati nell’ambito della ricerca della fondazione Benetton sulle “Campagne trevigiane in età moderna”: cfr. ad esempio A. PIZZATI, Conegliano. Una “quasi città” e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso 1994; A. BELLAVITIS, Noale. Struttura sociale e regime fondiario in una podesteria della prima metà del secolo XVI, Treviso 1994. 37 Varie indicazioni in D. DEGRASSI, Il Friuli fra continuità e cambiamento: aspetti economico-sociali, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione e sviluppo [Centro italiano di studi di storia e d’arte di Pistoia, tredicesimo convegno di studi], Pistoia 1993, pp. 273-300, in particolare pp. 279 ss. 36 sostituiscono con la loro vitalità e con il loro dinamismo uno sfilacciato e debole tessuto di civitates-diocesi, incapaci di porsi come strutture di organizzazione territoriale38. E non solo in Piemonte o nel Veneto, del resto, i cosiddetti “centri minori” sono stati oggetto di ricerca: anche per altre regioni vari studi ne hanno messo in luce i caratteri specifici, intermedi fra quelli dei veri e propri centri urbani e quelli dei minori castelli o villaggi, mostrando bene i rischi di una troppo rigida polarizzazione città/campagna e sollecitando prospettive di analisi capaci di cogliere i rapporti di complementarità e di integrazione fra i diversi tipi di insediamenti e di centri39. Si potrebbe aggiungere che, per converso, un’attenzione nuova al problema dei rapporti città-campagna si è manifestata anche in aree in cui questa prospettiva d’analisi non ha una tradizione antica di ricerche, come in alcune province del Lazio, o nello stesso Mezzogiorno40. Ma interessa soprattutto notare – senza la pretesa di condurre un censimento sistematico degli studi compiuti nelle varie aree italiane – che stiamo assistendo oggi a un’attenta rilettura dei diversi paesaggi politici italiani: una rilettura intesa a cogliere i caratteri specifici che nelle differenti aree presentano i rapporti fra centri e territori, e fra centri maggiori e minori, e volta a cogliere l’evoluzione e le trasformazioni che tali rapporti registrano nel corso del tempo. 4. Due tappe importanti della storia dei rapporti fra città e contado. Un altro aspetto che, in effetti, molte ricerche degli ultimi trent’anni hanno permesso di approfondire, è quello delle tappe e delle scansioni in cui si articolano le relazioni fra città e contadi nella loro lunga, secolare durata. P. GUGLIEMOTTI, Territori senza città. Riorganizzazioni duecentesche del paesaggio politico nel Piemonte meridionale, “Quaderni Storici”, XXX (1995), fasc. 90, pp. 765-798. Sulla decadenza degli antichi centri municipali, cfr. G. LA ROCCA, “Fuit civitas prisco in tempore”. Trasformazione dei “municipia” abbandonati dell’Italia occidentale nel sec. XI, in AA.VV., La contessa Adelaide e la società del secolo XI, Susa 1992 (“Segusium”, 32, 1992), pp. 103-140. Fra le numerose monografie dedicate a centri e a borghi nuovi cfr. E. PANERO, Comuni e borghi franchi nel Piemonte Medievale, Bologna 1988; G. GULLINO, Una “quasi-città” dell’Italia nord-occidentale, popolazione, insediamento e agricoltura a Bra fra XIV e XVI secolo, Cavallermaggiore 1996. 39 Cfr. ad esempio, in un’ampia analisi su un centro toscano, Colle di Val d’Elsa: Diocesi e città tra ‘500 e ‘600, a cura di P. Nencini, Castelfiorentino 1995. 40 Per lo stato pontificio vedi ad esempio A. LANCONELLI, R.L. DELLA PALMA, Terra, acque e lavoro nella Viterbo medievale, Roma 1992; S. CAROCCI, Tivoli nel basso Medioevo. Società cittadina ed economia agraria, Roma 1988; vari spunti anche in ID., Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città..., cit., pp. 151-224. Per il Regno di Napoli cfr., per alcune situazioni particolari, C. MASSARO, La città e i casali, in Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di B. Vetere, Roma-Bari 1993, pp. 345-393; AA.VV., I mille anni dei casali di Cosenza, Spezzano Piccolo 1995. 38 I momenti importanti da prendere in considerazione, e su cui sono stati numerosi gli studi, non sarebbero pochi: dall’età precomunale (giustamente si è sottolineata la forza pervasiva della città, e il rilievo di un rapporto città-territorio anche prima dell’avvento del comune41), all’età dell’affermazione del comune42, alle diverse fasi e forme della “conquista del contado”, momento fondante di assetti di lunga durata43, alle trasformazioni indotte dalla crisi del Trecento44. Mi limiterò a due momenti soltanto, che costituiscono tuttavia, a mio parere, due scansioni assai forti, nella lunga vicenda che va dalla piena età comunale alla fine dell’Antico regime: il momento dell’impiantarsi dello stato regionale, e poi quello, cinquecentesco, dell’affermarsi, in Lombardia e nel Veneto, di “Contadi” e “Territori”. a) l’avvento degli stati regionali. L’avvento degli stati regionali rappresentò un grosso punto di svolta, perché nei rapporti sino ad allora bilaterali fra la città e il suo contado introdusse un terzo attore, il principe, ovvero la città dominante. Fu un evento questo che non toccò il “pacifico et populare stato” lucchese, sempre piú solo, nella sua forma di repubblica monocittadina. Ma in altre regioni dell’Italia già “comunale” i rapporti fra le città e i loro antichi territori assunsero caratteristiche nuove, e vennero a riconfigurarsi in forme diverse nei diversi stati: forme che condizionarono a loro volta la fisionomia complessiva di questi stati medesimi45. Per l’area toscana, ad esempio, gli studi compiuti mettono ben in luce l’energia con cui le città dominanti intervennero a rimodellare gli equilibri e i rapporti di forza nei loro domini, ridimensionando drasticamente l’influenza delle città suddite. Erano forse, queste Cfr. ad es. G. SERGI, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere. Le aree delle Marche di Ivrea e di Torino, in Piemonte medievale. Forme di potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 5-27; G. TABACCO, La città vescovile nell’Alto Medioevo, in Modelli di città, cit., pp. 327-345; C. WICKHAM, La montagna e la città, trad. it., Torino 1995. 42 A.I. PINI, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna 1996, R. BORDONE, La città comunale, in Modelli di città, cit., pp. 347-370; P. CAMMAROSANO, Le campagne nell’età comunale (metà sec. XI-metà sec. XIII), Torino 1983. Si veda anche di H. KELLER, Introduzione all’edizione italiana in ID., Signori e vassalli nell’Italia. Secoli XI-XII, Torino 1995 (ed. originale Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien, Tübingen 197 9), pp. XI-XLVIII. 43 Si rinvia, per l’Italia settentrionale, alla sintesi di VARANINI, L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana, cit. 44 Una recente messa a punto in Italia 1350-1450, cit. In particolare cfr. M. GINATEMPO, Dietro un’eclisse: considerazioni su alcune città minori dell’Italia centrale, ivi, pp. 35-76. 