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nobili e mercanti nella lucca del cinquecento

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nobili e mercanti nella lucca del cinquecento
PER I TRENT'ANNI DI :
NOBILI E MERCANTI NELLA LUCCA DEL CINQUECENTO
ATTI DELLA GIORNATA DI STUDI IN ONORE DI MARINO BERENGO
LUCCA – 21 OTTOBRE 1995
COMUNE DI LUCCA – 1998
A più di trent’anni dalla sua comparsa Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento
appare ancora un’opera di grande vitalità. Essa appartiene a una stagione importante della
storiografia italiana, caratterizzata da una riflessione critica sulla storia d’Italia, impegnata
a cercare nel passato le ragioni dei problemi e dei ritardi che sembravano prolungarsi nel
presente. Ma in quella stagione si è collocata con forte originalità. Nel ricostruire le
vicende della piccola repubblica lucchese, gelosa custode della sua libertà, delle sue
tradizioni repubblicane e della sua indipendenza, nel tempo pericoloso e critico delle
guerre d’Italia, Marino Berengo ha creato un modello difficilmente ripetibile di storia
cittadina, attenta agli aspetti politici come a quelli sociali, agli aspetti economici come a
quelli religiosi.
Le linee tematiche-guida con cui Berengo ha indagato la Lucca cinquecentesca – le
forme del governo cittadino, l’economia mercantile e le sue trasformazioni, la famiglia e la
nuova coscienza nobiliare, i rapporti tra città e contado, le inquietudini religiose e la
diffusione della Riforma – hanno imposto la propria centralità nell’indagine storiografica
sul Cinquecento italiano Riprese e sviluppate da altri studiosi sono state oggetto di
confronto fra visioni diverse, hanno aperto discussioni in cui Nobili e mercanti è rimasto
punto di riferimento vitale. Libro letto e amato da un pubblico non solo specialistico, esso è
stato ed è per gli studiosi uno stimolo alla ricerca e un oggetto vivo di riflessione e di
confronto.
Per tutti questi motivi è sembrato al Comune di Lucca che il modo migliore di
festeggiare i trent’anni dell’opera fosse di seguire quei filoni di ricerca con l’aiuto di alcuni
degli studiosi – allievi o colleghi di Berengo – che hanno contribuito ad alimentarli. Il
risultato è stato un ricco e articolato quadro storiografico a più voci, che dà conto delle
continuità e dei mutamenti intercorsi in questo arco di tempo. Un quadro non celebrativo
ma storico-critico, nel quale la Lucca di Berengo vive in una prospettiva lunga e mossa, e
in questa trova il suo posto durevole.
È dunque con particolare piacere che, a nome dell’Amministrazione Comunale di
Lucca, presento oggi questa raccolta di studi nella certezza di offrire un contributo effettivo
ed importante alla conoscenza della nostra storiografia.
Nel ricordare tutti coloro che hanno fattivamente contribuito alla realizzazione del
presente volume, il più vivo ringraziamento va naturalmente al Prof. Marino Berengo, già
cittadino onorario, che con la sua attività di studioso ha saputo portare la nostra città in un
circuito di riflessione culturale di alto livello, nel quale Lucca è divenuta un “modello” per
gli studi italiani sul Cinquecento.
Il Sindaco
Pietro Fazzi
Elena Fasano Guarini
“Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento”
trent’anni dopo
Rileggere un libro a distanza di trent’anni – e tanto più un libro che si è visto nascere e ci è
poi stato di lunga compagnia nella ricerca e nell’insegnamento – può essere occasione di
riflessioni e di scoperte che vanno al di là dell’oggetto immediato della rilettura, per
investire il rapporto che ad esso ci lega, e dunque gli sviluppi e le prospettive della attività
che svolgiamo; per misurare la continuità ed i mutamenti intervenuti nel campo in cui
operiamo. Nel nostro caso, in quello della ricerca storica dal 1965 ad oggi.
Ciò vale naturalmente solo per i libri importanti, con i quali vale ancora la pena di
confrontarsi, come è quello di Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del
Cinquecento. Questo è il senso dell’incontro odierno, cui partecipano studiosi che sono stati
compagni o allievi di Berengo, o si sono formati per altre strade; ma si sono tutti occupati
di temi e problemi che in quell’opera hanno assunto una rilevanza particolare, ed in taluni
casi di qui hanno preso originariamente forma, per avere poi vita autonoma, modificati ed
alimentati anche da altre esperienze di ricerca, da dibattiti e discussioni. Trent’anni dopo
la sua pubblicazione, la Lucca berenghiana appare un po’ come un crocevia tra direzioni di
ricerca che successivamente hanno impegnato a lungo gli studiosi, con sviluppi ed esiti
diversi, in parte consonanti, in parte dissonanti dalle posizioni là enucleate: la città e lo
Stato, la famiglia e la nobiltà, le attività mercantili ed i rapporti tra città e campagna, il
dissenso religioso e la confessionalizzazione nel Cinquecento.
Altri presenteranno criticamente il lavoro compiuto e gli orientamenti maturati in tali
direzioni. Inizialmente, tuttavia, è bene tornare al libro stesso e alle sollecitazioni – alle
sorprese, vorrei dire – che la sua rilettura oggi può offrire. Questo io mi propongo di fare, a
partire da alcuni aspetti solo apparentemente formali, che oggi noto e forse non notavo
trent’anni fa.
Il libro non ha introduzione, né premesse, né avvertimenti di sorta; non vi sono dunque
richiami iniziali che consentano di stabilirne la genealogia ideale, né dichiarazioni che
pretendano di chiarire le tesi e le scelte metodologiche sottese. Si entra subito in media res.
“Nel Quattrocento non c’è Stato italiano che non abbia da lottare o temere per la sua
libertà”. Questa la piana apertura, cui segue due sole pagine destinate a delineare il
contesto generale, di “crisi” politica, in cui l’autore situa la vicenda lucchese: i pericoli
che nell’Italia quattro-cinquecentesca incombono sugli Stati italiani: minacciati prima
dall’interno nelle loro libertà comunali, dallo stabilirsi di regimi oligarchici o signorili e
principeschi, poi tutti, repubbliche o principati che siano, dagli inizi del Cinquecento, con
le guerre d’Italia e l’affermarsi dell’egemonia spagnola, anche dall’esterno, nella loro stessa
indipendenza e sopravvivenza come Stati. A queste due pagine si salda il rapido disegno
(cinque pagine) della politica seguita dalla minuscola repubblica lucchese, incline a
cercare entro l’area di influenza della Spagna il possibile spazio di una sostanziale
neutralità di fronte ai grandi conflitti europei; una neutralità che le è consentita dalla sua
stessa posizione marginale e dalla sua “picciolezza” nonché dalla natura del suo sistema
politico, da quel “governo (apparentemente) largo”, entro il quale riesce a mantenere gli
equilibri interni indispensabili alla conservazione della città, e a ristabilirli, quando essi
vengano scossi. Marginalità, “picciolezza” dello Stato, “larghezza” del governo sono in
effetti qualità insistentemente esibite, quasi come baldanzosi baluardi, dai rappresentanti
lucchesi nelle trattative e nei conflitti diplomatici.
La stringata analisi delle scelte politiche della città cede rapidamente il passo a quella
più ampia delle forze sociali che in essa operano e si confrontano: momento esplicativo
essenziale, questo agli occhi di Berengo, che già nel suo primo lavoro, La società veneta
alla fine del ‘7001, aveva considerato il loro studio un’esigenza prioritaria per spiegare le
vicende politiche e culturali – in quel caso le forme assunte dal movimento giacobino e la
diffusione delle idee democratiche – differenziando in questo il proprio cammino da quello
del maestro, Delio Cantimori. Nel tessuto sociale Berengo aveva allora cercato le ragioni
del declino di un’altra, più grande, repubblica cittadina.
Fin dalle prime pagine emerge un aspetto fondamentale del libro: il suo immediato,
continuo misurarsi con le fonti, cercate ed indagate lungo itinerari complessi, non
esplicitamente dichiarati, ma chiaramente affioranti nel denso tessuto delle note. A Lucca
sono inesistenti, per ragioni politiche che Berengo spiega, le storie ufficiali. Poche, benché
avvincenti, sono le cronache e quei libri di ricordi che nel vicino contesto fiorentino hanno
invece offerto un materiale di straordinaria ricchezza a chi, come Christiane Klapisch, ha
studiato la storia della famiglia. È assente ogni tipo di fonte fiscale. È dunque l’archivio
notarile a fornire la prima, benché non unica base della analisi del tessuto sociale e a
riempire di concretezza e di vita i dati relativi alla distribuzione delle cariche cittadine,
fondamentali nell’impianto della ricerca, ma in sé poco parlanti.
Emerge subito anche un altro tratto stilisticamente rilevante del libro: il piacere
dell’evocazione. Il materiale notarile non è trattato in modo sistematico e quantitativo,
come più o meno negli stessi anni facevano alcuni studiosi francesi. È invece la
1
Firenze, Sansoni, 1956.
straordinaria miniera di una densa serie di casi, in parte semplicemente richiamati a
sostegno dell’analisi generale, in parte anch’essi oggetto di vivace evocazione narrativa. Si
pensi all’uso dei testamenti. Da essi affiora l’immagine di un sistema cittadino fondato
sulla centralità delle famiglie mercantili, caratterizzato dall’ansia della trasmissione del
nome, e, con il nome, della casa avita e del patrimonio. Ma insieme sono restituite con
rapidi tratti di penna singole vicende familiari, che illuminano, come oggi si direbbe e non
si diceva allora, le “strategie” del ceto dominante cittadino: il sistema delle doti, il ricorso
all’istituto dell’emancipazione, la pratica delle adozioni e delle legittimazioni; le
“strategie”, appunto, attraverso le quali si manifestava la preoccupazione collettiva della
conservazione del casato e la larga solidarietà tra i maschi della stessa casa. Di scorcio si
intravvede anche la distribuzione, nell’ambito della famiglia, dei ruoli tra chi opera lontano
da Lucca, nei fondachi di Lione e di Anversa, e chi resta o torna in città, impegnato, oltre
che nella mercatura, in quell’esercizio delle cariche pubbliche, che garantisce, insieme al
potere, l’onore della famiglia, ed è la prima ragione, secondo Berengo, del suo mantenersi
tenacemente unita.
Accanto alle famiglie mercantili si dispiegano le altre componenti che, pur escluse dai
vertici del potere – dall’Anzianato –, costituiscono tra Quattrocento e Cinquecento il
supporto indispensabile delle funzioni interne ed esterne di governo, i dottori ed i notai.
Consulenti giuridici apprezzati di ogni atto legislativo; rappresentanti avveduti della città
presso le corti straniere al tempo della nascente diplomazia, i dottori, a Lucca non meno
che a Venezia (diverso è apparso il caso fiorentino)2, sono tuttavia oggetto di una diffidenza
tenace, generata dal loro stesso sapere. Ben più integrati al mondo mercantile sono i notai,
impegnati in attività di confine tra pubblico e privato, dotati di una cultura eminentemente
pratica, anche quando abbiano trascorsi umanistici, come è il caso (per richiamare un
nome tra i tanti che costellano le pagine loro dedicate) di Giovanni Ciuffarini, autore in
gioventù di eleganti epistole latine di carattere grammaticale, e di celebrazioni della libertà
lucchese intessute di passi tratti da Platone. Affiora infine dall’archivio notarile, insieme
alla natura dei rapporti di produzione predominanti nel sistema mercantile lucchese, il
mondo vario dell’artigianato cittadino. Emergono i tessitori, protesi all’acquisto del telaio e
pronti ad indebitarsi a questo fine, ma sempre subalterni ai mercanti, fornitori della
materia prima e tramite insuperabile per la collocazione del prodotto lavorato sul mercato; i
garzoni e gli apprendisti; i muratori e gli addetti alle arti minori; i ricchi cuoiai,
avvantaggiati dalla loro duplice qualità di artigiani e mercanti.
2
L. MARTINES, Lawyers and Statecraft in Renaissance Florence, Princeton, University Press, 1968.
Il colloquio diretto con le fonti guida anche la ricostruzione delle vicende politiche
lucchesi. Agli atti notarili si aggiungono ora le delibere degli Anziani e del Consiglio
generale, i verbali dei Colloqui, le fonti diplomatiche, lucchesi, fiorentine e spagnole; le
cronache, da quella – per non citare che le più importanti – solo recentemente pubblicata,
del Civitali3, a quella, non meno straordinaria e ancora in attesa di edizione, di Gherardo
Burlamacchi. Le fonti sono utilizzate e valutate criticamente, tanto per le informazioni che
offrono, quanto nei loro significati impliciti e nei loro significativi silenzi; e il piacere
dell’evocazione, lontano da ogni erudizione di tipo positivistico, diventa gusto del racconto
storico. È il racconto a prevalere sulle esplicitazioni di tesi, sulle dichiarazioni di metodo.
Nella “struttura narrativa” ancora in anni recenti è stato indicato il carattere distintivo
della storia rispetto alle altre scienze umane4. Una scelta come quella di Berengo non era
tuttavia scontata tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, anni di dibattiti intensi e di riflessioni e
ricerche spesso dalle forti venature ideologiche, che investivano in modo diretto, primario,
il senso e le direzioni complessive della storia d’Italia5. Ancora meno scontata, questa
scelta può apparire a chi fa ricerca storica oggi, incalzato dall’aprirsi di altri dibattiti,
dall’impiego di categorie interpretative e dalla moltiplicazione di strumenti di analisi
mutuati anche da campi disciplinari non originariamente storici. Ed è scelta ricca di
implicazioni, non soltanto sul piano dello stile.
Quel gusto, quella scelta appaiono evidenti nella ricostruzione dei due profondi benché
effimeri conflitti che interrompono la vita del “pacifico et populare Stato” tra l’inizio degli
anni ‘20 e l’inizio degli anni ‘30 del Cinquecento: il moto – interno al ceto dominante – dei
Poggi, “vecchio ceppo di grandi” di tradizione fazionaria; e quello degli Straccioni, che
aggrega contro l’oligarchia di governo gli esponenti della classe artigianale e le famiglie
“comode” e – “mediocri” escluse dal potere. È ancora evidente nell’analisi dei minuti
eventi quotidiani – scontri di confine, contese intorno ai fuoriusciti – e dei contrasti politici
più sostanziali che costituiscono la trama dei rapporti, a lungo conflittuali e gravidi di
minacce reali o immaginarie, tra Lucca e la Firenze di Alessandro e più ancora di Cosimo
I, che, con il suo potenziale espansionismo, incombe sulla repubblica confinante ben più
della lontana e quasi protettiva figura dell’Imperatore. È infine evidente – quel gusto del
racconto – nella ricostruzione dei due “trattati”, come allora si diceva, che in diverso
3 G. CIVITALI, Historie di Lucca, a cura di M.F. Leonardi, Roma, Istituto storico per l’età moderna e
contemporanea, 1988, 2 voll.
4 Cfr. ad es. J. HABERMAS, Zum thema: Geschichte und Evolution, in “Geschichte und Gesellschaft”, 2, 1976,
pp. 310-357.
5 Cfr. il quadro tracciato con prevalente ma non esclusiva attenzione alla storiografia sul ’700 e sul
Risorgimento, da M. MIRRI, La storiografia italiana del secondo dopoguerra fra revisionismo e no, in Fra storia e
storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna, il Mulino 1994, pp. 27-98.
modo, tra la fine degli anni ‘30 e la metà dei ‘40, sorprendono drammaticamente la città,
generando inquietudine profonda: la congiura alimentata dal “sogno principesco” di Pietro
Fatinelli e l’eroico progetto cospiratorio di Francesco Burlamacchi, teso a restaurare il
repubblicanesimo e il “vivere civile” in tutta la Toscana: progetti assai lontani l’uno
dall’altro per gli ideali politici che li ispirano, ma accomunati dall’intento di rompere i
chiusi equilibri oligarchici cittadini. È ancora una narrazione animata quella che,
nell’ultimo capitolo, dipana il filo dei conflitti ecclesiastici che si aprono tra i vescovi, il
capitolo di S. Martino, i poli conventuali di S. Frediano e S. Romano; e poi, attraverso le
sfuggenti inquietudini religiose diffuse anche nelle più elevate famiglie mercantili, ma
nascoste e protette dal governo cittadino, ci conduce fino alla più netta affermazione di
correnti riformate, e quindi allo scioglimento dell’ “ecclesia lucensis” ed alla “partita”,
negli anni ‘50, dei nuclei familiari più esposti. Per concludersi con la mortificante
ricomposizione della vita religiosa cittadina, “seppur con una tonalità propria, nell’alveo
religioso e confessionale della Controriforma”.
La scelta di porre in luce in primo luogo la concretezza della ricerca risulta anche dalle
note, intessute, come si è già accennato, di riferimenti al materiale d’archivio e ai testi
coevi; aliene invece da richiami bibliografici che non siano indispensabili alla
ricostruzione storica. Uno solo, se non sbaglio, il debito esplicitamente riconosciuto nei
confronti di uno studioso precedente, quello verso Nino Tamassia, la cui opera non recente,
La famiglia italiana nel secolo decimoquinto e decimosesto, “mi è stata di grande
giovamento per tutta l’impostazione della ricerca sulla vita familiare lucchese”6. Pochi e
contestuali i richiami al maestro, Delio Cantimori, così come quelli a Federico Chabod,
entrambi citati nel capitolo su “La vita religiosa”. Assai parsimoniosi e circoscritti anche i
riferimenti polemici: su Fernand Braudel, il cui impianto metodologico e la cui visione del
Cinquecento pur erano a Berengo fortemente alieni, uno solo è lo spunto critico, quello che
riguarda l’interpretazione generalizzata del banditismo come “fenomeno omogeneo” sulle
due rive del Mediterraneo, dovunque riconducibile al “dramma della fame”7.
Se ho voluto insistere su questi aspetti di stile, è non solo perché essi si rendono conto
di alcune qualità che non si usa di solito rilevare a proposito dei lavori di storia, ma in
questo caso, dopo trent’anni, viene spontaneo di notare: la freschezza e la vivacità del
libro, ragione non secondaria del piacere, oltre che dell’interesse, che la sua rilettura ci
offre. È in primo luogo perché rivelano il modo, peculiare dell’autore, di intendere la
P. 40 n. l. L’opera del Tarnassia è stata pubblicata nel 1910.
P. 356. Il riferimento è a F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi,
1953, II, pp. 876-94.
6
7
ricerca e la scrittura storica, di praticarne, vorrei dire, il mestiere e l’ “arte” nel senso in
cui questi termini venivano usati nel mondo comunale e cittadino, a Berengo ben familiare.
Proprio lo stile fa della Lucca berenghiana un modello difficilmente ripetibile, e di fatto
non più riproposto dalla storiografia sulle città fino a oggi.
Non, ovviamente, che il libro sia semplice narrazione di eventi, indagine positivistica di
fatti: se così fosse non meriterebbe di discuterne insieme, trent’anni dopo la sua
pubblicazione. Esso, al contrario, offre una visione complessiva della storia italiana nel
Cinquecento, fortemente connotata da una tesi su cui torneremo, ma anche dalla
connessione organica, e allora nuova, di problemi, linee, prospettive ancora oggi vitalmente
operanti.
Gli eventi infatti – anche i più clamorosi e drammatici – valgono agli occhi dell’autore
per quanto rivelano; e, lungi dall’esaurirsi nel loro racconto, il libro trascorre
continuamente da questo all’analisi dei processi che gli eventi sottendono e che si svolgono
in una dimensione più lunga e più profonda. “Come la rivolta degli Straccioni –scrive
Berengo in un passo che ha una chiara valenza metodologica – rivela ad un tratto la
situazione che la ha silenziosamente preparata e le forze da cui è stata sostenuta, così le
congiure di Pietro Fatinelli e di Francesco Burlamacchi testimoniano quante inquietudini e
quanti contrasti abbiano accompagnato l’irrigidimento di quella società cittadina sulle
uniche posizioni politiche a lei ormai consentite”8. Il gioco tra i tempi brevi e i tempi
lunghi della storia (i tempi in cui “le strutture sociali maturano con lentezza le loro
trasformazioni”, come due anni dopo la pubblicazione del libro, Berengo osserverà al primo
convegno degli storici italiani, tenuto a Perugia nel 1967) 9 non obbedisce certo, nel libro,
a scansioni simili a quelle che Fernand Braudel ha prima seguito nella sua pratica storica,
e poi teorizzato esistere tra rapido succedersi degli eventi, movimenti congiunturali
dell’economia e permanenze strutturali. Quel gioco traspare nell’aprirsi entro il racconto di
cadenze più distese, nelle quali processi e tendenze, anche conflittuali, diventano oggetto
immediato di analisi e riflessione. Si è visto come l’autore tracci inizialmente il disegno
della società lucchese a partire dalle fonti notarili: questo disegno non sembra mutare
sostanzialmente nel periodo abbracciato dalla ricerca, se non per il “declino” che, dopo la
metà del secolo, pare colpire l’economia lucchese, senza modificarne, peraltro, i caratteri
fondamentali. Non meno ampio è il quadro –anch’esso esorbitante i tempi del racconto
politico – dedicato nel penultimo capitolo del libro al contado: al suo governo e ai suoi
8
9
Pp. 183-184.
M. BERENGO, Il Cinquecento in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, I, Milano, Marzorati, 1970, p. 484.
rapporti con la città; alle forme di sfruttamento della terra, nelle affollate Sei Miglia e nelle
boscose vicarie; al comune rurale, alle sette contadine e al brigantaggio.
In altri casi, più che i tempi, si dilatano gli spazi di osservazione. Penso alle pagine
notissime che hanno costituito, come altri diranno, il punto di partenza di ulteriori ricerche
sulla formazione di una comune, benché variegata, “coscienza nobiliare” nell’Italia della
seconda metà del Cinquecento. Penso alle considerazioni sugli aspetti disparati che questa
coscienza acquista nei diversi contesti, cortigiani e cittadini, e sui toni particolari che essa
assume a Lucca, città di mercanti, retta da istituzioni che sfuggono fino agli anni ‘20 del
secolo XVII a quelle forme di separazione di ceto più precocemente sanzionate per via
istituzionale in altre realtà rubane, da Venezia alle piccole città della Marca pontificia. Ma
possono anche essere richiamate le pagine, forse meno frequentemente ricordate, eppure
fondamentali per chi voglia occuparsi delle forme della lotta politica del Cinquecento, sui
caratteri delle “trame” segrete che in quel secolo pullulano nella penisola. “Trame”
cospirative diverse le une dalle altre, come già si è visto, per la cultura che le nutre,
cortigiana o fieramente repubblicana, oltre che per i motivi che le ispirano e i fini
perseguiti; ma ricche di aspetti comuni. Le nuove “imprese”, nota Berengo, memore forse
anche di alcune riflessioni machiavelliane, sono certo “memorabili ed eroiche”, ma
lontane, ormai, dalla congiura “pazientemente intessuta, frutto dell’antica familiarità colla
vita comunale ed attenta a quelle forze che dal suo seno possono esser tratte”, tendente a
sfociare nel tradizionale “tumulto” cittadino; sono ormai condotte da “pochi” isolati e
“affidate alle armi”10. Rispondono dunque a un mutamento generale del clima e
dell’organizzazione delle forze politiche: si svolgono all’interno di cerchie ristrette di
potere, di cui riflettono la chiusura.
In questi scorci – e in molti altri ancora, sui quali ci si potrebbe a lungo soffermare –
vengono proposti e perlustrati temi rimasti fondamentali nei successivi svolgimenti della
storiografia sul secolo XVI, che anche oggi saranno in parte al centro della nostra
riflessione: l’evoluzione delle forme del governo cittadino, tra larga partecipazione e
consolidamento oligarchico; la natura della famiglia e le sue funzioni politiche; i rapporti
tra ceti mercantili e ceti artigianali; la diffusione dell’ideologia nobiliare; i mutamenti della
religiosità tra riforma e controriforma. Lucca, in effetti, è per Berengo testimonianza ed
esempio degli sviluppi complessivi della storia d’Italia del Cinquecento. In quell’inquieto
microcosmo, durevolmente repubblicano, si colgono gli aspetti molteplici – sociali, politici,
culturali, religiosi – di un mondo che affronta, con esiti diversi, trasformazioni decisive, per
non dire drammatiche.
10
Nobili e mercanti, p. 187.
L’idea generale che domina la ricerca, la tesi che sovrasta è che il Cinquecento sia un
secolo di “crisi” profonda, che segna nella storia d’Italia una rottura irrimediabile e l’inizio
di un plurisecolare declino.
Ritorniamo al passo con cui si apre il libro. “Nel Quattrocento non c’è Stato italiano che
non abbia da lottare o da temere per la sua libertà”. Dappertutto incombe “l’insidiosa
opera delle grandi famiglie”. Dappertutto si può aprire “la via al principato”, a volte
“inavvertita e quasi spianata da un’interna e graduale evoluzione”, a volte tracciata “tra
lotte e resistenze ostinate”. Nel Cinquecento il pericolo cambia natura e si aggrava: la
“libertà” per cui lottano i cittadini, là dove hanno ancora spazio per farlo, non è solo, né
prevalentemente, la conservazione degli istituti repubblicani e delle forme comunali. È
anche la sopravvivenza dello Stato. Nello spazio di un trentennio l’ “ecatombe dei
principati dell’Italia centrale”, l’insediamento degli Spagnoli a Napoli ed a Milano, la
caduta prima della seconda repubblica pisana, poi, oltre la metà del secolo, di quella di
Siena, infine la devoluzione di Ferrara sono “le maggiori tappe di una strada che conduce
qui e altrove “alla falcidia delle autonomie cittadine” e “al rafforzamento delle
giurisdizioni feudali”11.
Non è difficile cogliere in queste parole quella stessa idea del Cinquecento italiano
come “crisi di libertà o diciamo pure decadenza”, come “declino di quella civiltà urbana in
cui le forme repubblicane di governo più avevan avuto presa”, che nel 1967 Berengo
indicherà come patrimonio comune della storiografia politico-sociale del dopoguerra
sull’Italia del Cinquecento, e farà propria12. Una visione che risultava già predominante nel
bilancio storiografico dei precedenti cinquant’anni di studi sul Rinascimento tracciato nel
1950 da Federico Chabod13, alla quale lo storico valdostano aveva dato il suo personale
contributo fin dai primi lavori dedicati a Niccolò Machiavelli, che di quella crisi era stato,
a suo avviso, una delle voci più autorevoli14. Una visione le cui radici, attraverso
l’Ottocento risorgimentale e post-risorgimentale – attraverso Carlo Cattaneo, Francesco De
Sanctis, Giosuè Carducci – possono essere fatte risalire fino all’opera del Sismondi, che in
quel secolo ebbe una straordinaria fortuna15.
In questa tradizione Berengo si è calato con rigore ancora più univoco di Chabod.
Mentre infatti agli occhi di quest’ultimo la “decadenza” era in qualche misura compensata
Ibid. p. 11.
Il Cinquecento, p. 486.
13 F. CHABOD, Studi di storia del Rinascimento in ID., Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, pp. 147-219.
14 F. CHABOD, Del “Principe” di Niccolò Machiavelli, in ID., Scritti sul Machiavelli, (1925) Torino, Einaudi, 1964,
pp. 40-55.
15 Sulla fortuna del Sismondi cfr. oggi la presentazione d P. Schiera a J. CH. L. SIMONDE DE SISMONDI,
Storia delle Repubbliche italiane, Torino, Boringhieri, 1996, pp. XLIV-XCV.
11
12
dall’avvio, evidente ad esempio nello Stato di Milano in età spagnola, alla formazione di più
moderne strutture burocratiche e quindi di Stati più solidi, per Berengo – cui il tema dello
“Stato moderno” resta estraneo – il tramonto dei sistemi e dei valori cittadini, dei “governi
larghi” e della partecipazione democratica che in essi si esprime, apre solo un declino
senza ritorno e porta al “trionfante particolarismo dei corpi, destinato a segnare tutta la
storia italiana d’antico regime”16. Questo il quadro in cui si colloca anche la vicenda
particolare di Lucca, “piccola ma ancor vivace repubblica cittadina”, ma anche “esempio
della cristallizzazione che dalla metà del secolo XV ha bloccato l’afflusso di nuove forze
nella vita politica italiana”. Al suo interno si spiega il processo che, pur senza bruschi
mutamenti istituzionali né serrate, conduce, nel corso del Cinquecento, al consolidamento
di una più ristretta oligarchia ai vertici del potere e allo svuotamento di fatto della “forma
di reggimento in cui essi (i cittadini) hanno creduto e che, di stretta misura, sono riusciti a
preservare nel generale naufragio della libertà italiana”.
Intorno alla lettura della storia dell’Italia moderna come “decadenza” dopo la grande
fioritura dell’età comunale, intorno alle categorie storiografiche che sono state impiegate in
questa prospettiva e alla periodizzazione che ne è conseguita, la discussione è da tempo
largamente aperta. Non solo si è fatta strada una valutazione positiva dello sviluppo
economico cinquecentesco, ma la stessa “crisi del Seicento” è recentemente stata
considerata più come una dislocazione dei poli e degli assi di attività e un mutamento degli
equilibri in atto che come semplice “declino”. Sul piano politico l’idea della “decadenza”
ha lasciato spazio da un lato all’analisi dei nuovi sistemi di potere emergenti, siano essi
stati considerati o meno come graduale realizzazione del paradigma dello “Stato moderno”;
dall’altro a quella della durevole peculiarità, in Italia come altrove, delle forme di
organizzazione della società nell’antico regime.
Riprendere queste discussioni non sarebbe affatto superfluo. Ma in questa sede è più
utile notare che la storia della Lucca cinquecentesca, ricostruita da Berengo in modo
profondamente simpatetico, può essere considerata anche come la vicenda esemplare di
una lunga tenuta e di una riuscita ricerca di stabilità; come il risultato di uno sforzo di
“conservazione”, e si potrebbe dire di inconsapevole applicazione della “ragion di Stato”
prima che questa diventasse una dottrina politica diffusa, e venisse impiegata a sostegno
dei principi ben più che delle città. Può essere letta come la storia di una delle non molte,
ma neppur poche piccole repubbliche cittadine che, in Europa, riuscirono a sopravvivere a
lungo negli interstizi di un sistema ormai dominato dalle grandi monarchie e dagli Imperi,
grazie, da un lato, alla propria capacità di comporre i propri conflitti interni e di adeguarsi
16
Il Cinquecento, p. 494.
al nuovo quadro europeo, dall’altro all’interesse che le stesse grandi potenze ebbero al loro
mantenimento. Può essere letta (e Berengo stesso suggerisce di farlo) sullo sfondo della
costruzione del sistema imperiale di Carlo V. Al suo lontano potere la “città imperiale”
affidava la propria sicurezza e alla sua suprema autorità, tutoria e arbitrale, sia i membri
dell’oligarchia che i loro avversari, si appellavano nel corso dell’aspro conflitto che li
oppose all’inizio degli anni ‘30, sollecitandolo a intervenire al di là delle sue stesse
intenzioni e del suo desiderio.
Non è probabilmente mai giusto ridurre un lavoro di ricerca storica alle tesi generali che
lo hanno sorretto. Questa riduzione, in ogni caso, non può essere applicata a Nobili e
mercanti nella Lucca del Cinquecento – modello per molti aspetti ancora innovativo di
storia di una città nell’età moderna, entro il quale gli aspetti politici, istituzionali, sociali,
culturali, religiosi si compongono in un disegno complessivo e alla città viene accostato il
contado, che nella realtà italiana cinquecentesca ne rappresenta l’indispensabile
complemento. Un modello di storia urbana “globale”, viene quasi spontaneo dire, con un
termine appartenente ad una diversa tradizione storiografica, ma usato altrove anche da
Berengo. In un senso, tuttavia, che con la tradizione della Annales ha ben poco a che fare, e
conferisce al suo lavoro un colore particolare.
Come si è osservato, è difficile trovare nella ricerca su Lucca la formulazione esplicita
di scelte metodologiche. L’autore ha preferito affidarsi al giudizio degli studiosi solo
attraverso la concretezza dei risultati raggiunti. Ma nel 1967, richiamando gli scritti di
Delio Cantimori sulla periodizzazione del Rinascimento, Berengo non aveva difficoltà a
sottolineare “l’esigenza di abbracciare globalmente tutti gli aspetti della realtà storica”.
Ricordava anche, facendone proprio il rilievo, come Chabod, nel 1950 avesse criticato il
rinchiudersi, nella tradizione storiografica italiana, dei due principali “tipi” di storia, la
politica e la culturale, “in sfera propria e autonoma, a cui nessuno o assai fioco raggio di
luce perviene dalla vicina”. “Dopo di allora, aggiungeva Berengo, questa frattura non si è
colmata, ed è stata piuttosto l’attenzione per i fatti sociali, ideologici o religiosi a prendere
il sopravvento, lasciando nello sfondo e quasi ritenendo già sufficientemente conosciuto
quel gioco di forze entro cui era destinata a rimanere soffocata la ‘libertà italiana’”17.
Questa la prospettiva – una prospettiva in primo luogo politica – in cui avvertiva l’esigenza
della “globalità” come sforzo di saldare quelle storie troppo a lungo divergenti, e di
recuperare, al tempo stesso, il senso delle dimensioni più larghe in cui si era consumata la
drammatica vicenda dell’Italia cinquecentesca. Benché nel bilancio del 1967 fosse
17
Ibid., p. 484-85.
ovviamente improprio per l’autore dichiararlo, non è difficile, per i lettori, scorgere nella
lunga ricerca su Lucca il disegno di rispondere a quell’esigenza.
È ancora ad uno scritto non lucchese – al bel saggio del 1974 su La città d’antico
regime, scritto per introdurre un numero di “Quaderni storici” sulla città nella rivoluzione
industriale18 – che bisogna rifarsi per vedere come questa ricerca, dilatandosi, abbia poi
rappresentato una chiave di volta della successiva attività storiografica di Berengo, fino a
dar luogo ad una linea di riflessione e di studio a cui egli sta ancora lavorando, entro
orizzonti spaziali e temporali ora assai più vasti – quelli della città europea tra il secolo
XIII e la pace di Westfalia a metà Seicento. In quel saggio si possono cogliere
retrospettivamente, al tempo stesso, le ragioni di una scelta tematica che, quando venne
compiuta, fu quasi solitaria negli studi cinquecenteschi e modernistici. Alla Lucca
berenghiana può essere infatti parzialmente accostato, tra quanti videro la luce nella prima
metà degli anni ‘60, un solo libro, la cui genesi ad essa fu peraltro strettamente legata,
Nobiltà e popolo nella società veneta del ‘400 e del ‘500, di Angelo Ventura19.