45 Si veda ora, in una prospettiva europea, Principi e città, cit., pp. 433-447. Cfr. anche CHITTOLINI, Cities, “City-states”, and regional states in north-central Italy, cit.; E. FASANO GUARINI, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna 1994, pp. 147-175. 41 ultime, più deboli – almeno alcune di esse – delle città suddite padane: a causa dei caratteri dell’urbanesimo antico, sia dalla sua evoluzione fra i secoli alti e centrali del medioevo (con la crisi di alcune antiche civitates-diocesi, e con l’affermarsi di terre e borghi nuovi, di rango non urbano)46. Ma risultò decisiva soprattutto la forte determinazione politica dei due centri dominanti nella regione, Firenze e Siena. Storie diverse, le loro, e anche cronologicamente sfasate: ma che hanno forse in comune quella che per Siena è stata recentemente definita da Odile Redon una volontà di negazione dell’identità urbana dei centri antagonisti47: per cui la preminenza della dominante sulle città soggette e sul loro territorio veniva ad assimilarsi a quella di un centro urbano sul suo contado. L’impatto di questa politica risultò forte soprattutto nella Toscana fiorentina (Arezzo, Pisa o Pistoia erano “città” assai piú che Roselle o Grosseto), dando vita a un modello di stato che, pur registrando modifiche e aggiustamenti costituzionali lungo tutto il Quattrocento, appare per questi aspetti come diretto antecedente degli ordinamenti centralistici di Cosimo I. Un modello di stato regionale ispirato dunque a un modello comunale e cittadino, piuttosto che a quello – di regolato e articolato equilibrio fra forze diverse – che troviamo messo in opera in altri stati italiani quattrocenteschi: un modello sostenuto con rigidezza e coerenza, duramente costrittivo nei confronti delle città, indebolite anche demograficamente ed economicamente, rispetto alle quali trovavano spazio centri minori e minori comunità rurali, direttamente dipendenti dalla dominante48. Netta è la contrapposizione della Toscana con un altro modello di stato cittadino, quello della Terraferma veneta, in cui il rilievo alle città come interlocutori e principali referenti dell’azione del governo centrale è stata sottolineata come caratteristica peculiare dell’organizzazione dello stato: e ciò anche se il rapporto delle città con Venezia appare graduato secondo una gerarchia di poteri e di equilibri assai differenziata: equilibri 46 47 Cfr. sopra, nota 29. O. REDON, L’espace d’une cité. Sienne et le pays siennois (XIIIe-X1Ve siècles), Rome 1994, p. 158. 48 Sui rapporti fra Firenze e le città soggette si è svolto recentemente un seminario di studi su Lo stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, coordinato da W.J. Connell e S. Zorzi, e tenutosi a San Miniato presso il Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo (7 -8 giugno 1996): si vedano in particolare (gli Atti sono in corso di stampa) G. PETRALIA, Fiscalità, politica e dominio nella Toscana fiorentina alla fine del Medioevo; A. ZORZI, La formazione e il governo del dominio: pratiche, uffici, giurisdizioni. Vari contributi si possono trovare anche negli Atti del convegno La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, a cura di R. Fubini, 3 volumi, Pisa 1996 (ad es. i saggi di S.R. EPSTEIN, Stato territoriale ed economia regionale nella Toscana del Quattrocento, vol. III, pp. 869-90, di P. SALVADORI, Lorenzo dei Medici e le comunità soggette fra pressioni e resistenze, ivi, pp. 891-906, di W.J. CONNELL, Appunti sui rapporti dei primi Medici con le comunità del dominio fiorentino, ivi, pp. 907-917, di G. PETRALIA, Pisa laurenziana: una città e un territorio per la costruzione dello “stato”, ivi, pp. 955-980. largamente rispettosi delle libertà municipali da parte di Venezia (nei casi di Verona, Brescia, Vicenza, ad esempio); e invece condizionati, come a Padova e a Treviso, da una forte esigenza di controllo politico ed economico da parte della Dominante49. Ugualmente largo sembra il riconoscimento dei diritti “territoriali” delle città nello stato milanese: e ciò nonostante le concessioni a favore di comunità di federazioni alpine, borghi privilegiati, terre separate, signorie rurali e feudi. Queste modifiche non giunsero a sovvertire radicalmente l’ordinamento precedente, e a dar vita a un ordinamento del tutto nuovo, anche se intaccarono sensibilmente (in aree marginali) l’area di piú diretto dominio urbano. Il feudo, che pure si era esteso profondamente sin nel cuore degli antichi distretti urbani, risultò progressivamente regolato da norme che lo disciplinavano entro le strutture provinciali di governo50. I vecchi stati cittadini insomma furono conservati nei loro nuclei centrali e piú ricchi, e offrirono le linee di fondo del disegno del nuovo ordinamento provinciale. Donde anzi quell’accentuarsi in Lombardia del peculiare antico policentrismo dell’età comunale51: pluralismo urbano e tenuta delle città che non risultarono gravemente penalizzate dall’avvento degli Spagnoli. Ancora diversa era la situazione nello Stato pontificio, ad esempio, e nelle sue differenti province; o nei domini estensi; o nel Trentino52: i rapporti città/contado venivano configurandosi in modi assai differenziati, a seconda delle differenti politiche dei governi centrali nei confronti delle città suddite. Le questioni – economiche, fiscali, giurisdizionali – che toccavano i problemi dei rapporti fra città e territori costituirono un aspetto assai delicato nell’azione di governo di tutti gli stati rinascimentali; e le soluzioni che nei diversi contesti si adottarono ebbero conseguenze importanti sugli assetti complessivi di quegli 49 G.M. VARANINI, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, pp. XXXV-LXVI, cit. a p. XLIX. 50 G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi, cit., pp. 227 ss. 51 A scapito anzi del connotarsi di una forte identità regionale, o di un “ambiente milanese” paragonabile a quell’ “ambiente veneto” che Cozzi ha riconosciuto per l’età moderna nella Terraferma veneta “di qua del Mincio”: G. COZZI, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Strocchi, vol. IV/2, Il Seicento, Vicenza 1985, pp. 495-539. Sull’idea di “Lombardia” nell’età moderna cfr. B. VIGEZZI, La Lombardia moderna e contemporanea: un problema di storia regionale, in Dallo Stato di Milano alla Lombardia contemporanea, vol. I, a cura di S. Pizzetti, Milano 1980, pp. 11-49. 