Nel 1974 Berengo poneva un rapporto di continuità/frattura tra la storia della città nel
Medioevo e nell’età moderna. Rilevava come, per tracciare un profilo della città di antico
regime, fosse opportuno “stabilire quale nesso sussista fra le tradizioni urbane della
stagione comunale e quelle che si affermano, mutano o perdurano tra Quattro e Seicento
quando la città...è sempre meno sinonimo dello Stato”. Constatava che la storia urbana era
stata più coltivata per l’età dei comuni che per il periodo successivo e spiegava questo fatto
con il peso minore che la città aveva avuto nello Stato territoriale che non in quello
comunale. Poneva quindi tre interrogativi di fondo, che erano in qualche misura già emersi
nello studio del caso lucchese. Si chiedeva cioè, in un’ottica ora ampiamente comparativa,
se l’arco del declino così evidenziato era stato percorso da tutte le nazioni; “se la
decadenza delle città allo schiudersi dell’età moderna si sia accompagnata o non si sia
invece contrapposta alla decadenza o all’espansione economica e politica dello Stato di cui
erano parte”; “se infine il ricambio o l’irrigidimento dei gruppi sociali e, più in particolare,
della classe dirigente abbiano inciso in modo durevole e incancellabile nella storia di
questo o quel popolo”20.
Berengo gettava allora indirettamente qualche luce anche sui propri modelli
storiografici, sulla genesi intellettuale delle proprie ricerche, e insieme sui motivi più
profondi che le avevano ispirate. “Riprodurre dunque – scriveva – per l’età moderna alcuni
“Quaderni storici”, 27, 1974, Laterza, pp. 661-692.
Bari, Laterza, 1964.
20 La città d’antico regime, cit., p. 661.
18
19
temi e metodi d’indagine che la storiografia medievistica ha da tempo acquisito e ritornare
a chiederci, sulla ricca scorta dei dibattiti svoltisi negli ultimi trenta o quarant’anni, come
e perché la tradizione urbana sia insopprimibile e animatrice in alcune civiltà, mutevole e
non caratterizzante in altre. Questo può essere un non disutile modo per avviare il dibattito
sul passaggio dalla città preindustriale alla città industriale”. Il rapporto tra le proprie
ricerche e quelle medievistiche di storia urbana fu posto dall’autore in ancor maggiore
evidenza alcuni anni più tardi, nel corso dell’Intervista sulla città medievale a R.S. Lopez21.
In quella registrazione fedele di un dialogo amichevole e non sistematico, ma denso e
impegnativo, non è difficile cogliere, ancora una volta, la genesi medievistica (e più
specificamente lopeziana) di alcuni dei nodi problematici già affrontanti da Berengo nella
sua Lucca cinquecentesca: il ruolo delle arti e del patriziato; la funzione-chiave del
notariato; e soprattutto la centralità del rapporto tra cittadini, comitatini e forestieri;
l’attenzione ai conflitti interni, che a Berengo apparivano, come a Lopez, un’espressione di
vitalità, tanto che il loro declino gli sembrava coincidere con la decadenza cittadina.
Emergono al tempo stesso da questo scritto, così come da quello del 1974, le ragioni della
predilezione di Berengo per il tema cittadino; e i motivi della partecipazione con cui,
all’inizio degli anni ‘60, aveva raccontato la vicenda della Lucca cinquecentesca, città
repubblicana tenacemente legata alla tradizione comunale del “governo largo” e ai valori
della partecipazione cittadina, ma avviata allora a un lungo, mortificante silenzio. “Alla
base della preferenza per la città medievale – scriveva Berengo nel 1974 – rispetto a quella
signorile e regia, non è difficile cogliere una vocazione della cultura liberale che ha la sua
più nobile e simbolica radice in Sismondi. Quando idea di città e idea di repubblica si
differenziano e progressivamente si distanziano, lo studio dello Stato, della sua burocrazia,
della sua corte, delle sue strutture, subentra a quello delle lotte tra sette e tra consortati e
dello scontro tra nobili e popolo, patrizi e corporazioni, popolo grasso e popolo minuto. La
costruzione di uno Stato diviene il polo di un interesse che, per il mondo comunale, si è
fino ad oggi rivelato minore”.
Anche su queste affermazioni e linee di lettura, sulla divaricazione ipotizzata da
Berengo tra storia (e idea) della città e storia (e idea) dello Stato, la discussione può
considerarsi oggi aperta. Questa divaricazione non sarebbe, ad esempio, probabilmente
condivisa dagli storici anglosassoni, anch’essi di formazione liberale, che, seguendo un
itinerario affatto diverso, hanno posto, come Quentin Skinner, la tradizione del “vivere
politico” e delle virtù civili di origine comunale in rapporto al più ampio dibattito politico
21
Roma-Bari, Laterza, 1984.
nell’Europa della Riforma e alle diverse visioni dello Stato che allora sono emerse22; o,
come John Pocock, hanno studiato gli sviluppi di quella tradizione e di quel “linguaggio”
nell’Inghilterra repubblicana di metà Seicento e nel dibattito costituzionale americano di
fine Settecento23.
Ma proprio per questo – perché ha messo in circolazione interrogativi e problemi,
raccolto e rilanciato temi, elaborato linee di ricerca, proposto scelte metodologiche –
Marino Berengo è stato in questi trent’anni ed è oggi uno dei punti di riferimento di chi si è
occupato e si occupa della storia d’Italia nell'età moderna; e Nobili e mercanti nella Lucca
del Cinquecento è diventato parte ineliminabile del nostro patrimonio storiografico
22
23
Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, 2 voll., trad. it. Bologna, il Mulino, 1989.
J. POCOCK, Il momento machiavelliano, 2 voll., trad. it. Bologna, il Mulino, 1980.
Ann Katherine Isaacs
Le città repubblicane
Quando uscì Nobili e mercanti, lo sfondo sul quale si stagliava la vicenda della Repubblica
lucchese nel primo Cinquecento appariva chiaramente delineato, e a fosche tinte. Le
lezioni con le quali Marino Berengo aprì il suo primo corso cattedratico all’Università
statale di Milano, quello dell’anno accademico 1963-64, illustravano le difficoltà
incontrate dagli stati cittadini italiani del secolo XVI nel mantenere la loro indipendenza
politica; in quelle successive si snodò la storia della scomparsa dei regimi larghi nelle città
dell’Italia centro-settentrionale fra Quattro e Cinquecento. La problematica era quella
enunciata nelle prime pagine di Nobili e mercanti, ma nel racconto della falcidia delle
libertà comunali non rientravano solo le grandi repubbliche, destinate a soccombere o
perlomeno ad inseguire il modello veneziano di stabilità a costo di soffocare la
partecipazione dei cittadini minori alla gestione della cosa pubblica. Oltre a Firenze, Lucca
e Siena, apparivano coinvolte nella stessa lotta epocale, e nello stesso tendenziale
fallimento, Volterra, Pisa, Perugia e la miriade di città e cittadine che ancora all’inizio
delle guerre d’Italia conservavano margini di autonomia e spazi di partecipazione popolare.
Da una parte emergevano gli imperativi imposti dal duello Francia-Spagna, la volontà o la
necessità che avevano gli stati della penisola di consolidare il loro dominio; dall’altra, i
meccanismi specifici, le modifiche delle procedure elettorali e delle norme di accesso ai
consigli, analizzati puntualmente, che segnalavano i cambiamenti intervenuti in ciascuna
città.
Per quanto fosse mosso e articolato il quadro, la tensione del racconto e la sua
drammaticità erano ben vive, ancorate a giudizi di valore, a periodizzazioni, ad un sentire
in cui rivivevano i temi della grande storiografia dei secoli precedenti, di Cattaneo e
Sismondi, ma anche degli stessi fiorentini del Cinquecento: la centralità della città nella
storia italiana, il tramonto delle repubbliche come scansione decisiva, l’ingresso degli
eserciti stranieri e il consolidarsi dell’egemonia spagnola visti, se non come una catastrofe,
per lo meno come causa d’un cambiamento di clima politico funesto per gli ordinamenti
comunali e per le aspirazioni popolari.
Fra le tante prospettive dalle quali oggi può essere utile tracciare la strada percorsa
dalla storiografia dopo la pubblicazione di Nobili e mercanti, ho scelto quella delle città
repubblicane, o meglio, del trinomio città, repubblica, libertà. Il nodo è centrale nel volume
di Berengo, sebbene egli rifiuti di muoversi sul piano delle astrazioni costituzionali.
Secondo la consuetudine dell’autore, i protagonisti, individuali e collettivi, affrontano le
loro vicende nella concreta specificità della vita nel suo farsi. Basta leggere poche pagine
per rendersene conto. Nemmeno le categorie politiche compaiono senza specificazioni.
Nella Lucca di Berengo, “città” vuol dire “città di mercanti”, la “repubblica” è “piccola”,
le “libertà” sono di diversi generi: “comunali”, in primo luogo, ma presto constatiamo che
il vocabolo cambia di significato. Dalle “libertà” che si configuravano, sul piano degli
ordinamenti interni, in un largo accesso alle cariche, garantito dalla rapida rotazione e da
periodi di ineleggibilità, e in poteri di controllo sull’operato delle magistrature di vertice e
sugli ufficiali forestieri, si passa ad una situazione in cui ci si deve accontentare di una
“libertà” intesa come indipendenza politica rispetto ad altre potenze; una “libertà” che
poteva essere conservata solo a prezzo di difficili scelte, sostanzialmente restringendo
l’accesso alle cariche ad un gruppo limitato di famiglie.
L’immagine della vita politica interna e dei rapporti, tesi o defilati, della piccola
repubblica con i suoi grandi interlocutori emerge da un’analisi di fonti non inusuali (come i
carteggi diplomatici e i registri delle Deliberazioni e dei Colloqui), ma viene narrata in
modo evocativo. Lo stesso impiegato per creare l’indimenticabile quadro d’insieme del
piccolo stato cittadino, in cui vivono e agiscono mercanti, tessitori, apprendisti o donne
visti non come categorie astratte, ma come individui nel loro contesto sociale: il mercante
che si preoccupa di collocare adeguatamente il figlio legittimato; la famiglia di tessitori di
damaschi che contribuisce per la sua parte al rumore di telai battenti, rumore di fondo
della città; la donna contadina delle Sei Miglia, che partorisce a Lucca per assicurare al
figlio uno status migliore, o quella del ceto mercantile, che lascia per testamento la sua
veste di maggior pregio al nipote più amato. Anche in questi casi, la scelta della
documentazione e l’uso che ne viene fatto mirano a far intravedere i sentimenti, i modi di
giudicare, le costrizioni, i problemi con i quali dovevano confrontarsi i lucchesi del
Cinquecento. Accanto ai carteggi politici, ai verbali dei colloqui, parlano i testamenti e i
contratti; per Berengo, il documento notarile è il mezzo d’elezione per introdurci in quel
lontano mondo di affetti e di affari. Quell’immagine d’insieme nella sua ricchezza,
abbraccia, e collega con la vicenda politica, i mercanti protagonisti dei traffici a Bruges o a
Londra e i produttori della farina dolce nelle selve di Camaiore, ugualmente necessari per
la vita della città.
È un mondo che, nella sua concretezza, rifiutava di collocarsi passivamente nei grandi
schemi storiografici allora in voga: nel libro di Berengo, i mercanti non sono borghesi; gli
abitanti delle Vicarie conducono lotte tra di loro che nulla hanno a che fare con la lotta di
classe; i tessitori hanno sì motivo di contestare i mercanti di panni, ma le loro lamentele e i
mezzi di ritorsione – nonché la crisi internazionale che originò lo scontro – possiedono una
loro indomabile specificità. Ed è questo mondo – lo stato cittadino, mercantile, artigiano
con il suo dominio, ristretto ma vario per condizioni ambientali ed economiche – che viene
difeso strenuamente, nella misura del possibile, dall’ostinato e tenace ceto di governo
lucchese, mediante una politica cauta e defilata. Ne è un simbolo l’auto-rappresentazione
della città diffusa dagli ambasciatori nelle corti d’Europa: dipingendo la repubblica come
piccola, povera e imbelle, si sperava di guidarla indenne attraverso le insidie politiche
dell’epoca. Indenne non ne uscì; anche Lucca dovette adeguarsi per molti aspetti ai nuovi
imperativi del secolo: ed ecco, nelle pagine di Berengo, la chiusura oligarchica, la
comparsa nel mondo mercantile di un sistema di valori nobiliari.
Forse, la decisione di porre Lucca al centro di una ricerca cosi impegnativa rispondeva
anche ad una valutazione di fattibilità: la vita di quella “piccola” repubblica e i suoi
ordinati archivi potevano essere dominati da uno studioso di valore e ricondotti ad un
quadro d’insieme cosa non sempre agevole per altre realtà urbane; ma deve aver avuto il
suo peso una simpatia quasi affettiva del veneziano verso una città cosí diversa dalla
Serenissima per dimensione e per splendore, ma vicina per la vocazione mercantile e per la
lunga sopravvivenza delle forma repubblicana. Gli stessi Cenami e Bernardini, in esilio
all’epoca di Paolo Guinigi, avevano atteso a Venezia, operosamente, mentre tramavano per
la caduta del signore.
Non è certo un caso che la lettura della Intervista sulla città medievale a Roberto
Sabatino Lopez condotta da Berengo24 risulti cosí avvincente: la dialettica, che movimenta
il dialogo, è basata anzitutto sulla diversa prospettiva cronologica degli interlocutori: quella
dello studioso genovese delle città mercantili del periodo che precede la crisi del Trecento,
e quella del veneziano attratto dalla vita delle città nei secoli successivi: la direzione dello
sguardo cambia, ma i due osservano il fenomeno urbano con analoga simpatia. Nella città,
per Lopez, avviene un’accelerazione dei contatti; in essa si può contribuire “all’evoluzíone
dell’umanità”. È quindi il luogo per eccellenza di costruzione della “civiltà”. Ma qualsiasi
piccolo centro non è in grado di svolgere funzioni cosí alte. “Un agglomerato”, ci dice
Lopez, “non merita il rango di città se non è letteralmente un capoluogo”. Capoluogo non
vuol dire necessariamente capitale; una città grande a sufficienza per risultare degna di
interesse non è comunque “un concetto assoluto ma relativo”; può avere, secondo le
epoche, le dimensioni di Lubecca o di Città del Messico. Ma senza dubbio è la città che
detiene poteri di governo ad attirare l’attenzione di Lopez e del suo intervistatore.
24
R.S. LOPEZ, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Bari, 1984.
Al riguardo, è significativo che Berengo abbia dedicato molta parte delle sue energie
negli ultimi trent’anni alla definizione degli ambiti di autonomia che le singole città ed i
loro gruppi dirigenti hanno saputo conquistare o conservare dal Medioevo al primo periodo
moderno. Dopo metà Seicento, nella sua visione, pochi sono i centri che mantengono una
reale autonomia politica; con l’indebolirsi delle città “libere” anche l’interesse dello
studioso si affievolisce. In quest’ottica, gli inizi dell’età moderna e lo scontro fra le città
“libere” e le grandi monarchie riorganizzate dopo la crisi del tardo Tre e primo
Quattrocento acquistano una centralità assoluta. Il XVI secolo, quindi, si configura in Italia
come una fase decisiva, quella della lotta per la sopravvivenza; una lotta il cui esito non
era scontato. Su diversi piani, politico, culturale, religioso, i ceti cittadini oppongono una
loro concezione del vivere associato a quella cortigiana e burocratica, propria del potere
principesco. Il loro adeguarsi, graduale e quasi incruento, come a Lucca, o rapido e
violento, come a Gand, è la trama delle vicende del secolo.
Ma a prescindere dalla personalissima sensibilità dell’autore per il mondo cittadino del
Cinquecento, in Nobili e mercanti vi sono alcune consonanze con altre letture generali della
storia italiana che hanno influito sul modo in cui il volume si è collocato nel quadro
storiografico. Berengo stesso dichiarava di avere un debito verso La Famiglia italiana di
Tamassia e verso i due torni del Romier sulle guerre di religione. Il San Gimignano di
Enrico Fiumi suscitava il suo interesse in quanto storia complessiva di una singola città. I
rapporti, nella fase di ricerca e di elaborazione, di Nobili e mercanti con Nobiltà e popolo di
Angelo Ventura sono noti e dichiarati25. Emergono e possono essere messe in evidenza
alcune importanti assonanze con l’opera di Fernand Braudel, con quel suo praticare e
teorizzare una storia che investa tutti gli aspetti della vita economica e politica e che li
colleghi, opportunamente articolati secondo i loro tempi di mutamento, alla geografia fisica
e umana dell’area considerata. Pur nell’ovvia diversità di scala rispetto al Mediterraneo di
Braudel, considerato per alcuni aspetti in una prospettiva millenaria, anche nell’articolato
quadro dello stesso lucchese offerto da Berengo troviamo descritte con singolare efficacia
le diverse forme di organizzazione sociale e politica proprie della montagna, della collina e
della città.
Certamente sentiamo nelle pagine di Berengo echi dell’insegnamento di Cantimori e di
Chabod. È piú mediata la consonanza con i temi gramsciani del Risorgimento26: il carattere
N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano-Palermo-Napoli, 1911;
L. ROMIER, Les origines politiques des guerres de réligion, Paris, 1912; E. FIUMI, Storia economica e
sociale di San Gimignano, Firenze, 1961; A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta fra ‘400 e
‘500, Bari, 1964.
26 A. GRAMSCI, Il Risorgimento, Torino, 1949.
25
non nazionale delle classi dirigenti delle singole città, l’investimento terriero a scapito
della mercatura, l’incalzare delle monarchie d’oltralpe e del ducato di Firenze sono
problemi anche della Lucca cinquecentesca, ma acquistano un senso molto diverso nelle
mani di Berengo, cosí partecipe al mondo cittadino. La stessa tensione che compare in
Gramsci come paradosso (la caduta della Repubblica fiorentina può spiacere moralmente,
ma può e deve essere sostenuto che gli eserciti spagnoli rappresentavano lo “stato
moderno”), riemerge in Berengo con altre premesse e conseguenze: mentre per Gramsci
era evidente che la vita nazionale andava costruita superando il particolarismo, perché si
formasse una borghesia nazionale, per Berengo la città non perde mai la sua importanza e il
suo fascino.
Il vero nucleo intorno al quale si dispiega Nobili e mercanti, e che trova un puntuale
riscontro nell’impegno di Berengo nel mondo contemporaneo, è l’amore per la vita civile;
un interesse profondo per come gli uomini costruiscono congiuntamente la loro vita sociale
e politica, creando spazi e regole per dibattere, proporre, decidere e far eseguire le loro
decisioni, in un quadro di ordinata, o anche meno ordinata, vita democratica. Per Berengo
è un bene – un bene che comporta dei pericoli, ma non per questo meno importante – che
la vita pubblica sia vivace. L’accortezza dei mercanti lucchesi nel pilotare la repubblica
attraverso le tempeste del primo Cinquecento appare ammirevole. La risolutezza
nell’adottare decisioni scomode (scomode soprattutto per gli altri, per gli artigiani e i
tessitori, in verità); la compattezza nel far funzionare la vasta rete di comunicazioni, di
informazioni, e di solidarietà; infine, in netto contrasto con Siena, la capacità di
disciplinare i contrasti politici interni consentono ai lucchesi di salvare il salvabile. Ciò
nondimeno, è indubbio che dalle tumultuose vicende del primo Cinquecento esce
incrinato, ed infine sconfitto, il sistema di valori che stava alla base della vita cittadina; un
altro ne subentra, di tipo nobiliare e aristocratico, che ribalta le vecchie gerarchie.
Misurate sul nuovo metro, le tradizionali attività economiche non solo perdono prestigio,
ma diventano talvolta incompatibili con la partecipazione al governo della repubblica.
L’abilità dimostrata e il successo conseguito nella bottega, al banco di cambio e nei
consigli non sono piú un viatico e una legittimazione ad un ruolo politico attivo. Si salva il
salvabile, come abbiamo detto, ma si imbocca la via della subalternità rispetto all’Europa
delle corti monarchiche e principesche con i loro eserciti vittoriosi.
Nobili e mercanti è diventato subito un classico. È stato e continua ad essere molto
letto. Ha influito fortemente, insieme a poche altre opere basilari (gli scritti sullo stato di
Milano e sul Rinascimento di Chabod, il volume su Firenze di von Albertini, Gli eretici di
Cantimori27) sulla nostra immagine del primo Cinquecento italiano. Tuttavia, per una serie
di motivi solo in parte inerenti all’oggetto della ricerca, ha costituito un modello
scarsamente imitato e in definitiva, forse, non imitabile. Pochi come il Berengo hanno
saputo far rivivere il mondo del Cinquecento, contestualizzando e facendo parlare, con
garbo affettuoso, una lettera di un ambasciatore o una scarna annotazione notarile. In parte
perché altre realtà si prestano difficilmente ad un approccio globale: è meno agevole
individuare e sintetizzare (situandoli in un arco cronologico ristretto) i fattori decisivi per le
sorti future di Genova, di Firenze o di Siena. Nonostante le affinità e i diretti collegamenti
con il mondo lucchese, le altre grandi città repubblicane hanno, non solo nel Cinquecento,
una vita politica tanto piú complicata nelle manifestazioni esterne che non sembra
realistico tentare di convogliarla in un’unica opera evocativa e paradigmatica, in cui si
fondano politica interna ed estera, economia e società.
Ma altre cause concorrono a spiegare la mancata diffusione e applicazione del modello
storiografico berenghiano. Le coordinate ideali di Nobili e mercanti non sono state
condivise senza discussione; il quadro globale, italiano ed europeo, in cui si colloca la
svolta aristocratica di Lucca è stato osservato e interpretato in una prospettiva diversa. Ben
presto, dopo la comparsa dell’opera su Lucca (e del volume di Ventura ad essa strettamente
collegato nel dipingere il passaggio dalla vita comunale “larga” al prevalere, nel mondo
cinquecentesco, di una ristretta oligarchia ereditaria, priva di senso dello stato e chiusa in
un arrogante orgoglio di ceto), i primi lavori di Giorgio Chittolini mettevano in guardia
contro le idealizzazioni del mondo cittadino. La crisi delle libertà comunali gli appariva il
prodotto dell’inevitabile declino di organismi politici incapaci di gestire processi di
ampliamento territoriale, e quindi vittime di quei medesimi processi piú efficacemente
condotti dalle emergenti forze signorili.
Una constatazione sofferta, quella di Chittolini: “è un amaro e singolare destino – egli
affermava – che la crescita della civiltà urbana e comunale, suscitatrice di cosí grandi
energie nella società italiana, trovasse un assetto politico e statuale a prezzo di quei
principi di libertà che cosí precocemente aveva introdotto”; ma non per questo meno
decisa. L’instaurarsi della signoria non viene presentato come la conseguenza di un
deleterio eccesso di democrazia, o come – secondo la visione di Ventura – una rivincita
27 F. CHABOD, Lo stato di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1961; Scritti sul Rinascimento, Torino,
1967; Lo stato di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971; R. VON ALBERTINI, Das florentinische
Staatsbeiwusstsein im Ubergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, 1955, trad. it.: Firenze dalla
Repubblica al Principato. Storia e coscienza politica, Torino, 1970; D. CANTIMORI, Eretici italiani del
Cinquecento, Firenze 1939; ora Eretici italiani e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino, 1992.
delle non ancora sconfitte aristocrazie, bensí come l’affermazione di un principio di
organizzazione statale dopo la compiuta dimostrazione dell’incapacità dei comuni lombardi
di mantenere il controllo sul loro contadi28.
Nel complesso, la tematica del declino delle libertà cittadine fu soppiantata da quella,
sostanzialmente antitetica, dello stato. L’interesse si spostò, anche per merito dello stesso
Berengo, sulla configurazione territoriale degli stati italiani d’antico regime e
sull’articolazione del potere al loro interno. Attraverso le ricerche per l’ “Atlante storico
italiano”, si tentò di dare corpo mediante studi specifici alle esigenze espresse dal Vicens
Vives nelle sue ultime, notissime pagine. Il lavoro su Lo stato mediceo di Cosimo I di Elena
Fasano Guarini29, il primo di una nutrita serie di contributi sullo stato fiorentino, mise al
centro dell’attenzione le modalità di costruzione dello stato territoriale, comprendendo in
un’unica problematica le esperienze dei vari regimi susseguitisi a Firenze,
comunal-repubblicani, signorili o principeschi che fossero. Negli scritti di Elena Fasano, il
Duca di Firenze, nemico numero uno della repubblica di Lucca, appariva tra i principali
protagonisti dell’opera di costruzione dello stato fiorentino, e quindi, in fondo, figura
apprezzabile in un’ottica di sviluppo della statualità, inteso come un lungo percorso, non
certo lineare, ma comunque positivo nella sostanza. Le oscillazioni di tale secolare
processo non erano viste come dipendenti in modo significativo dalla forma del governo
cittadino. Anzi, la costruzione dello stato territoriale trovava alcune delle sue scansioni piú
importanti agli inizi del Quattrocento, quando la repubblica, scomparsa la minaccia
viscontea, compí il suo piú notevole sforzo di espansione, dotandosi di nuovi organi centrali
e periferici di controllo del dominio. Tutto ciò, è inutile dirlo, significava allontanarsi
decisamente da una visione strutturata sulla contrapposizione repubblica-principato. La
repubblica fiorentina di Bruni e di Salutati veniva proposta come parte della medesima
storia di cui erano protagonisti Cosimo I e i suoi successori, non come antitesi ad essi.
Sempre nei primi anni settanta tuttavia, comparve il volume di Michele Luzzati su
Pisa30, che, mutatis mutandis, si collocava per alcuni aspetti sulla stessa linea di Nobili e
mercanti. Segno dei tempi, di una stagione di grande impegno e di vivaci passioni
politiche, sono il titolo, Una guerra di popolo, e l’argomento, vale a dire la parte rilevante
Cfr. G. CHITTOLINI, La crisi delle libertà comunali e le origini dello stato territoriale, in La formazione
dello stato regionale e le istituzioni del contado, Torino, 1979, pp. 1-35; la frase citata si trova
nell’Introduzione a La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G.
Chittolini, Bologna, 1979, p. 26.
29 E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze, 1973.
28
30
M. LUZZATI, Una guerra di popolo. Lettere private del tempo dell’assedio di Pisa (1494-1509), Pisa, 1973.
svolta dai ceti popolari e dai contadini nella difesa della città che si era ribellata contro il
dominio fiorentino. Nonostante la defaillance delle grandi famiglie quando le vicende
belliche si volgevano al peggio, i popolani i contadini avrebbero mostrato una notevole
determinazione nel difendere la libertà pisana. Partendo dalle lettere conservate
nell’Archivio Roncioni e da un attento esame di altre testimonianze coeve, in quella sede il
Luzzati non si prefiggeva certo di fornire un articolato quadro di storia sociale alla maniera
di Nobili e mercanti; un obiettivo da lui perseguito poi in numerosi altri studi specifici.
Piuttosto, l’opera mirava a sottolineare quella che, pur nella specificità del contesto,
appariva come una circostanza stupefacente e nuova: il fatto che la città di Pisa, in guerra
contro Firenze, avesse concesso la cittadinanza ai contadini; dimostrando con ciò che le
repubbliche italiane del periodo, contrariamente a quanto in genere sostenuto, erano in
grado, almeno nelle fasi di emergenza, di accogliere organicamente al loro interno persino
lavoratori della terra; di superare il limite apparentemente invalicabile rappresentato dalle
mura cittadine.
Anche nell’opera di Luzzati, comunque, il baricentro è costituito dalla problematíca
della difesa delle libertà cittadine nell’epoca delle guerre d’Italia. La vicenda trattata,
ovviamente, era diversa da quella di Lucca, perché Pisa già da tempo aveva perso la sua
“libertà”, e perché contrariamente a Lucca, venne poi sconfitta. In ogni caso, in Una
guerra di popolo troviamo non solo l’idea che i tentativi di proteggere la libertà
repubblicano-comunale sono un oggetto degno di interesse storiografico, ma anche la
testimonianza che, a Pisa, la strenua lotta di difesa portò la democrazia comunale alle sue
estreme conseguenze, e rese finalmente capace la città di “aprirsi” politicamente nel
confronti del contado, e, addirittura, a sostenere militarmente le ragioni di un altro popolo
in rivolta, quello genovese nel 1506. Con questi slanci contrasta la posizione assunta dai
ceti benestanti, che, minacciati dal basso, si mostrarono disposti a rinunciare alle loro
stesse pretese di autonomia, analogamente a quanto accadde a Firenze e a Lucca in
circostanze simili.
In genere, però, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Nobili e
mercanti il tema delle libertà cittadine non suscitò particolare interesse negli storici italiani
nel tardo Medioevo e del primo periodo moderno. Tanto meno sembrava loro opportuno
privilegiare la categoria delle città repubblicane. Urgeva invece studiare gli antichi stati
italiani nel loro formarsi e nelle loro interne articolazioni, a prescindere dalle grandi e
contrapposte tipologie costituzionali. Quello della “libertà” diventò tema di ricerca
inerente al Settecento, senza che si ravvisasse un collegamento necessario fra le libertà,
conservate o erose, a Lucca e nelle altre città cinquecentesche e quelle lasciate in eredità
dall’Illuminismo e dalla rivoluzione francese.
L’interesse per le repubbliche rimase vivo soprattutto presso gli storici stranieri, in
particolare inglesi ed americani. In Italia, invece, la lezione di Gramsci – che indicava
nella retorica del comune uno degli ostacoli che impedivano di comprendere il vero
percorso della storia nazionale e i motivi profondi della sua diversità rispetto a quello dei
grandi paesi d’oltralpe venne presa molto seriamente, con minore duttilità di quella
dimostrata da Berengo, la cui visione, contrariamente alle apparenze, non contrasta in
modo insanabile con quella gramsciana. Dopo tutto, entrambi individuavano una svolta
negativa per i destini della penisola in quella fase in cui i mercanti cominciarono a
privilegiare l’investimento fondiario, ed i piccoli stati italiani incontrarono crescenti
difficoltà a difendere i loro interessi nel confronto con le potenti monarchie europee. Ma si
trattava pur sempre di modi diversi di affrontare il travagliato processo di crisi del mondo
comunale e di affermazione di oligarchie portatrici di una cultura aristocratica.
Inoltre, la valenza fortemente ideologica che il concetto di repubblica aveva assunto
nella storiografia statunitense lo rese ancor meno utilizzabile in Italia. Mentre Angelo
Ventura aveva ribadito la vocazione democratíca del comune medievale (contro la
formulazione di Ercole circa la legittimazione popolare delle signorie), i piú sottolinearono
l’incolmabile distanza che separava le repubbliche cittadine, con le loro strutture politiche
oligarchico-cetuali, dagli ideali e dalle pratiche delle odierne democrazie, fondate sui
principi del suffragio universale e della rappresentanza. Il tema repubblicano divenne una
sorta di terreno minato, anche a seguito delle dure reazioni suscitate da opere come quelle
di Lane, Bowsma, Pocock, o addirittura di Baron, che apparivano inficiate da
sovrapposizioni e collegamenti indebiti31. Era comunque difficile far convivere in uno
stesso mondo ideale il Giangaleazzo Visconti di Baron, un despota principe del male (e
forte abbastanza per suscitare l’eroica difesa di Firenze, nonché l’umanesimo civile e la
fioritura rinascimentale) con quei duchi di Milano che il Chittolini ci mostrava intenti a
creare uno stato regionale, concedendo merum et mixtum imperium ai facinorosi potentes
sorti dalla disintegrazione del potere dei comuni.
Il tema della città, invece, e non solo in Italia, ebbe maggiore sviluppo. Vennero seguite
molte direzioni di ricerca, senza però un pregiudiziale collegamento tra realtà urbana e
specifici ordinamenti costituzionali. In Italia si accettò abbastanza tranquillamente l’idea
che la città di antico regime fosse per definizione soggetta al dominio di ristrette oligarchie,
incapace di evolvere verso forme genuinamente democratiche. Pochi ritennero che valesse
Su questi aspetti, R. PECCHIOLI, Dal “mito di Venezia” all’ “ideologia americana”. Itinerari o modelli della
storiografia sul repubblicanesimo dell’età moderna, Venezia, 1983; A. MOLHO, Gli storici americani e il Rinascimento
italiano, in “Cheiron”, 16, 1991, pp. 9-28.
31
la pena continuare a distinguere fra governo “largo” e governo “stretto”, anche se proprio
con quei concetti gli uomini del ‘500 non solo descrivevano realtà politíche antitetiche, ma
affrontavano momenti anche cruenti di lotta politica.
Una volta assunte le grandi monarchie territoriali come espressione e “luogo” di
realizzazione storica di un concetto di “stato moderno” dal forte valore paradigmatico, gli
stati cittadini repubblicani, cioè le città autonome, libere o sovrane, non potevano che
apparire forme atipiche e residuali, se non addirittura arcaiche, e comunque destinate ad
avere un sempre più scarso rilievo nelle vicende europee. Mentre delle città continuavano a
suscitare interesse la funzione economica, l’evoluzione demografica, e piú frequentemente
ancora le strutture urbanistiche, la loro importanza in quanto organismi politici è riemersa
solo lentamente, di scorcio, grazie a ricerche comparative, e come risultato di indagini
decennali condotte in Italia sulle strutture di controllo o di organizzazione territoriale degli
stati di antico regime, senza specifico riferimento alla problematica repubblicana.
Come compaiono oggi, dopo trent’anni, i temi della libertà, della città, della repubblica
che hanno un rilievo cosí grande in Nobili e mercanti? Certamente si intrecciano secondo
una combinatoria diversa. Le città dell’Italia centro-settentrionale – forse soprattutto le
città “suddite”, e persino i centri minori – sono oggetto di attenzione in quanto elementi
costitutivi di tutti gli stati, e viene loro riconosciuta una funzione importante
nell’organizzazione territoriale anche di quelli piú estesi. Per esempio, gli atti del convegno
sugli statuti promosso dall’Istituto storico italo-germanico in Trento danno molto peso al
contributo delle città alla costruzione ed articolazione degli ordinamenti
politico-istituzionali dei maggiori stati32. In Toscana e nel Veneto in particolare, si è
dedicata molta attenzione ai rapporti fra le città suddite e le città dominanti, indagando le
modalità dell’espansione territoriale e le sue conseguenze per le strutture centrali e
periferiche33. Piú in generale, ci si è interessati alle città minori, o addirittura alle
“quasi-città”34; e al persistere di un’eredità comunale-repubblicana anche negli stati
32 G. CHITTOLINI, Statuti e autonomie urbane. Introduzione, in Statuti città territori in Italia e Germania
tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna, 1991, 7-46.
33 Indicazioni bibliografiche in A.K. ISAACS, States in Tuscany and Veneto, 1200-1500, in The Urban belt
and the Emerging modern state, cit. sotto a nota 13; per una visione d’insieme, Origini dello Stato. Processi di
formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera,
Bologna, 1994; ed ora, E. FASANO GUARINI, “Etat moderne” et anciens états italiens: éléments d’histoire
comparée, in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 45, 1, 1998, pp. 15-41.
34 Cfr., ad es., G. CHITTOLINI, Terre borghi e città in Lombardia alla fine del Medioevo, in Metamorfosi di
un borgo, Vigevano in età visconteo-sforzesca, Milano, 1992, pp. 7-30; F. ANGIOLINI, Centri minori e
società nella Toscana moderna, in Town and country: historiographical traditions and research
prospects/Città e campagna: tradizioni storiografiche e prospettive di ricerca, a cura di A.K. Isaacs, Pisa,
signorili o principeschi, visibile nella complessa stratificazione di organismi e funzioni
risalenti a periodi diversi.
A livello europeo sono state promosse alcune ricerche collettive, programmaticamente
orientate verso un approccio comparativo, che hanno messo in luce l’importanza delle città
come uno deglì elementi organizzatori di tutti gli stati. Le città non compaiono piú
unicamente come elementi residuali contrapposti alle monarchie trionfali. Ne è risultato un
quadro in cui la specificità delle aree per eccellenza della fioritura urbana resiste solo in
parte: ciò che prima poteva sembrare una diversità strutturare incolmabile fra le zone delle
grandi città autonome e il resto d’Europa oggi appare piuttosto come una differenza di
grado.
Grazie agli studi, fra gli altri, di De Vries35, si ha ben presente il fenomeno di lungo
periodo della concentrazione delle città europee su una cosiddetta cintura urbana. Tuttavia,
lo sforzo di ripensare in un’ottica comparativa la storia degli stati e delle città,
prescindendo quanto piú possibile dalle consolidate tradizioni storiografiche nazionali, ha
portato a riconoscere il ruolo delle città nella costruzione di tutti gli stati, e non soltanto di
quelli italiani, dei Paesi Bassi, del Sud della Francia, della Svizzera o della Catalogna. Non
viene píú tracciata una linea cosí netta di demarcazione fra le aree dove le città pesano e il
resto dell’Europa. Persino in contesti ritenuti per molto tempo privi di città dotate di
rilevanti autonome politiche, si cominciano ora a studiare con maggiore attenzione i
concreti ambiti di potere del centri urbani36.
In questo modo, oggi si può agevolmente immaginare un’Europa di città che godono di
gradi variabili di autonomia, secondo i tempi e le zone, senza un inevitabile riferimento agli
stati-nazione consolidatisi in seguito. Si tratta di un approccio interpretativo forte,
paradossalmente non lontano da quello che Berengo ha da lungo tempo adottato nelle sue
indagini sulle città europee dal Medioevo fino a metà ‘600: indagini volte a precisare
affinità e differenze fra le diverse realtà urbane e il loro grado di autonomia rispetto ai
principi.
1997, pp. 79-90.
35 J. DE VRIES, European Urbanization (1500-1800), London 1984.
36 Ad es. Res publica. Burgershaft in Stadt und Staat, Berlin, 1988; City System and State Formation, a cura di W.
Blockmans, C. TILLY, “Theory and Society”, 18, 1989, rist.: Cities and the rise of States, a.d. 1000 to 1800,
Boulder, San Francisco, Oxford, 1994; nonché i molti volumi, ancora in parte in corso di stampa, attinenti alla
serie della European Science Foundation, The Origins of the Modern State in Europe, 13th to 18th centuries; sulle
città, A.K. ISAACS, M. PRAK, Cities, bourgeoisies and states in Power elites and State Building, a cura di W.
Reinhard, Oxford, 1996; W. BLOCKMANS, T. BRADY, G. DILCHER, A.K. ISAACS, A. MUSI, H. VAN
NIEROP, The Urban Belt and the Emerging Modern State, in Resistance, Representation and Community, a cura di P.
Blickle, Oxford, 1997.
Un ulteriore passaggio, decisivo ma problematico, è quello del rapporto fra il mondo
cittadino del tardo Medioevo e del primo periodo moderno e le forme statuali emerse
successivamente alla rivoluzione francese. È tutt’altro che pacifico che esista un nesso
diretto fra i sistemi politici recenti o attuali – repubblicani, parlamentari o
monarchico-costituzionali – e le repubbliche cittadine con i loro ordinamenti comunali. Pur
abbandonando l’idea grossolana di un “tradimento della borghesia”, si è spesso preferito
studiare i casi in cui, nei grandi rivolgimenti dell’età moderna, i gruppi cittadini,
oligarchici o persino artigiani, hanno agito in difesa di diritti acquisiti piuttosto che per
conquistare spazi politici piú avanzati. Già il dibattito intorno alle comunidades di Castiglia
aveva finito per imboccare questa via, scartando l’idea di Maravall che da un sollevamento
di città, in caso di vittoria, sarebbe potuta scaturire una monarchia costituzionale di tipo
“moderno”: si metteva qui e altrove l’accento su quanto nell’azione delle singole città
mirava ad una difesa persino miope di consolidati privilegi.
Alla stagione degli studi sulle grandi città europee dotate di un’autonomia economica e
politica sufficiente per renderle adatte ad una ricostruzione storica globale – quale ad
esempio la Valladolid di Benassar – è subentrato un interesse piú marcato per le
interazioni, in uno spazio politico ampio, delle città con altri luoghi e fonti di potere. Gli
studi di Chevalier sulle Bonnes villes o di Brady sulla Confederazione elevetica indagano
momenti corali di rapporto fra le città ed il potere monarchico o di città fra di loro, mentre
altre ricerche impegnative hanno fatto conoscere una vasta gamma di vicende e di strategie
particolari relative a singole realtà urbane. Lavori come quelli di Descimon su Parigi, di
Schneider su Tolosa, di te Brake su Deventer, hanno mostrato come le città e i vari gruppi
cittadini al loro interno si atteggiano diversamente rispetto ai grandi mutamenti in atto. In
linea con una diffusa atmosfera revisionista, si è sottolineata la specificità di ciascun
momento e ciascun gruppo di attori, diffidando di schemi interpretativi generali37.
Un’eccezione sui generis è il volume di Helen Nader sui piccoli centri nella Spagna
degli Asburgo38. Paradossalmente, la Nader ha sostenuto di aver trovato una libertà
37 Ad es., B. BENASSAR, Valladolid an siècle d’or, Paris, 1967; R. GASCON, Grand commerce et vie
urbaine au XVIe siècle. Lyon et ses marchands, Paris, 1971, 2 vols., G. STRAUSS, Nuremberg in the
Sixteenth Century, New York, London, Sydney, 1966; B. CHEVALIER, Les bonne villes de France du XIVe
au XVIe siècle, Paris, 1982; T. BRADY, Turning Swiss. Cities and Empire (1450-1550), Cambridge, 1985; R.
DESCIMON, Qui étaien les Seize? Mythes et réalités de la Ligue parisienne (1585-1594), Paris, 1983; R.
SCHNEIDER, From Municipal Republic to Cosmopolitan City: Public Life in Toulouse 1478 to 1789,
Ithaca, 1989; W. PH. TE BRAKE, Regents and Rebels. The Revolutionary world of and Eighteenth century
Dutch City, Cambridge, Mass., Oxford, 1989.
38 H. NADER, Liberty in Absolutist Spain. The Habsburg Sale of Towns (1516-1700), Baltimore-London,
1990.
crescente nella Spagna del Cinque-Seicento in virtú delle numerose vendite di villaggi
prima facenti parte dei domini delle città maggiori. Ciò avrebbe fatto sí che una parte
rilevante della popolazione potesse accedere a forme di vita politica organizzata,
liberandosi dallo strapotere dei grandi centri e trattando direttamente con i signori
giurisdizionali. Certo, la “libertà” viene cosí ad ubicarsi in centri che nulla hanno a che
vedere con i “capoluoghi” cosmopoliti di Lopez. Tuttavia la proposta è indicativa di uno
dei modi in cui la capacità di “autodeterminazione” e di auto-organizzazione di tutti gli
agglomerati urbani, in questo caso anche molto piccoli, continua a sollecitare una
riflessione sui veri luoghi della partecipazione alla gestione della cosa pubblica, nonché,
come negli intenti dell’autrice, sulle caratteristiche degli stati monarchici d’antico regime.
Ma veniamo brevemente agli studi sulle città repubblicane svolti in Italia negli ultimi
anni. Dato il percorso che abbiamo sommariamente tracciato, e la tendenza piú generale a
respingere schemi dicotomici, non sorprende se oggi si preferisce parlare, non di
“repubblica” come entità astratta contrapposta alla signoria o al principato, ma, semmai, di
“repubbliche”, come specifici organismi politici di derivazione cittadina assai diversi tra di
loro, anche per grado di autonomia. Come il problema dello “Stato” si presenta ora sotto
forma di esigenza di conoscere le singole formazioni statali senza tentare di misurare una
loro minore o maggiore coincidenza con un modello di “stato moderno” molto teorico,
anche le repubbliche vengono viste al plurale, e non si dimenticano le quasi-repubbliche,
le ex-repubbliche e le pre-repubbliche, categorie nelle quali potremmo inserire città come
Lucca sotto i Guinigi, Siena sotto i Petrucci, o Genova sotto i re di Francia e i duchi di
Milano, città che avevano davanti a loro decenni o addirittura secoli di vita indubbiamente
repubblicana.
Non ci si limita piú quindi ad usare il concetto di “repubblica” per indicare stati
cittadini dotati di un’autonomia politica assoluta. Piuttosto, si tende a collocare le singole
città all’interno di una graduatoria che va da Venezia, da un lato, all’apice dell’autonomia,
fino a città (ad esempio Bologna, per Angela De Benedictis39) che si trovano inserite in stati
non repubblicani – e persino rilevando come la forte eredità cittadina dà un carattere
repubblicano a molti stati signorili o principeschi, come ad esempio quello fiorentino.
Provocatoriamente, Mario Ascheri ha intitolato Repubblica continua un suo recente saggio
sulla Siena medicea, per mettere in rilievo il grado notevole di autonomia che la città, pur
39
A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europa nello stato della Chiesa, Bologna, 1995.
sconfitta, conservò nei primi due secoli di dominio granducale, contrariamente a quanto
avvenne, a suo avviso, in epoca lorenese40.
Sulle città ancora repubbliche a tutti gli effetti in epoca moderna sono comparsi
numerosi studi. Opere recenti su Lucca hanno arricchito notevolmente le nostre conoscenze
(penso in primo luogo a quelle di Simonetta Adorni-Braccesi, Franca Leverotti, Rita Mazzei
e Renzo Sabbatini41) . Di Venezia, oggetto di una vastissima storiografia, non potremo qui
citare che alcune opere. Abbiamo già accennato al particolare sviluppo delle indagini
sull’organizzazione della terraferma veneta. Tuttavia si può dire che gli studi sulle due città
prendono come dato di fatto scontato la loro condizione di repubbliche; e da ciò deriva una
scarsa inclinazione a problematizzare tale concetto político-storiografico attraverso un
approccio comparativo che tenga conto delle caratteristiche e dei problemi comuni alle
varie realtà repubblicane.
Non mancano, tuttavia, studiosi interessati ad indagare la specificità degli ordinamenti
repubblicani. Grazie in primo luogo ai lavori di Cozzi e del suo gruppo, si è individuato
nella giustizia un campo utile per verificare concretamente le modalità di costruzione e di
organizzazione del potere negli stati del primo periodo moderno. Collegata con
quest’indirizzo è l’ampia ricerca comparativa sui giudici di Rota guidata da Elena Fasano
Guarini. In quell’ambito, studiando l’istituzione delle Rote nei primi decenni del ‘500, ho
cercato di dimostrare come le città “repubblicane” (Genova, Siena, Lucca, Firenze),
avessero, a causa delle analoghe strutture del consenso, adottato soluzioni istituzionali
simili per far fronte ai problemi giuridici, giurisdizionali e politici dell’epoca42.
La città di Genova e lo stato genovese, che molti anni fa Berengo indicava come
ingiustamente trascurati dagli storici, vengono attualmente studiati in diverse prospettive e
sono oggetto di un vivace dibattito. Di fronte a chi (Osvaldo Raggio, Edoardo Grendi) ha
ritenuto di privilegiare gli ambiti locali di organizzazione della vita sociale, in dichiarata
polemica con la storiografia sullo stato, altri, come Vito Piergiovanni, Rodolfo Savelli, Carlo
40 M. ASCHERI, Repubblica continua, in I Libri dei Leoni. La nobiltà di Siena in età medicea (1557-1737),
Milano, 1996.
41 E. LEVEROTTI, Popolazione, famiglie, insediamento. Le Sei Miglia lucchesi nel XIV e XV secolo, Pisa,
1992; S. ADORNI BRACCESI, Una città infetta. La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento,
Firenze, 1994; R. SABBATINI, I Guinigi fra ‘500 e ‘600. Il fallimento mercantile e il rifugio nei campi, Lucca,
1979; R. MAZZEI, La società lucchese del Seicento, Lucca, 1977.
42 Stato società e giustizia nella repubblica veneta, a cura di G. Cozzi, Roma, 1980; G. COZZI, Repubblica di
Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982; Rote, senati e
tribunali supremi nell’Italia dell’antico regime, a cura di A. Bettoni e M. Sbriccoli, Milano, 1993; sugli studi
sulla giustizia in generale, A. ZORZI, Tradizioni storiografiche e studi recenti sulla giustizia nell’Italia del
Rinascimento, in “Cheiron”, 16, 1991, 27-28.
Bitossi e Arturo Pacini43 hanno indagato la repubblica nel suo complesso, mettendo in
primo piano le vicende politiche interne ed estere della città dominante. Fra l’altro, si è
giunti cosí a teorizzare esplicitamente che la libertà di agire necessaria per i mercanti e
banchieri genovesi, cosí importanti per l’assetto economico-finanziario europeo del ‘500 e
del ‘600, dipendesse strettamente dalla capacità di mantenere la “libertà” di Genova,
intesa come autonomia politica ma anche come ordinamento repubblicano. Tale
ordinamento si dimostrò capace di fornire adeguati luoghi di confronto e di elaborazione
delle decisioni alle varie componenti di una società cittadina fortemente conflittuale. In
definitiva la ricchezza e il peso a livello europeo della Superba sono visti come legati in
modo necessario alla riconquista e alla conservazione della forma repubblicana, con i suoi
complessi meccanismi elettorali e i suoi persino estenuanti dibattiti.
Quanto a Siena, il Due e il Trecento sono apparsi i secoli piú adatti ad essere trattati in
quadri d’insieme44. Per il periodo che va dalla caduta dei Nove nel 1355 alla fine della
repubblica due secoli dopo, la stupefacente varietà delle forme istituzionali e la vita
politica sempre parossistica hanno reso difficile trovare sicuri criteri di indagine. I lavori di
numerosi studiosi, fra i quali Mario Ascheri, Giuliano Catoni, Giuseppe Chironi, Maria
Ginatempo, Petra Pertici, Christine Shaw, e chi scrive, hanno fornito ormai un materiale
utile per individuare le costanti del sistema politico senese. Si è potuto definire come
principali modulazioni possibili della vita politica cittadina il governo “largo” condotto dai
consigli e i governi “stretti” retti da Balie o da signori, e dimostrare che ciascun tipo di
regime trovava sostegno in particolari gruppi, formati, definiti e continuamente rimodellati
dal processo politico stesso45.
43 O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino, 1990; E. GRENDI,
Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino, 1993; V. PIERGIOVANNI, Il sistema
europeo e le istituzioni repubblicane di Genova nel Quattrocento, in “Materiali per la storia della cultura
giuridica”, XIII (1983), I, pp. 3-46; R. SAVELLI, La Repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a
Genova nel Cinquecento, Milano, 1981; C. BITOSSI, Il Governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova
fra Cinque e Seicento, Genova, 1990; ID., “La Repubblica è vecchia”. Patriziato e governo a Genova nel
secondo settecento, Roma 1995; A. PACINI, I presupposti politici del secolo dei genovesi. La riforma del
1528, in “Atti della società ligure di storia patria”, 1990.
44 D. WALEY, Siena and the Sienese in the Thirteenth Century, Cambridge, 1991; W. BOWSKY, A Medieval Italian
Commune. Siena under the Nine (1287-1355), Berkeley, 1981; trad. it.: Un comune italiano nel medioevo. Siena sotto il
regime dei Nove (1287-1355), Bologna, 1986.
45 Indicazioni bibliografiche aggiornate in M. ASCHERI-P. PERTICI, La situazione politica senese del
secondo Quattrocento (1455-1479); A.K. ISAACS, Cardinali e spalagrembi. Sulla vita politica a Siena fra il
1480 e il 1487 e G. CHIRONI, Nascita della signoria e resistenze oligarchiche a Siena: l’opposizione di
Niccolò Borghesi a Pandolfo Petrucci (1498-1500), in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, Politica
economia cultura arte, III, a cura di R. Fubini, Pisa, 1996 e in ASCHERI, Repubblica continua, cit.
È da segnalare infine, per il suo interesse rispetto ai temi qui trattati, uno dei lavori di
Isabella Lazzarini sulla Mantova del tardo Medioevo. Mantova, è ovvio, non era una
“repubblica”. Tuttavia, come avviene in quasi tutte le città dell’Italia centro-settentrionale,
la base comunale continua a vivere al di sotto e accanto alle successive stratificazioni
istituzionali prodotte dal governo signorile. È relativamente agevole osservare stratificazioni
analoghe anche negli stati piú forti, come quello fiorentino. La Lazzarini, tenendo conto
dell’ubicazione delle strutture urbane e delle abitazioni delle diverse famiglie, ricostruisce
in modo originale i cambiamenti nei legami sociali che accompagnano l’evoluzione delle
forme d’esercizio del potere nel passaggio dal comune e alla signoria. Si tratta di un metodo
suggestivo per indagare le logiche diverse dei due sistemi46.
Tangenzialmente a questo quadro di studi specifici sui sistemi politici repubblicani nei
vari momenti e contesti, Maurizio Viroli47 ha recentemente riproposto con molto slancio il
“repubblicanesimo” come valore etico-politico attuale, sulla scia di dibattiti di ambito
angloamericano sulla morale e sulla sua definizione, individuale o politico-sociale. Su un
altro versante, ma con qualche punto di affinità, Pierangelo Schiera ha voluto che fosse
ripubblicata la Storia delle repubbliche italiane del Sismondi48, per riaprire il dibattito
sulle forme politiche in grado di garantire una reale partecipazione dei cittadini nel mondo
attuale. Il rinnovato interesse per gli antichi stati cittadini può rallegrare chi studia quella
realtà, ma impone anche molta cautela per evitare il rischio di un uso strumentale ed
anacronistico di formulazioni attinenti a contesti ben diversi dal nostro.
E concludo. I nemici delle repubbliche e del repubblicanesimo hanno spesso avuto
buon gioco ad ironizzare sugli aspetti prettamente ideologici della celebrazione del vivere
civile. Samuel Johnson, fedele alla monarchia hannoveriana e sostenitore dell’ordine
costituito, pensava che fosse meglio per la società che l’antica nobiltà godesse dei posti di
potere. Come pretendere infatti che il popolo obbedisca a uomini nuovi? I “repubblicani”
per Johnson erano, piú che fautori di una particolare forma di governo, “rivoluzionari”,
pronti a pescare nel torbido, mettendo in pericolo l’ordinato meccanismo della società. “In
republicks”, ebbe a dire, “there is not respect for authority, but a fear of Power”49. Nella
sua visione, le repubbliche sono costituite su una pulsione negativa, di democraticismo se
46 I. LAZZARINI, Gerarchie sociali e spazi urbani a Mantova dal Comune alla Signoria gonzaghesca, Pisa,
1994.
47 M. VIROLI, Dalla politica alla ragione di stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma, 1994.
48 J.-CH.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane, con presentazione di P. Schiera, Torino,
1996.
49 J. BOSWELL, Life of Samuel Johnson, Oxford, ed. 1953, p. 464.
non di anarchia, contrariamente a ciò che avviene nelle monarchie costituzionali, dove vige
un giusto rispetto per il sovrano e per le autorità. Thomas Hobbes, in un brano spesso citato
dal Leviatano, che è difficile non ricordare qui, evocò l’immagine della Lucca del suo
tempo (dove si trovava ancora scritto “on the Turrets...in great characters” la parola
“LIBERTAS”), per sostenere che la libertà che si elogia è quella dei sovrani, non quella
degli uomini privati. Per Hobbes se la cosa pubblica è “Monarchicall, or Popular, the
Freedome is still the same”, vale a dire, sussiste unicamente la “Libertie to resist, or
invade other people”. Il lucchese non doveva ritenersi piú libero, rispetto allo stato,
dell’abitante di Costantinopoli50.
Il punto, come abbiamo visto, è ancora dibattuto.
Nella nostra epoca, dedita agli studi sulla “costruzione” e sulla “decostruzione”, sembra
ineludibile un richiamo ai “fatti” che ancori le interpretazioni storiografiche a situazioni
documentabili del passato, alla “verità storica”51. E nonostante i dubbi che può suscitare
un eccesso di “attualísmo”, sembra inevitabile che anche lo storico piú attento ai pericoli
delle proiezioni anacronistiche si interessi degli aspetti del passato la cui importanza
emerge dalle vicende odierne. L’autogoverno cittadino, e quindi anche la ricca esperienza
delle città politicamente autonome del medioevo e dell’età moderna – non nelle forme
eterne, ma nella mobile esperienza di organizzazione della vita civile secondo norme
riconosciute ma sottoposte a discussione ed ad una continua rielaborazione – è un oggetto
di studio ancora rilevante.
Su entrambi questi piani, Nobili e mercanti mantiene inalterata la sua importanza.
T. HOBBES, Leviathan, Part II, Chapter 21.
Ad esempio E. HOBSBAWM, On History, London, 1997, spec. Identity history is not enough, rist. di The
Historian between the Quest for the Universal and the Quest for Identity, in “Diogenes”, 42-4 1994; G. GINZBURG, Il
giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, 1991, p. 12.
50
51
Paolo Malanima
Il tema del mercante
In molte città dell’Italia settentrionale la mercatura permise a tante famiglie nuove di
affermarsi prima nella vita economica e poi anche nella gerarchia sociale e nelle cariche
pubbliche. Si trattò del canale di mobilità ascendente di maggiore importanza nel tardo
Medioevo e nella prima Età moderna. Fu esso a produrre, con onde successive,
l’avvicendamento al vertice della società e della politica. Viceversa fu proprio quando le
difficoltà economiche ridussero le possibilità di arricchimento per famiglie nuove che
anche il ricambio nella struttura sociale e nelle attività politiche divenne più difficile.
Di tutto questo la storia della città di Lucca offre numerosi esempi. Lo riconosceva
Marino Berengo, nella sua opera del 1965, quando attribuiva ai successi commerciali
“l’idoneità ad inserirsi nella vita pubblica”1 per le famiglie in ascesa. Era stato poi il
“diffuso declino delle attività mercantili”2 nella seconda metà del Cinquecento a provocare
la chiusura oligarchica del governo della Repubblica. Le difficoltà economiche avevano
contribuito allora a consolidare il potere della nobiltà cittadina rendendo impossibile il
successo sociale di case nuove. Ne era seguita “l’esclusione di ogni altro ceto dalla vita
pubblica”3, al di fuori del ristretto gruppo delle famiglie dominanti4.
Quando Berengo studiava Lucca, l’attenzione per il ruolo del mercante nella vita
economica, sociale e anche politica era ben piú viva nella ricerca storica di quanto non sia
oggi. Una ricostruzione per sommi capi della storiografia relativa al mercante può essere
utile per ricostruire lo sfondo sul quale si colloca anche la specifica ricerca di Berengo.
Il tema del mercante è uno di quelli che nello studio della storia economica hanno
occupato a lungo una posizione centrale. Sono poi scivolati in secondo piano e sono infine
scomparsi senza che nessuno se ne sia accorto. Il periodo in cui si è svolta questa vicenda
è, piú o meno, quello che va dall’inizio del secolo ai primi anni ‘70. In questi decenni
l’attenzione per i grandi personaggi è stata forte, non solo nel campo della storiografia
economica, ma anche in quelli della storia politica, della storia militare, di quella sociale,
di quella religiosa, di quella culturale. Il ruolo consapevole degli uomini nei processi
storici veniva considerato allora assai più importante di quanto non si faccia oggi. Oggi
l’attenzione viene rivolta piuttosto a quei processi di trasformazione di lungo periodo che
ínfluenzano la condotta degli uomini anziché esserne condizionati. Temi quali la
formazione dello Stato, l’organizzazione amministrativa, i cambiamenti delle strutture
sociali, le mentalità religiose, hanno preso il posto dell’interesse per i sovrani e per i
governanti, per l’ascesa sociale individuale o familiare, per i papi e per gli eretici. Si è
avuta una graduale spersonalizzazione della storia. Nel settore della storia economica o
economico-sociale il fenomeno è stato particolarmente evidente. Il caso dell’interesse per i
mercanti lo dimostra bene. Un tempo il mercante, e specialmente il mercante medievale,
era fra gli argomenti privilegiati della ricerca. In Italia si studiavano i Medici, i Bardi o il
Datini, mentre fuori d’Italia l’attenzione era rivolta ai Ruiz, ai Fugger, ai Welser… Era
M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1965, p. 65.
Ivi, p. 257.
3 Ivi.
4 Qualche elemento su queste vicende anche in H. KELLENBENZ, I grandi mercanti e la mobitità sociale
nell’Europa dal Cinque al Settecento, in “Annali della Facoltà di Economia e commercio di Verona”, s. I, III,
1968-69, pp. 45-62.
1
2
convinzione diffusa che i mercanti avessero rappresentato per secoli l’elemento piú
dinamico e innovatore nella vita economica. Il dinamismo dell’economia sarebbe dipeso
dalle loro iniziative. Si pensava in particolare che i mercanti fossero stati gli artefici del
sistema capitalistico. Questo sistema, caratterizzato, a quanto si riteneva, dalla presenza
d’ingenti capitali, dal dinamismo, dalla gestione razionale degli affari, avrebbe trovato la
sua origine già all’epoca dello slancio economico medievale. E gli artefici ne sarebbero
stati dapprima i mercanti italiani, poi quelli tedeschi, infine quelli olandesi e inglesi.
Mercanti e capitalismo, dunque.
Per maggiore concretezza si possono rammentare pochi nomi. Ricordiamo innanzitutto
Pirenne. Sia con i suoi contributi personali, sia per i dibattiti che la sua opera suscitò a
lungo, Pirenne può essere veramente considerato come lo storico che piú di altri ha
influenzato l’interesse per il mercante nella storia economica. Per Pirenne il capitalismo è
caratterizzato dall’impresa come sua cellula operativa dagli investimenti, dal profitto
commerciale, dalla speculazione razionale. Le sue radici si possono trovare nel tardo
Medioevo e particolarmente nelle città italiane. Alle origini l’elemento dinamico è
costituito da quei piccoli mercanti, sradicati dal mondo agrario e feudale, che animano le
città in espansione e vi introducono lo spirito del profitto razionale. Si formano piú tardi
vere dinastie di banchieri e mercanti che operano in un quadro geografico sempre piú
ampio.
Il capitalismo dell’Occidente ha dunque, secondo Pirenne, il suo protagonista. Questo
punto di vista, quando fu elaborato dallo storico belga, e cioè fra la prima guerra mondiale
e la fine degli anni Venti, era in accordo con l’atmosfera prevalente che caratterizzava
anche altre discipline quali la teoria economica e la sociologia. Si può solo ricordare il
ruolo centrale nel processo dello sviluppo capitalistico che veniva allora assegnato da
Schumpeter all’imprenditore. Era proprio l’imprenditore a combinare creativamente gli
inerti fattori della produzione. I mercanti medievali potevano essere considerati piú o meno
come gli imprenditori del primo capitalismo. Nella teoria sociologica Weber aveva
sollecitato l’attenzione per lo spirito razionale nel perseguimento del guadagno. Si trattava
del carattere distintivo del sistema capitalistico, a suo giudizio, e nel calvinismo trovava i
suoi elementi costituitivi. Le discussioni seguite alla sua opera contribuirono a dilatare
l’interesse per questo aspetto delle relazioni fra religione ed economia. Vi erano gruppi
sociali ed economici che avevano anticipato quel tipo di razionalità che Weber individuava
nell’uomo d’affari calvinista? Il mercante medievale venne subito individuato da alcuni
come un suo lontano progenitore. Anche Sombart ricostruí, fra l’inizio del secolo e gli anni
Trenta, il percorso dello spirito faustiano caratteristico, come diceva, del capitalismo
europeo ricercandone le premesse in gruppi sociali e individui. Contro Pirenne, Sombart
tese, però, a minimizzare il ruolo del mercante medievale. I temi ricorrenti della sua opera,
scrisse Sapori, furono due: «l’affermazione che la ricchezza medievale, i patrimoni e poi i
capitali, si formarono con i proventi della proprietà fondiaria; e che lo spirito dell’età di
mezzo, fu universalmente “spirito artigiano”»5. Anche i mercanti non rivelarono alcuno
spirito capitalistico. I mercanti medievali vennero allora studiati, soprattutto da storici
italiani, per contrastare questa opinione e dimostrare il loro “spirito capitalistico”.
S’intensificò anche per questo l’interesse per la condotta degli affari in epoca medievale.
Se guardiamo al caso italiano, l’attenzione al mercante medievale è stata forte
particolarmente nell’arco di tempo compreso fra l’inizio degli anni Venti e primi anni
Settanta. Si possono ricordare, per i loro contributi in questo tipo di tematica, i nomi di
Gino Luzzato, Armando Sapori, Roberto Sabatino Lopez, Federigo Melis. Insieme alle tante
diversità dell’oggetto specifico della loro ricerca e del tono della loro ricostruzione, essi
rivelano diverse analogie.
La loro attenzione è orientata a rivendicare l’originalità del mercante italiano e la sua
forte impronta nell’economia e nella società. Il loro bersaglio polemico è spesso, in maniera
piú o meno scoperta, la ricostruzione riduttiva di Sombart. L’ampiezza dell’orizzonte del
mercante, la sua razionalità nella gestione, l’origine mercantile e non fondiaria delle sue
fortune rendono inaccettabile, a loro giudizio, la ricostruzione del mercante medievale
proposta da Sombart. Proprio questa intenzione polemica è alla base delle tante ricerche
sulla gestione degli affari, sulle pratiche bancarie, sulla psicologia, sulla formazione delle
fortune e dei capitali. Ebbe a scrivere, ad esempio, Federigo Melis nel 1964 che con il
controllo di settori diversi come quelli della banca, dell’industria, della navigazione, il
“grande mercante...assomma nelle sue mani, con l’atto principale dello scambio quello
accessorio del servigio della navigazione, dominandolo, in una immensa distensione
territoriale e di tempo”. Possiamo quindi riscontrare in lui – sono ancora sue parole –
“quella qualità somma che il Sombart gli aveva negato per tale epoca e per vari secoli
ancora: il dominio del mercato, nella sua piú ampia accezione”6.
Quali sono i lineamenti del mercante emersi dalle ricerche dei passati decenni relative
all’Italia? Soffermiamoci ora su alcuni di essi7. Vedremo poi le ragioni del progressivo
A. SAPORI, Werner Sombart, in Studi di storia economica, Firenze, Sansoni, 1985, II, p. 1100 (I ed. 1947).
E. MELIS, Werner Sombart e i problemi della navigazione nel Medioevo, in I trasporti e le comunicazioni
nel Medioevo, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 68 (I ed. 1964).
5
6
7
J. DAY, Medieval merchants and financiers, in The medieval market economy, Oxford, Blakwell, 1987.
minore interesse per questo tema e delle critiche che sono state rivolte ai risultati in questo
campo.
Chi è? Il mercante è l’elemento centrale della città europea. Nella città vive; grazie alla
città forma le sue fortune. Esse sono sempre legate alle attività di scambio che le città
rendono possibili. Molto poco esse derivano, come riteneva Sombart, dalla proprietà della
terra. La terra è di rado il punto di partenza; quasi sempre lo è la città col suo dinamismo
economico. Proprio sul collegamento fra città e mercante alcuni elementi sono stati
sviluppati nella lunga intervista di Marino Berengo a Roberto Sabatino Lopez del 19848. Si
ricordano qui le differenze fra la città antica e quella asiatica da una parte e la città
europea dall’altra. Mentre i primi due modelli di città sono contraddistinti da una
popolazione di proprietari terrieri e funzionari, la città europea appare come città borghese,
popolata da mercanti e artigiani e governata da case mercantili. L’opposizione – si potrebbe
dire in termini weberiani – è quella fra una città di consumatori e una città dì produttori.
Sostiene Lopez che “la città medievale per eccellenza è una città di mercanti e
(generalmente in posizione subordinata) di artigiani”9.
Gli affari. Proprio in questo settore di ricerca si sono avuti i risultati più interessanti. Lo
studio delle tecniche di affari ha potuto ricostruire la nascita d’innovazioni numerose. Il
mercante medievale è apparso come l’artefice di queste tecniche nuove. Dall’Italia
settentrionale esse si sono poi diffuse nel resto d’Europa. Si possono solo ricordare le
ricerche su tipi di società commerciali come la commenda, la societas maris, la colleganza,
sulle forme del credito e della banca, sulla contabilità, sul diritto commerciale.