52 Cenni in G. CAROCCI, Governo papale e città nello Stato della Chiesa, cit.; A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995; A. GARDI, Lo stato in provincia. L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna 1994; T. DEAN, Land and Power in Late Medieval Ferrara. The Rule of the Este, 1350-1450, Cambridge 1988; M. FOLIN, Il sistema politico estense fra mutamenti e persistenze, in “Società e Storia” XX (1997), pp. 549 ss; G. POLITI, Crisi e civilizzazione di un’autotocrazia, in “Studi Veneziani”, n.s., XXIX (1995), pp. 103-142. stati53: con una varietà di esiti che si rifletté sui caratteri assai differenziati che la storia dei rapporti città e contado ebbe in seguito, nelle diverse regioni italiane. b) L’affermazione cinquecentesca di contadi e di territori in area padana. In area padana in particolare la storia dei rapporti città e contado conobbe sviluppi importanti ancora nel Cinquecento e nel Seicento. In area padana appunto, dove il potere della città si era mantenuto piú forte; non in altri stati, dove il rapporto città/contado si era ormai profondamente modificato (e non in Toscana, in conseguenza del diverso articolarsi del rapporto fra le vecchie civitates e le campagne coi rimaneggiamenti avviati già nel primo Quattrocento, e poi consolidati dall azione di Cosimo, come si è accennato, nei decenni centrali del Cinquecento). Il pieno e tardo Cinquecento in effetti vide l’affermarsi, rispettivamente nello stato milanese e nello stato veneto, dei “Contadi” e dei “Territori”, di quegli organismi, cioè, che riunivano e rappresentavano le comunità rurali delle diverse province, e che erano abilitati a trattare con la città e col governo centrale nelle questioni riguardanti le imposte. L’antica opposizione dei centri urbani54 poté essere infine superata in questi decenni centrali del Cinquecento, in cui le crescenti esigenze finanziarie suggerivano agli stati un atteggiamento piú aperto e condiscendente che in passato verso le rivendicazioni dei contadini. Si trattò di un momento importante perché per la prima volta le comunità rurali ebbero voce propria e riconosciuta e ottennero formali organismi di rappresentanza, i quali furono anzi chiamati a esercitare funzioni amministrative e fiscali55. I nuovi “corpi territoriali rurali” in effetti operarono con grande zelo, e fecero efficacemente valere la loro capacità di contrattazione, riuscendo a introdurre meno ineguali criteri di ripartizione del carico fiscale, e a ridimensionare di fatto i poteri e l’influenza della città. Assetti politici e anche economici: cfr. P. MALANIMA, La formazione di una regione economica: la Toscana nei secoli XV-XVI, in “Società e storia”, VI, 1983, pp. 229-269; M. MIRRI, Formazione di una regione economica. Ipotesi sulla Toscana, sul Veneto, sulla Lombardia, in “Studi veneziani”, XI (1986), pp. 47-59; M. PRAK, Regions in Early Modern Europe, in AA.VV, Debates and controversies in economic history (Eleventh International Economic History Congress, A Session), Milano 1994, pp. 19-55; AA.VV., Lo sviluppo economico regionale in prospettiva storica. Atti dell’incontro interdisciplinare, Milano 18-19 maggio 1995, a cura di L. Mocarelli, Milano 1996. 54 Sulla ostilità della città a riconoscere istituzioni rappresentative delle comunità rurali, cfr. M. BERENGO, La città di antico regime in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Bologna 1975, p. 34. 55 Riprendo da CHITTOLINI, Città, comunità e feudi....,cit., pp. 211-226, a cui si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche. 53 Nell’antica e spinosa questione della divisione delle quote fra estimo civile ed estimo rurale si giunse all’imposizione del principio secondo cui i beni acquistati da proprietari cittadini avrebbero dovuto continuare ad essere compresi negli estimi rurali, e i cittadini avrebbero dovuto essere tenuti a sostenere gli oneri corrispondenti. La mancata applicazione di questo principio aveva comportato sperequazioni assai gravi, in conseguenza soprattutto delle continua penetrazione della proprietà fondiaria cittadina nei contadi, cui non corrispondeva un tempestivo e proporzionale adeguamento delle quote d’estimo. Ugualmente trovò applicazione piú ampia l’altro vecchio e disatteso principio “bona solvant ubi sita sunt”: da intendere nel senso che i cittadini per i loro beni allibrati negli estimi delle comunità del territorio, avrebbero dovuto sostenere, al pari dei rurali, tutti gli oneri gravanti su di essi: non soltanto quelli che colpivano la parte “reale” dell’estimo, ma anche quelli già considerati come “personali”, e quindi non applicabili ai cittadini medesimi (ad esempio gravezze per alloggiamenti di soldati, altre spese militari, fortificazioni). Si pose ugualmente un limite al fenomeno, un tempo macroscopico, delle concessioni della cittadinanza ai rurali, e ai privilegi che ciò comportava (tanto che la civilitas forensis divenne nel corso del Cinquecento una condizione assai meno ricercata). Nella secolare storia delle relazioni fra città e contado, dopo che lo stato regionale nel Quattrocento aveva posto le premesse di un rapporto meno ineguale fra centro urbano e territorio, il periodo che iniziò negli ultimi decenni del Cinquecento rappresentò una fase nuova, la cui portata è difficile sottovalutare: molti degli antichi motivi di sperequazione e di contrasto fra cittadini e rurali cominciarono alfine ad essere superati, e la distinzione fra i due ceti, che pure rimase ben netta, perse le sue piú forti connotazioni fiscali. Già dai primi decenni del Seicento in effetti i corpi territoriali vennero perdendo il carattere di strumento di lotta di un ceto di rurali contro un ceto di cives, assumendo piuttosto sempre piú netta la fisionomia di istituzioni rappresentative di interessi diversificati, la fisionomia di corpi, “pubblici”, disciplinati e regolamentati all’interno degli ordinamenti statali. È una fisionomia evidente anche per il ruolo sempre piú attivo dei cives all’interno dei corpi territoriali medesimi, non solo come tecnici (consulenti, procuratori, etc.), ma anche per diretto e legittimo interesse: dopo cioè che, con la “chiusura” dei ruoli, le terre “rurali” da loro acquistate continuarono a risultare iscritte negli estimi locali. 5. Verso una nuova stratificazione sociale nelle campagne. Quel “tramonto dello stato cittadino”, che Antonio Anzilotti aveva intravisto nei decenni centrali del Settecento56, può dunque essere forse anticipato nel Veneto e in Lombardia (per quanto riguarda il tramonto del controllo fiscale dei cives sulle campagne) al secondo quarto del secolo XVII57. Ma l’attenuarsi degli antichi motivi di contrasto non impedì che altri se ne introducessero, in forme nuove, e che si preannunciassero altre contrapposizioni di ceti ed interessi, piú “moderne” occasioni di conflittualità: ad esempio, fra proprietari e contadini. Alle modifiche istituzionali sopra ricordate corrisponde infatti, all’interno della società rurale, un differenziarsi di ceti e di gruppi sociali che prima risultava forse meno facile da cogliere. Se il quadro del mondo rurale risultava segnato fra ‘400 e ‘500 da una certa uniformità indistinta58, ora distinzioni piú nette sembrano evidenziarsi. Da un lato troviamo quei “poveri homeni”, quei “contadini disperati” che i documenti relativi alle lotte dei “Contadi” e dei “Territori” cosí sovente evocano, e presentano come protagonisti principali del movimento di rivendicazione, ma che non sempre ne condividono gli obiettivi più generali, le iniziative più pesanti e dispendiose, e muovono accuse di malversazioni e ruberie o di gestione autoritaria, agli uomini di governo dei corpi territoriali (personaggi, questi ultimi, spesso benestanti, provenienti dai centri piú ricchi, e che ai contadini finivano per apparire estranei e sospetti, anche per la loro cultura legale e cancelleresca, per la frequentazione di tribunali, uffici e ambienti urbani). E non stupisce, da parte di questi stessi ceti piú poveri, l’insoddisfazione davanti alle acquisizioni raggiunte, di assai minor beneficio per i più miseri, e spesso ritenute insufficienti a sanare una perdurante condizione di minorità e di indigenza. È un’insoddisfazione, insomma, che trova riscontro nel quadro di povertà, e anzi di impoverimento (e di oppressione fiscale, appunto) che molte ricerche continuano a mettere in luce per tanta parte della popolazione contadina fra Cinque e Seicento. Ma dall’altro lato ecco che emergono esponenti di ceti abbienti, proprietari, fittavoli, mercanti, notai; piccoli villaggi, ancora, ma soprattutto “comunità bone”, terre grosse e 56 A. ANZILOTTI, Il tramonto dello stato cittadino, in Movimenti e contrasti per l’unità italiana, a cura di A. Caracciolo, Milano 1964, p. 3-33. 57 Cosí per il Vicentino: cfr. L. PEZZOLO, Uomini e istituzioni tra una città soggetta e Venezia: Vicenza 1630-1797, in Storia di Vicenza, III/1, L’età della Repubblica veneta (1404-1797) a cura di F. Barbieri e P. Preto, Vicenza 1989, pp. 115-146, in particolare cap. 4 (“Città e contado: il tramonto di un conflitto”), pp. 143-145. 58 Anche per la Lucchesia Berengo notava che “nella uniformità che domina la campagna lucchese, difficilmente si delineano volti e figure individuali” (pochi osti, semmai mugnai, pochi nuclei familiari dirigenti). “Solo a Camaiore si è formata una sorta di aristocrazia comunale”: ma si tratta di un caso particolare, senza rispondenze nel resto del contado: BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp 327-28. centri semiurbani, già per parte loro privilegiati: quelle élites rurali che spesso ritroviamo ai vertici dei corpi territoriali. Per la Terraferma veneta si è notato che soprattutto nei borghi e nelle terre maggiori “si stava formando una società piú complessa che in altre zone dei distretti, una società che registrava altresí una piú articolata stratificazione sociale ed economica, alla cui sommità si trovavano persone che basavano le loro fortune su attività agricole e mercantili”. Dall’ampia base costituita da medi e grossi fittavoli e coltivatori, capaci spesso di profittare della particolare congiuntura economica del secolo, sarebbero usciti mercanti, intermediari, appaltatori di dazi, notai, medici, ecclesiastici, a costituire un gruppo sociale provvisto ormai di una sua identità rispetto al mondo urbano: una sorta di “borghesia rurale”, formata da “notai, mercanti, fittanzieri che popolano le campagne in misura forse sconosciuta nel passato”; “forze nuove che proprio nelle vicende fiscali contro la città dimostrano la propria forza e l’energia che sono in grado di sprigionare”59. A loro vantaggio in effetti andavano soprattutto le acquisizioni dei contadi: nel quadro di una vivacità e consistenza anche economica di un vasto settore del mondo rurale, un quadro oggi certo assai meno connotato da quel seguo pesante di crisi e di decadenza che fino a qualche tempo fa marcava le interpretazioni dell’economia del Seicento60. I caratteri dell’economia dell’Italia centrosettentrionale – fortemente influenzati sempre dalla natura dei rapporti fra centro urbano e territorio – sembrerebbero riflettere i nuovi equilibri che si sono delineati: e cosí come strettamente legato all’egemonia politica urbana era stato il modello economico che si era affermato in età comunale, ugualmente ora le condizioni delle attività economica, manifatturiere e agricole appaiono strettamente correlate alla nuova situazione che si è venuta disegnando. Cosí è per la nuova “geografia manifatturiera” che prende corpo, cioè la rilocalizzazione, in una regione costituita dalle piccole città, dai borghi e dalle campagne densamente popolate dalle regioni pedemontane che vanno dal Piemonte propriamente detto fino al Veneto, di un insieme complesso e assai articolato di fabbricazioni tessili e metallurgiche, cui corrisponde la nascita di un tessuto industriale radicalmente diverso, nella sua organizzazione, da quello essenzialmente urbano, che era stato dominante fra il XIII e il XVI secolo61. 59 L. PEZZOLO, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo ‘500, Venezia 1990, pp. 239-244. 60 P. MALANIMA, Italian economic performance: output and income, 1600-1800, in Economic Growth and structural change, a cura di J.A. Maddison e H. Van der Wee, Milano 1994, pp. 59-70; M. AYMARD, La fragilità di un’economia avanzata: l’Italia e le trasformazioni dell’economia europea, in Storia dell’economia italiana, a cura di R. Romano, vol. II, L’età moderna: verso la crisi, Torino 1991, pp. 5-137, pp. 80 ss. 61 AYMARD, La fragilità di un’economia avanzata, cit., p. 98. La tendenza si era già delineata in Lombardia nel secolo XV: tendenza a una nuova dislocazione di centri produttivi, nel quadro appunto di “una crescente integrazione regionale”, di “un sistema piú equilibrato di relazioni fra città, campagna e potere centrale”, in un’economia “meglio integrata e piú dinamica”62. E se per allora erano stati prevalentemente alcuni centri “semiurbani” che erano cresciuti, beneficiando di quella politica di privilegi, separazioni e concessioni fiscali ed economiche promossa da Visconti e Sforza, fra XVI e XVII secolo si ebbe invece una piú capillare diffusione di manifatture nel territorio, anche in centri piccoli e minimi63: un sistema produttivo articolato e diffuso in cui si viene individuando il fondamento di una tenuta economica complessiva, o addirittura (ancora in Lombardia) il presupposto del nuovo sviluppo settecentesco – anche se in dimensioni ormai lontane da quelle delle economie avanzate europee. Il riflesso della nuova geografia amministrativa si ritrova anche nell’economia agraria, e nel mercato dei prodotti agricoli: settori in cui le città appaiono con una fisionomia nuova, di piú spiccata e innovativa “imprenditorialità”64 come poli di un’attività di commercio di derrate granarie su spazi economici più aperti e vasti rispetto all’antica geografia dei contadi65. Domenico Maselli Lucca tra Riforma e Controriforma EPSTEIN, Town and Country, cit.; ID., Manifatture tessili e strutture politico-istituzionali nella Lombardia tardo-medievale. Ipotesi di ricerca, in “Studi di storia medioevale e di diplomatica” 14, 1993, pp. 55-90. Sull’economia lombarda del Quattrocento P. MAINONI, Politiche fiscali, produzioni rurali e controllo del territorio nella signoria viscontea (XIV-XV), ivi, pp. 25-55. EAD., “Viglebium opibus primum”, in Metamorfosi di un borgo. Vigevano in età visconteo-sforzesca, Milano 1992, cit. pp. 193-266. 