L’evoluzione del mercante attraversa diversi stadi che corrispondono a tecniche di affari
differenti. Si va dal mercante itinerante della prima espansione medievale, ricordato spesso
da Pirenne; al mercante sedentario, che ha la sua residenza in un centro urbano
importante; al grande banchiere con interessi in attività mercantili, creditizie, industriali,
assicurative. Questa compresenza di diversi interessi nella stessa persona rimane un tratto
distintivo del mercante italiano ancora in età moderna.
La mentalità e l’istruzione. Si deve studiare il mercante medievale “con occhi
medievali” e non “con occhi moderni”, scriveva Sapori10. Cosí facendo ci si accorge allora
che esso manifesta una mentalità razionale, calcolatrice e innovatrice. Lo rivelano
soprattutto le tecniche della gestione commerciale e in particolare l’introduzione della
partita doppia nella Toscana del XIII secolo. Questo razionalismo mercantile era in parte
R.S. LOPEZ, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 12.
Ivi, p. 12.
10 A. SAPORI, La cultura del mercante italiano, in Studi, cit., I, p. 86.
8
9
anche il risultato dell’istruzione. La formazione del giovane mercante avveniva sia in modo
privato che pubblico; anche nella scuola con lo studio del latino e della matematica. Essa
avveniva, però, dopo i 14-15 anni, soprattutto con l’apprendistato in qualche impresa di
affari, in qualche banco o in qualche filiale su piazze lontane in Italia e all’estero.
Venivano assimilate in questo modo le pratiche della gestione razionale degli affari11.
Anche Sombart, nonostante la sua opera di minimizzazione della mercatura medievale, era
stato costretto ad ammettere già nel 1913 che “l’Italia è senza dubbio la terra dove si è
sviluppato per primo lo spirito capitalistico”12.
Le origini. Per quanto riguarda le origini delle grandi dinastie commerciali, il quadro
presenta una notevole varietà. La proprietà di qualche terra può costituire talora il punto di
partenza. In altri casi esso e rappresentato dalla pratica nell’artigianato. In altri casi ancora
è da individuare nel piccolo commercio. Se la base di partenza è diversa nei diversi casi,
tante analogie presenta invece la vicenda successiva. Sono i profitti commerciali realizzati
che alimentano piú ampi investimenti, i quali a loro volta consentono nuovi profitti, e cosí
via. Il capitale si forma all’interno stesso dell’attività mercantile e alimenta una spirale
espansiva. Solo in parte proviene da fuori dell’attività commerciale vera e propria.
La terra. Qual è il ruolo della terra nei patrimoni mercantili? Se la proprietà fondiaria
non è all’origine delle fortune, qual è la funzione che essa svolge nelle successive fasi della
vita familiare? Il tema ha ricevuto molta attenzione. Si è parlato di “corse alla terra” di
case mercantili sia per il tardo Medioevo che per la prima età moderna. L’acquisto di beni
fondiari è un comportamento consueto del mercante. Sin dalle prime fortune commerciali
una parte dei profitti trova la via dell’acquisto di terra. Si tratta talora di un orientamento
volto a redistribuire la ricchezza in settori diversi e a sottrarre alle incertezze del
commercio parte del patrimonio. Talaltra l’investimento in terre vuole essere la base per
preparare l’ascesa sociale. Esso può essere, infine, il modo per riconvertire in beni
immobili i capitali allorché gli affari attraversano una congiuntura difficile. Ciò sarebbe
accaduto nel Quattrocento, quando “la corsa alla terra” si manifestò “con intensità
maggiore di ogni altro movimento del genere nei secoli precedenti”13. Una nuova “corsa
Al proposito si veda anche U. TUCCI, La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Mercanti,
navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna, Il Mulino, 1981, pp 43-94.
12 W. SOMBART, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano, Longanesi, 1978, p.
105 (I ed. tedesca 1913).
11
R. ROMANO, Il mercante italiano tra Medioevo e Rinascimento, in Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento,
Torino, Einaudi, 1971, p. 97.
13
alla terra” si sarebbe verificata poi nel Seicento, in relazione col declino delle attività
commerciali e industriali.
Le aspirazioni. Il gruppo di riferimento di ogni famiglia di mercanti che diventa ricca è
quello della nobiltà. Un gruppo di riferimento “borghese” non esiste. Ruggiero Romano ha
scritto di una sorta di “mimetismo sociale per cui questo mercante cerca – attraverso il
tenore di vita in belle case su pacifiche campagne – di assimilarsi ai nobili”14. È stato detto
spesso che una famiglia non rimane nella mercatura per piú di due-tre generazioni. Poi
diviene nobile, se ci riesce. Altrimenti rimane fra le famiglie medie discretamente agiate.
Si tratta di un meccanismo importante nel ricambio sociale del mondo preindustriale.
Pirenne ne fece la base di una sua visione della storia europea secondo la quale la crescita
economica sarebbe stata sospinta da classi capitalistiche (classes de capitalistes) alternatesi
nelle posizioni di testa15. La storia del capitalismo sarebbe cosí ritmata proprio dal
dinamismo di famiglie mercantili in successione. È stato detto talora che alla fine del
Cinquecento e nel primo Seicento la stagnazione e poi il declino delle attivita commerciali
avrebbero interrotto questo ciclo di ricambio. Ciò avrebbe provocato una sorta di
“tradimento della borghesia”16. Ugo Tucci ha scritto di “un mutamento degli atteggiamenti
morali e dei quadri politici e sociali in senso aristocratico-nobiliare”17. Le famiglie
“borghesi” avrebbero assunto caratteri nobiliari mentre sarebbero mancate famiglie nuove
di mercanti arricchiti a prendere il loro posto. In realtà il tradimento della borghesia è un
fenomeno costante di ogni famiglia di mercanti. Quel che accade alla fine del Cinquecento
è l’interruzione, per ragioni economiche, dell’ascesa di famiglie nuove. Un esempio può
essere quello di Lucca cosí come appare proprio dalle pagine di Berengo.
Gradualmente il mercante è scomparso dal proscenio. Quando ancora compare in studi
recenti esso non costituisce il centro dell’attenzione, fra gli artefici della vita economica.
Rappresenta solo uno degli elementi in gioco. Si pensi, ad esempio, alla corrente di studi,
dalla metà degli anni Settanta, sulla protoindustria. Uno dei tempi da approfondire, a
quanto era stato indicato sin dai primi contributi, avrebbe dovuto essere quello del
mercante, dell’organizzatore di quel sistema dell’industria a domicilio rurale, che era al
Ivi, p. 98.
H. PIRENNE, Les périodes de l’histoire sociale du capitalisme, Bruxelles, Librairie du “peuple”, 1922.
16 Ne parlò già, come è ben noto, F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino,
Einaudi, 1976, II, pp. 770 ss.
17 U. TUCCI, La psicologia, cit., p. 55.
14
15
centro dell’interesse. Ma proprio il mercante è rimasto nell’ombra e le nostre conoscenze al
proposito si sono arricchite di poco.
Quali sono gli orientamenti della ricerca nel campo della storia economico-sociale che
hanno contribuito ad emarginare il tema del mercante?
Circa il peso reale dei commerci nella vita economica alcuni dubbi avevano presentato
già storici delle passate generazioni, come Gino Luzzatto e Ives Renouard; piú tardi anche
Braudel. Di fronte alla tendenza a ingigantire i traffici, le navi, le case di commercio, le
banche, i capitalismi, già essi si erano interrogati sul rilievo reale, nella vita economica
complessiva, di queste attività. La risposta era stata che queste attività erano in fin dei
conti assai meno significative di quanto non si sarebbe indotti a ritenere sulla base dei tanti
studi dedicati ad esse18. È quanto verificò Luzzatto a proposito dei traffici navali
veneziani19. Se questo è vero, poteva diventare legittimo allora rivolgere l’attenzione a
settori economici più significativi come l’agricoltura. Cominciava ad apparire paradossale
la concentrazione di energie e capacità in campi di ricerca come quello della mercatura
mentre tanto poco si sapeva del mondo agricolo. E inoltre: indagando il dinamismo di un
settore minoritario come quello della mercatura e trascurando gli aspetti piú tradizionali,
ma ben piú importanti in termini di quantità, non si finiva per dare dell’economia
medievale un’immagine troppo moderna e lontana dalla realtà delle cose?
Un tempo, nel campo della teoria economica, veniva attribuita notevole importanza
all’investimento di capitale. Si riteneva che fosse proprio l’incremento nella formazione del
capitale a determinare la crescita del prodotto. Anche l’industrializzazione veniva
considerata come un processo a catena innescato dall’aumento degli investimenti. Questo
clima esercitò la sua influenza anche sugli storici che si occupavano del mondo
preindustriale. Se dunque era l’investimento a determinare la crescita economica, da chi
potevano provenire gli investimenti? Quasi mai dai gruppi sociali interiori, costretti a
spendere tutto il loro reddito per far fronte alle proprie necessità; non certo dai nobili,
interessati piú alla spesa che all’impiego produttivo delle loro risorse. Rimanevano i gruppi
sociali intermedi e in particolare i mercanti, direttamente coinvolti nella attività produttive.
Per studiare il capitale si doveva studiare il mercante. Piú di recente, però, la convinzione
della centralità del capitale nella vita economica è diventata sempre meno salda nel
pensiero economico. Tanti altri aspetti sono sembrati più importanti dell’investimento:
Come ha notato piú volte R. ROMANO in Tra due crisi, cit.
G. LUZZATTO, La storia economica di Venezia dall’XI al XVI secolo, Venezia, Centro internazionale delle arti
e del costume, 1961, passim.
18
19
dalla tecnica all’istruzione agli elementi extra-economici. Anche per questa strada si
riduceva per lo storico l’interesse della ricerca sull’investimento mercantile.
Se il ruolo del mercante come investitore può non apparire cosí centrale come un tempo
nella vita economica, si potrebbe ritenere che rimanga invece rilevante il suo ruolo come
innovatore nelle tecniche. Si sa come la tecnica sia venuta acquistando importanza nella
teoria economica quale elemento decisivo in ogni processo di crescita. Si può pensare
allora che al mercante spetti il ruolo di innovatore nelle tecniche di affari, in quelle
bancarie e in quelle industriali. Ma è proprio cosí? Oggi, nella storia delle tecniche, c’è la
tendenza a sottolineare piuttosto i piccoli cambiamenti impersonali che i grappoli di
innovazioni, come fu fatto sulla scia di Schumpeter. E i cambiamenti impersonali sono
l’opera di piccolissimi operatori, che spesso occupano una posizione marginale negli affari
e di cui non si ricorda mai neppure il nome. Sembra improbabile che al
mercante-imprenditore del Medioevo possa essere attribuito un merito particolare in questo
processo dell’innovazione. Forse gli rimane solo quello di essersi trovato in condizioni
propizie per cogliere elementi favorevoli in un’atmosfera favorevole. Come del resto quasi
sempre accade.
Per quanto, infine, concerne il mercante quale anticipatore di una mentalità calcolatrice
e razionalista, capitalistica insomma, si può solo ricordare quanto ebbe a scrivere Braudel,
e cioè che qualcuno, fra di loro, era razionalista, qualcun altro spendaccione, qualcuno
risparmiatore, qualcuno astuto, qualcuno fortunato20.
Tutto ciò non vuol dire che non si studino piú o che non si studieranno piú i mercanti.
Qualcosa, però, è cambiato. È cambiato lo spirito con cui vengono studiati. Oggi negli
archivi dei mercanti si fa ricerca per capire quali e quante merci circolassero nelle
economie del passato, per comprendere le strutture dei mercati e le forme di circolazione,
per analizzare l’articolazione sociale e i suoi cambiamenti. In questi nuovi interessi di
ricerca il mercante compare piú come un mezzo che un fine.
Si è visto prima che per lungo tempo il tema del mercante si è collegato con quello della
nascita del capitalismo. È interessante notare, in conclusione, che insieme alla scomparsa
del mercante dal proscenio della storia economico-sociale si è avuta la scomparsa, anche
questa inosservata, del capitalismo. Si tratta di un altro cambiamento di rilievo nel modo
con cui si osserva oggi la storia. Questo cambiamento va ben al di là del tema del mercante
e richiederebbe ben altra attenzione.
20
F. BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Torino, Einaudi, 1982, II, p. 404.
Claudio Donati
Nobiltà e coscienza nobiliare nell’Italia del Cinquecento1
Sono molti anni che Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento compare tra i libri che
gli studenti possono scegliere per sostenere l’esame del mio corso universitario di “Storia
degli antichi stati italiani”. Questa lunga consuetudine con un testo pubblicato un
trentennio fa è legata a una ragione che rappresenta forse il migliore elogio che si possa
fare a una ricerca di storia: la lettura del libro continua ad appassionare e coinvolgere i
nuovi lettori, cosí come chi vi si era avvicinato negli anni Sessanta e Settanta. E quando si
cerca di comprendere le ragioni di questo gradimento, emerge una varietà di motivazioni,
Si riproduce, con qualche lieve modifica e integrazione, il testo pronunciato a Lucca il 21 ottobre 1995.
L’apparato documentario è ridotto al minimo, e intende soprattutto fornire indicazioni precise sui libri e
articoli citati o richiamati nel testo, e inoltre segnalare alcuni studi, pubblicati in epoca successiva all’incontro
lucchese, i quali si ricollegano per qualche verso agli argomenti trattati (Milano, gennaio 1997).
1
legate alla ricchezza dei contenuti e all’ampiezza dei problemi che nel libro vengono
trattati o anche soltanto sfiorati. Cosí accade che qualche studente particolarmente
preparato e sensibile riesca a cogliere e a renderci partecipi di significati e motivi del
volume, che a noi erano sfuggiti.
A tale proposito, voglio richiamare un episodio di alcuni anni fa. Avevo chiesto a una
esaminanda quale fosse, a suo parere, il tema principale del libro di Berengo, e lei in
risposta aveva richiamato una frase che compare nelle primissime pagine del volume.
Rileggiamola insieme:
“sono in particolare le piccole repubbliche e i piccoli principati ancora faticosamente
sopravvissuti, ma poco attivi sia sul piano diplomatico che su quello militare, a tradire, con
straordinaria ricchezza di fatti e di temi, la profonda trasformazione che la società italiana viene
attraversando”2.
Sollecitata a precisare le caratteristiche di questo processo di trasformazione, con mia
grande sorpresa la studentessa aveva cominciato a tracciare una sorta di mappa di “non –
trasformazioni”. Né una rivoluzione della struttura economica, né il ribaltamento dei
rapporti tra città e contado, né l’adesione a una nuova confessione religiosa, e neppure
riforme sostanziali della costituzione politica avevano caratterizzato il Cinquecento italiano;
quasi tutti questi ambiti, e altri ancora, avevano attraversato sí, nella prima metà del
secolo, tensioni, lacerazioni, fratture, ma nessuno singolarmente preso aveva subito in quel
periodo un sovvertimento davvero radicale. Ma allora Berengo aveva avuto torto
nell’indicare una profonda trasformazione della società italiana, e si doveva parlare invece
di una sostanziale continuità, se non addirittura di immobilismo? No, secondo la
studentessa il cambiamento c’era stato; ma lei non riusciva a definirlo con i parametri che
le erano evidentemente piú noti, quelli cioè dell’economia, della politica e del diritto.
D’improvviso, le venne in mente qualcosa: il clima! Sul momento non capii; poi, grazie alle
sue un po’ confuse spiegazioni, mi resi conto di quel che aveva voluto dire. Nobili e
mercanti si chiude col commento di Berengo al passo di una lettera di Luis de Requesens a
Filippo II del novembre 1567:
“come l’ambasciatore spagnolo finemente avvertiva, a mutare era il clima stesso della città; e
quel suo ostinato aderire alle forme della vita comunale, che le aveva fatta apparire pericolosa
2
M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi 1965, p. 12.
ed estranea all’equilibrio politico italiano, si era attenuato inserendosi, seppur con una tonalità
propria, nell’alveo religioso e sociale della Controriforma”3.
Il clima, questa metafora apparentemente banale attinta dalla metereologia, appariva
come una chiave interpretativa quanto mai felice per cogliere uno dei principali motivi
conduttori del libro. Una sorta di bufera aveva scosso l’Europa e il Mediterraneo nel primo
Cinquecento, e l’Italia nel suo complesso vi si era trovata coinvolta. Quando la tempesta
era passata, il clima appariva mutato: un osservatore avrebbe avuto forse difficoltà a
indicare con precisione quanto avessero influito in questa modificazione le variazioni della
temperatura, quelle delle precipitazioni, quelle connesse al regime dei venti; ma certo non
avrebbe avuto dubbi nell’affermare che il clima non era piú lo stesso di cinquant’anni
prima.
La parola “clima” ritorna altre volte nel libro di Berengo, ad esempio là dove si parla
degli “uomini che per lo spazio di quasi mezzo secolo siamo venuti seguendo in
quell’evoluzione che doveva consentir loro di adeguarsi al nuovo clima dell’Italia signorile
e spagnola, facendo propria una coscienza nobiliare cui i padri erano stati estranei”4.
Ecco dunque precisarsi i connotati di questo nuovo clima, a metà Cinquecento ormai
stabilizzatosi, rispetto al vecchio: l’egemonia spagnola di contro alla libertà d’Italia, il
prevalere dei principati con la parallela eclissi di tante repubbliche, una diffusa coscienza
nobiliare al posto di una mentalità a forte impronta cittadinesca e popolare. A Lucca il
primo di questi tre caratteri nuovi ebbe un peso certamente minore rispetto ad altre città e
stati regionali italiani, mentre il secondo non la coinvolse affatto (a differenza che a Firenze
e a Siena). È invece il terzo carattere nuovo ad attirare l’attenzione di Berengo, che alla
coscienza nobiliare dedica un paragrafo del suo libro, che possiamo considerare centrale
sia come collocazione, sia per importanza nell’economia complessiva della ricerca. Non è
un caso che tale paragrafo si chiuda con una formula icastica che potrebbe far da epigrafe
all’intero volume, e che val la pena di richiamare. Scrive dunque Berengo che negli anni
Sessanta del Cinquecento “lo Stato era ancora pacifico, e forse non lo era mai stato
altrettanto, ma non era piú popolare”: ormai “la distinzione tra nobili e non nobili” era “a
Lucca, come in tutta Italia, un fatto compiuto”. La nobiltà poteva esser piú o meno gradita,
“ma ormai anche a Lucca esisteva e aveva coscienza di sé”, tanto da far dire nel 1568 al
cavaliere di Malta fra’ Paulo Cenami “che non da godere in questa nostra republica, ma da
la antichità delle case e da l’esser vissuto continuamente come gentil huomini senza far
3
4
Ibidem, p. 454 (il corsivo è mio).
Ibidem, p. 453.
arte vile e mechaniche, si doveano conoscere i gentil huomini, e quelli che poteano pigliare
l’ordine di cavalleria”5.
Appare evidente da queste citazioni l’accento posto da Berengo sulla vastità e sulla
pervasività del fenomeno: infatti “il bisogno di definire il concetto di nobiltà e i compiti
che ad essa spetta assolvere in un ben ordinato consorzio civile, assume nell’Italia del
secondo Cinquecento un forte sapore di attualità. In Italia il dibattito sulla nobiltà non è,
ovviamente, un fatto nuovo del pieno e del tardo Cinquecento, ma certamente nuovo è il
suo continuo riferimento al problema del potere politico. E il dibattito che ora si accende
costituisce per lo piú la giustificazione teorica, ben di rado la condanna, di quel
progressivo accentramento del potere in ceti e in gruppi ben circoscritti, e ormai quasi
dinasticamente caratterizzati, che si sta verificando in tutta le penisola”6.
La penisola, l’Italia nel suo complesso, è dunque al centro di queste pagine: per un
momento Lucca e i suoi mercanti restano sullo sfondo, e sul proscenio balzano il letterato
veneto-istriano Girolamo Muzio, il gentiluomo ferrarese Annibale Romei, il nobile
monferrino Stefano Guazzo, il giurista pavese Giacomo Menochio. Si tratta di poche pagine,
che sono state però continuamente richiamate dagli storici del Cinquecento e del Seicento,
proprio perché, attraverso appropriate citazioni di testi, Berengo ci restituisce nella sua
concretezza un momento cruciale della storia d’Italia.
Ma al di là di queste pagine, incentrate sulla trattatistica (e cioè sulla esplicita
affermazione e divulgazione di un’ideologia che ha la sua figura chiave nel “gentiluomo”, e
non piú nell’ “uomo civile”), Berengo sfiora il tema dell’affermarsi di una coscienza
nobiliare nell’Italia del Cinquecento in molte parti della sua trattazione. Come ho detto
all’inizio, il volume è troppo ricco, perché possa essere rinchiuso entro i recinti di un unico
motivo conduttore: eppure, se proprio volessimo cercare una nota dominante, non sarebbe
azzardato rintracciarla proprio nell’idea che nel corso del Cinquecento maturò in Italia (o
in gran parte d’Italia) una sorta di “rivoluzione culturale”, attraverso la quale la penisola
non si presentò piú come un modello, magari usurato e convenzionale, ma pur sempre
presente, di “vita civile”, ma come un esempio, addirittura esportabile, di ideologia
nobiliare e di comportamenti consoni al gentiluomo. Una rapida scorsa alle pagine del libro
potrà confermare questo punto.
Nel primo capitolo, ad esempio, soffermandosi sulle “famiglie maggiormente partecipi
alla vita pubblica”, Berengo ricorda che sono “quelle che, ancora semplicemente
5
6
Ibidem, pp. 262-263.
Ibidem, p. 252.
denominate come cittadine, fra mezzo secolo verranno, e da tutti, dette nobili”7. Poco piú
avanti, accennando ai libri di ricordi di famiglie lucchesi giunti sino a noi, egli osserva che
essi “non parlano mai di quelle origini mitiche ed eroiche che verso la metà del secolo già
tante case italiane cominciano a vantare”8. Nel quarto capitolo sono messi a confronto da
un lato l’atteggiamento confuso e smarrito di Pandolfo Cenami di fronte a un maestro dí
umanità “tanto litterato e di sí gratiata eloquenza” che lo ha truffato (siamo nel 1511), e
dall’altro la fierezza di Giuseppe Bernardini che nel 1565 rivendica la propria familiarità
con le lettere e con le scienze “convenienti a gentil uomo nato in città libera”. Ma a quali
lettere e quali scienze allude il Bernardini? “Il sapere parlare di fortificazione”, ritenuta
“cosa molto conveniente alla professione sua acciocché, quando si fosse trovato in luogo
che se ne trattasse, potesse dire l’opinione sua con qualche fondamento”. È trascorso
mezzo secolo: ora “il mercante si è fatto nobile. ( ... ) Le leggi della repubblica lucchese
non sono, sulla carta, mutate che di poco; ma la sua classe dirigente si è internamente
trasformata, si è inserita nella lenta ma ben definita evoluzione che tutta la società italiana
viene attraversando”9.
Ho voluto largheggiare nelle citazioni letterali di Nobili e mercanti non solo per la
soddisfazione che il lettore ricava da un linguaggio limpido e preciso e da un periodare
che, senza perdersi in circonvoluzioni e in acrobazie dialettiche, punta all’essenziale; ma
soprattutto perché mi premeva che fosse ben chiaro, attraverso le parole stesse dell’autore,
che cosa significasse per il Berengo del libro su Lucca l’affermarsi di una coscienza
nobiliare nell’Italia del Cinquecento. Una volta messo in luce questo punto, vorrei
affrontare due questioni. In primo luogo, è il caso di domandarsi se, nei trent’anni
successivi alla pubblicazione del libro su Lucca, Berengo si sia mantenuto fedele
all’interpretazione originaria, o l’abbia in parte modificata, e in quale direzione. In secondo
luogo, sarebbe importante verificare quanto e come le tesi di Berengo, e piú in particolare
l’uso delle fonti da lui fatto per sostenerne la validità, abbiano influenzato le successive
ricerche di storia italiana della prima età moderna.
Per quanto riguarda il primo punto, mi limiterò ad alcune brevi e non sistematiche
osservazioni. Innanzitutto, credo che si possa dire che il tema dell’ “aristocratizzazione”
della società italiana nel secondo Cinquecento, se è rimasto ben presente negli scritti di
Berengo, ha perduto quella centralità che aveva avuto negli anni Sessanta, non solo nel
libro su Lucca, ma anche nella rassegna dedicata al Cinquecento e composta in occasione
Ibidem, p. 32.
Ibidem, p. 34.
9 Ibidem, pp. 267-270.
7
8
del primo convegno di scienze storiche di Perugia del 196710, e pure (in certa misura) nella
relazione su nobiltà e amministrazione nell’Italia del Rinascimento, scritta insieme a Furio
Diaz e presentata nel 1970 al XIII congresso internazionale di scienze storiche di Mosca11.
Già nel saggio su La città di antico regime, pubblicato nel 1974, le città italiane e le loro
classi dominanti appaiono come attori di una rappresentazione piú vasta, che abbraccia
tutta l’Europa urbana, da Valladolid a Colonia, da Metz a Berna, da Gand a Lubecca, da
Riga a Spalato, e non si limita al secolo XVI, ma comprende insieme (direbbero gli storici
tedeschi, sempre piú familiari a Berengo) lo Spätmittelalter e la frühmoderne Zeit12. Però,
anche in questo panorama cosí ampliato, i patriziati italiani cinquecenteschi conservano la
loro peculiarità, in una direzione che ci richiama ancora le linee di fondo del libro su
Lucca:
“fu solo nell’Italia centro-settentrionale, non in Germania, non in Fiandra, non in Castiglia che
il patriziato, emerso dalla fioritura comunale, seppe proporsi ed imporsi [nel secondo
Cinquecento] come unica possibile classe dirigente e assorbire, senza scorie e strascico di
ricordi, la vecchia nobiltà; e seppe perpetuare il suo dominio per tutta l’età dell’antico regime,
sin sulla soglia dello scorso secolo”13.
Un anno dopo, nel 1975, apparve sulle pagine della “Rivista storica italiana” un
articolo14, che prendeva le mosse da un volume di Giorgio Borelli sui patrimoni di una
trentina di famiglie nobili di Verona tra XVII e XVIII secolo15, per sviluppare alcune
considerazioni, su cui Berengo tornerà a piú riprese (ad esempio, nel 1981 in un finissimo
intervento dedicato a Foscolo e il mito del patriziato16, e da ultimo nel 1994 nella raccolta
di scritti in onore di Pasquale Villani con una nota intitolata Ancora a proposito di
patriziato e nobiltà17). Quel che Berengo proponeva, era di introdurre nella storia dell’Italia
M. BERENGO, Il Cinquecento, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni. Atti del I Congresso
nazionale di scienze storiche (Perugia, 9-13 ottobre 1967), Milano, Marzorati 1970, volume I, pp. 485-501.
11 M. BERENGO-F. DIAZ, Noblesse et administration dans l’Italie de la Renaissance. La formation de la
bureaucratie moderne, in: XIIIe Congrès International des Sciences Historiques (Moscou, 16-23 Août 1970),
Mockba, Nauka 1970, pp. 151-163.
12 M. BERENGO, La città di antico regime, in “Quaderni Storici”, IX, 1974, pp. 661-692.
13 Ibidem, p. 670.
14 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in “Rivista storica italiana”, LXXXVII (1975), pp.
493-517.
15 G. BORELLI, Un patriziato della Terraferma veneta tra XVII e XVIII secolo. Ricerche sulla nobiltà
veronese, Milano, Giuffrè 1974.
16 In: Lezioni su Foscolo, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 11-20.
17 In: P. MACRY e A. MASSAFRA (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna,
Il Mulino 1994, pp. 517-528.
10
moderna la distinzione tra patriziato e nobiltà, ben nota agli storici delle Fiandre, della
Germania e della Svizzera18. Val la pena di riportare la piú recente formulazione di tale
proposta:
“sia per l’Italia comunale e signorile, sia per quella della prima età moderna, credo che occorra
usare una tendenziale distinzione tra le famiglie che mantengono il loro prevalente centro di
insediamento in quella città in cui esercitano cariche pubbliche, e lo fanno in modo non
occasionale ma o preferenziale rispetto gli altri cittadini o addirittura ereditario; e quelle che
invece, anche se posseggono un palazzo urbano, esercitano una giurisdizione di tipo feudale in
quel contado, e riconoscono lí, nelle terre in cui sovente portano il titolo gentilizio nel cognome,
il centro della loro attività e del loro prestigio. Chiamare patrizie le prime, nobili le seconde, è
un uso che è rimasto estraneo al contemporanei; ma che a noi può riuscire utile”19.
Effettivamente questa dicotomia pare ben descrivere la situazione di molte, anche se
non di tutte le realtà urbane dell’area italiana. Berengo ricorda le famiglie gentilizie delle
città pugliesi, studiate da Angelantonio Spagnoletti, “circondate alle loro spalle e
compresse nel loro retroterra da forze profondamente diverse, quelle baronali”20, e
l’espansione quantitativa e geografica dei grandi e piccoli patriziati della Marca pontificia
di fronte al contemporaneo e massiccio regresso della “declinazione feudale”, tema al
centro dell’attività di ricerca del compianto Bandino Giacomo Zenobi21. Aggiungerci, tra i
tanti altri esempi che si potrebbero fare, uno di quelli che meglio conosco, quello della
città di Trento, dove nel Settecento risultava ben chiara la distinzione tra un patriziato
legato alla magistratura consolare urbana ma presente con una sempre piú significativa
rappresentanza nel capitolo della cattedrale, e una nobiltà feudale trentino-tirolese che in
18 Forse si possono rintracciare i primi segni, sia pur impliciti, di questa proposta nella parte conclusiva del
saggio Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto, in Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti (“Medioevo e Umanesimo,
nn. 17-18), Padova, Antenore 1974, pp. 27-65.
19 M. BERENGO, Ancora a proposito di patriziato, cit., p. 524.
20 Il richiamo, non esplicitato, è forse al lavoro di A. SPAGNOLETTI, “L’incostanza delle umane cose”. Il
patriziato di Terra di Bari tra egemonia e crisi (XVI-XVIII secolo), Bari, Edizioni dal Sud 1981, o piú probabilmente
al successivo saggio dello stesso autore, Il patriziato barese nei secoli XVI e XVII. La costruzione di una difficile
egemonia, in: M.A. VISCEGLIA (a cura di), Signori., patrizi, cavalieri in Italia centro-meridionale nell’Età moderna,
Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 108-121, dove l’argomento è ripreso in un’ottica meno unilaterale.
21 Berengo cita il saggio di B.G. ZENOBI, Feudalità e patriziati cittadini nel governo della “periferia” pontificia del
Cinque-Seicento, in: M.A. VISCEGLIA (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri, cit., pp. 94-107. Di Zenobi si veda
anche: Tarda feudalità e reclutamento delle élites nello Stato pontificio, Urbino, Università degli Studi 1983.
quello stesso capitolo deteneva la maggioranza dei seggi, possedeva una residenza in città,
ma non entrava nelle magistrature civiche22.
Questo tema delle dicotomia patriziato-nobiltà è senz’altro di grande suggestione, ma a
mio avviso appare un po’ lontano da quello che era il leit motiv del libro su Lucca, cioè
l’“aristocratizzazione” della società italiana nel Cinquecento e l’affermarsi di una
coscienza nobiliare. Posso sbagliarmi, ma credo che il concetto stesso di
“aristocratizzazione” sia stato da Berengo usato per l’ultima volta proprio nell’articolo del
1975, e subito accantonato con una motivazione garbata nella forma, ma severa nella
sostanza:
“accade sovente che nel constatare la chiusura di classe dei gruppi dirigenti, e il monopolio
ereditario del potere che essi si vengono assicurando nelle città e nei contadi, si provi un senso
di astrattezza”;
di qui, la necessità di abbandonare questo tema “astratto” per dedicarsi invece allo
studio “concreto” delle “famiglie nobili, le loro tradizioni, la loro cultura, il loro
patrimonio, e infine la natura stessa del loro peso nella vita pubblica”23. Noterò, per inciso,
che un simile suggerimento cadeva su un terreno ben predisposto ad accoglierlo: gli archivi
delle famiglie nobili, fino agli anni Sessanta utilizzati prevalentemente da nobiluomini che
si dilettavano di araldica e di genealogia (anche se con qualche significativa eccezione: si
pensi a John Stuart Woolf24), cominciavano a diventare, e sempre piú lo sarebbero diventati
in seguito, una delle fonti privilegiate dal ricercatori di storia dell’età moderna25. Ma per
riprendere il filo del discorso, risulta a mio avviso evidente il progressivo distacco di
Berengo dal concetto di “aristocratizzazione” come chiave interpretativa della storia della
società italiana cinquecentesca. Forse in tale distacco era presente la volontà di prendere
C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età
Moderna e Contemporanea 1975, in particolare pp. 264-285.
23 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà, cit.
24 S.J. WOOLF, Studi sulla nobiltà piemontese nell’epoca dell’assolutismo, in “Memorie dell’Accademia delle Scienze
di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, serie IV, 1963, pp. 1-243.
25 Dei numerosissimi studi recenti dedicati a casate nobili italiane, che hanno fatto ricorso prevalentemente ad
archivi familiari, ne ricorderemo tre relativi all’area veneta, rappresentativi di altrettante impostazioni di
ricerca: G. GULLINO, I Pisani del Banco e Moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende
patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea 1984; R.
DEROSAS, I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinque all’Ottocento, in: G. BUSETTO-M. GAMBIER (a
cura di), I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, Venezia, Fondazione Scientifica Querini
Stampalia 1987, pp. 43-60; A. MENNITI IPPOLITO, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli
Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 1996.
22
le distanze da antiche e nuove interpretazioni storiografiche, incentrate sul concetto di
“decadenza”, quella plurisecolare decadenza italiana che sarebbe iniziata proprio in
coincidenza e a causa del processo di “aristocratizzazione”26. Non saprei dire se col
trascorrere degli anni sia mutata in Berengo la stessa valutazione complessiva del
Cinquecento come secolo di “frattura irreversibile nella storia italiana”27; certo è che
questo tema non è stato piú affrontato direttamente da lui28.