62 63 V. BEONIO BROCCHIERI, “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”: structures economiques et familiales dans les campagnes de la Lombardie entro 16° et 17° siècle, tesi di dottorato, Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales, Paris, 1995; G. VIGO, Uno Stato nell’impero. La difficile transizione al moderno nella Milano di età spagnola, Milano 1994. 64 P. LANARO, “Esser famiglia di consiglio”: social closure and economic change in the Veronese patriciate in the sixteenth century, “Renaissance Studies”, 8 (1994), pp. 428-438. 65 P. CORRITORE, Il processo di “ruralizzazione” in Italia nei secoli XVII-XVIII. Verso una regionalizzazione, in “Rivista di storia economica”, n.s., 10 (1993), pp. 353-407. Devo scusarmi perché non ho avuto né il tempo né la serenità necessaria per preparare un intervento all’altezza dell’occasione. Ringrazio l’Amministrazione Comunale per questo convegno che ritengo importante, sia oggettivamente che soggettivamente, perché mi permette di rivivere un passato ormai lontano, dal momento che parlavamo con Marino Berengo del libro su Lucca che egli aveva allora in preparazione, a Napoli ed in Spagna, negli anni 1956-571. Sono ormai passati 39 anni di amicizia e di vita che non possono essere dimenticati. Per questa ragione, nonostante i pressanti impegni politici di questi giorni, ho voluto essere qui per cogliere l’occasione datami con questo convegno. Credo sia utile fare qualche riflessione sull’argomento della Riforma e Controriforma che ha caratterizzato gran parte dei miei interessi di studioso2. Mi pongo tre domande suggeritemi dal libro di Berengo. Egli afferma3 che gli aspetti religiosi, pure in sé importanti, sono marginali nella storia di Lucca, ed in realtà la Riforma non avrebbe avuto una grande importanza nella storia posteriore della città. Allora non condivisi questa opinione. A distanza di tanti anni, le mie conclusioni sono abbastanza vicine alle sue per quel che riguarda Lucca, come dirò dopo, ma non per quanto riguarda l’importanza che la riforma cattolica e quella protestante hanno avuto nella vita delle nostre città e nella presenza italiana nel mondo. Cercherò, in seguito di spiegare questa frase. Le domande che mi pongo sono: 1. Vi fu un impatto della Riforma Protestante sulla vita delle città italiane ed in particolare di quelle mercantili, e quale fu il ruolo di Lucca? 2. Vi fu un rapporto dialettico? E in caso positivo, di che tipo tra Riforma e Controriforma, anche nella veste di Riforma Cattolica? 3. Quale fu l'impatto della Controriforma e della Riforma Cattolica nella vita cittadina? E si può parlare, in questo caso, di successo o di insuccesso, ed in quale misura? Queste tre domande contengono il senso della nostra riflessione su questo fenomeno cosí importante per la storia, non solo di Lucca, ma di tutta l’Italia. MARINO BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi 1965. Trascorremmo insieme con Berengo l’anno 1956-57 all’Istituto Storico Italiano di Napoli e, poi, l’estate 1957 per una ricerca nell’ “Archivo General” di Simancas. 2 Posso richiamare qui solo alcuni di quegli scritti: DOMENICO MASELLI, Saggi di Storia ereticale lombarda al tempo di S. Carlo, Napoli, SEN, 1979 che raccoglie i lavori giovanili, i numerosi articoli per l’Accademia di San Carlo; piú recentemente: DOMENICO MASELLI, Alla ricerca delle radici della Riforma Protestante e della Riforma Cattolica in Italia, Firenze, Edizioni Fedeltà 1994, parte prima. 3 MARINO BERENGO, op. cit. 1 Comincio ad affrontare la prima domanda. Vi fu una riforma in Italia ed una riforma italiana? Vi sono molte risposte possibili: direi che quella che Massimo Firpo ed altri hanno recentemente dato con molta ricchezza di particolari, è un drastico no4. Non vi fu una riforma in Italia. Ci fu invece quel movimento di dotti, all’interno della Chiesa Cattolica che fu l’Evangelismo italiano e poi ci furono echi sporadici della riforma straniera, subito emarginati e presto distrutti. Questa posizione si scontra, però, con presenze non marginali come quelle a Lucca, in Calabria, in Piemonte, in Veneto ed in Valtellina, conclusesi dopo molti anni e con la persistenza di comunità di lingua italiana all’estero, o delle stesse Valli Valdesi, dove la Riforma ha avuto seguaci fino ad oggi5. Vi è un’altra grande risposta, quella tradizionale, che ha tra i suoi sostenitori grandissimi studiosi laici, protestanti, cattolici. Questa linea comincia nell’ottocento con Emilio Comba6 e continua con il Church7, con Delio Cantimori8 e possiamo giungere ai nostri giorni, fino al magistrale saggio di Salvatore Caponetto sulla Riforma in Italia9. Secondo questa linea storiografica, ci fu una riforma in Italia, o, piú che altro, vi furono delle grosse individualità di riformatori, ora identificati con cura nel libro del Caponetto, che considero la sintesi di questa interpretazione. Ho notato, e lo dico, non per vanità, ma per valutare il taglio del libro, che le mie ricerche su Milano non sono citate da Caponetto, che pure è un amico, perché non rientrano nel quadro generale di questa interpretazione. Se si tratta soltanto di grandi individualità che più o meno sull’eco di grandi riformatori tedeschi, svizzeri, spagnoli, come Juan de Valdes10, hanno agito nel nostro paese, possiamo parlare di riformatori, ma non di una riforma. Condivido la convinzione di Cantimori che 4 MASSIMO FIRPO, Il processo inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone, I, Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, 1981. MASSIMO FIRPO-DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone II-V, Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea 1981-1989. SILVANA SEIDEL MENCHI, Sulla fortuna di Erasmo in Italia, Ortensio Lando ed altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, Rivista Storica Svizzera XXIV, 1974, pp. 541-575. PAOLO SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento, questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea 1979. 5 Per i Valdesi, vedi AMEDEO MOLNAR, Storia dei Valdesi, I, Torino, Claudiana, 1974; AUGUSTO ARMANDO HUGON, Storia dei Valdesi, II, Torino, Claudiana, 1974; VALDO VINAY, Storia dei Valdesi, III, Torino, Claudiana, 1980. 6 EMILIO COMBA, I nostri Protestanti, II, Firenze Claudiana 1887. 7 FREDERIC C. CHURCH, I Riformatori Italiani, Firenze, La Nuova Italia 1935. 8 DELIO CANTIMORI, Eretici Italiani del Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia 1939. 9 SALVATORE CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana 1992. 