Se vogliamo passare ora alla seconda questione che mi sono proposto di affrontare,
appare indubitabile che tanto il libro su Lucca, quanto (sia pure in misura diversa) i
successivi interventi su città e patriziati, hanno alimentato una ricca messe di studi, che
ispirandosi piú o meno esplicitamente alla lezione di Berengo, si sono occupati dei
problemi legati allo sviluppo e al consolidamento di una coscienza nobiliare nell’Italia
della prima età moderna. Di qui in avanti vorrei appunto soffermarmi su alcuni di tali
studi, senza con questo pretendere di tracciare un rendiconto esauriente, sia a causa della
davvero imponente bibliografia che in questi trent’anni si è accumulata29, sia perché,
avendo scritto anch’io qualcosa sull’argomento, finirei fatalmente per parlare di lavori miei:
il che non sta bene, né varrebbe richiamare come giustificazione la circostanza che il
genere letterario dell’autorecensione ha alle spalle una lunga e talora illustre consuetudine.
Non ci si aspetti dunque un vero e proprio bilancio degli studi, ma piuttosto una rassegna
rapsodica, che, partendo dalle fonti che Berengo ha usato o alle quali ha fatto cenno nel
suo libro, si proponga di sviluppare qualche considerazione sui modi in cui il tema della
coscienza nobiliare è stato trattato negli studi storici degli ultimi anni.
Cominciamo dalla trattatistica, che Berengo tra i primi (insieme ad Angelo Ventura)30 ha
utilizzato largamente in uno studio di storia sociale e istituzionale. Questo tipo di fonte
Si ricordino, ad esempio, i molti interventi di RUGGIERO ROMANO, in particolare quelli raccolti nel
volume Tra due crisi. L’ltalia del Rinascimento, Torino, Einaudi 1971; e si veda ora Paese Italia. Venti secoli di
identità, Roma, Donzelli 1994, in particolare pp. 73-91.
27 L’espressione si trova in un saggio di ELENA FASANO GUARINI, che se ne è servita in senso polemico,
per respingerne la validità euristica: Gli Stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattro e Cinquecento: continuità e
trasformazioni, in “Società e Storia”, XXI, 1983, pp. 617-639 (la citazione è a p. 630).
28 Il tema, al centro di molte ricerche degli anni Settanta (tra le piú originali e importanti ricordo quella di G.
POLITI, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, Milano, SugarCo 1976), è stato ripreso da C.
VIVANTI, La crisi del Cinquecento: una svolta nella storia d’Italia?, in “Studi Storici”, XXX, 1989, pp. 5-23.
29 Basti dire che, per il solo periodo 1988-1994, ho schedato non meno di 150 titoli di contributi relativi a
nobiltà, patriziati, aristocrazie, oligarchie di città (e quasi-città), province, stati italiani tra Quattrocento e
primo Ottocento. Dati i criteri artigianali con cui la schedatura è stata condotta, è del tutto ragionevole
ritenere che la cifra suddetta sia di gran lunga inferiore ai titoli effettivamente pubblicati nel periodo preso in
esame.
30 A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento, Milano, Unicopli 1993 (prima
edizione: Bari, Laterza 1964), pp. 189-251.
26
letteraria ha conosciuto una straordinaria fortuna presso la storiografia dell’ultimo
ventennio, soprattutto (anche se non esclusivamente) per merito di quegli studiosi che,
raccolti intorno al centro di studi “Europa delle corti”, hanno dedicato alla trattatistica, con
speciale attenzione a quella cinquecentesca, convegni, pubblicazioni monografiche,
censimenti bibliografici, riedizioni di testi31. Grazie a queste iniziative Il libro del
cortegiano di Baldassar Castiglione, ma anche La civil conversazione di Stefano Guazzo
(uno degli autori ricordati da Berengo), sono diventati veri e propri livres de chevet, da
leggere non tanto come espressione di un momento e di un ambiente storico determinato,
quanto come autentici “codici” dell’antico regime in Italia e in tutta Europa: un antico
regime dai confini cronologici indistinti, per certi versi tramontato (non senza il rimpianto
di molti degli studiosi coinvolti) tra Sette e Ottocento, per altri aspetti considerato ancor
vivo e vegeto tra noi e dentro di noi. È comprensibile come una tale impostazione, per
quanto sorretta da una straordinaria conoscenza dei testi e da uno stile espositivo di
inimitabile raffinatezza (penso, per citare un solo, ma davvero prestigioso nome, alle
ricerche di Amedeo Quondam), resti tuttavia estranea alle questioni che aveva posto
Berengo nella sua trattazione del dibattito cinquecentesco sulla nobiltà in Italia; anche
perché lo sguardo risulta concentrato quasi esclusivamente, talvolta ossessivamente, su
un’unica realtà, cioè la corte del principe, considerata come il laboratorio politico per
eccellenza dell’antico regime, al punto che cortigiano e nobile, cosí come corte e potere,
finiscono per costituire un’endiadi pressoché inscindibile32. Espressione di una tale
31 La collana “Biblioteca del Cinquecento” dell’editore Bulzoni di Roma, che pubblica i lavori di “Europa
delle Corti”, è arrivata nel 1994 a 62 titoli. Ci limiteremo a ricordare, tra i piú recenti: C. MOZZARELLI (a
cura di), “Famiglia del Principe e famiglia aristocratica, volumi due (1988); G. PATRIZI (a cura di), Stefano Guazzo e
la civil conversazione (1990); M. FANTONI, La corte del granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento
(1994). Non tutti i volumi della collana, a dire il vero, sono orientatí in un’ottica “cortigiana”: se ne distacca,
ad esempio, quello di C. DI FILIPPO BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a
Venezia nel Cinquecento (1988) che, attraverso l’approfondito studio dell’attività di quattordici intellettuali
operanti nel mondo delle stamperie veneziane fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo, ha potuto
trarre alcune conclusioni generali “sulle modificazioni rilevabili nell’ambito della trattatistica veneziana nel
lungo periodo” (p. 7).
32 Questa idea, presente in tanti, notissimi e brillanti interventi di Cesare Mozzarelli, ha trovato da ultimo una
espressione tipica della nostra epoca attuale (anche per il linguaggio adottato) nella premessa a una raccolta di
saggi incentrati sulla corte medicea: “l’esame di argomenti a prima vista eterogenei scaturisce da una precisa
scelta di target: scandagliare il ruolo ed il significato di un selezionato corpus di fenomeni che caratterizzano un
modo complesso di esercitare (e non tanto di rappresentare) la sovranità. Dal clientelismo alle naumachie,
dalla foggia delle livree al protocollo delle udienze, dall’assetto spaziale al funzionamento degli uffici: il fattore
unificante dell’apparentemente ingovernabile molteplicità è cioè la forma cortigiana del potere” (FANTONI,
La corte del granduca, cit., pp. 11-12). E si veda ora, in una prospettiva per molti versi analoga, anche se
maggiormente sensibile al tema delle trasformazioni dello spazio urbano in rapporto alla dinamica politica
della prima età moderna, la monografia di S. MANTINI, Lo spazio sacro della Firenze medicea. Trasformazioni
urbane e cerimoniali pubblici tra Quattrocento e Cinquecento, Firenze, Loggia dÈ Lanzi,1995.
tendenza degli studi, forse non direttamente legata alle attività di “Europa delle corti”, ma
certo ispirata alla lezione di quel centro di studi, è la monografia che Stefano Prandi ha
dedicato ai Discorsi di Annibale Romei, un altro trattato ricordato da Berengo nel paragrafo
sulla coscienza nobiliare. Prandi ha inteso “far emergere dal testo soprattutto la sua
incidenza sugli equilibri teoretico-ideologici della trattatistica rinascimentale,
particolarmente in rapporto al tipo paradigmatico di tale tradizione, Il libro del cortegiano;
è quindi “sulla possibilità di letture trasversali che questo studio tenta di costruire la propria
validità”33. Secondo Prandi, l’opera del Romei va letta secondo un “criterio sovrastorico e
idealizzante” e la sua elaborazione non può considerarsi legata “ad eventi storici particolari, ma
soltanto a motivazioni filologiche”34. In un successivo paragrafo, però, viene un poco attenuata
la rigidezza di queste asserzioni iniziali, e riconosciuta la necessità di “inalveare le articolazioni
teoretiche verso precise coordinate storiche”35. Due esempi, che lo stesso autore richiama,
mostrano quanto questo “inalveamento” possa giovare alla miglior comprensione del trattato
tardo-cinquecentesco da lui esaminato, e ad illuminare al tempo stesso le coordinate della
discussione sulla nobiltà in quel periodo. Ecco, ad esempio, la disputa sulla superiorità delle
armi e delle lettere, che, nel libro del Romei, vede su posizioni contrapposte Giulio Cesare
Brancaccio e Francesco Patrizi: è uno scontro (osserva Prandi) “privo di qualsiasi elemento di
mediazione e testimonia la grande tensione tardorinascimentale attorno a tali temi, che si
manifesta con accresciuta evidenza nello Stato di Alfonso II”. Quando il Brancaccio proclamava
che duchi, re e imperatori “cavalieri e non mai dottori si appellano, e nelle giostre armati, nÈ
tornei e in mezzo le battaglie ancora tra guerrieri compariscono, né mai fra circoli di
giureconsulti o d’altri letterati a disputar s’apprestano”36, chi avrebbe potuto dargli torto? Ma
dargli ragione avrebbe significato riconoscere ciò che la maggioranza dei trattattisti italiani della
fine del Cinquecento, ferraresi compresi, si rifiutava di riconoscere, cioè che non esisteva altra
nobiltà all’infuori della milizia cavalleresco-feudale. Questo è un nodo essenziale della
discussione sulla nobiltà e in quel periodo, e non solo in Italia: basti pensare alla Francia
nell’epoca delle guerre di religione37. E dunque, almeno per questo aspetto, il testo del Romei ci
appare tutt’altro che svincolato dalla realtà storica del tempo, e le conversazioni che vi sono
rappresentate tutt’altro che convenzionali. A questo proposito, nel libro di Prandi c’è un altro
33 S. PRANDI, Il “Cortegiano” ferrarese. I “Discorsi” di Annibale Romei e la cultura nobiliare nel
Cinquecento, Firenze, Olschki 1990, pp. 5-6.
34 Ibidem, pp. 70-72.
35 Ibidem, p. 186.
36 Ibidem, pp. 203-209.
37 Si veda, ad esempio, il bel libro di G. HUPPERT, La bourgeois gentilshommes, Chicago-London, The
University of Chicago Press 1977 (trad. it.: Bologna, Il Mulino 1978).
punto che merita di essere ricordato. L’autore segnala l’esistenza, nella biblioteca comunale di
Ferrara, di una Apologia composta dal Romei contro certi ch’havevano detto ch’egli, nel suo
discurso della nobiltà, aveva intaccato li serenissimi di Firenze. Il riferimento era a un passo della
prima edizione veneziana del 1585 (significativamente soppresso nella seconda e piú diffusa
edizione del 1586), in cui uno degli interlocutori dei Discorsi aveva fatto, pur senza nominarlo,
una chiara allusione al granduca di Toscana, confrontando “quelle famiglie, che sono in
principato per le centinaia d’anni, anzi per tempo immemorabile”, come gli Estensi, con “quelle
che nel loro principato sono nuove, ( ... ) et che anchor nella memoria delli huomini vive la loro
privata conditione. Perché, se ad una certa occulta virtú che nel seme dÈ nobili si presume gli
honori si hanno da distribuire, quanto maggior virtú si ha da presumere in un antichissimo
sangue, del quale sia discesa una numerosissima e non mai interrotta serie di principi per
heroica virtú gloriosissimi, che in un sangue cittadinesco, i cui antecessori habbiano piú tosto
ricevuto splendore dalla mercantia e dallo eccesso delle private ricchezze che da segnalata virtú
o da principato?”.
Ma ce n’era ancora per i signori di Firenze: “quelli i cui maggiori dalli istessi popoli
sono stati eletti e chiamati al principato, e che i titoli con virtú e valore si hanno
procacciato, di gran lunga debbono precedere a quelli che, trahendo origine dalla
tirannide, tuttavia possiedono un violento principato, e che i gran titoli piú tosto con danari
che con virtú s’hanno mercato”38.
Come si può notare, il linguaggio e le argomentazioni della trattatistica nobiliare
venivano qui usate per svalutare le origini di un principato, “nuovo”, “tirannico”, “dai
compri onori”, e per di piú “di origini mercantili e cittadinesche”.
Ben poco rarefatta e criptica, dunque, appare l’atmosfera che si respira in questi testi a
stampa, come giustamente hanno rilevato quegli studiosi che, meno vincolati ai codici
paradigmatici della letteratura sulla corte, si sono imbattuti, nelle loro ricerche, in qualche
trattato cinquecentesco. Uno dei primi a collegare magistralmente, sulla scia dei libri di
Berengo e Ventura, la trattatistica sulla nobiltà e il problema del potere politico nel pieno e
tardo Cinquecento, è stato Gigi Corazzol in un saggio dedicato a un fallito tentativo di
riforma del Consiglio di Feltre, promosso tra il 1558 e il 1567 da un gruppo di nobili
“protestanti de iure sanguinis”, i quali intendevano “costringere la maggioranza dei
consiglieri ad accogliere il principio che il sangue doveva conferire automaticamente il
diritto al godimento dei pieni poteri politici”. Le loro tesi (nota Corazzol) ricalcavano
quelle espresse nei Dialoghi dell’onore attribuiti a Giambattista Possevino, che contarono
38
S. PRANDI, Il “Cortegiano” ferrarese, cit., p. 19.
ben cinque edizioni tra il 1553 e il 1564; cosí come la posizione della maggioranza del
Consiglio, che trovò una articolata esposizione nel discorso pronunciato nel 1567 da
Bonifacio Pasole, consigliere di recentissima nobiltà, “si poneva in una linea di pensiero
per molti aspetti vicina a quella che di lí a qualche anno avrebbe seguito Girolamo Muzio
nel suo Gentiluomo, cioè la necessità di affiancare al sangue la virtú personale, “il che in
concreto voleva dire che il gruppo dirigente cittadino intendeva tener fermo il diritto di
operare una selezione all’interno del ceto privilegiato”39. Un altro bell’esempio dei nessi fra
trattatistica e vita quotidiana della nobiltà si incontra nel libro che Anna Pizzati ha
dedicato a Conegliano e al suo territorio nel XVI secolo. L’autrice riporta una supplica
presentata al doge nel 1564 da un abitante di quel centro quasi-urbano, Daniele Collalto,
“per essermi successo il maggior tradimento, sforzo et violentia in cassa mia”, vale a dire lo
stupro e il rapimento dell’unica figlia Caterina, di 15 anni, da parte di Alessandro
Montalban, uno dei “primi del locho”, ricco di “parentadi, dependentie, ricchezze et
favori”, il quale già in altre circostanze aveva dato prova di tracotanza e sfrontatezza. Ma
chi era questo non commendevole personaggio? La Pizzati lo identifica con uno degli
interlocutori di un dialogo sulla nobiltà pubblicato la prima volta nel 1548, e sottolinea la
congruità del suo comportamento violento con le idee sostenute nel dialogo40. È proprio
Alessandro quello che difende Caino “signore e nobile fatto da Dio” a cui Abele “meno
nobile” doveva ubbidire, “il che se fatto avesse, non sarebbe stato forse da Cain ucciso”41.
Ed è ancora Alessandro a sostenere che la nobiltà dei natali può riscattare da qualunque
malefatta, e arriva a dire che “se si ritroveranno nobili che siano dagli huomini reputati rei,
forse non saranno eglino così da Dio ritenuti”; insomma, era possibile, e anzi probabile,
che le violenze commesse dai nobili rientrassero in un superiore disegno divino. Questa
teoria, dunque, era messa in bocca, in un dialogo a stampa pubblicato nel 1548, a un
feudatario friulano che di lí a un quindicennio sarebbe stato incolpato proprio di un atto di
violenza: ce n’è abbastanza, crediamo, per non ritenere astratti, convenzionali e meramente
letterari i contenuti di tanta trattatistica cinquecentesca. Rimaniamo nell’area veneta.
39 G. CORAZZOL, Una fallita riforma del Consiglio di Feltre nel ‘500, “Rivista Bellunese”, n.6, 1975, pp. 287-299
(le citazioni alle pp. 292-293). L’autore ha ripreso questi temi anche in successive ricerche: si veda soprattutto
G. CORAZZOL-L. CORRA’, Esperimenti d’amore. Fatti di giovani nella Feltre del Cinquecento, Feltre, Libreria
Pilotto 1981, in particolare pp. 166-176.
40 A. PIZZATI, Conegliano. Una “quasi città” e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso, Fondazione Benetton Studi
Ricerche / Canova Editrice 1994, pp. 83-86. L’opera, in cui Alessandro compariva come interlocutore, era Il
nobile. Ragionamenti di nobiltà partiti in cinque libri, Firenze Torrentino 1548, di cui compariva autore Marco della
Fratta e Montalbano, fratello dello stesso Alessandro. Per un inquadramento di questo testo mi permetto di
rinviare al mio libro L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza 1988, pp. 69-78, 87-90.
41 Su questo tema (da me sfiorato ne L’idea di nobiltà, cit., pp. 19, 69, 72-75, 88-89) si veda ora: R J.
QUINONES, The Changes of Cain, Princeton University Press 1992.
Claudio Povolo, nell’ultima parte di un saggio dedicato alla “conflittualità nobiliare” nella
repubblica di Venezia nel secondo Cinquecento, narra i conflitti tra fazioni rivali che si
svolsero a Vicenza nel primo Seicento, e che culminarono nel 1619 in uno scontro armato
tra le schiere del conte Onorio Capra e quelle dei fratelli Manfredo e Gabriele da Porto42.
Le vicende di questa lunga “faida” (come la definisce Povolo) ebbero un riflesso
interessante sul piano della produzione editoriale: nel 1598 uscí infatti il Trattato delle
offese e del modo di far paci di Paolo Antonio Valmarana, e nel 1619 (cioè proprio “nel
momento in cui la faida si era riaccesa in maniera distruttiva”) il Modo del far pace in via
cavalleresca e christiana per sodisfattion di parole nelle ingiurie fra privati di Giulio Cesare
Valmarana. I nomi degli autori e i titoli erano simili, ma i due trattatelli avevano
impostazione molto diversa: mentre Paolo Antonio, fedele alla tradizione della scienza
cavalleresca, sosteneva che le offese dovevano trovar riparazione grazie all’opera di arbitri
scelti dai contendenti senza ricorrere alla giustizia dei tribunali, Giulio Cesare (che
dedicava significativamente il suo scritto al doge veneziano) affermava che la vendetta “in
questo secolo s’aspetta direttamente al Magistrato, nel venturo solo a Dio”43. Ancora una
volta, dunque, la trattatistica da un lato ci si presenta strettamente legata a vicende
contingenti e concrete, e dall’altro lato ci aiuta, magari in concorso con le fonti d’archivio,
a gettar luce su evoluzioni politiche e culturali di grande importanza storica.
Tra queste un posto di rilievo merita certamente il tema del rapporto tra ideologia
nobiliare e Controriforma cattolica, delineato quasi vent’anni fa da Paolo Prodi44, e
successivamente ripreso in alcuni studi (non molti, a dire il vero), che hanno fatto largo
ricorso alla trattatistica coeva45. Proprio alla trattatistica cinque-seicentesca intorno alla
corte cardinalizia ha dedicato un’ampia ricerca Gigliola Fragnito, la quale è giunta alla
conclusione che la presenza nobiliare “non sembra essere riuscita ad imporre in maniera
42 C. POVOLO, La conflittualità nobiliare in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della
Repubblica di Venezia: alcune ipotesi e possibili interpretazioni, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali, Lettere e Arti”, CLI, 1992-1993, pp. 89-139.
43 Ibidem, pp. 135-139.
44 P. PRODI, Istituzioni ecclesiastiche e mondo nobiliare, in: C. MOZZARELLI-P. SCHIERA (a cura di),
Patriziati e aristocrazie nobiliari. Ceti dominanti e organizzazione del potere nell’Italia centro-settentrionale
dal XVI al XVIII secolo. Atti del seminario tenuto a Trento il 9-10 dicembre 1977, presso l’Istituto Storico
italo-germanico, Trento, Libera Università degli Studi 1978, pp. 64-77.
45 Non proprio dalla trattatistica, ma da una fonte per molti versi affine come l’autobiografia, prende le mosse
il saggio comparativo di M. ROSA, Nobiltà e carriera nelle “Memorie” di due cardinali della Controriforma: Scipione
Gonzaga e Guido Bentivoglio, in: VISCEGLIA (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri, cit., pp. 231-255. E si ricordi
pure la ricostruzione di un “genere letterario-trattatistico tipico dell’antico regime”, che Daniela Frigo,
richiamandosi espressamente a un famoso saggio di Otto Brunner (ma citando pure le considerazioni di
Berengo sul palazzo avito come “centro materiale della vita domestica”), ha svolto nel volume Il padre di
famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’ “economica” tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni 1985.
incisiva i suoi valori e la sua cultura dell’onore nelle corti dei cardinali”, in quanto “la
letteratura sul cardinale e la sua corte continuerà a rispecchiare una situazione assai piú
articolata socialmente”46. Però l’autrice segnala, sia pure come voce isolata, la Pratica
cortigiana morale et economica (1604) del recanatese (ma legato all’ambiente ferrarese)
Sigismondo Sigismondi, che era familiare del cardinale Pietro Aldobrandini: in questo testo
si prescriveva che i ministri maggiori del cardinale fossero scelti tra “huomini molto
virtuosi, nobili e ricchi”47. Si trattava di una miscela difficile a realizzarsi concretamente,
soprattutto a causa della “mutazioni legate all’evoluzione della funzione del cardinale”48.
Ma gli stretti rapporti del Sigismondi con il nipote del papa regnante inducono a ritenere
che, nel primo Seicento, l’aspirazione a una rigida “aristocratizzazione” delle corti
cardinalizie fosse ancor viva tra una parte almeno della nobiltà italiana, restia ad accettare
un’accentuata “burocratizzazione” dell’apparato ecclesiastico. In ogni caso, il tema risulta
di grande interesse e merita di essere sviluppato e approfondito.
In conclusione, vorrei ricordare che l’esame della trattatistica in un contesto
politico-istituzionale ha avuto un’importanza non piccola nel rinnovamento degli studi sulla
nobiltà napoletana. Penso, in particolare, al saggio di Giuliana Vitale su Modelli culturali
nobiliari a Napoli tra Quattro e Cinquecento49, ai molti contributi di Giovanni Muto, in
particolare quello su I trattati napoletani cinquecenteschi in tema di nobiltà50, ad alcune
note filologiche di Simona Pezzica51, agli studi di Maria Antonietta Visceglia, soprattutto
quello sulla donna aristocratica a Napoli fra Quattro e Seicento52. Quel che emerge da
queste ricerche è la circostanza che Napoli, ancora negli ultimi anni del Cinquecento (e
forse oltre), risulta essere “uno dei pochi, forse l’unico centro d’Italia”53, in cui il dibattito
46 G. FRAGNITO, La trattatistica cinque e secentesca sulla corte cardinalizia. Il “vero ritratto d’una bellissima e ben
governata corte”, in “Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico”, XVII, 1991, pp. 135-185. Della stessa autrice
si veda anche: Cardinal Courts in Sixteenth Century Rome, in “Journal of Modern History”, LXV, 1993, pp. 26-56.
47 G. FRAGNITO, La trattatistica, cit., p. 166-169.
48 Ibidem, p. 176.
49 In “Archivio storico per le province napoletane”, CV, 1987, pp. 27-103. E della stessa autrice: La nobiltà di
seggio a Napoli nel basso medioevo: aspetti della dinamica interna, in “Ibidem”, XVI, 1988, pp. 151-169.
50 In: Sapere e/è potere. Discipline, Disputa e Professioni nell’Università Medievale e Moderna. Il caso
bolognese a confronto. Volume III: Dalle discipline ai ruoli sociali (a cura di A. De Benedictis), Bologna,
Comune di Bologna / Istituto per la Storia di Bologna 1990, pp. 321-343.
51 Tra cui: Note preliminari sul trattato inedito “la vera nobiltà” di Giulio Cortese, in “Quaderni dell’Istituto Nazionale
di Studi sul Rinascimento Meridionale”, n. 5, 1988, pp. 75-95.
52 M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli,
Guida 1988, pp. 141-174. E della stessa autrice si veda il saggio Un groupe social ambigu. Organisation,
stratégies et représentation de la noblesse napolitaine, XVIe-XVIIe siècles, in “Annales E.S.C.”, XLVIII,
1993, pp. 819-851.
53 PEZZICA, Note preliminari, cit., p. 86.
sulla nobiltà conservava vivacità di accenti e concreti legami con una dialettica politica
tutt’altro che rinchiusa entro le coordinate della “aristocratizzazione”54.
Sarebbe tuttavia gravemente riduttivo pensare che lo studio della coscienza nobiliare
debba essere condotto attraverso una sola categoria di fonti, e cioè i trattati. Nel suo libro
su Lucca, Berengo ne ha indicate molte altre, come i libri di ricordi e le genealogie, i
testamenti e in generale le carte notarili, i processi: tutte fonti che sono state utilizzate, a
volte con esiti davvero importanti, dagli studiosi che si sono occupati del tema della nobiltà
nell’Italia cinquecentesca. Qui mi limiterò, come per la trattatistica, solo ad alcune
esemplificazioni.
Fino a qualche decennio fa lo studio dei “libri di famiglia” o “ricordanze” o “mernorie”
era prevalentemente circoscritto all’area toscana, meglio ancora fiorentina: l’epoca d’oro di
questi testi era collocata nei secoli XIV e XV, con un legame stretto e organico al processo
di affermazione del mercante come figura sociale. E non a caso tale fonte ha attirato
soprattutto l’attenzione degli storici dell’economia fiorentina, da Sapori a Melis a De
Roover, o, piú tardi, di storici-antropologi come Christiane Klapisch-Zuber, che se ne è
servita per cercare di cogliere il significato della famiglia nel primo Rinascimento
fiorentino, cioè essenzialmente nel Quattrocento55. Ma nell’ultimo decennio, probabilmente
in seguito all’interesse che storici della letteratura e filologi (come Raul Mordenti, Leonida
Pandimiglio, Fulvio Pezzarossa, Gian Mario Anselmi, Luisa Avellini) hanno riservato a
questo genere di testi, proponendone una tipologia e sollecitandone un inventario, ci si è
resi conto che i libri di famiglia non sono un genere limitato alla Toscana, e tanto meno a
Firenze, né scompaiono dopo la metà del Cinquecento, anche se mutano di significato e di
destinazione56. In un convegno tenuto a San Marino e a Bologna nel 1993 sono state
presentate relazioni su libri e memorie familiari non solo di Firenze e di Lucca, ma anche
di Viterbo, di città del Veneto, di Perugia57. Proprio riguardo a quest’ultimo centro
A proposito di questo tema è da riprendere in mano e rileggere un altro grande libro pubblicato negli stessi
anni di Nobili e mercanti: alludo naturalmente a R. VILLARI, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini
(1585-1647), Bari, Laterza 1967.
55 C. KLAPISCH-ZUBER, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari, Laterza 1988.
56 Si veda, ad esempio, l’articolo di J. BOUTIER, Les “notizie diverse” di Niccolò Gondi (1652-1720). A propos de la
mémoire et des stratégies familiales d’un noble florentin, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen
Age-Temps modernes”, XCVIII, 1986, pp. 1097-1151, che si occupa di un quaderno “spettante agli interessi di
mia casa, e famiglia, per memoria dÈposteri”, che il Gondi cominciò a stendere dal novembre 1709. Questo
documento non si presenta piú, come nei libri di famiglia del Trecento e del Quattrocento, come una
compilazione di “care scritture”, bensí come una raccolta di atti ufficiali, soprattutto testamenti, da utilizzare
nel caso di liti ereditarie o in occasione della presentazione di prove di nobiltà per l’ammissione agli ordini
cavallereschi.
57 La Memoria e la Città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna (a cura di C. Bastia e M. Bolognani;
responsabile culturale F. Pezzarossa), Bologna, Il Nove 1995.
54
risultano di grande interesse le pagine sui libri di famiglia, presenti in una recente
monografia di Erminia Irace58. Essi sono complessivamente otto, e si collocano tra il 1494 e
il 1655; in realtà tutti ospitano annotazioni scritte nella seconda metà del Cinquecento, e
ben sei continuarono ad essere aggiornati nella prima metà del Seicento. Se ne deduce
perciò che l’epoca di maggior diffusione di questo genere di scritture fu il secolo compreso
tra il 1550 e il 1650, che coincise con l’età in cui piú vivo si manifestò a Perugia il
dibattito sulla nobiltà; inoltre, lo status degli scriventi corrisponde “all’aristocrazia che
affondava le proprie radici nel passato comunale, la cerchia delle ‘famiglie antichÈ per
definizione”. Queste caratteristiche cronologiche e sociali dei libri di famiglia perugini,
secondo l’autrice, sono da collegare al fatto che in quel periodo si manifestò “il bisogno del
patriziato di mantenere viva la coscienza familiare della distinzione sociale, raccontando le
ragioni della propria diversità” dalle famiglie emergenti, che non potevano vantare un
passato di glorie urbane, ma cercavano la propria legittimazione sociale fuori dalla città, ad
esempio nella carriera militare o negli uffici minori pontifici. La tarda “serrata” del 1670,
modellata sulla normativa espressa in materia di requisiti nobiliari dall’Ordine di Malta,
avrebbe posto fine a quella che la Irace definisce “situazione fluida che aveva connotato
fino ad allora le vicende del ceto di vertice cittadino”, e avrebbe determinato anche
l’esaurimento dei libri di famiglia. Significativamente, nell’ultimo di questi, redatto poco
oltre la metà del Seicento, Pompeo Barzi esprimeva l’utopia di ritornare all’epoca
comunale, prima dell’edificazione nel 1540 della vituperata Rocca Paolina, simbolo del
sovvertimento del governo antico della città e dello stravolgimento dei suoi equilibri
sociali. Come si può arguire da questi rapidi cenni, la assai tarda chiusura nobiliare di
Perugia ricostruita dalla Irace non è facilmente riconducibile entro il solco della
periodizzazione cinquecentesca proposta dal modelli concettuali elaborati negli ultimi
decenni, dall’ “aristocratizzazione” piú volte ricordata a proposito del libro di Berengo, al
“sistema patrizio” di Cesare Mozzarelli59, alle “oligarchie formalizzate” di Bandino
Zenobi60.
Ho accennato al fatto che, nel suo libro, la Irace utilizza largamente come fonte le prove
di nobiltà per l’aggregazione agli ordini cavallereschi: si tratta di un tipo di materiale
documentario che risulta molto utile per lo studio dell’evoluzione della coscienza nobiliare
58 E. IRACE, La nobiltà bifronte. Identità e coscienza aristocratica a Perugia tra XVI e XVII secolo, Milano,
Unicopli 1995, pp. 159-172.
59 C. MOZZARELLI, Il sistema patrizio, in MOZZARELLI-SCHIERA (a cura di), Patriziati e aristocrazie
nobiliari, cit., pp. 52-63.
60 B.G. ZENOBI, Corti principesche e oligarchie formalizzare come “luoghi del politico” nell’Italia dell’età
moderna, Urbino, Argalia 1993. E dello stesso autore: Le “ben regolate città”. Modelli politici nel governo
delle periferie pontificie in età moderna, Roma, Bulzoni 1994.
fra Cinque e Seicento. Se è d’obbligo un richiamo ai numerosi contributi che, nel corso
degli anni, Franco Angiolini ha dedicato all’Ordine di Santo Stefano61, una menzione
particolare meritano i volumi di Angelantonio Spagnoletti su Stato, aristocrazie e ordine di
Malta nell’Italia moderna62, proiettato verso gli esiti settecenteschi di questi rapporti, e su
Principi italiani e Spagna nell’età barocca63, dove ampio spazio e dedicato all’Ordine del
Toson d’oro e al granducato di Spagna come strumenti di integrazione delle grandi casate
italiane nel “sistema imperiale” asburgico64.
Almeno un cenno merita un’altra fonte, per certi versi affine ai libri di famiglia, cioè le
genealogie, cui le “Annales” hanno dedicato nel 1991 un intero numero65, e che per
qualche anno Roberto Bizzocchi ha posto al centro dei suoi interessi di ricerca fino a
produrre un volume che reca il titolo suggestivo Genealogie incredibili. Scritti di storia
nell’Europa moderna66, libro dotto, originale, magari talvolta proclive a tranciare giudizi
estremizzanti volti a épater les historiens, ma certamente degno di essere letto e meditato. A
Bizzocchi non interessa affatto la genesi e lo svolgimento del processo di
“aristocratizzazione”: al centro della sua analisi è la “cultura nobiliare”
antropologicamente intesa, che segnò in modo profondo il panorama ideologico europeo
dell’età moderna, e il cui connotato fondamentale fu la “continuità della storia” affermata e
difesa contro ogni evidenza contraria, la durata intesa come il “valore piú adatto a dare un
senso alla vita e al mondo, a spiegare la gerarchia sociale, nelle sue stesse trasformazioni,
in riferimento all’ordine tradizionale”67.
A proposito di genealogie vorrei citare anche le pagine che a questo tema ha dedicato
Paola Lanaro Sartori nella sua monografia dedicata all’oligarchia veronese del
Cinquecento68. Si tratta delle genealogie domestiche promosse, tra la seconda metà del
Cinquecento e i primi decenni del Seicento, dalle maggiori famiglie della città, dai Canossa
ai Malaspina, dai Da Monte ai Bevilacqua. L’autrice, nel solco dell’interpretazione
Ora raccolti nel volume I cavalieri e il principe. L’Ordine di Santo Stefano e la Società Toscana in Età
Moderna, Firenze, EDIFIR 1996.
62 Roma, École française de Rome 1988.
63 Milano, Bruno Mondadori 1996.
64 SPAGNOLETTI, Principi italiani e Spagna, cit., pp. 51-128.
65 Si tratta del n° 4 del 1991, con contributi di A. Burguière, R. Bizzocchi, C. Maurel, ecc. Si veda anche: G.
LABROT, Hantise généalogique, jeux d’alliances, souci esthétique. Le portrait dans les collections de
l’aristocratie napolitaine, XVIe-XVIIIe siècles, in “Revue Historique”, n. 576, 1990, pp. 281-304.
66 Bologna, Il Mulino 1995. In precedenza Bizzocchi aveva pubblicato sull’argomento due articoli: La culture
généalogique dans l’Italie du seizième siècle, in “Annales E.S.C.”, XVLI, 1991, pp. 789-805; “Familiae Romanae”
antiche e moderne, in “Rivista Storica Italiana”, CIII, 1991, pp. 355-397.
67 BIZZOCCHI, Genealogie incredibili, cit., pp. 218-219.
68 P. LANARO SARTORI, Un’oligarchia urbana nel Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società,
Torino, Giappichelli 1992, pp. 210-216.
61
generale che caratterizza la sua ricerca, sostiene che “queste opere costituiscono con la
loro descrizione di un passato eroico e cavalleresco legato soprattutto all’esercizio delle
armi i mattoni su cui poggera tutta l’opera mistificatoria di creazione di un mito
aristocratico feudale”69, che non aveva riscontro nel concreto operare dei membri di queste
famiglie vissuti nel Quattrocento e nel primo Cinquecento, i quali ci si presentano
intimamente legati alla vita politica cittadina e alle attività mercantili.
Un’altra fonte molto utile per lo studio della coscienza nobiliare è rappresentata dagli
epistolari. Nel dilagare delle ricerche che hanno fatto ricorso a questo genere di
documenti70, apparentemente facili da affrontare, ma in realtà insidiosi e meritevoli perciò
di una grande prudenza critica, val la pena di ricordare che uno dei primi a farne uso per lo
studio delle “relazioni familiari nell’aristocrazia” è stato un sociologo, Marzio Barbagli, nel
suo fortunato libro Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX
secolo71. Barbagli, rilevando il modificarsi delle forme allocutive tra XV e XVI secolo, che
da un repertorio a due forme (“tu e voi”) passò a un sistema piú complesso e
gerarchicamente segnato (“Vossignoria, il Signore, Lei, Voi, tu”) sostiene che ciò fu dovuto
non tanto all’influenza della lingua e della cultura spagnola, quanto al “processo di
‘aristocratizzazionÈ avvenuto in Italia”, e rileva, sulla scorta di testi cinquecenteschi (tra
cui le Lettere di Luca Contile del 1564), “che la nuova gerarchia degli allocutivi nasceva
per designare e segnalare una gerarchia sociale”72. E tuttavia nel Cinquecento “permaneva
nelle famiglie dell’aristocrazia una certa insicurezza linguistica, tipica dei periodi di
mutamento”, che si manifestava nell’uso alternato della terza persona singolare e della
seconda plurale73.
Alla fine del nostro rapido rendiconto non possiamo fare a meno dì dedicare almeno
qualche parola ad una fonte per la quale Berengo, fin dai tempi del libro su Lucca, ha
nutrito e continua a nutrire una predilezione specialissima: intendo dire le filze e i registri
degli archivi notarili74. Questo tipo di fonte è una miniera inesauribile per quasi ogni
Ibidem, p. 214.
Mi limiterò a ricordarne una tra le piú significative: R. AGO, Carriere e clientele nella Roma barocca, Roma-Bari,
Laterza 1990.
71 Bologna, Il Mulino 1984, in particolare pp. 265-351.
72 Ibidem, p. 283.
73 Ibidem, p. 318.
74 Vale la pena di ricordare almeno tre contributi esemplari di Berengo, in cui predomina la fonte notarile:
Introduzione a C. TARELLO, Ricordo di agricoltura, Torino, Einaudi, 1975, pp. XIII-XLV; Lo studio degli atti
notarili dal XIV al XVI secolo, in: Fonti medievali e problematica storiografica. Atti del Congresso internazionale dell’Istituto
Storico Italiano (1883-1973) (Roma, 22-27 ottobre 1973), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo 1976,
volume I, pp. 149-172; Africo Clementi agronomo padovano del Cinquecento, in: Miscellanea Augusto Campana
(“Medioevo e umanesimo”, n. 44), Padova, Antenore 1981, pp. 27-69.
69
70
genere di ricerca, anche se presenta non poche difficoltà di utilizzazione, come bene ha
messo in evidenza Paolo Cammarosano nel suo manuale sulle fonti scritte medievali, che
per molti riguardi è utile anche per la prima età moderna75. Nel caso specifico dello studio
della coscienza nobiliare, gli atti notarili che piú sono stati utilizzati sono certamente i
testamenti e le doti: penso, ad esempio al saggio di Maria Antonietta Visceglia su Strategie
successorie e regimi dotali76;ma utili spunti offrono anche gli inventari post mortem, ad
esempio quelli delle biblioteche, proficuamente utilizzati, tra gli altri, da Claudio Rosso nel
suo studio sui segretari di stato dei duchi di Savoia tra Cinque e Seicento77.
Sulla fecondità dell’uso del notarile per il tema che sono venuto fin qui illustrando,
vorrei richiamare i risultati di una ricerca in corso sulle famiglie decurionali milanesi del
Cinquecento, che mi auguro Letizia Arcangeli voglia proseguire e perfezionare. Ma già
dallo spoglio di 151 testamenti emergono dati molto significativi sulla coscienza che i
testatori avevano del loro ruolo politico-sociale e sull’evoluzione di tale coscienza in
rapporto al tema della nobiltà. Mi limiterò a qualche citazione, ringraziando l’amica
Arcangeli che mi ha consentito di anticipare qui il frutto di ricerche da lei promosse78.
Circa un terzo dei testamenti analizzati contiene riferimenti a titoli posseduti e a cariche
ricoperte dal testatore. Per quel che riguarda i titoli feudali, è interessante osservare che
quanto piú un personaggio è di antica e nota famiglia signorile, tanto meno sente il bisogno
di precisare per esteso i suoi titoli. Cosí, ad esempio, i Borromeo: se Giovanni testando nel
1492 si definisce “comes Aronae”79, suo figlio Filippo nel 1508 è designato solo come
“comes”80, e cosí anche i decurioni Camillo nel 154381 e Giulio Cesare nel 157182 (si tratta
del nipote e rispettivamente del bisnipote di Giovanni). Un discorso simile si può fare per i
P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Firenze, La Nuova Italia Scientifica
1991, pp. 267-276.
76 In: VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., pp. 11-105.
77 C. ROSSO, Una burocrazia di antico regime: i segretari di stato dei duchi di Savoia, I (1559-1637), Torino,
Deputazione Subalpina di Storia Patria 1992, pp. 344-365.
78 I dati sono tratti dalla tesi di laurea di C. PROVANTINI, Casato, strategie familiari, eredità: le famiglie decurionali
milanesi nel XVI secolo, Università degli studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990-91, che è stata
proposta e guidata da Letizia Arcangeli; la quale, da parte sua, ha trattato questi temi, per quel che riguarda il
primo Cinquecento, nel saggio Gian Giacomo Trivulzio, marchese di Vigevano e il governo francese in Lombardia
(1499-1518), di prossima pubblicazione nel volume curato da G. CHITTOLINI E P. PISSAVINO, Vigevano e
i territori circostanti alla fine del medioevo, Milano, Unicopli.
79 Archivio di Stato di Milano: Notarile, cart. 1316, not. Gio. Pietro Cantú, 15 novembre 1492.
80 Ibidem, cart. 7283, not. Luigi Croce: 13 settembre 1508.
81 Ibidem, cart. 9651, not. Francesco Grassi: 30 giugno 1543.
82 Ibidem, cart. 13090, not. Rolando Mazza: 2 dicembre 1571.
75
Trivulzio83. Invece chi è stato infeudato di recente, e magari è nato da un mercante ed
esercita lui stesso la mercatura, sente il bisogno di sbandierare per filo e per segno i nomi
delle sue giurisdizioni. Massimiliano Stampa, castellano di Porta Giovia e consigliere di
Carlo V, nel suo testamento del 1543 pone un accento particolare sui suoi titoli: “marchese
di Soncino, conte di Ripalta, marchese di Montecastro”84; il mercante Gio. Agostino Litta,
che ha acquistato il titolo nel 1573, testando nel 1576 viene definito “marchese di
Gambolò, conte di Valle”85; Guido Cusani, anch’egli di famiglia mercantile, nel 1600 è
designato come “marchio et comes Ripae Carminiani Pontis Albarolae”86. Quanto a
Gerolamo Sovico, che ottuagenario, fa testamento nel 1590, egli sente il bisogno di
soffermarsi dettagliatamente sui meriti della sua famiglia. Dopo aver raccomandato ai figli
di non far nulla “quod non conveniat nobilitati domus et familiae nostrae, quam scient
affinitatem habere cum diversis nobilibus familiis huius inclitae civitatis”, Gerolamo si
produce in una lunga enumerazione di famiglie imparentate con la propria, tra cui i
Trivulzio e i Calco. Ma non basta: il testante ricorda ancora che suo padre fu questore del
Magistrato Ordinario e lo zio, senatore di Milano e podestà di Parma e Piacenza, ricoprí
diverse altre cariche “maxime tempore libertatis Mediolani”; e richiama poi i privilegi che
a piú riprese erano stati elargiti ai Sovico dai duchi di Milano, da “alios principes”
(locuzione volutamente vaga, dietro cui si nascondevano i re di Francia), da Carlo V e da
papa Pio V. La conclusione di questo excursus, i cui connotati non risultano molto dissimili
da una “prova di nobiltà” per l’ammissione a un ordine cavalleresco o a un collegio
professionale, merita di essere citata testualmente, quasi a suggello di queste nostre
considerazioni sulle fonti per lo studio della coscienza nobiliare nel Cinquecento:
“volui recensere non iactantia, sed quia haec quandoque prodesse poterunt tum posteritati meae
ad imitanda rnaiorum vestigia tum vero penes ignaros, quia memoria est labilis”87.
Nel tardo Cinquecento sono definiti con l’appellativo di “comes”, senza ulteriori specificazioni, sia il
decurione Gio. Giacomo Teodoro Trivulzio (Archivio di Stato di Milano: notarile, cart. 14009, not. Gio.
Giacomo Spagnoli: 12 febbraio 1575) sia Giorgio Trivulzio suo fratello (Archivio di Stato di Milano: Fondo
Trivulzio-Archivio Milanese, cart. 276: 27 aprile 1580).
84 Archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano: Litta, cart. 10: 13 gennaio 1543.
85 Ibidem: cart. 10: 18 ottobre 1576.
86 Archivio di Stato di Milano: Fondo Trivulzi -Archivio Milanese, cart. 288: 9 dicembre 1600.
87 Archivio di Stato di Milano: Notarile, cart. 15894, not. Gio. Stefano Daverio: 14 settembre 1590.
83
Giorgio Chittolini
Il contado e la città
1. La riproposizione di un tema storiografico.
L’argomento che Nobili e mercanti introduceva nel suo quinto capitolo, intitolato Il contado,
non risultava, nei primi anni ‘60, ovvio o scontato. Non lo era per gli storici dell’età
moderna, fra i quali la viva attenzione rivolta alle campagne e al mondo rurale (soprattutto
per i secoli XVII-XIX) si indirizzava piuttosto al problema delle “origini del capitalismo
agrario” e della “moderna borghesia terriera”1. E non era molto presente nemmeno fra i
medievisti, nonostante la tradizione antica e illustre di studiosi come Romolo Caggese,
Gioacchino Volpe o Gino Luzzatto: la rassegna che Giuseppe Martini dedicava nel 1967
alla storiografia sul medioevo non registrava questo tema fra quelli avvertiti come vivi e
dibattuti nei vent’anni precedenti2. Una certa attenzione al problema della distribuzione
della proprietà fondiaria, dei contratti agrari, del regime fiscale delle terre possedute da
rurali e cittadini nella piena e tarda età comunale avevano mostrato in quegli anni studiosi
non “accademicamente” medievalisti, quali Enrico Fiumi, nelle sue ricerche sull’economia
toscana e sui centri urbani della regione, o David Herlihy, in un capitolo del suo libro su
Pisa, o Rosario Romeo nella sua ricerca su Origgio; e ai loro lavori faceva soprattutto
1 Cfr. M. MIRRI, La storiografia italiana del secondo dopoguerra fra revisionismo e no, in AA.VV., Fra storia
e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massafra, Bologna 1994, pp. 27-102;
qualche spunto in A. GIARDINA, Emilio Sereni e le aporie della storia d’Italia, in “Studi storici”, XXXVII
(1996); pp. 693-719 (alle pp. 698, 717-18).
2 G. MARTINI, Basso Medioevo, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Atti del I Congresso nazionale di
scienze storiche organizzato dalla società degli Storici Italiani, Perugia 9-13 ottobre 1967, Milano, 1970, vol. I,
pp. 79-471.
riferimento la rassegna che nel 1963 Emilio Cristiani dedicava ai problemi dei rapporti fra
città e contado3.
Solo di lí a qualche tempo avrebbero cominciato a vedere la luce le poderose ricerche di
Elio Conti –anch’esse nate piuttosto dalla prospettiva di ricerca dei colleghi “modernisti”,
della ricostruzione cioè della formazione della struttura agraria moderna del territorio
fiorentino4 – ; e ancora dopo si sarebbe assistito, nell’ambito della medievistica, a quel
diffuso, generazionale rinnovamento di interesse per gli studi di storia agraria che avrebbe
segnato i decenni successivi5.
Nemmeno per Berengo il problema centrale di ricerca, nel momento in cui, nello scorsi
degli anni ‘50, si era rivolto alla Lucchesia cinquecentesca, era costituito dalle campagne:
il suo tema era quello della città, di una società urbana, analizzata in tutto il ventaglio degli
aspetti possibili, dalle istituzioni politiche all’economia, dalla vita religiosa alla ideologia
politica.
Ma proprio l’intento di restituire della società urbana lucchese del Cinquecento
un’immagine piena e compiuta aveva fatto sí che l’autore si trovasse sospinto fuori della
cerchia delle mura, a seguire i molti fili che legavano cosí strettamente mondo urbano e
mondo rurale – relazioni economiche, scambi demografici, rapporti di potere, scontri
politici e amministrativi –: in una rete che nelle “Sei miglia” e poi nelle terre piú vicine
alla città risultava quanto mai fitta e intensa.
Una prospettiva diversa, quindi, da quella di Fiumi (che era soprattutto di storia
dell’economia, e delle sinergie economiche fra centri urbani e borghi, comunità e terre di
“contadi” toscani); una prospettiva analoga piuttosto a quelle di Luzzatto, o di Caggese.
Anche se il contado lucchese che ne usciva era ben lontano dal presentare quei caratteri
“irreali” che secondo il Fiumi avevano i contadi di Caggese (oggetto cioè di uno
sfruttamento cieco e sistematico da parte delle città), ben risultava come esso si trovasse
fortemente segnato e influenzato – nella sua organizzazione giurisdizionale e
amministrativa, ma anche economica e sociale – dal dominio di Lucca: e ciò per l’ormai
3 E. CRISTIANI, Città e campagna nell’età comunale e in alcune pubblicazioni dell’ultimo decennio, in “Rivista storica
italiana”, LXXV (1963), pp. 829-845. Ad alcuni anni prima risaliva l’intervento di E. FIUMI, Sui rapporti
economici fra città e contado nell’età comunale, in “Archivio storico italiano”, CXIV (1956), pp. 18-68.
4 Sull’opera di E. Conti cfr. La società fiorentina nel Basso Medioevo. Per Elio Conti, Roma 1995.
5 D. BALESTRACCI, Medioevo italiano e medievistica. Note didattiche sulle attuali tendenze della storiografia, Roma
1996, pp. 73 ss. Sul rilievo che ha avuto la storia agraria e rurale (soprattutto per i secoli XII-XVI) nella
ricerca degli anni 1965-1985 (“la maggiore novità della storiografia italiana di quest’ultimo ventennio”) cfr. G.
CHERUBINI, La storia dell’agricoltura fino al Cinquecento, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, vol. I,
Antichità e Medioevo [Atti del Convegno della società degli storici italiani, Arezzo, 2-6 giugno 1986], Roma-Bari
1989, pp. 333-354 (citazione a p. 349).
antico processo di assorbimento delle campagne nel sistema di governo urbano che il
comune lucchese, cosí come gli altri comuni italiani, avevano realizzato attraverso la
costruzione degli stati cittadini. Non tutto il territorio rurale allo stesso modo, con la stessa
capillarità e intensità: che anzi Berengo mostrava bene come l’influenza della città si
allentasse nelle aree periferiche, e assumesse forme diverse, passando dalle Sei miglia, alle
vicarie, alla montagna: ma nel quadro sempre di un controllo che il “pacifico et populare
stato” lucchese non poteva rinunciare ad esercitare.
Nel dare rilievo a questo tema, mi pare che il libro di Berengo esprimesse, e continui a
esprimere, un forte richiamo a quello che è un nodo centrale della storia della società
italiana: la profonda influenza economica e politica esercitata sulle campagne dalla società
urbana e dalla città, e, correlativamente, l’influenza che sulla stessa vita cittadina e sulla
società urbana ne deriva. Dimostrando inoltre una particolare attenzione – pur in una
prospettiva di ricerca attenta alla “storia sociale”, prospettiva non molto diversa, mi pare,
da quella dei suoi giovani colleghi modernisti che studiavano l’origine del capitalismo nelle
campagne (come Villani, Mirri, Zangheri, Giorgetti, Villari, per citarne alcuni) – alle
“mediazioni del politico”, e cioè all’azione delle istituzioni politico-amministratíve sugli
assetti della società. Richiamo forte, dicevo, perché il tema dei rapporti città-campagna
risultava proposto come nodo centrale e campo di indagine essenziale nella prospettiva di
una storia globale della società lucchese (e della società italiana) del Rinascimento. Il
quadro che Berengo offriva della città e delle campagne lucchesi (e delle relazioni fra esse
intercorrenti) era infatti straordinariamente ricco di temi e di spunti in tante direzioni,
spesso nuovi e originali, temi e spunti ai quali molte ricerche successive si sono poi rifatte
(storia delle mentalità, delle sette, del brigantaggio, spunti che io qui trascurerò). Ma fra
questi numerosi temi mi pare che il problema del significato sociale e politico che, per una
città, assumevano i rapporti con il contado, avesse un rilievo particolare.
Questo volevo notare anche in considerazione di quella che talvolta è stata, negli anni
successivi, la storia della città. La straordinaria potenzialità del tema città come oggetto di
ricerca si è manifestata, come è noto, in una amplissima varietà di prospettive e di
orientamenti di indagine, rivolti agli innumerevoli aspetti dell’universo urbano: e non solo
da parte degli storici in senso stretto, ma anche da parte dei cultori di altre discipline –
geografi, urbanisti, sociologi, antropologi – che nel loro lavoro hanno attinto a materiali
storici. Come pochi altri il tema della città è diventato campo privilegiato di ricerche
multidisciplinari6. Con risultati senz’altro positivi, per la ricchezza di dimensioni e la
varietà degli aspetti dell’universo urbano che questa apertura dell’obiettivo a 360 gradi ha
6
Cfr. ad esempio Storia e storie delle città, a cura di D. Romagnoli, Parma 1988.
consentito di cogliere. Con un risvolto forse negativo, perché proprio la grande varietà e
ricchezza di temi che vengono compresi sotto l’etichetta di “storia urbana”, comportano
forse il rischio della scomposizione e dissezione del concetto di città, della perdita di esso
come oggetto unitario e complessivo di ricerca. La “dissoluzione” del concetto di città del
resto è già stata oggetto di dibattiti, fra sociologi e storici dell’economia soprattutto7: e
anche in questo ambito si è constatato che proprio l’allargamento del campo d’indagine a
realtà e situazioni fortemente differenziate, a temi e aspetti tanto vari ed eterogenei, ha reso
difficile mantenere fisso un denominatore comune – la città appunto, come punto focale
della ricerca – che potesse tenere insieme prospettive cosí diverse. Nel libro di Berengo,
pur nella ricchezza di temi affrontati, era tuttavia fortemente avvertito e proposto questo
senso complessivo della realtà urbana, ed era sottolineata l’importanza centrale che per le
città italiane aveva il rapporto col contado.
2. Alcuni “caratteri originali” della città italiana.
Di fatto questo tema ha continuato ad animare la ricerca; e anzi l’attenzione allo stretto
legame della città con le campagne, e al significato forte che esso ha avuto nella storia
della società italiana, è rimasta ben viva fra gli storici, e si è forse accentuata in questi
ultimi decenni, pur presentandosi con sfaccettature diverse, a seconda delle differenti
prospettive secondo cui è stata affrontata.
Da un lato infatti è forse venuta diminuendo l’attenzione per aspetti della vita urbana –
come le manifatture, i mercanti, le arti – che non comportavano un’analisi specifica del
rapporto del centro urbano con le campagne circostanti. L’immagine della città medievale
italiana come luogo di una nuova economia manifatturiera e mercantile, di una nuova
società borghese, come cellula di sviluppo di un tipo di economia e di un tipo di società
nuove e “moderne”8 si è forse venuta appannando, o ha suscitato minore interesse9.
A. TOSI, Verso un’analisi comparativa delle città, in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, a cura di
P. Rossi, Torino 1987, pp. 29-49.
8 Oltre al contributo di P. Malanima in questo volume cfr. ancora BALESTRACCI, Medioevo italiano e
medievistica, cit., pp. 40, 48-49, 51.
9 Si vedano le considerazioni critiche di G. ROSSETTI, Il comune cittadino: un tema inattuale? in L’evoluzione delle
città italiane nell’XI secolo, a cura di R. Bordone e J. Jarnut, Bologna 1988, pp. 25-45. Cfr. anche P. BREZZI, Le
relazioni tra la città e il contado nei comuni italiani, in “Quaderni catanesi di studi classici e medievali”, V (1983), pp.
201-234, e, piú di recente, G. PINTO, Città e campagna in Storia dell’economia italiana, I, Dal crollo al trionfo, a cura
di R. Romano, Torino 1990, pp. 213-232, alle pp. 222 e ss.
7
E ugualmente mi sembra diminuita l’attenzione alle lotte sociali e politiche del comune,
esaminate in una prospettiva solo urbana. D’altro canto, e correlativamente, si è
manifestata, come già si è detto, una nuova e crescente attenzione al mondo e alla società
rurale, e si è fatta piú viva l’esigenza di vedere la stretta connessione della città con la
campagna, e, quindi di condizionamento che la fisionomia della città subiva, cosí come,
correlativamente, il peso determinante di essa nel plasmare la fisionomia delle campagne.
Una dozzina di anni fa Renato Bordone poteva parlare di “ritorno alla terra” come
orientamento caratteristico di molte ricerche condotte sull’età comunale, fra la fine degli
anni ‘70 e i primi anni ‘80. Egli si riferiva soprattutto a lavori come quelli di Hagen Keller,
di Alfred Haverkamp, di Philip Jones, e intendeva l’espressione “ritorno alla terra” nel
senso di una attenzione particolare a forme specifiche dì organizzazione sociale e politica,
oltre che economica, del mondo “rurale”, e all’importanza che esse mantenevano a lungo; e
anche e soprattutto nel senso dell’influenza che esse esercitavano sull’organizzarsi stesso
del mondo comunale, sulla fisionomia della società urbana10.
Si potrebbe notare che orientamenti di questo genere, per questo e altri periodi della
storia medievale, si erano manifestati già in precedenza, come occasionale contrappunto
all’urbanocentrismo prevalente. Giovanni Santini in particolare già nei primi anni ‘60
aveva polemizzato contro la tendenza alla reductio ad unum – alla città, cioè – della storia
dei diversi territori italiani: prospettiva che egli giudicava inadeguata e fuorviante per lo
studio di numerosi regioni; e richiamava l’attenzione su altre forme di organizzazione
territoriale non meno importanti di quelle promosse dai comuni urbani11.
Ma negli anni ‘70 in effetti quegli orientamenti si erano fatti piú forti e diffusi; e gli
spunti e gli stimoli che derivavano da ricerche come quelle di Keller o Jones, (ricerche,
forse non a caso, di autori stranieri: meno condizionati da tradizioni storiografiche
prevalenti al di qua delle Alpi) si inserivano in prospettive e orientamenti piú generali di
ricerca, e si collegavano a interpretazioni complessive della storia d’Italia in cui il rilievo
della città comunale veniva fortemente ridimensionato, quando addirittura non si giungeva
10 R. BORDONE, Tema cittadino e ritorno alla terra nella storiografia comunale recente, in “Quaderni
storici”, XVIII (1983), pp. 255-277. Cfr. anche P. CAMMAROSANO, Città e campagna: rapporti politici ed
economici, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Perugia 1988,
vol. I, pp. 303-349.
11 G. SANTINI, Il comune di valle nel Medioevo. La costituzione del Frigano, Milano 1960, in particolare pp. 5-9; e si
vedano considerino anche i vari spunti presenti già in lavori di G. Fasoli, E Cusin, e altri, citati in G.
CHITTOLINI, Città e contado nella tarda età comunale. A proposito distudi recenti, in “Nuova rivista storica”, LIII
(1969), pp. 706-719. Ma cfr. anche V. FUMAGALLI, Città e campagna nell’Italia medievale. Il centro nord, secoli
VI-XIII, Bologna 1979, e vedi piú avanti, note 34-38.
a rovesciare la prospettiva tradizionale, della città come principio ideale, fermento attivo e
civilizzatore della storia della penisola (come ad esempio notava Rosario Villari a proposito
dell’immagine della città che proponevano i primi volumi della Storia d’Italia Einaudi12).
Erano interpretazioni che sottolineavano piuttosto gli irrisolti elementi di arretratezza che
l’esperienza comunale aveva lasciato alla società italiana del tardo medioevo e della età
moderna, nonostante la fase dello slancio cittadino; interpretazioni in cui il vecchio tema
della “decadenza” della società italiana nell’età moderna si trasformava, per taluni, in
quello della rifeudalizzazione, o del “blocco” piú che millenario di cui avrebbe sofferto la
storia italiana. Il ruolo della campagna, del mondo rurale, delle sue forme di organizzazione
economica sociale e politica, in confronto alla città, veniva cosí ad essere accentuato e
caricato di significati forti, in un clima in cui le tematiche delle lunghe durate e delle storie
immobili si legavano ad echi di letture gramsciane13. I dibattiti che seguirono misero in
luce, mi pare, alcune forzature, in quelle interpretazioni14.
Ma non risultava forzata o caduca – sulle tracce del resto della tradizione illustre di
Ottokar e Sestan – la riaffermazione del fatto che in Italia accanto alla dimensione
weberiana e pirenniana, la città possedesse una dimensione di capoluogo territoriale, di
nucleo di organizzazione politica di un territorio, che in altri paesi europei essa non sempre
possedeva; e rimaneva il riconoscimento delle “due anime” delle città della penisola,
secondo l’espressione di Philip Jones (cosí come di una “duplice esistenza” aveva parlato
Ottone di Frisinga): una “antica, urbana e civica, una seconda medievale, mercantile e
borghese, determinate entrambe dalla sua posizione mediterranea, intermedia fra
Occidente e Oriente, fra l’antico e il nuovo mondo”15. Città “medievale europea” in senso
weberiano a pieno titolo: ma città che ereditava una tradizione antica di rapporti col
R. VILLARI, Caratteri originali e prospettive di analisi: ancora sulla Storia d’Itatia Einaudi, in “Quaderni
storici”, IX (1974), p. 546.
13 Cenni in G. CHITTOLINI, Alcune considerazioni sulla storia politico-istituzionale del tardo Medioevo: alle origini degli
“Stati regionali”, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, II, 1976, pp. 401-419, alle pp.
411-415. Cfr. anche E. FASANO GUARINI, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale fra Quattro e Cinquecento:
continuità e trasformazioni, in “Società e storia”, VI (1983), pp. 617-639; C. VIVANTI, La crisi del Cinquecento: una
svolta nella storia d’Italia?, in “Studi storici”, XXX (1989), pp. 5-23; MIRRI, La storiografia italiana del secondo
dopoguerra, cit.
14 Oltre a BORDONE, Tema cittadino e ritorno alla terra, cit., cfr. ad esempio S. POLICA, Basso Medioevo e
Rinascimento: “rifeudalizzazione” e “transizione”, in “Bullettino dell’istituto storico italiano per il medioevo e
Archivio muratoriano”, 88 (1979), pp. 287-316; P. CAMMAROSANO, L’economia italiana nell’età dei Comuni e il
“modo feudale di produzione”: una discussione, in “Società e storia”, II (1979), pp. 495-520.
15 P. JONES, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in Storia d’Italia Einaudi, a cura di R.
Romano e C. Vivanti, vol. II (Dalla caduta dell’Impero romano al sec. XVIII), Torino 1974, pp. 1469-1810, in
particolare pp. 1495-1540 (la citazione è a p. 1554). Cfr. anche O. CAPITANI, Introduzione in H. PIRENNE,
Le città del Medioevo, Bari, 1971 pp V-XLVIII.
12
territorio, che il comune consolidava, dando corpo a veri e propri “stati cittadini”; e città
che confermava, per questo, caratteri propri rispetto alle città di altri paesi europei16.
Donde, mi sembra, quel carattere di eccezione che in tanti aspetti va riconosciuto alle
città italiane, ogni volta che vengono confrontate con quelle d’oltralpe. Come avviene – se
alcuni di questi aspetti vogliamo ricordare – in quel profili complessivi di storia
dell’urbanizzazione costruiti prevalentemente sulla base di parametri demografici o
econometrici (penso a lavori come quelli di Cox Russel, Hohenberg e Lees, o Bairoch, o De
Vries17): lavori che non sempre riescono a dar piena ragione, per l’Italia, delle linee di
evoluzione dei sistemi urbani, o del disegnarsi dei reticoli e delle gerarchie di centri: e ciò
appunto perché quei parametri non sanno sempre cogliere le stratificazioni antiche di
legami fra città e territori, che risultano invece essenziali a spiegare nella nostra penisola il
formarsi e il modificarsi dei sistemi urbani, dei rapporti di gerarchia o di complementarità
fra i diversi centri.
Analogamente, la precoce vocazione “territoriale” e “statale” dei comuni italiani (assai
piú precoce della tendenza alla “territorializzazione” avvertita in seguito anche da altre
città europee18) fa sí che, sul piano della storia economica, debbano essere riconosciuti
spesso come primari gli interessi fondiari e agricoli dei cives, accanto a quelli
manifatturieri e mercantili, a determinare l’elaborazione delle loro strategie politiche ed
economiche19. Cosí come, sul piano della storia politica, questo ruolo “territoriale” svolto
dalla città (non semplice isolotto compreso all’interno di domini principeschi, ma chiave di
volta di organizzazione autonoma di territori20; e piú tardi, negli stati regionali, elemento di
mediazione fra governo centrale e comunità rurali21) rende improponibile per l’Italia quella
Per una messa a punto recente, e una discussione ampia sul “carattere ‘bifrontÈ della città italiana”, cfr. M.
GINATEMPO, Gerarchie demiche e sistemi urbani nell’Italia bassomedievale: una discussione, “Società e Storia”, XIX
(1996), pp. 347-383, cit., pp. 347-383; ma cfr. anche W. BLOCKMANS, La manipulation du consensus. Systhèmes
de pouvoir à la fin du Moven Age, in Principi e città alla fine del Medioevo, a cura di S. Gensini [Centro di studi sulla
civiltà del tardo Medioevo, Collana di studi e ricerche, 6], Pisa 1996, pp. 433-447.
17 Cfr. ancora M. GINATEMPO, Gerarchie demiche e “sistemi urbani”, cit., (con ampie indicazioni
bibliografiche); EAD, Le città italiane, XIV-XV secolo, in XXII Semana de Estudios Medievales, Estella:
Poderes publicos en la Europa medieval (Principados, Reinos y Coronas), Pamplona 1997, pp. 149-208.
18 Y. BAREL, La ville médiéval: système social, sistème urbaine, Grenoble 1977, pp. 299 ss.
19 Di recente S.R. EPSTEIN, Town and Country: economy and institutions in late medieval Italy, in “The Economie
History Review”, XLVI, 3 (1993), pp. 453 -477.
Cfr. anche piú avanti, note 48 e 53.
20 Qualche cenno nell’introduzione al volume L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania: secoli XIII-XIV,
a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna 1994 (Organizzazione territoriale e distretti urbani nell’Italia
del tardo Medioevo, pp. 7-26).
21 Quel ruolo di mediazione che in altri paesi è esercitato dalla nobiltà territoriale: cfr. G. CHITTOLINI,
Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano 1996, p. XV; G. POLITI, Gli
statuti impossibili. La rivoluzione tirolese del 1525 e il “programma” di Michael Gaismair, Torino 1995, pp. XII-XV.
16
contrapposizione principi/città in cui il primo termine indicherebbe la spinta verso
un’organizzazíone politica e statale (con quanto ciò comporta di “coercizione”, di interessi
prevalentemente “territoriali”, di espansione politica e militare, etc.), e il secondo termine
invece le forze dell’economia, di un’economia soprattutto manifatturiera e mercantile, che
poco si sarebbero curate di promuovere e sostenere forme e strutture proprie di
organizzazione statale, e si sarebbero mostrate attente solo a tutelare quei loro specifici
interessi economici (soprattutto commerciali) all’interno delle diverse strutture statali
principesche o monarchiche in cui potevano venire a trovarsi22.
Donde ancora quelle particolari caratteristiche che i legami fra città e contado
conferiscono alla società urbana: un legame che fa delle aristocrazie e dei patriziati
cittadini l’espressione più tipica della nobiltà, in Italia, e che ridimensiona drasticamente
lo spazio di poteri e di possesso fondiario che può mantenere una nobiltà non cittadina23;
un legame ancora (per ricordare un ultimo esempio) che, nel creare fra proprietari e
contadini particolari e stretti rapporti di dipendenza, impedisce alla fine del Medioevo
l’esplodere di quei “furori contadini” che altrove in Europa si traducono in violente rivolte,
e che in Italia si smorzano e si disperdono entro l’armatura disciplinata di rapporti in cui la
città ha saputo imbrigliare il contado24.
Il nostro tema ha continuato quindi ad essere al centro dell’attenzione di molti studiosi:
e dare qui conto della ricchissima produzione di questi anni non è possibile. Mi limiterò a
toccarne brevemente due aspetti, cercando di vedere, da un lato, come le ricerche
compiute abbiano bene messo in luce una grande varietà di situazioni geografico-politiche
in cui il rapporto città-contado viene a configurarsi (in età comunale, ma con caratteristiche
C. TILLY, Coercion, Capital and European States, New York-Oxford 1990; e ancora C. TILLY & W.P.
BLOCKMANS (edd.), Cities and the Rise of States in Europe, A.D. 1000 to 1800, Boulder -San Francisco- Oxford
1994 (in particolare gli interventi dei due curatori: TILLY, Entanglements of European Cities and States, pp. 1-27;
BLOCKMANS, Voracious States and obstrucing Cities: An Aspect of State Formation in Preindustrial Europe, pp.