10 Sull'importanza del Valdès nella storia italiana, vedi S. CAPONETTO, op. cit.; vedi anche MASSIMO FIRPO, Tra Alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del Cinquecento italiano, Firenze, Olschki 1990. non si tratti solo di riformatori, ma di riformatori ed eretici, dal momento che, accanto alla presenza di uomini, che poi entreranno nell’ortodossia luterana o calvinista, come Vergerio e Vermigli11, vi sono tanti altri personaggi che non avranno mai alcuna forma di ortodossia, come Fausto e Lelio Socini12. Secondo questa interpretazione, dobbiamo pensare ad una serie di vari personaggi fondamentali che, però, non hanno mai prodotto qualcosa di organico e di complessivo che potremmo chiamare Riforma italiana. Da questo punto di vista, oltre alle posizioni di Caponetto, di Rotondò13, di Cantimori, vorrei ricordare l’ultimo libro di Gonnet14 che tenta di rivedere gli studi cantimoriani e questa stessa interpretazione. In realtà, credo che sia possibile una terza risposta che, naturalmente, non esclude, ma assorbe le altre due. È evidente che vi fu un grande movimento di studiosi, di dotti di formazione umanistica che, entrato in rapporto con la Riforma, ha dato risposte totalmente diverse da quelle protestanti. È noto che l’erasmismo ebbe molti contatti con gli elementi luterani. Ormai, ad esempio, vari scritti15 dimostrano che è importante tener conto di come siano entrati in Italia elementi e pensieri di origine luterana. Occorre ricordare anche, però, quale effetto abbiano avuto, nel nostro paese, i grandi movimenti di riforma medioevale che non sono mai morti e che sono molto anteriori a Lutero. La loro risposta è stata, talora, diversa da quella che darà la Riforma Protestante. Per questo desidero esaminare riforma protestante e riforma cattolica come un continuum, sia pure molto diversificato. Non è strano che la città di Lucca, dove la riforma protestante ha avuto una presenza piú massiccia che altrove, fosse stata testimone, nel quattrocento, di un grande processo contro i fraticelli che ha riguardato molte delle categorie sociali piú tardi interessate dalla riforma16. D’altra parte, gli stessi valdesi che costituiranno lo zoccolo duro e permanente del protestantesimo italiano, sono il residuo dei grandi movimenti medioevali di tipo pauperistico ed evangelico. Per Vermigli, vedi, in particolare, PHILIP McNAIR, Peter Martyr in Italy, An Anatomy of Apostasy, Oxford, Clarendon Press 1967. 12 LELIO SOZZINI, Opere, Edizione critica a cura di ANTONIO ROTONDO, Firenze Olschki 1986. 13 Di ANTONIO ROTONDO ricorderò, tra i molti scritti, Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento, Torino Giappichelli 1974. 14 GIOVANNI GONNET, Il grano e le zizzanie. Tra eresia e riforma secoli XII-XVI, Soveria Mannelli Rubbettino 1989 (vol. I-III). 15 Tra gli altri citeremo due raccolte di saggi: Lutero nel suo e nel nostro tempo, Torino, Claudiana 1983 e Martin Luther e il Protestantesirno in Italia, Milano, Istituto Propaganda Libraria 1984. 16 Vedi tesi di laurea di FAUSSIA CERCHIAI, Fraticellismo e Valdismo in Toscana nei secoli XIV e XV discussa il 26 giugno 1995 presso la Facoltà di Magistero di Firenze. Il processo cui ci riferiamo e di cui la sig.na Cerchini sta preparando l’edizione critica, si trova nella Biblioteca Governativa di Lucca, Manoscritto 1249. 11 Il Molnar mise chiaramente in evidenza che nel corso del secolo XIV, valdesi, fraticelli ed apostolici erano in stretta interdipendenza tra loro17. Cosí si può spiegare il trasferimento, nel regno di Napoli, sotto la dinastia angioina, di consistenti colonie valdesi a Manfredonia ed in Calabria. Non si può dimenticare che la regina Sancha, moglie di Roberto d’Angio, aveva stretti rapporti con i fraticelli, tra cui il fratello, Filippo di Maiorca. La colonia valdese di Calabria18 ha tutto il carattere di una trasmigrazione della popolazione di interi villaggi che conservavano, insieme alla religione, la lingua occitana e costumi e tradizioni delle valli alpine. I valdesi, e quanto rimaneva degli altri movimenti popolari ed evangelici medioevali, strinsero rapporti intimi con i fratelli boemi o hussiti, permettendo al Molnar di parlare di internazionale valdo-hussita19. Quando scoppia la riforma luterana e poi quella svizzera, il valdismo è ancora presente in varie zone dell’Europa mediterranea ed ha tre nuclei in cui costituisce buona parte della popolazione; in Piemonte, si situa attorno al Monviso, nell’alta valle del Po e nelle valli del Chisone e del Pellice; nella Provenza, attorno a Merindol, ed in Calabria, a Guardia Piemontese e nei paesi vicini. Nel 1532, nel cosiddetto sinodo di Chanforan, le comunità valdesi accettano la riforma secondo il modello svizzero, dopo lunghi colloqui di una loro delegazione con il riformatore Farel, che poco piú tardi inviterà Calvino a fermarsi a Ginevra. Si tratta, quindi, di una accettazione di massa che coinvolge tutta al popolazione e che è il punto d’arrivo di una storia popolare, con una sua letteratura veramente rilevante, in provenzale20. È storia nota come il nucleo di Merindol e quello calabrese siano stati distrutti dalla persecuzione, anche se a Guardia Piemontese i superstiti hanno conservato la memoria della loro storia, e certi elementi linguistici e di costume. Il nucleo alpino riuscí a resistere alla crociata bandita dal Conte della Trinità e nel 1561, Emanuele Filiberto istituisce, con il Trattato di Cavour, il ghetto alpino entro cui i valdesi potranno continuare la loro esistenza di piccolo popolo chiesa: “L’Israel des Alpes”. Purtroppo non siamo in grado di ricostruire la storia della trasformazione dei valdesi da eresia medioevale a chiesa popolare di tipo riformato, perché i documenti che possediamo sono posteriori al trattato di Cavour21. Sull’argomento vedi AMEDEO MOLNAR, op. cit., cap. 5. Vedi anche, DOMENICO MASELLI, Il valdismo ed i movimenti spirituali francescani: appunti di una ricerca di équipe in Valdo e il Valdismo Medievale, in Bollettino della Società di Studi valdesi n. 136 Dic. 1974, pp. 93 -99. 18 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., pp. 35-42. 19 Vedi AMEDEO MOLNAR, op. cit., cap. VII L’internazionale Valdo-Hussita, pp. 159-196. 20 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., cap. II La formazione del popolo-chiesa: da Chanforan al 1559, pp. 13 -19. 21 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., pp. 21-32. 