218-250). Sulla specificità della situazione italiana, per contro, cfr. G. CHITTOLINI, Cities, City-States and
Regional States in North-Central Italy, in “Theory and Society”, 18 (1989), pp. 689-706; EPSTEIN, Town and
Country, cit.
23 M. BERENGO, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in “Rivista storica italiana”, 87 (1975), pp. 493-517;
ID., Ancora a proposito di patriziato e nobiltà, in Fra storia e storiografia, cit., pp. 517-28. Si veda poi C.
DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988.
24 Si vedano i vari contributi raccolti nel recente volume miscellaneo Protesta e rivolta contadina nell’Italia
medievale, a cura di G. Cherubini [“Annali dell’istituto Cervi” vol. 16, 1995], in particolare quelli di M.G. NICO
OTTAVIANI, Sistemi cittadini e comunità rurali nell’Umbria del Due-Trecento, pp. 83-113, di R. MUCCIARELLI e
G. PICCINNI, Un’Italia senza rivolte? Il conflitto sociale nelle aree mezzadrili, pp. 173-205 e dello stesso
CHERUBINI, Premessa, pp. 11-15. Per il caso, abbastanza eccezionale, di un’aperta rivolta contadina nel cuore
dell’Italia padana cfr. D. ANDREOZZI, La rivolta contadina del 1462 nell’episcopato di Piacenza, pp. 65-81.
22
spesso di lunga durata); dall’altro come si siano meglio chiarite le tappe dell’evoluzione di
questo rapporto nella sua lunga storia fra la tarda età comunale e la prima età moderna.
3. Una differenziata geografia di contadi.
In effetti non sono pochi i contributi significativi che in questi ultimi anni ci hanno
aiutato a intendere le diverse caratteristiche della geografia dei contadi quale si presenta
nell’Italia comunale; a intendere cioè la varietà di situazioni in cui prende corpo e
diversamente si configura un rapporto città-contado nei differenti contesti, fino a dar luogo
a quadro assai diversificato25.
Sono risultati confermati da un alto, alcuni caratteri di lungo periodo del reticolo urbano
della penisola, alcune forti partizioni, riconducibili in gran parte alle forme dell’antica
urbanizzazione romana. Partizioni forti, e ben riconoscibili anche in campi di studio diversi
da quelli della storia politica: come è avvenuto di rilevare ad esempio a Carlo Ginzburg e
ad Enrico Castelnuovo quando, interrogandosi sui concetti di centro e di periferia nella
storia dell’arte italiana, e identificando i “centri” con le “città”, si sono trovati però di
fronte a diversi tipi di città, e in particolare ad alcuni tipi di città soltanto che potessero
essere considerate come “centri”: le città situate a nord appunto di una linea ideale (fra
Grosseto e Rimini) che distingue due diversi tipi di urbanizzazione realizzatisi in età
romana; al nord un’urbanizzazione piú regolare e pianificata, nel suo disegno a maglie
larghe, nella ricerca di equilibrio e proporzioni fra centri urbani e campagne (corroborata
in seguito da un robusto e precoce impianto diocesano), al sud un’urbanizzazione piú
spontanea, affollata e fluida26.
Situazioni già in origine diverse, dunque, di cui vari studi, su singoli casi, hanno
permesso dì verificare modifiche intervenute successivamente: ad esempio (e in
particolare) nel momento cruciale fra tardo antico e altomedioevo (in cui si e venuto
costituendo ed assestando il reticolo delle circoscrizioni diocesane27); o in conseguenza del
25 Mi permetto di rinviare al mio Città, comunità e feudi, cit., pp. 1-18, ove è tradotto il saggio A geography of
the “Contadi” in Communal Italy pubblicato nel volume Portraits of Medieval and Renaissance Living:
Essays in Memory of David Herlihy, edited by S. Cohn, Jr. and S. Epstein, Arm Arbor 1996, pp. 417-38.
26 E. CASTELNUOVO e C. GINZBURG, Centro e periferia, in Storia dell’arte italiana, pt. I, Metodi e problemi, a
cura di G. Previtali, vol. I, Questioni e metodi, Torino 1979, pp. 285-352, alle pp. 301-306.
27 C. VIOLANTE, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il Medioevo: province,
diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. Rossetti,
differente grado di sviluppo urbano in diverse aree dopo il Mille (uno sviluppo piú
facilmente ricostruibile ora, nei suoi parametri demografici almeno, grazie alla messa a
punto di M. Ginatempo e L. Sandri)28. Tali modifiche hanno dato vita anch’esse ad assetti e
sistemi urbani spesso poi cristallizzatisi, nel lungo periodo, a definire quel “numero
chiuso” (o poco modificabile) di città che troviamo in età comunale e rinascimentale, e a
delineare geografie di contadi differenziate fa loro (per l’ampiezza dei territori, la natura
dei rapporti fra centro urbano e campagne), anche se in tutti questi casi ritorna la costante
di un centro, grande o piccolo, intorno a cui si e organizzato un territorio legato alla sua
città, e da essa dipendente.
Cosí all’interno dell’area centrosettentrionale – quella in cui il moto di espansione
urbano e comunale è risultato piú diffuso e piú intenso – sono state messe in luce, ad
esempio, le differenze fra i caratteri del reticolo urbano dell’area centrale padana – che
riproponeva in larga misura il disegno e i caratteri dell’antica urbanizzazione romana – e
quelli delineatisi ad esempio in Toscana, area di confine fra i due modelli di
urbanizzazione sopra ricordati29; ovvero nelle Marche, con una fittezza di “microcittà”, di
piccoli contadi, di distretti castrensi30 (e forme particolari di “comitatinanza”31); o
nell’Umbria, dal paesaggio ugualmente variegato32.
Con forte rilievo inoltre sono state messe in luce quelle situazioni in cui il modello
città-contado appare piú debole, o non capace di porsi come struttura generalizzata di
organizzazione del territorio. Ciò è stato notato ad esempio per ampie aree poste a oriente e
Bologna 1977, pp. 83 -112. Cfr. anche M.P. BILLANOVICH, Le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Italia
settentrionale fra la tarda antichità e l’alto medioevo, in “Italia medievale e umanistica”, 34 (1991), pp. 1-39.
28 M. GINATEMPO, L. SANDRI, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli
XIII-XVI), Firenze 1990.
E. GABBA, La città italica, in Modelli di città cit., pp. 109-16, a p. 122. Sugli sviluppi successivi (accanto a F.
SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, a cura di R. Barbolani di Montauto, con una
Introduzione, di E. Sestan, Firenze 1975) cfr. ora A. ZORZI, L’organizzazione del territorio in area fiorentina tra XIII
e XIV secolo, in L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania, cit., pp. 279-349.
30 Il rinvio è soprattutto ai lavori di S. Anselmi e di G.B. Zenobi. Cfr. ora l’ampia ricognizione bibliografica di
E PIRANI, Medioevo marchigiano e identità storica. Una verifica attraverso la recente storiografia, in “Quaderni
medievali”, 42, dicembre 1996, pp. 73-103.
31 J.-C. MAIRE VIGUEUR, Guerres, conquête du contado et transformations de l’habitat en Italie centrale au XIIIe siècle,
in Castrum 3: Guerre, fortification et habitat dans le monde méditerranéen au Moyen Age, actes recueillis et présentés par
Andrè Bazzana, Madrid-Rome 1988, pp. 271-78; ID, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia
diretta da G. Galasso, vol. VII/2, Torino 1987, pp. 115-118 e 125-129: ove si illustra un “modello
marchigiano di conquista del contado”, realizzato attraverso la distruzione dei castra conquistati e il
trasferimento forzato di molti degli abitanti del centro dominante.
32 Un’ampia ricognizione degli studi compiuti in A. GROHMANN, Caratteri ed equilibri tra centralità e
marginalità, in AA.VV, L’Umbria, Torino 1989, pp. 5-72.
29
a occidente della stessa Italia padana, che pure presenta l’esemplificazione forse piú tipica
e forte del sistema città-contado33. Qualche anno fa un importante articolo di Sante
Bortolami sottolineava opportunamente l’inadeguatezza di uno schema – quello di un’Italia
“inter civitates ferme divisa” – che “ha enfatizzato per il centro nord della penisola tale
prospettiva, sino a renderla esclusiva e scontata”. A quello schema egli contrapponeva le
peculiarità dello sviluppo di vaste zone dell’Italia, e in particolare della “marca
trevigiana”: non solo per il profondo rimaneggiamento subito dal reticolo urbano antico, in
conseguenza della decadenza di vari centri e la fondazione di nuovi, in età altomedievale,
ma anche – e in conseguenza di quei generali mutamenti – per la presenza lunga di forti
ceppi signorili, per l’organizzazione “non urbanocentrica del territorio”, per il modificarsi
delle frontiere politiche e dei confini dei “contadi”, rispetto ai calchi antichi municipali e
diocesani34. Egli sottolineava una situazione di debolezza urbana: che trova riscontro, in
effetti, nella Vicenza comunale disegnata da G. Cracco, “comune di famiglie” o
“città-satellite”, piuttosto che vera e propria città-stato35; o nei caratteri di Trevigiano,
segnato, ancora in età moderna, da una scarsa capacità di controllo da parte della città,
soprattutto rispetto ai “centri minori” del territorio36; o nella larga fioritura di borghi e
terre, privi di dignità e tradizione urbane, ma forti e vitali, nei territori delle antiche diocesi
di Aquileia e Concordia37.
Caratteristiche in parte analoghe sono state piú di recente sottolineate per l’attuale
regione del Piemonte occidentale, “territori senza città”, si è detto, con loro proprie
dinamiche di organizzazione politico-territoríale, con l’emergere quindi, in primo piano, di
terre e borghi e castelli che già in età comunale, sull’onda della crescita dei secoli XI-XIII,
Pure con alcune differenze fra le diverse aree: cfr. G.M. VARANINI, L’organizzazione del distretto
cittadino nell’Italia padana nei secoli XIII-XIV (Marca Trevigiana, Lombardia, Emilia), in L’organizzazione
del territorio in Italia e Germania, cit., pp.133-233.
34 S. BORTOLAMI, Frontiere politiche e frontiere religiose nell’Italia comunale: il caso delle Venezie, in Castrum 4:
Frontière er peuplement dans le monde méditerranéen au Moyen Age, Actes du colloque d’Erice-Trapani, 18-25
septembre 1988, recueillis et présentés par J.-M. Poisson, Rome-Madrid 1993, pp. 211-238, in particolare p.
217.
35 G. CRACCO, Da comune di famiglie a città satellite, in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a cura di G. Cracco,
Vicenza 1988, pp. 73-138.
33
G. DEL TORRE, Il Trevigliano nei secoli XV e XVI. L’assetto amministrativo e il sistema fiscale, Treviso-Venezia
1990, pp. 23 ss. Su alcuni “centri minori” del Trevigiano si possono vedere ora i volumi pubblicati nell’ambito
della ricerca della fondazione Benetton sulle “Campagne trevigiane in età moderna”: cfr. ad esempio A.
PIZZATI, Conegliano. Una “quasi città” e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso 1994; A. BELLAVITIS, Noale.
Struttura sociale e regime fondiario in una podesteria della prima metà del secolo XVI, Treviso 1994.
37 Varie indicazioni in D. DEGRASSI, Il Friuli fra continuità e cambiamento: aspetti economico-sociali, in Italia
1350-1450: tra crisi, trasformazione e sviluppo [Centro italiano di studi di storia e d’arte di Pistoia, tredicesimo
convegno di studi], Pistoia 1993, pp. 273-300, in particolare pp. 279 ss.
36
sostituiscono con la loro vitalità e con il loro dinamismo uno sfilacciato e debole tessuto di
civitates-diocesi, incapaci di porsi come strutture di organizzazione territoriale38. E non solo
in Piemonte o nel Veneto, del resto, i cosiddetti “centri minori” sono stati oggetto di
ricerca: anche per altre regioni vari studi ne hanno messo in luce i caratteri specifici,
intermedi fra quelli dei veri e propri centri urbani e quelli dei minori castelli o villaggi,
mostrando bene i rischi di una troppo rigida polarizzazione città/campagna e sollecitando
prospettive di analisi capaci di cogliere i rapporti di complementarità e di integrazione fra i
diversi tipi di insediamenti e di centri39.
Si potrebbe aggiungere che, per converso, un’attenzione nuova al problema dei rapporti
città-campagna si è manifestata anche in aree in cui questa prospettiva d’analisi non ha
una tradizione antica di ricerche, come in alcune province del Lazio, o nello stesso
Mezzogiorno40. Ma interessa soprattutto notare – senza la pretesa di condurre un
censimento sistematico degli studi compiuti nelle varie aree italiane – che stiamo
assistendo oggi a un’attenta rilettura dei diversi paesaggi politici italiani: una rilettura
intesa a cogliere i caratteri specifici che nelle differenti aree presentano i rapporti fra
centri e territori, e fra centri maggiori e minori, e volta a cogliere l’evoluzione e le
trasformazioni che tali rapporti registrano nel corso del tempo.
4. Due tappe importanti della storia dei rapporti fra città e contado.
Un altro aspetto che, in effetti, molte ricerche degli ultimi trent’anni hanno permesso di
approfondire, è quello delle tappe e delle scansioni in cui si articolano le relazioni fra città
e contadi nella loro lunga, secolare durata.
P. GUGLIEMOTTI, Territori senza città. Riorganizzazioni duecentesche del paesaggio politico nel Piemonte meridionale,
“Quaderni Storici”, XXX (1995), fasc. 90, pp. 765-798. Sulla decadenza degli antichi centri municipali, cfr. G.
LA ROCCA, “Fuit civitas prisco in tempore”. Trasformazione dei “municipia” abbandonati dell’Italia occidentale nel sec. XI,
in AA.VV., La contessa Adelaide e la società del secolo XI, Susa 1992 (“Segusium”, 32, 1992), pp. 103-140. Fra le
numerose monografie dedicate a centri e a borghi nuovi cfr. E. PANERO, Comuni e borghi franchi nel Piemonte
Medievale, Bologna 1988; G. GULLINO, Una “quasi-città” dell’Italia nord-occidentale, popolazione, insediamento e
agricoltura a Bra fra XIV e XVI secolo, Cavallermaggiore 1996.
39 Cfr. ad esempio, in un’ampia analisi su un centro toscano, Colle di Val d’Elsa: Diocesi e città tra ‘500 e ‘600, a
cura di P. Nencini, Castelfiorentino 1995.
40 Per lo stato pontificio vedi ad esempio A. LANCONELLI, R.L. DELLA PALMA, Terra, acque e lavoro nella
Viterbo medievale, Roma 1992; S. CAROCCI, Tivoli nel basso Medioevo. Società cittadina ed economia agraria, Roma
1988; vari spunti anche in ID., Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e
città..., cit., pp. 151-224. Per il Regno di Napoli cfr., per alcune situazioni particolari, C. MASSARO, La città e i
casali, in Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di B. Vetere, Roma-Bari 1993, pp. 345-393; AA.VV., I
mille anni dei casali di Cosenza, Spezzano Piccolo 1995.
38
I momenti importanti da prendere in considerazione, e su cui sono stati numerosi gli
studi, non sarebbero pochi: dall’età precomunale (giustamente si è sottolineata la forza
pervasiva della città, e il rilievo di un rapporto città-territorio anche prima dell’avvento del
comune41), all’età dell’affermazione del comune42, alle diverse fasi e forme della “conquista
del contado”, momento fondante di assetti di lunga durata43, alle trasformazioni indotte
dalla crisi del Trecento44.
Mi limiterò a due momenti soltanto, che costituiscono tuttavia, a mio parere, due
scansioni assai forti, nella lunga vicenda che va dalla piena età comunale alla fine
dell’Antico regime: il momento dell’impiantarsi dello stato regionale, e poi quello,
cinquecentesco, dell’affermarsi, in Lombardia e nel Veneto, di “Contadi” e “Territori”.
a) l’avvento degli stati regionali.
L’avvento degli stati regionali rappresentò un grosso punto di svolta, perché nei rapporti
sino ad allora bilaterali fra la città e il suo contado introdusse un terzo attore, il principe,
ovvero la città dominante. Fu un evento questo che non toccò il “pacifico et populare stato”
lucchese, sempre piú solo, nella sua forma di repubblica monocittadina. Ma in altre regioni
dell’Italia già “comunale” i rapporti fra le città e i loro antichi territori assunsero
caratteristiche nuove, e vennero a riconfigurarsi in forme diverse nei diversi stati: forme
che condizionarono a loro volta la fisionomia complessiva di questi stati medesimi45.
Per l’area toscana, ad esempio, gli studi compiuti mettono ben in luce l’energia con cui
le città dominanti intervennero a rimodellare gli equilibri e i rapporti di forza nei loro
domini, ridimensionando drasticamente l’influenza delle città suddite. Erano forse, queste
Cfr. ad es. G. SERGI, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere. Le aree delle Marche di Ivrea e di
Torino, in Piemonte medievale. Forme di potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 5-27; G.
TABACCO, La città vescovile nell’Alto Medioevo, in Modelli di città, cit., pp. 327-345; C. WICKHAM, La montagna e
la città, trad. it., Torino 1995.
42 A.I. PINI, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna 1996, R. BORDONE, La città comunale, in
Modelli di città, cit., pp. 347-370; P. CAMMAROSANO, Le campagne nell’età comunale (metà sec. XI-metà sec. XIII),
Torino 1983. Si veda anche di H. KELLER, Introduzione all’edizione italiana in ID., Signori e vassalli nell’Italia.
Secoli XI-XII, Torino 1995 (ed. originale Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien, Tübingen 197 9),
pp. XI-XLVIII.
43 Si rinvia, per l’Italia settentrionale, alla sintesi di VARANINI, L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia
padana, cit.
44 Una recente messa a punto in Italia 1350-1450, cit. In particolare cfr. M. GINATEMPO, Dietro un’eclisse:
considerazioni su alcune città minori dell’Italia centrale, ivi, pp. 35-76.
45 Si veda ora, in una prospettiva europea, Principi e città, cit., pp. 433-447. Cfr. anche CHITTOLINI, Cities,
“City-states”, and regional states in north-central Italy, cit.; E. FASANO GUARINI, Centro e periferia,
accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello stato.
Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P.
Schiera, Bologna 1994, pp. 147-175.
41
ultime, più deboli – almeno alcune di esse – delle città suddite padane: a causa dei
caratteri dell’urbanesimo antico, sia dalla sua evoluzione fra i secoli alti e centrali del
medioevo (con la crisi di alcune antiche civitates-diocesi, e con l’affermarsi di terre e
borghi nuovi, di rango non urbano)46. Ma risultò decisiva soprattutto la forte determinazione
politica dei due centri dominanti nella regione, Firenze e Siena. Storie diverse, le loro, e
anche cronologicamente sfasate: ma che hanno forse in comune quella che per Siena è
stata recentemente definita da Odile Redon una volontà di negazione dell’identità urbana
dei centri antagonisti47: per cui la preminenza della dominante sulle città soggette e sul
loro territorio veniva ad assimilarsi a quella di un centro urbano sul suo contado. L’impatto
di questa politica risultò forte soprattutto nella Toscana fiorentina (Arezzo, Pisa o Pistoia
erano “città” assai piú che Roselle o Grosseto), dando vita a un modello di stato che, pur
registrando modifiche e aggiustamenti costituzionali lungo tutto il Quattrocento, appare per
questi aspetti come diretto antecedente degli ordinamenti centralistici di Cosimo I. Un
modello di stato regionale ispirato dunque a un modello comunale e cittadino, piuttosto che
a quello – di regolato e articolato equilibrio fra forze diverse – che troviamo messo in opera
in altri stati italiani quattrocenteschi: un modello sostenuto con rigidezza e coerenza,
duramente costrittivo nei confronti delle città, indebolite anche demograficamente ed
economicamente, rispetto alle quali trovavano spazio centri minori e minori comunità
rurali, direttamente dipendenti dalla dominante48.
Netta è la contrapposizione della Toscana con un altro modello di stato cittadino, quello
della Terraferma veneta, in cui il rilievo alle città come interlocutori e principali referenti
dell’azione del governo centrale è stata sottolineata come caratteristica peculiare
dell’organizzazione dello stato: e ciò anche se il rapporto delle città con Venezia appare
graduato secondo una gerarchia di poteri e di equilibri assai differenziata: equilibri
46
47
Cfr. sopra, nota 29.
O. REDON, L’espace d’une cité. Sienne et le pays siennois (XIIIe-X1Ve siècles), Rome 1994, p. 158.
48 Sui rapporti fra Firenze e le città soggette si è svolto recentemente un seminario di studi su Lo stato
territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, coordinato da W.J. Connell e S. Zorzi, e tenutosi
a San Miniato presso il Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo (7 -8 giugno 1996): si vedano in
particolare (gli Atti sono in corso di stampa) G. PETRALIA, Fiscalità, politica e dominio nella Toscana fiorentina
alla fine del Medioevo; A. ZORZI, La formazione e il governo del dominio: pratiche, uffici, giurisdizioni. Vari contributi si
possono trovare anche negli Atti del convegno La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, a cura di R. Fubini, 3
volumi, Pisa 1996 (ad es. i saggi di S.R. EPSTEIN, Stato territoriale ed economia regionale nella Toscana del
Quattrocento, vol. III, pp. 869-90, di P. SALVADORI, Lorenzo dei Medici e le comunità soggette fra pressioni e
resistenze, ivi, pp. 891-906, di W.J. CONNELL, Appunti sui rapporti dei primi Medici con le comunità del dominio
fiorentino, ivi, pp. 907-917, di G. PETRALIA, Pisa laurenziana: una città e un territorio per la costruzione dello “stato”,
ivi, pp. 955-980.
largamente rispettosi delle libertà municipali da parte di Venezia (nei casi di Verona,
Brescia, Vicenza, ad esempio); e invece condizionati, come a Padova e a Treviso, da una
forte esigenza di controllo politico ed economico da parte della Dominante49.
Ugualmente largo sembra il riconoscimento dei diritti “territoriali” delle città nello stato
milanese: e ciò nonostante le concessioni a favore di comunità di federazioni alpine, borghi
privilegiati, terre separate, signorie rurali e feudi. Queste modifiche non giunsero a
sovvertire radicalmente l’ordinamento precedente, e a dar vita a un ordinamento del tutto
nuovo, anche se intaccarono sensibilmente (in aree marginali) l’area di piú diretto dominio
urbano. Il feudo, che pure si era esteso profondamente sin nel cuore degli antichi distretti
urbani, risultò progressivamente regolato da norme che lo disciplinavano entro le strutture
provinciali di governo50. I vecchi stati cittadini insomma furono conservati nei loro nuclei
centrali e piú ricchi, e offrirono le linee di fondo del disegno del nuovo ordinamento
provinciale. Donde anzi quell’accentuarsi in Lombardia del peculiare antico policentrismo
dell’età comunale51: pluralismo urbano e tenuta delle città che non risultarono gravemente
penalizzate dall’avvento degli Spagnoli.
Ancora diversa era la situazione nello Stato pontificio, ad esempio, e nelle sue differenti
province; o nei domini estensi; o nel Trentino52: i rapporti città/contado venivano
configurandosi in modi assai differenziati, a seconda delle differenti politiche dei governi
centrali nei confronti delle città suddite. Le questioni – economiche, fiscali, giurisdizionali
– che toccavano i problemi dei rapporti fra città e territori costituirono un aspetto assai
delicato nell’azione di governo di tutti gli stati rinascimentali; e le soluzioni che nei diversi
contesti si adottarono ebbero conseguenze importanti sugli assetti complessivi di quegli
49 G.M. VARANINI, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento,
Verona 1992, pp. XXXV-LXVI, cit. a p. XLIX.
50 G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi, cit., pp. 227 ss.
51 A scapito anzi del connotarsi di una forte identità regionale, o di un “ambiente milanese” paragonabile a
quell’ “ambiente veneto” che Cozzi ha riconosciuto per l’età moderna nella Terraferma veneta “di qua del
Mincio”: G. COZZI, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli
XV-XVIII, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Strocchi, vol. IV/2, Il Seicento,
Vicenza 1985, pp. 495-539. Sull’idea di “Lombardia” nell’età moderna cfr. B. VIGEZZI, La Lombardia
moderna e contemporanea: un problema di storia regionale, in Dallo Stato di Milano alla Lombardia contemporanea, vol. I, a
cura di S. Pizzetti, Milano 1980, pp. 11-49.
52 Cenni in G. CAROCCI, Governo papale e città nello Stato della Chiesa, cit.; A. DE BENEDICTIS, Repubblica per
contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995; A. GARDI, Lo stato in provincia.
L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna 1994; T. DEAN, Land
and Power in Late Medieval Ferrara. The Rule of the Este, 1350-1450, Cambridge 1988; M. FOLIN, Il sistema politico
estense fra mutamenti e persistenze, in “Società e Storia” XX (1997), pp. 549 ss; G. POLITI, Crisi e civilizzazione di
un’autotocrazia, in “Studi Veneziani”, n.s., XXIX (1995), pp. 103-142.
stati53: con una varietà di esiti che si rifletté sui caratteri assai differenziati che la storia dei
rapporti città e contado ebbe in seguito, nelle diverse regioni italiane.
b) L’affermazione cinquecentesca di contadi e di territori in area padana.
In area padana in particolare la storia dei rapporti città e contado conobbe sviluppi
importanti ancora nel Cinquecento e nel Seicento. In area padana appunto, dove il potere
della città si era mantenuto piú forte; non in altri stati, dove il rapporto città/contado si era
ormai profondamente modificato (e non in Toscana, in conseguenza del diverso articolarsi
del rapporto fra le vecchie civitates e le campagne coi rimaneggiamenti avviati già nel
primo Quattrocento, e poi consolidati dall azione di Cosimo, come si è accennato, nei
decenni centrali del Cinquecento).
Il pieno e tardo Cinquecento in effetti vide l’affermarsi, rispettivamente nello stato
milanese e nello stato veneto, dei “Contadi” e dei “Territori”, di quegli organismi, cioè,
che riunivano e rappresentavano le comunità rurali delle diverse province, e che erano
abilitati a trattare con la città e col governo centrale nelle questioni riguardanti le imposte.
L’antica opposizione dei centri urbani54 poté essere infine superata in questi decenni
centrali del Cinquecento, in cui le crescenti esigenze finanziarie suggerivano agli stati un
atteggiamento piú aperto e condiscendente che in passato verso le rivendicazioni dei
contadini. Si trattò di un momento importante perché per la prima volta le comunità rurali
ebbero voce propria e riconosciuta e ottennero formali organismi di rappresentanza, i quali
furono anzi chiamati a esercitare funzioni amministrative e fiscali55.
I nuovi “corpi territoriali rurali” in effetti operarono con grande zelo, e fecero
efficacemente valere la loro capacità di contrattazione, riuscendo a introdurre meno
ineguali criteri di ripartizione del carico fiscale, e a ridimensionare di fatto i poteri e
l’influenza della città.
Assetti politici e anche economici: cfr. P. MALANIMA, La formazione di una regione economica: la Toscana nei
secoli XV-XVI, in “Società e storia”, VI, 1983, pp. 229-269; M. MIRRI, Formazione di una regione economica.
Ipotesi sulla Toscana, sul Veneto, sulla Lombardia, in “Studi veneziani”, XI (1986), pp. 47-59; M. PRAK, Regions in
Early Modern Europe, in AA.VV, Debates and controversies in economic history (Eleventh International Economic
History Congress, A Session), Milano 1994, pp. 19-55; AA.VV., Lo sviluppo economico regionale in prospettiva
storica. Atti dell’incontro interdisciplinare, Milano 18-19 maggio 1995, a cura di L. Mocarelli, Milano 1996.
54 Sulla ostilità della città a riconoscere istituzioni rappresentative delle comunità rurali, cfr. M. BERENGO,
La città di antico regime in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Bologna 1975,
p. 34.
55 Riprendo da CHITTOLINI, Città, comunità e feudi....,cit., pp. 211-226, a cui si rinvia anche per le indicazioni
bibliografiche.
53
Nell’antica e spinosa questione della divisione delle quote fra estimo civile ed estimo
rurale si giunse all’imposizione del principio secondo cui i beni acquistati da proprietari
cittadini avrebbero dovuto continuare ad essere compresi negli estimi rurali, e i cittadini
avrebbero dovuto essere tenuti a sostenere gli oneri corrispondenti. La mancata
applicazione di questo principio aveva comportato sperequazioni assai gravi, in
conseguenza soprattutto delle continua penetrazione della proprietà fondiaria cittadina nei
contadi, cui non corrispondeva un tempestivo e proporzionale adeguamento delle quote
d’estimo. Ugualmente trovò applicazione piú ampia l’altro vecchio e disatteso principio
“bona solvant ubi sita sunt”: da intendere nel senso che i cittadini per i loro beni allibrati
negli estimi delle comunità del territorio, avrebbero dovuto sostenere, al pari dei rurali,
tutti gli oneri gravanti su di essi: non soltanto quelli che colpivano la parte “reale”
dell’estimo, ma anche quelli già considerati come “personali”, e quindi non applicabili ai
cittadini medesimi (ad esempio gravezze per alloggiamenti di soldati, altre spese militari,
fortificazioni). Si pose ugualmente un limite al fenomeno, un tempo macroscopico, delle
concessioni della cittadinanza ai rurali, e ai privilegi che ciò comportava (tanto che la
civilitas forensis divenne nel corso del Cinquecento una condizione assai meno ricercata).
Nella secolare storia delle relazioni fra città e contado, dopo che lo stato regionale nel
Quattrocento aveva posto le premesse di un rapporto meno ineguale fra centro urbano e
territorio, il periodo che iniziò negli ultimi decenni del Cinquecento rappresentò una fase
nuova, la cui portata è difficile sottovalutare: molti degli antichi motivi di sperequazione e
di contrasto fra cittadini e rurali cominciarono alfine ad essere superati, e la distinzione fra
i due ceti, che pure rimase ben netta, perse le sue piú forti connotazioni fiscali. Già dai
primi decenni del Seicento in effetti i corpi territoriali vennero perdendo il carattere di
strumento di lotta di un ceto di rurali contro un ceto di cives, assumendo piuttosto sempre
piú netta la fisionomia di istituzioni rappresentative di interessi diversificati, la fisionomia
di corpi, “pubblici”, disciplinati e regolamentati all’interno degli ordinamenti statali. È
una fisionomia evidente anche per il ruolo sempre piú attivo dei cives all’interno dei corpi
territoriali medesimi, non solo come tecnici (consulenti, procuratori, etc.), ma anche per
diretto e legittimo interesse: dopo cioè che, con la “chiusura” dei ruoli, le terre “rurali” da
loro acquistate continuarono a risultare iscritte negli estimi locali.
5. Verso una nuova stratificazione sociale nelle campagne.
Quel “tramonto dello stato cittadino”, che Antonio Anzilotti aveva intravisto nei decenni
centrali del Settecento56, può dunque essere forse anticipato nel Veneto e in Lombardia
(per quanto riguarda il tramonto del controllo fiscale dei cives sulle campagne) al secondo
quarto del secolo XVII57. Ma l’attenuarsi degli antichi motivi di contrasto non impedì che
altri se ne introducessero, in forme nuove, e che si preannunciassero altre contrapposizioni
di ceti ed interessi, piú “moderne” occasioni di conflittualità: ad esempio, fra proprietari e
contadini.
Alle modifiche istituzionali sopra ricordate corrisponde infatti, all’interno della società
rurale, un differenziarsi di ceti e di gruppi sociali che prima risultava forse meno facile da
cogliere. Se il quadro del mondo rurale risultava segnato fra ‘400 e ‘500 da una certa
uniformità indistinta58, ora distinzioni piú nette sembrano evidenziarsi. Da un lato troviamo
quei “poveri homeni”, quei “contadini disperati” che i documenti relativi alle lotte dei
“Contadi” e dei “Territori” cosí sovente evocano, e presentano come protagonisti principali
del movimento di rivendicazione, ma che non sempre ne condividono gli obiettivi più
generali, le iniziative più pesanti e dispendiose, e muovono accuse di malversazioni e
ruberie o di gestione autoritaria, agli uomini di governo dei corpi territoriali (personaggi,
questi ultimi, spesso benestanti, provenienti dai centri piú ricchi, e che ai contadini
finivano per apparire estranei e sospetti, anche per la loro cultura legale e cancelleresca,
per la frequentazione di tribunali, uffici e ambienti urbani). E non stupisce, da parte di
questi stessi ceti piú poveri, l’insoddisfazione davanti alle acquisizioni raggiunte, di assai
minor beneficio per i più miseri, e spesso ritenute insufficienti a sanare una perdurante
condizione di minorità e di indigenza. È un’insoddisfazione, insomma, che trova riscontro
nel quadro di povertà, e anzi di impoverimento (e di oppressione fiscale, appunto) che
molte ricerche continuano a mettere in luce per tanta parte della popolazione contadina fra
Cinque e Seicento.
Ma dall’altro lato ecco che emergono esponenti di ceti abbienti, proprietari, fittavoli,
mercanti, notai; piccoli villaggi, ancora, ma soprattutto “comunità bone”, terre grosse e
56 A. ANZILOTTI, Il tramonto dello stato cittadino, in Movimenti e contrasti per l’unità italiana, a cura di A.
Caracciolo, Milano 1964, p. 3-33.
57 Cosí per il Vicentino: cfr. L. PEZZOLO, Uomini e istituzioni tra una città soggetta e Venezia: Vicenza
1630-1797, in Storia di Vicenza, III/1, L’età della Repubblica veneta (1404-1797) a cura di F. Barbieri e P.
Preto, Vicenza 1989, pp. 115-146, in particolare cap. 4 (“Città e contado: il tramonto di un conflitto”), pp.
143-145.