17 D’altra parte, fuori dalle valli valdesi, nel saluzzese e nel Veneto, c’è la stessa riforma di tipo popolare che però verrà stroncata dalla controriforma22. Per tornare a Lucca, gli studi di Simonetta Adorni Braccesi hanno portato alla luce degli elementi che a me sembrano molto importanti. Alcuni li conoscevamo, altri no. Il primo è quello che tutti sapevamo, cioè che molte famiglie lucchesi, quasi tutte della nobiltà e dell’alta borghesia sono andate a Ginevra23. Sulla base dell’elenco del Galiffe, ho contato 62 nuclei familiari completi. Il secondo elemento è dato dal fatto che le famiglie trasferitesi a Ginevra, pur partecipando attivamente alla vita pubblica della città, costituiscono una comunità ben caratterizzata. Creano “le refuge italien a Gènève” che continuerà a vivere fino a tutto il settecento e che, pur accogliendo esuli provenienti da altre regioni e città italiane, sarà essenzialmente lucchese24. Vi sono, certo, partecipazioni dalle altre zone di Italia, ma la “parte ortodossa”, quella che appoggerà Calvino, che finanzierà l’Accademia Calviniana e che diventa da quel momento il centro economico del mondo protestante europeo, è costituito dai lucchesi25. Non si può dimenticare il fatto che Giovanni Diodati, nato a Ginevra da padre partito giovanissimo da Lucca, senta il bisogno di definirsi “di nazion lucchese”, indice dell’appartenenza di questi ginevrini ad una realtà che continua ad essere, anche fuori dell’Italia, una comunità fiera delle proprie radici con le quali, in modo sotterraneo, ma reale, continuerà ad avere rapporti. Lo stesso Diodati, notissimo nel mondo protestante potrà trascorrere dei mesi a Lucca, sotto lo pseudonimo di Giovanni Coreglia, senza essere scoperto26. Non posso anticipare i risultati degli studi dell’Adorni Braccesi, ma si può affermare che contatti sotterranei tra le varie comunità continueranno ad esistere per tutto il seicento. Anche i rapporti tra riformati ed “eretici” non sono affatto esclusi. Si sbaglia quando pensiamo che questi contatti non siano esistiti, se la riforma sociniana che si era rifugiata, prima a Cracovia e poi in Transilvania, ricomparirà un secolo e mezzo dopo proprio a Ginevra. Fu Jean Alphonse Turrettini, discendente da una famiglia lucchese di Ginevra Per il Veneto, vedi EMILIO COMBA, op. cit., per il Piemonte, GIOVANNI JALLA, Storia della Riforma in Piemonte, Firenze Claudiana 1914; per il Saluzzese, ARTURO PASCAL, Il Marchesato di Saluzzo e la Riforma Protestante (1548-1588), Firenze 1960. 23 Tra i molti scritti di SIMONETTA ADORNI BRACCESI, vedi Una città infetta. La repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze Olschki 1994. 22 24 JEAN BARTHELEMY GAIFRE GALIFFE, Le refuge italien de Genève au XVI et XVII siècle, Genève 1881. 25 EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo II, Milano, Il Saggiatore 1971, pp. 371-378. 26 Vedi MILKA VENTURA, Il commento della Genesi di Giovanni Diodati, tesi di laurea discussa nella Facoltà di Magistero di Firenze. fino ad allora caratterizzata da profonda ortodossia calvinista, ad introdurre in Ginevra, agli inizi del settecento, il socinianesimo27. I contatti europei che le grandi famiglie lucchesi continuano a mantenere sia sul piano economico che su quello spirituale, con tutta l’Europa, sono fondamentali. Vorrei ricordare che un Benedetto Turrettini fa condannare, nel 1620, dal Sinodo di Dordrecht gli arminiani facendo un discorso poco teologico e molto pragmatico “se non li condannate, noi di Ginevra non vi diamo più un soldo”28. Il discorso era di una logica stringente e molto convincente. Lo stesso Benedetto Turrettini, però, pochi anni dopo, va in Olanda a controllare che le famiglie dei pastori che sono stati licenziati abbiano il necessario per vivere e un lavoro per mantenere i propri cari29. Vi è un terzo punto delle ricerche sulla riforma a Lucca che, secondo me, ha un valore piú vasto di quello che si può pensare riferendolo solo alla nostra città. L’Adorni Braccesi ha dimostrato che, al di là delle famiglie nobili e di alta borghesia, la riforma a Lucca si estese anche ai ceti popolari, comprendendo artigiani, piccoli commercianti, operai, che resistettero a lungo prima di essere assorbiti dal conformismo generale. La stessa cosa, anche se in modo meno generalizzato, l’ho verificata nelle ricerche fatte per la Lombardia30. Lo Chabod aveva dimostrato l’esistenza di una vera e propria comunità riformata a Cremona, la cosiddetta “Ecclesia Cremonensis”, cosí come aveva sottolineato una partecipazione dei ceti medi alla Riforma nello Stato di Milano31. Questa situazione è durata per vari anni, come credo di avere provato. Ancora nel 1568 esistevano riformati nelle strutture burocratiche dello stato, in quelle dell’esercito, in vari conventi francescani ed agostiniani e tra mercanti, artigiani ed operai32. Lo stesso doveva verificarsi in altre regioni d’Italia se il Pastore Egli di Coira poteva scrivere nel 1568 al riformatore di Zurigo, Bullinger, di essere in grado di far accompagnare una persona fino a Roma attraverso i contatti esistenti nelle varie città d’Italia e ad un arrestato dall’Inquisizione viene trovata una mappa in cui sono indicate le sedi di varie conventicole protestanti in Italia33. Vedi EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo, III Milano, Il Saggiatore 1971, pp. 89-90. EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo, II, cit., pp. 371-372. 29 Ibidem. 30 DOMENICO MASELLI, Saggi di storia ereticale lombarda al tempo di San Carlo, cit. 31 FEDERICO CHABOD, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, in Annuario del R. Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea voll. II-III, 1936-1937, Bologna 1938, pp. 3-261. 32 Vedi DOMENICO MASELLI, Saggi, cit., cap. I. Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Filippo II: L’eresia e la sua repressione dal 1555 al 1584, pp. 11-88. 33 DOMENICO MASELLI, Saggi, cit., pp. 51, 84. 27 28 I punti di contatto tra la riforma europea e l’Italia erano costituiti da Ginevra e dallo Stato dei Grigioni. Anche quando, dopo il 1568, la Riforma si poté dire definitivamente sconfitta in Italia settentrionale, la Valtellina e le valli italiane dei Grigioni videro fiorenti comunità riformate e mantennero forti rapporti commerciali con i vari stati italiani. Solo dopo il “sacro macello” di Valtellina del 1622, si poté dire finita la riforma popolare in Italia, anche se i riformati rimasero nelle valli valdesi, nei Grigioni italiani e continuarono ad esistere comunità evangeliche italiane all’estero. Mi pare quindi che si possa sostenere con piena convinzione, che sia esistita una vera riforma italiana, avente leaders prestigiosi ed una presenza diffusa in tutte le classi sociali. La seconda domanda che ci si pone, è questa: vi è un rapporto dialettico, e di che tipo, tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica? Non penso che, se come abbiamo appena sostenuto, la riforma italiana è esistita, essa poi finisca improvvisamente. Per Lucca si può arrivare fino agli inizi del secolo XVII, e forse oltre, seguendo i risultati degli studi di Carla Sodini34. In Lombardia si può far coincidere questa fine con il 1568-70. Perché cessa di esistere la riforma italiana? La risposta piú naturale è che la causa sia stata la Controriforma. L’alleanza tra gli Stati italiani e la Chiesa Cattolica, anche se inficiata dalla controversia giurisdizionale aperta allora tra i due enti35, ebbe, senza dubbio, un forte impatto repressivo, che però, da solo, non mi sembra possa spiegare la fine di un movimento cosí presente e ramificato nell’Italia di allora. D’altra parte il numero dei roghi e delle condanne a morte è, in realtà, troppo esiguo per giustificare questa interpretazione. Naturalmente, Lucca resta un caso a sé, come ha dimostrato l’Adorni Braccesi per l’atteggiamento della classe dirigente lucchese nei confronti dell’Inquisizione Romana, che non poté mai avere giurisdizione nella città e nello Stato lucchese. I nobili che hanno scelto la Riforma, sono stati invitati, dal Governo della Repubblica, ad uscire e, condannati, soltanto quando erano ormai sicuri all’estero. Si è trattato di un esodo avvenuto a tappe, iniziato nel 1542, e non ancora concluso nel 158036. A mio parere, è importante analizzare il valore che la Riforma Cattolica ha assunto in alcune regioni per l’azione di vari vescovi, ed, in particolare di San Carlo Borromeo. Non si può, certo, negare che tra la riforma protestante e quella cattolica vi siano differenze consistenti, tanto da giustificare, nel ‘500, una netta contrapposizione. Come ho tentato di CARLA SODINI, Stampa e fermenti ereticali nella prima metà del Seicento Lucchese, in Montecarlo: Lucchesia e Valdinievole. Omaggio a Mario Seghieri, Rivista di Archeologia, storia e costume XVIII, 1990. 35 Vedi GAETANO CATALANO, Controversie giurisdizionali fra Chiesa e Stato nell’età di Gregorio XIII e di Filippo II, Palermo 1955. Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo, Serie IV, vol. XIV. 36 SIMONETTA ADORNI BRACCESI, op. cit., pp. 369-385. 34 dimostrare altrove37, si tratta di due spiritualità diverse, tali da non poter mai coincidere, che pure avevano elementi comuni alla loro base. Il primo di questi elementi è il cristocentrismo ed il valore dato alla teologia della Croce. Anche questo punto comune era vissuto in modo differente, portando Lutero ad affermare che la salvezza si ottiene per la sola fede nel sacrificio di Cristo che trasforma la vita del credente, simul iustus et poenitens. Da qui nasceva la visione del sacerdozio universale dei credenti, la concezione delle opere come segno di riconoscenza, il libero esame della Scrittura. A sua volta San Carlo, passò anni interi nella meditazione sulla sofferenza di Cristo che si esprimeva anche nel culto del “sacro chiodo” e nella convinzione che l’incontro con il sacrificio di Cristo possa avvenire solo nel luogo dove è Cristo, cioè la Chiesa, “del sangue incorruttibile, conservatrice eterna”, come dirà, poi, il Manzoni38. Altre idee della Riforma Cattolica, in grado di attirare anche spiritualità, prima tendenti alla Riforma protestante, erano, la necessità della predicazione in italiano, l’importanza data a Concili provinciali e Sinodi diocesani, il coinvolgimento laicale attraverso centinaia di confraternite, aventi come scopo l’insegnamento della dottrina in italiano39. Quando San Carlo, ad un certo punto toglie la parola al Cardinal Paleotti, vescovo di Bologna perché stava predicando in latino, nel Duomo di Mílano, indica la priorità di una conversione del popolo, che può avvenire soltanto attraverso la conoscenza del messaggio di Cristo. La nascita dei Seminari mostra come questa riforma cattolica creda all’educazione, esattamente come Calvino nella sua Ginevra. Il punto centrale, poi, in cui molti si potevano riconoscere, era quello della moralizzazione della vita religiosa, con l’obbligo della residenza di preti e vescovi, il controllo della loro vita morale ed il divieto di nepotismo e cumulo di cariche ecclesiastiche40. Certamente la Riforma Cattolica aveva anche un impatto antiprotestante e il tentativo di riprendere agli Stati le prerogative che erano state tipiche della Chiesa nel medioevo. In Lucca l’urto fu piú forte che altrove, come vedremo piú oltre. La Chiesa Cattolica, a sua volta, reagí contro la riforma cattolica quasi come contro quella protestante, anche se in modo piú coperto. Non solo non furono piú convocati i concili universali, fino al Vaticano I che doveva imporre l’infallibilità papale, ma gli stessi DOMENICO MASELLI, Alla ricerca delle radici, cit. ALESSANDRO MANZONI, La Pentecoste, vv. 3-4. A proposito della spiritualità di S. Carlo Borromeo, vedi ALESSANDRA TOPINI, Il Cristocentrismo di San Carlo: la pietà personale e le iniziative per la diocesi, in “Studia Borromaica”, 5 1991. 39 ALESSANDRA TOPINI, La concezione pastorale di S. Carlo Borromeo: Elaborazione e fortuna in Tra Riforma e Controriforma, note biografiche e storiche a cura di DOMENICO MASELLI,cit. 40 A proposito, vedi DOMENICO MASELLI, Alla ricerca..., cit., pp. 38-48. 37 38 concili provinciali e sinodi diocesani, che per San Carlo dovevano essere frequentissimi, (11 sinodi e 6 concili in venti anni) si rarefecero e con i pontificati di Sisto V e Clemente VIII, perse valore anche lo stesso Concistoro cardinalizio. San Carlo stesso venne proclamato santo per virtú personali e non per virtú pastorali41. Per quanto riguarda Lucca, l’urto fu immediato, come abbiamo già accennato. La visita apostolica del vescovo Benedetto Castelli42, collaboratore di San Carlo, fu fortemente osteggiata dal governo e le iniziative di confraternite, avviate dal Leonardi, vennero, di fatto, proibite dagli anziani che scorgevano nel movimento cattolico un tentativo politico di ribellione contro l’oligarchia al potere. Finita l’attività dei due vescovi Guidiccioni, l’attività religiosa si avvia ad un suo epilogo formale e ad una adesione più esteriore che sentita43. Ha ragione Berengo; a Lucca questa storia sembra essere passata invano e la città si avvia ad essere un’oasi di conformismo religioso. Ciò nonostante, i rapporti con le famiglie riformate, residenti a Ginevra, non s’interrompono mai come si può vedere anche dal bel libro della Sodini e di Emidio Campi sul tentativo del vescovo Spinola di far tornare, un secolo dopo, all’ortodossia cattolica, i lucchesi di Ginevra44. Non a caso, l’ultimo erede lucchese della famiglia Diodati, Ottaviano, userà i suoi cospicui mezzi economici per pubblicare, nella cattolicissima Lucca, l’enciclopedia francese. Ciò, naturalmente, non esclude l’esistenza di serie esperienze spirituali come quella di vari anziani della Repubblica che divennero cappuccini e si dettero ad una vita di rinunzie e di servizio, non accettando alcuna carica nell’Ordine. In complesso, però, non posso dar torto alle conclusioni del Berengo, che, a distanza di trent’anni, rimangono valide anche se vanno inserite, come ho tentato di fare, in un quadro storico piú completo ed articolato. Su queste vicende, vedi PAOLO PRODI, Il Cardinale Gabriele Paleotti, vol. I, Roma 1959. Vol. II, Roma 1967 e PAOLO PRODI, Il sovrano pontefice, Bologna, Il Mulino 1982. 42 Sulla visita del Castelli a Lucca e le sue conseguenze, vedi SIMONETTA ADORNI BRACCESI, Una città infetta, cit., pp. 381-385. 43 Un quadro della religiosità lucchese tra Sette-Ottocento si desume dal bel libro di PIER GIORGIO CAMAIANI, Dallo stato cittadino alla città bianca. La “Società cristiana” lucchese e la rivoluzione toscana, Firenze, La Nuova Italia, 1979. 44 EMIDIO CAMPI, CARLA SODINI, Il Cardinale Giulio Spinola e gli oriundi lucchesi di Ginevra. Una controversia religiosa alla vigilia della revoca dell’editto di Nantes, Napoli Prismi Newwberry Library 1988. 41