58 Anche per la Lucchesia Berengo notava che “nella uniformità che domina la campagna lucchese,
difficilmente si delineano volti e figure individuali” (pochi osti, semmai mugnai, pochi nuclei familiari
dirigenti). “Solo a Camaiore si è formata una sorta di aristocrazia comunale”: ma si tratta di un caso
particolare, senza rispondenze nel resto del contado: BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento,
Torino 1965, pp 327-28.
centri semiurbani, già per parte loro privilegiati: quelle élites rurali che spesso ritroviamo
ai vertici dei corpi territoriali. Per la Terraferma veneta si è notato che soprattutto nei
borghi e nelle terre maggiori “si stava formando una società piú complessa che in altre
zone dei distretti, una società che registrava altresí una piú articolata stratificazione sociale
ed economica, alla cui sommità si trovavano persone che basavano le loro fortune su
attività agricole e mercantili”. Dall’ampia base costituita da medi e grossi fittavoli e
coltivatori, capaci spesso di profittare della particolare congiuntura economica del secolo,
sarebbero usciti mercanti, intermediari, appaltatori di dazi, notai, medici, ecclesiastici, a
costituire un gruppo sociale provvisto ormai di una sua identità rispetto al mondo urbano:
una sorta di “borghesia rurale”, formata da “notai, mercanti, fittanzieri che popolano le
campagne in misura forse sconosciuta nel passato”; “forze nuove che proprio nelle vicende
fiscali contro la città dimostrano la propria forza e l’energia che sono in grado di
sprigionare”59.
A loro vantaggio in effetti andavano soprattutto le acquisizioni dei contadi: nel quadro di
una vivacità e consistenza anche economica di un vasto settore del mondo rurale, un
quadro oggi certo assai meno connotato da quel seguo pesante di crisi e di decadenza che
fino a qualche tempo fa marcava le interpretazioni dell’economia del Seicento60. I caratteri
dell’economia dell’Italia centrosettentrionale – fortemente influenzati sempre dalla natura
dei rapporti fra centro urbano e territorio – sembrerebbero riflettere i nuovi equilibri che si
sono delineati: e cosí come strettamente legato all’egemonia politica urbana era stato il
modello economico che si era affermato in età comunale, ugualmente ora le condizioni
delle attività economica, manifatturiere e agricole appaiono strettamente correlate alla
nuova situazione che si è venuta disegnando.
Cosí è per la nuova “geografia manifatturiera” che prende corpo, cioè la
rilocalizzazione, in una regione costituita dalle piccole città, dai borghi e dalle campagne
densamente popolate dalle regioni pedemontane che vanno dal Piemonte propriamente
detto fino al Veneto, di un insieme complesso e assai articolato di fabbricazioni tessili e
metallurgiche, cui corrisponde la nascita di un tessuto industriale radicalmente diverso,
nella sua organizzazione, da quello essenzialmente urbano, che era stato dominante fra il
XIII e il XVI secolo61.
59 L. PEZZOLO, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo ‘500, Venezia
1990, pp. 239-244.
60 P. MALANIMA, Italian economic performance: output and income, 1600-1800, in Economic Growth and
structural change, a cura di J.A. Maddison e H. Van der Wee, Milano 1994, pp. 59-70; M. AYMARD, La
fragilità di un’economia avanzata: l’Italia e le trasformazioni dell’economia europea, in Storia dell’economia
italiana, a cura di R. Romano, vol. II, L’età moderna: verso la crisi, Torino 1991, pp. 5-137, pp. 80 ss.
61 AYMARD, La fragilità di un’economia avanzata, cit., p. 98.
La tendenza si era già delineata in Lombardia nel secolo XV: tendenza a una nuova
dislocazione di centri produttivi, nel quadro appunto di “una crescente integrazione
regionale”, di “un sistema piú equilibrato di relazioni fra città, campagna e potere
centrale”, in un’economia “meglio integrata e piú dinamica”62. E se per allora erano stati
prevalentemente alcuni centri “semiurbani” che erano cresciuti, beneficiando di quella
politica di privilegi, separazioni e concessioni fiscali ed economiche promossa da Visconti
e Sforza, fra XVI e XVII secolo si ebbe invece una piú capillare diffusione di manifatture
nel territorio, anche in centri piccoli e minimi63: un sistema produttivo articolato e diffuso
in cui si viene individuando il fondamento di una tenuta economica complessiva, o
addirittura (ancora in Lombardia) il presupposto del nuovo sviluppo settecentesco – anche
se in dimensioni ormai lontane da quelle delle economie avanzate europee.
Il riflesso della nuova geografia amministrativa si ritrova anche nell’economia agraria, e
nel mercato dei prodotti agricoli: settori in cui le città appaiono con una fisionomia nuova,
di piú spiccata e innovativa “imprenditorialità”64 come poli di un’attività di commercio di
derrate granarie su spazi economici più aperti e vasti rispetto all’antica geografia dei
contadi65.
Domenico Maselli
Lucca tra Riforma e Controriforma
EPSTEIN, Town and Country, cit.; ID., Manifatture tessili e strutture politico-istituzionali nella Lombardia
tardo-medievale. Ipotesi di ricerca, in “Studi di storia medioevale e di diplomatica” 14, 1993, pp. 55-90.
Sull’economia lombarda del Quattrocento P. MAINONI, Politiche fiscali, produzioni rurali e controllo del territorio
nella signoria viscontea (XIV-XV), ivi, pp. 25-55. EAD., “Viglebium opibus primum”, in Metamorfosi di un borgo.
Vigevano in età visconteo-sforzesca, Milano 1992, cit. pp. 193-266.
62
63 V. BEONIO BROCCHIERI, “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”: structures economiques et familiales
dans les campagnes de la Lombardie entro 16° et 17° siècle, tesi di dottorato, Ecole des Hautes Etudes en Sciences
sociales, Paris, 1995; G. VIGO, Uno Stato nell’impero. La difficile transizione al moderno nella Milano di età spagnola,
Milano 1994.
64 P. LANARO, “Esser famiglia di consiglio”: social closure and economic change in the Veronese patriciate
in the sixteenth century, “Renaissance Studies”, 8 (1994), pp. 428-438.
65 P. CORRITORE, Il processo di “ruralizzazione” in Italia nei secoli XVII-XVIII. Verso una regionalizzazione, in
“Rivista di storia economica”, n.s., 10 (1993), pp. 353-407.
Devo scusarmi perché non ho avuto né il tempo né la serenità necessaria per preparare
un intervento all’altezza dell’occasione.
Ringrazio l’Amministrazione Comunale per questo convegno che ritengo importante, sia
oggettivamente che soggettivamente, perché mi permette di rivivere un passato ormai
lontano, dal momento che parlavamo con Marino Berengo del libro su Lucca che egli aveva
allora in preparazione, a Napoli ed in Spagna, negli anni 1956-571. Sono ormai passati 39
anni di amicizia e di vita che non possono essere dimenticati. Per questa ragione,
nonostante i pressanti impegni politici di questi giorni, ho voluto essere qui per cogliere
l’occasione datami con questo convegno.
Credo sia utile fare qualche riflessione sull’argomento della Riforma e Controriforma
che ha caratterizzato gran parte dei miei interessi di studioso2.
Mi pongo tre domande suggeritemi dal libro di Berengo. Egli afferma3 che gli aspetti
religiosi, pure in sé importanti, sono marginali nella storia di Lucca, ed in realtà la Riforma
non avrebbe avuto una grande importanza nella storia posteriore della città. Allora non
condivisi questa opinione. A distanza di tanti anni, le mie conclusioni sono abbastanza
vicine alle sue per quel che riguarda Lucca, come dirò dopo, ma non per quanto riguarda
l’importanza che la riforma cattolica e quella protestante hanno avuto nella vita delle nostre
città e nella presenza italiana nel mondo. Cercherò, in seguito di spiegare questa frase. Le
domande che mi pongo sono:
1. Vi fu un impatto della Riforma Protestante sulla vita delle città italiane ed in
particolare di quelle mercantili, e quale fu il ruolo di Lucca?
2. Vi fu un rapporto dialettico? E in caso positivo, di che tipo tra Riforma e
Controriforma, anche nella veste di Riforma Cattolica?
3. Quale fu l'impatto della Controriforma e della Riforma Cattolica nella vita cittadina?
E si può parlare, in questo caso, di successo o di insuccesso, ed in quale misura?
Queste tre domande contengono il senso della nostra riflessione su questo fenomeno cosí
importante per la storia, non solo di Lucca, ma di tutta l’Italia.
MARINO BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi 1965. Trascorremmo
insieme con Berengo l’anno 1956-57 all’Istituto Storico Italiano di Napoli e, poi, l’estate 1957 per una ricerca
nell’ “Archivo General” di Simancas.
2 Posso richiamare qui solo alcuni di quegli scritti:
DOMENICO MASELLI, Saggi di Storia ereticale lombarda al tempo di S. Carlo, Napoli, SEN, 1979 che raccoglie i
lavori giovanili, i numerosi articoli per l’Accademia di San Carlo; piú recentemente:
DOMENICO MASELLI, Alla ricerca delle radici della Riforma Protestante e della Riforma Cattolica in Italia,
Firenze, Edizioni Fedeltà 1994, parte prima.
3 MARINO BERENGO, op. cit.
1
Comincio ad affrontare la prima domanda. Vi fu una riforma in Italia ed una riforma
italiana? Vi sono molte risposte possibili: direi che quella che Massimo Firpo ed altri
hanno recentemente dato con molta ricchezza di particolari, è un drastico no4. Non vi fu
una riforma in Italia. Ci fu invece quel movimento di dotti, all’interno della Chiesa
Cattolica che fu l’Evangelismo italiano e poi ci furono echi sporadici della riforma
straniera, subito emarginati e presto distrutti. Questa posizione si scontra, però, con
presenze non marginali come quelle a Lucca, in Calabria, in Piemonte, in Veneto ed in
Valtellina, conclusesi dopo molti anni e con la persistenza di comunità di lingua italiana
all’estero, o delle stesse Valli Valdesi, dove la Riforma ha avuto seguaci fino ad oggi5.
Vi è un’altra grande risposta, quella tradizionale, che ha tra i suoi sostenitori
grandissimi studiosi laici, protestanti, cattolici. Questa linea comincia nell’ottocento con
Emilio Comba6 e continua con il Church7, con Delio Cantimori8 e possiamo giungere ai
nostri giorni, fino al magistrale saggio di Salvatore Caponetto sulla Riforma in Italia9.
Secondo questa linea storiografica, ci fu una riforma in Italia, o, piú che altro, vi furono
delle grosse individualità di riformatori, ora identificati con cura nel libro del Caponetto,
che considero la sintesi di questa interpretazione. Ho notato, e lo dico, non per vanità, ma
per valutare il taglio del libro, che le mie ricerche su Milano non sono citate da Caponetto,
che pure è un amico, perché non rientrano nel quadro generale di questa interpretazione.
Se si tratta soltanto di grandi individualità che più o meno sull’eco di grandi riformatori
tedeschi, svizzeri, spagnoli, come Juan de Valdes10, hanno agito nel nostro paese, possiamo
parlare di riformatori, ma non di una riforma. Condivido la convinzione di Cantimori che
4 MASSIMO FIRPO, Il processo inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone, I, Roma, Istituto Storico Italiano per
l’età moderna e contemporanea, 1981.
MASSIMO FIRPO-DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone II-V, Roma,
Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea 1981-1989.
SILVANA SEIDEL MENCHI, Sulla fortuna di Erasmo in Italia, Ortensio Lando ed altri eterodossi della prima metà
del Cinquecento, Rivista Storica Svizzera XXIV, 1974, pp. 541-575.
PAOLO SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento, questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto
Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea 1979.
5 Per i Valdesi, vedi AMEDEO MOLNAR, Storia dei Valdesi, I, Torino, Claudiana, 1974; AUGUSTO
ARMANDO HUGON, Storia dei Valdesi, II, Torino, Claudiana, 1974; VALDO VINAY, Storia dei Valdesi, III,
Torino, Claudiana, 1980.
6 EMILIO COMBA, I nostri Protestanti, II, Firenze Claudiana 1887.
7 FREDERIC C. CHURCH, I Riformatori Italiani, Firenze, La Nuova Italia 1935.
8 DELIO CANTIMORI, Eretici Italiani del Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia 1939.
9 SALVATORE CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana 1992.
10 Sull'importanza del Valdès nella storia italiana, vedi S. CAPONETTO, op. cit.; vedi anche MASSIMO
FIRPO, Tra Alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del
Cinquecento italiano, Firenze, Olschki 1990.
non si tratti solo di riformatori, ma di riformatori ed eretici, dal momento che, accanto alla
presenza di uomini, che poi entreranno nell’ortodossia luterana o calvinista, come Vergerio
e Vermigli11, vi sono tanti altri personaggi che non avranno mai alcuna forma di ortodossia,
come Fausto e Lelio Socini12.
Secondo questa interpretazione, dobbiamo pensare ad una serie di vari personaggi
fondamentali che, però, non hanno mai prodotto qualcosa di organico e di complessivo che
potremmo chiamare Riforma italiana. Da questo punto di vista, oltre alle posizioni di
Caponetto, di Rotondò13, di Cantimori, vorrei ricordare l’ultimo libro di Gonnet14 che tenta
di rivedere gli studi cantimoriani e questa stessa interpretazione. In realtà, credo che sia
possibile una terza risposta che, naturalmente, non esclude, ma assorbe le altre due.
È evidente che vi fu un grande movimento di studiosi, di dotti di formazione umanistica
che, entrato in rapporto con la Riforma, ha dato risposte totalmente diverse da quelle
protestanti. È noto che l’erasmismo ebbe molti contatti con gli elementi luterani. Ormai, ad
esempio, vari scritti15 dimostrano che è importante tener conto di come siano entrati in
Italia elementi e pensieri di origine luterana. Occorre ricordare anche, però, quale effetto
abbiano avuto, nel nostro paese, i grandi movimenti di riforma medioevale che non sono
mai morti e che sono molto anteriori a Lutero. La loro risposta è stata, talora, diversa da
quella che darà la Riforma Protestante.
Per questo desidero esaminare riforma protestante e riforma cattolica come un
continuum, sia pure molto diversificato. Non è strano che la città di Lucca, dove la riforma
protestante ha avuto una presenza piú massiccia che altrove, fosse stata testimone, nel
quattrocento, di un grande processo contro i fraticelli che ha riguardato molte delle
categorie sociali piú tardi interessate dalla riforma16.
D’altra parte, gli stessi valdesi che costituiranno lo zoccolo duro e permanente del
protestantesimo italiano, sono il residuo dei grandi movimenti medioevali di tipo
pauperistico ed evangelico.
Per Vermigli, vedi, in particolare, PHILIP McNAIR, Peter Martyr in Italy, An Anatomy of Apostasy, Oxford,
Clarendon Press 1967.
12 LELIO SOZZINI, Opere, Edizione critica a cura di ANTONIO ROTONDO, Firenze Olschki 1986.
13 Di ANTONIO ROTONDO ricorderò, tra i molti scritti, Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento,
Torino Giappichelli 1974.
14 GIOVANNI GONNET, Il grano e le zizzanie. Tra eresia e riforma secoli XII-XVI, Soveria Mannelli Rubbettino
1989 (vol. I-III).
15 Tra gli altri citeremo due raccolte di saggi: Lutero nel suo e nel nostro tempo, Torino, Claudiana 1983 e Martin
Luther e il Protestantesirno in Italia, Milano, Istituto Propaganda Libraria 1984.
16 Vedi tesi di laurea di FAUSSIA CERCHIAI, Fraticellismo e Valdismo in Toscana nei secoli XIV e XV discussa il
26 giugno 1995 presso la Facoltà di Magistero di Firenze. Il processo cui ci riferiamo e di cui la sig.na Cerchini
sta preparando l’edizione critica, si trova nella Biblioteca Governativa di Lucca, Manoscritto 1249.
11
Il Molnar mise chiaramente in evidenza che nel corso del secolo XIV, valdesi, fraticelli
ed apostolici erano in stretta interdipendenza tra loro17.
Cosí si può spiegare il trasferimento, nel regno di Napoli, sotto la dinastia angioina, di
consistenti colonie valdesi a Manfredonia ed in Calabria. Non si può dimenticare che la
regina Sancha, moglie di Roberto d’Angio, aveva stretti rapporti con i fraticelli, tra cui il
fratello, Filippo di Maiorca.
La colonia valdese di Calabria18 ha tutto il carattere di una trasmigrazione della
popolazione di interi villaggi che conservavano, insieme alla religione, la lingua occitana e
costumi e tradizioni delle valli alpine. I valdesi, e quanto rimaneva degli altri movimenti
popolari ed evangelici medioevali, strinsero rapporti intimi con i fratelli boemi o hussiti,
permettendo al Molnar di parlare di internazionale valdo-hussita19.
Quando scoppia la riforma luterana e poi quella svizzera, il valdismo è ancora presente
in varie zone dell’Europa mediterranea ed ha tre nuclei in cui costituisce buona parte della
popolazione; in Piemonte, si situa attorno al Monviso, nell’alta valle del Po e nelle valli del
Chisone e del Pellice; nella Provenza, attorno a Merindol, ed in Calabria, a Guardia
Piemontese e nei paesi vicini.
Nel 1532, nel cosiddetto sinodo di Chanforan, le comunità valdesi accettano la riforma
secondo il modello svizzero, dopo lunghi colloqui di una loro delegazione con il riformatore
Farel, che poco piú tardi inviterà Calvino a fermarsi a Ginevra. Si tratta, quindi, di una
accettazione di massa che coinvolge tutta al popolazione e che è il punto d’arrivo di una
storia popolare, con una sua letteratura veramente rilevante, in provenzale20.
È storia nota come il nucleo di Merindol e quello calabrese siano stati distrutti dalla
persecuzione, anche se a Guardia Piemontese i superstiti hanno conservato la memoria
della loro storia, e certi elementi linguistici e di costume. Il nucleo alpino riuscí a resistere
alla crociata bandita dal Conte della Trinità e nel 1561, Emanuele Filiberto istituisce, con
il Trattato di Cavour, il ghetto alpino entro cui i valdesi potranno continuare la loro
esistenza di piccolo popolo chiesa: “L’Israel des Alpes”. Purtroppo non siamo in grado di
ricostruire la storia della trasformazione dei valdesi da eresia medioevale a chiesa popolare
di tipo riformato, perché i documenti che possediamo sono posteriori al trattato di Cavour21.
Sull’argomento vedi AMEDEO MOLNAR, op. cit., cap. 5. Vedi anche, DOMENICO MASELLI, Il valdismo
ed i movimenti spirituali francescani: appunti di una ricerca di équipe in Valdo e il Valdismo Medievale, in Bollettino della
Società di Studi valdesi n. 136 Dic. 1974, pp. 93 -99.
18 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., pp. 35-42.
19 Vedi AMEDEO MOLNAR, op. cit., cap. VII L’internazionale Valdo-Hussita, pp. 159-196.
20 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., cap. II La formazione del popolo-chiesa: da Chanforan al 1559,
pp. 13 -19.
21 AUGUSTO ARMAND HUGON, op. cit., pp. 21-32.
17
D’altra parte, fuori dalle valli valdesi, nel saluzzese e nel Veneto, c’è la stessa riforma di
tipo popolare che però verrà stroncata dalla controriforma22.
Per tornare a Lucca, gli studi di Simonetta Adorni Braccesi hanno portato alla luce degli
elementi che a me sembrano molto importanti. Alcuni li conoscevamo, altri no. Il primo è
quello che tutti sapevamo, cioè che molte famiglie lucchesi, quasi tutte della nobiltà e
dell’alta borghesia sono andate a Ginevra23. Sulla base dell’elenco del Galiffe, ho contato
62 nuclei familiari completi. Il secondo elemento è dato dal fatto che le famiglie trasferitesi
a Ginevra, pur partecipando attivamente alla vita pubblica della città, costituiscono una
comunità ben caratterizzata. Creano “le refuge italien a Gènève” che continuerà a vivere
fino a tutto il settecento e che, pur accogliendo esuli provenienti da altre regioni e città
italiane, sarà essenzialmente lucchese24.
Vi sono, certo, partecipazioni dalle altre zone di Italia, ma la “parte ortodossa”, quella
che appoggerà Calvino, che finanzierà l’Accademia Calviniana e che diventa da quel
momento il centro economico del mondo protestante europeo, è costituito dai lucchesi25.
Non si può dimenticare il fatto che Giovanni Diodati, nato a Ginevra da padre partito
giovanissimo da Lucca, senta il bisogno di definirsi “di nazion lucchese”, indice
dell’appartenenza di questi ginevrini ad una realtà che continua ad essere, anche fuori
dell’Italia, una comunità fiera delle proprie radici con le quali, in modo sotterraneo, ma
reale, continuerà ad avere rapporti. Lo stesso Diodati, notissimo nel mondo protestante
potrà trascorrere dei mesi a Lucca, sotto lo pseudonimo di Giovanni Coreglia, senza essere
scoperto26.
Non posso anticipare i risultati degli studi dell’Adorni Braccesi, ma si può affermare che
contatti sotterranei tra le varie comunità continueranno ad esistere per tutto il seicento.
Anche i rapporti tra riformati ed “eretici” non sono affatto esclusi. Si sbaglia quando
pensiamo che questi contatti non siano esistiti, se la riforma sociniana che si era rifugiata,
prima a Cracovia e poi in Transilvania, ricomparirà un secolo e mezzo dopo proprio a
Ginevra. Fu Jean Alphonse Turrettini, discendente da una famiglia lucchese di Ginevra
Per il Veneto, vedi EMILIO COMBA, op. cit., per il Piemonte, GIOVANNI JALLA, Storia della Riforma in
Piemonte, Firenze Claudiana 1914; per il Saluzzese, ARTURO PASCAL, Il Marchesato di Saluzzo e la Riforma
Protestante (1548-1588), Firenze 1960.
23 Tra i molti scritti di SIMONETTA ADORNI BRACCESI, vedi Una città infetta. La repubblica di Lucca nella
crisi religiosa del Cinquecento, Firenze Olschki 1994.
22
24 JEAN BARTHELEMY GAIFRE GALIFFE, Le refuge italien de Genève au XVI et XVII siècle, Genève
1881.
25 EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo II, Milano, Il Saggiatore 1971, pp. 371-378.
26 Vedi MILKA VENTURA, Il commento della Genesi di Giovanni Diodati, tesi di laurea discussa nella Facoltà di
Magistero di Firenze.
fino ad allora caratterizzata da profonda ortodossia calvinista, ad introdurre in Ginevra, agli
inizi del settecento, il socinianesimo27. I contatti europei che le grandi famiglie lucchesi
continuano a mantenere sia sul piano economico che su quello spirituale, con tutta
l’Europa, sono fondamentali. Vorrei ricordare che un Benedetto Turrettini fa condannare,
nel 1620, dal Sinodo di Dordrecht gli arminiani facendo un discorso poco teologico e molto
pragmatico “se non li condannate, noi di Ginevra non vi diamo più un soldo”28. Il discorso
era di una logica stringente e molto convincente. Lo stesso Benedetto Turrettini, però,
pochi anni dopo, va in Olanda a controllare che le famiglie dei pastori che sono stati
licenziati abbiano il necessario per vivere e un lavoro per mantenere i propri cari29.
Vi è un terzo punto delle ricerche sulla riforma a Lucca che, secondo me, ha un valore
piú vasto di quello che si può pensare riferendolo solo alla nostra città. L’Adorni Braccesi
ha dimostrato che, al di là delle famiglie nobili e di alta borghesia, la riforma a Lucca si
estese anche ai ceti popolari, comprendendo artigiani, piccoli commercianti, operai, che
resistettero a lungo prima di essere assorbiti dal conformismo generale.
La stessa cosa, anche se in modo meno generalizzato, l’ho verificata nelle ricerche fatte
per la Lombardia30.
Lo Chabod aveva dimostrato l’esistenza di una vera e propria comunità riformata a
Cremona, la cosiddetta “Ecclesia Cremonensis”, cosí come aveva sottolineato una
partecipazione dei ceti medi alla Riforma nello Stato di Milano31. Questa situazione è
durata per vari anni, come credo di avere provato. Ancora nel 1568 esistevano riformati
nelle strutture burocratiche dello stato, in quelle dell’esercito, in vari conventi francescani
ed agostiniani e tra mercanti, artigiani ed operai32.
Lo stesso doveva verificarsi in altre regioni d’Italia se il Pastore Egli di Coira poteva
scrivere nel 1568 al riformatore di Zurigo, Bullinger, di essere in grado di far
accompagnare una persona fino a Roma attraverso i contatti esistenti nelle varie città
d’Italia e ad un arrestato dall’Inquisizione viene trovata una mappa in cui sono indicate le
sedi di varie conventicole protestanti in Italia33.
Vedi EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo, III Milano, Il Saggiatore 1971, pp. 89-90.
EMILE G. LEONARD, Storia del Protestantesimo, II, cit., pp. 371-372.
29 Ibidem.
30 DOMENICO MASELLI, Saggi di storia ereticale lombarda al tempo di San Carlo, cit.
31 FEDERICO CHABOD, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, in Annuario del
R. Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea voll. II-III, 1936-1937, Bologna 1938, pp.
3-261.
32 Vedi DOMENICO MASELLI, Saggi, cit., cap. I. Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il
dominio di Filippo II: L’eresia e la sua repressione dal 1555 al 1584, pp. 11-88.
33 DOMENICO MASELLI, Saggi, cit., pp. 51, 84.
27
28
I punti di contatto tra la riforma europea e l’Italia erano costituiti da Ginevra e dallo
Stato dei Grigioni. Anche quando, dopo il 1568, la Riforma si poté dire definitivamente
sconfitta in Italia settentrionale, la Valtellina e le valli italiane dei Grigioni videro fiorenti
comunità riformate e mantennero forti rapporti commerciali con i vari stati italiani. Solo
dopo il “sacro macello” di Valtellina del 1622, si poté dire finita la riforma popolare in
Italia, anche se i riformati rimasero nelle valli valdesi, nei Grigioni italiani e continuarono
ad esistere comunità evangeliche italiane all’estero.
Mi pare quindi che si possa sostenere con piena convinzione, che sia esistita una vera
riforma italiana, avente leaders prestigiosi ed una presenza diffusa in tutte le classi sociali.
La seconda domanda che ci si pone, è questa: vi è un rapporto dialettico, e di che tipo,
tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica?
Non penso che, se come abbiamo appena sostenuto, la riforma italiana è esistita, essa
poi finisca improvvisamente. Per Lucca si può arrivare fino agli inizi del secolo XVII, e
forse oltre, seguendo i risultati degli studi di Carla Sodini34. In Lombardia si può far
coincidere questa fine con il 1568-70.
Perché cessa di esistere la riforma italiana? La risposta piú naturale è che la causa sia
stata la Controriforma. L’alleanza tra gli Stati italiani e la Chiesa Cattolica, anche se
inficiata dalla controversia giurisdizionale aperta allora tra i due enti35, ebbe, senza dubbio,
un forte impatto repressivo, che però, da solo, non mi sembra possa spiegare la fine di un
movimento cosí presente e ramificato nell’Italia di allora. D’altra parte il numero dei roghi
e delle condanne a morte è, in realtà, troppo esiguo per giustificare questa interpretazione.
Naturalmente, Lucca resta un caso a sé, come ha dimostrato l’Adorni Braccesi per
l’atteggiamento della classe dirigente lucchese nei confronti dell’Inquisizione Romana, che
non poté mai avere giurisdizione nella città e nello Stato lucchese. I nobili che hanno scelto
la Riforma, sono stati invitati, dal Governo della Repubblica, ad uscire e, condannati,
soltanto quando erano ormai sicuri all’estero. Si è trattato di un esodo avvenuto a tappe,
iniziato nel 1542, e non ancora concluso nel 158036.
A mio parere, è importante analizzare il valore che la Riforma Cattolica ha assunto in
alcune regioni per l’azione di vari vescovi, ed, in particolare di San Carlo Borromeo. Non si
può, certo, negare che tra la riforma protestante e quella cattolica vi siano differenze
consistenti, tanto da giustificare, nel ‘500, una netta contrapposizione. Come ho tentato di
CARLA SODINI, Stampa e fermenti ereticali nella prima metà del Seicento Lucchese, in Montecarlo: Lucchesia e
Valdinievole. Omaggio a Mario Seghieri, Rivista di Archeologia, storia e costume XVIII, 1990.
35 Vedi GAETANO CATALANO, Controversie giurisdizionali fra Chiesa e Stato nell’età di Gregorio XIII e di Filippo
II, Palermo 1955. Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo, Serie IV, vol. XIV.
36 SIMONETTA ADORNI BRACCESI, op. cit., pp. 369-385.
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dimostrare altrove37, si tratta di due spiritualità diverse, tali da non poter mai coincidere,
che pure avevano elementi comuni alla loro base.
Il primo di questi elementi è il cristocentrismo ed il valore dato alla teologia della
Croce. Anche questo punto comune era vissuto in modo differente, portando Lutero ad
affermare che la salvezza si ottiene per la sola fede nel sacrificio di Cristo che trasforma la
vita del credente, simul iustus et poenitens. Da qui nasceva la visione del sacerdozio
universale dei credenti, la concezione delle opere come segno di riconoscenza, il libero
esame della Scrittura. A sua volta San Carlo, passò anni interi nella meditazione sulla
sofferenza di Cristo che si esprimeva anche nel culto del “sacro chiodo” e nella
convinzione che l’incontro con il sacrificio di Cristo possa avvenire solo nel luogo dove è
Cristo, cioè la Chiesa, “del sangue incorruttibile, conservatrice eterna”, come dirà, poi, il
Manzoni38.
Altre idee della Riforma Cattolica, in grado di attirare anche spiritualità, prima tendenti
alla Riforma protestante, erano, la necessità della predicazione in italiano, l’importanza
data a Concili provinciali e Sinodi diocesani, il coinvolgimento laicale attraverso centinaia
di confraternite, aventi come scopo l’insegnamento della dottrina in italiano39. Quando San
Carlo, ad un certo punto toglie la parola al Cardinal Paleotti, vescovo di Bologna perché
stava predicando in latino, nel Duomo di Mílano, indica la priorità di una conversione del
popolo, che può avvenire soltanto attraverso la conoscenza del messaggio di Cristo. La
nascita dei Seminari mostra come questa riforma cattolica creda all’educazione,
esattamente come Calvino nella sua Ginevra. Il punto centrale, poi, in cui molti si potevano
riconoscere, era quello della moralizzazione della vita religiosa, con l’obbligo della
residenza di preti e vescovi, il controllo della loro vita morale ed il divieto di nepotismo e
cumulo di cariche ecclesiastiche40.
Certamente la Riforma Cattolica aveva anche un impatto antiprotestante e il tentativo di
riprendere agli Stati le prerogative che erano state tipiche della Chiesa nel medioevo. In
Lucca l’urto fu piú forte che altrove, come vedremo piú oltre.
La Chiesa Cattolica, a sua volta, reagí contro la riforma cattolica quasi come contro
quella protestante, anche se in modo piú coperto. Non solo non furono piú convocati i
concili universali, fino al Vaticano I che doveva imporre l’infallibilità papale, ma gli stessi
DOMENICO MASELLI, Alla ricerca delle radici, cit.
ALESSANDRO MANZONI, La Pentecoste, vv. 3-4. A proposito della spiritualità di S. Carlo Borromeo,
vedi ALESSANDRA TOPINI, Il Cristocentrismo di San Carlo: la pietà personale e le iniziative per la diocesi, in “Studia
Borromaica”, 5 1991.
39 ALESSANDRA TOPINI, La concezione pastorale di S. Carlo Borromeo: Elaborazione e fortuna in Tra Riforma e
Controriforma, note biografiche e storiche a cura di DOMENICO MASELLI,cit.
40 A proposito, vedi DOMENICO MASELLI, Alla ricerca..., cit., pp. 38-48.
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concili provinciali e sinodi diocesani, che per San Carlo dovevano essere frequentissimi,
(11 sinodi e 6 concili in venti anni) si rarefecero e con i pontificati di Sisto V e Clemente
VIII, perse valore anche lo stesso Concistoro cardinalizio. San Carlo stesso venne
proclamato santo per virtú personali e non per virtú pastorali41.
Per quanto riguarda Lucca, l’urto fu immediato, come abbiamo già accennato. La visita
apostolica del vescovo Benedetto Castelli42, collaboratore di San Carlo, fu fortemente
osteggiata dal governo e le iniziative di confraternite, avviate dal Leonardi, vennero, di
fatto, proibite dagli anziani che scorgevano nel movimento cattolico un tentativo politico di
ribellione contro l’oligarchia al potere.
Finita l’attività dei due vescovi Guidiccioni, l’attività religiosa si avvia ad un suo epilogo
formale e ad una adesione più esteriore che sentita43.
Ha ragione Berengo; a Lucca questa storia sembra essere passata invano e la città si
avvia ad essere un’oasi di conformismo religioso. Ciò nonostante, i rapporti con le famiglie
riformate, residenti a Ginevra, non s’interrompono mai come si può vedere anche dal bel
libro della Sodini e di Emidio Campi sul tentativo del vescovo Spinola di far tornare, un
secolo dopo, all’ortodossia cattolica, i lucchesi di Ginevra44. Non a caso, l’ultimo erede
lucchese della famiglia Diodati, Ottaviano, userà i suoi cospicui mezzi economici per
pubblicare, nella cattolicissima Lucca, l’enciclopedia francese. Ciò, naturalmente, non
esclude l’esistenza di serie esperienze spirituali come quella di vari anziani della
Repubblica che divennero cappuccini e si dettero ad una vita di rinunzie e di servizio, non
accettando alcuna carica nell’Ordine.
In complesso, però, non posso dar torto alle conclusioni del Berengo, che, a distanza di
trent’anni, rimangono valide anche se vanno inserite, come ho tentato di fare, in un quadro
storico piú completo ed articolato.
Su queste vicende, vedi PAOLO PRODI, Il Cardinale Gabriele Paleotti, vol. I, Roma 1959. Vol. II, Roma
1967 e PAOLO PRODI, Il sovrano pontefice, Bologna, Il Mulino 1982.
42 Sulla visita del Castelli a Lucca e le sue conseguenze, vedi SIMONETTA ADORNI BRACCESI, Una città
infetta, cit., pp. 381-385.
43 Un quadro della religiosità lucchese tra Sette-Ottocento si desume dal bel libro di PIER GIORGIO
CAMAIANI, Dallo stato cittadino alla città bianca. La “Società cristiana” lucchese e la rivoluzione toscana, Firenze, La
Nuova Italia, 1979.
44 EMIDIO CAMPI, CARLA SODINI, Il Cardinale Giulio Spinola e gli oriundi lucchesi di Ginevra. Una controversia
religiosa alla vigilia della revoca dell’editto di Nantes, Napoli Prismi Newwberry Library 1988.
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