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E lasciamo divertire
1 Walter Pedullà SE ALL’AVANGUARDIA C’È IL CONTRODOLORE “E lasciatemi divertire (divagazioni su Palazzeschi ed altra attualità)” è l’ultima raccolta saggistica del critico calabrese che nella prima parte del volume discetta sulla spumeggiante, ilare strategia letteraria dell’autore del “Codice di Perelà”. Nella seconda parte, in omaggio al motto che “ogni linguaggio incontra prima o poi la vita”, la riflessione si allarga a temi di politica interna ed estera, cultura, tivù, università, Stato Sociale, sanità, immortalità, energia atomica e alternativa, costume, mafia e Sud. Fino ad una ironica mozione a non disprezzare la ‘letteraturaspazzatura’. ****** di Domenico Donatone E lasciamolo divertire! Sembra che stia scherzando, ma fa sul serio, mentre scrive con ironia, costui dice cose vere: fa realmente sul serio! Credo sia questo il modo migliore per introdurre il lettore ad un libro scritto da un uomo e da un critico, che insieme fanno un “omone”, quale Walter Pedullà è. Walter Pedullà è un “omone”, lo dico con sincera ironia, ma le sue spalle – così larghe, grosse, robuste, su cui uno poggerebbe volentieri il suo libro per leggerlo – portano tutti i segni del Novecento, ovvero di quel secolo che seppe rinnovare il linguaggio della letteratura ponendo le basi per l’analisi del dolore attraverso l’uso di una lingua che vuole divertirsi. E così, come fosse impossibile pensare ad altro, perché ciò che è ormai passato non sembra prolungarsi affatto nel futuro, Pedullà consegna nelle mani di giovani lettori, e non, la sua ultima fatica, E lasciatemi divertire (Divagazioni su Palazzeschi e altra attualità), edito per i tipi di Manni editore, 2006. Un libro di critica che, definirlo solamente di critica, soprattutto militante, è poco. È davvero poco, non perché chi recensisce si sente di aggiungere dell’altro, ma perché ci ha già pensato da solo l’autore ad arricchire il suo testo di altre importanti riflessioni, non solo letterarie. Infatti, E lasciatemi divertire è un libro che – come dichiara Pedullà stesso – “è un’ilare rappresentazione non solo della strategia letteraria di Palazzeschi, ma anche di ogni scrittura d’avanguardia che operi sul versante della comicità e del fantastico, vale a dire i due filoni più innovativi e dirompenti della narrativa del Novecento”. Ma cerchiamo di andare con ordine. Recensire un libro significa non solo dire, ma anche predire, tentare cioè di indicare momenti essenziali della scrittura affinché gli stessi diventino essenziali per il nostro futuro. Allora, così come quando si comunica importante è trasgredire più che dire, il sentimento più compiuto per un adeguato approccio ad un libro è sentirlo figlio della propria fantasia, della propria capacità di reazione alle cose. In questo libro Walter Pedullà reagisce, già reagisce! E ne sono convinto. D’altronde egli, già in passato, aveva dimostrato di essere ampiamente capace a reagire, a reagire, ovviamente, per dire, per parlare, ma, soprattutto, per scrivere. Quando ha scritto Il ritorno dell’uomo di fumo (Marsilio, 1988); Lo schiaffo di Svevo (Camunia, 1990); Le caramelle di Musil (Rizzoli, 1993); Sappia la Sinistra quello che fa la Destra (Rizzoli, 1994); Carlo Emilio Gadda. Il narratore come delinquente (Rizzoli, 1997); Le armi del comico (Mondadori, 2001); Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti (Rizzoli, 2004); Quadrare il cerchio. Il riso, il gioco, le avanguardie nella letteratura del Novecento (Donzelli, 2005), fino a quest’ultimo E lasciatemi divertire, Pedullà ha sempre stabilito che si è maestri di qualcosa se si è capaci di capire e arrivare sulla scena della letteratura all’improvviso. Il che non 2 significa affatto improvvisare, ma arrivare all’improvviso là dove altri non arrivano, con intelligenza e con sagacia. Questa è, forse, la capacità del critico letterario e, soprattutto, del critico militante, arrivare là dove gli altri non arrivano. L’esigenza, ben detto qui e anche altrove, da altri nutriti commentatori delle opere di Pedullà, è quella, indubbiamente, di far risalire la china all’intelligenza umana e alla critica: un obiettivo che è quello, appunto, di far “quadrare il cerchio”. Dettare non tanto degli imperativi, ma far sì che tutto possa avere una luce e trovare la sua di luce. Quadriamo il cerchio affinché non resti troppo ellittico e divagante. Si va sul preciso. Si fa sul serio. Il libro, in questo senso, è un libro composito, eterogeneo, eclettico ma non complesso, a meno che non si stia a digiuno dal Novecento da parecchio. Non si analizza solamente la strategia letteraria di Palazzeschi, ma si riuniscono testi per lo più scritti negli ultimi cinque anni, cioè dal 2000 al 2005. Testi che sono quasi tutti usciti su rivista (“Il Caffè Illustrato”; “Stilos”; “L’Illuminista”). Per dare un ordine omogeneo a tutto, Pedullà ha diviso il libro in due parti, collocando nella prima l’intero modello stilistico, filosofico, morale e futurista di Palazzeschi, dando voce a tutte le sue opere che vanno da Il codice di Perelà alle Sorelle Materassi; da Il Doge a Stefanino, senza tralasciare le poesie raccolte ne L’Incendiario. Nella seconda parte egli assume il ‘metodo Palazzeschi’ come quel metodo che, mentre fa letteratura, fa anche altro: crea e unisce principi e istanze che sembrano non avere una logica, mentre ce l’hanno. E Pedullà fa proprio questo, svela e rivela il ‘metodo Palazzeschi’, di cui lo sguardo attento, oculato, vigile è capostipite di una necessità più che di un destino. Ecco perché il libro non è complesso, perché una cosa complessa non apre la mente, non fa da spartiacque e stabilisce una priorità rispetto al normale campo di veduta. Come ha affermato anche Giuseppe Bonaviri1, “la scrittura di Pedullà in tutto il libro è sciolta, impregnata di una narrativa ora scherzosa ora di una seriosità sotto cui si sente il lampeggiare del suo pensiero”. Bonaviri constata il “lampeggiare” del pensiero, un qualcosa, quindi, che riproduce una sinestesia del linguaggio, una forza che pone la parola e la sua ragione al centro del sistema della comunicazione. A mio avviso la lingua del nostro “Ped” è oculata fino al capitolo secondo, che fa parte sempre della prima sezione del libro, in cui si analizzano “i figli dell’uomo di fumo”, tra cui Campanile e Zavattini. A seguire il linguaggio è più disteso, il che non significa meno vigile, anzi, per l’avanzare della materia, che dal particolare volge verso l’universale, l’analisi è sempre accompagnata da circospezione e scrupolo. La particolarità è la nobiltà del linguaggio utilizzato da Pedullà, esplicito in seno alla critica militante, ma speculare alla quotidianità che analizza, quando, avvertendo per un terzo della prima parte del libro una dedica direttamente o indirettamente rivolta a Palazzeschi, gli incontri successivi che si hanno sulla materia del comico e sulla sua inerente tragedia, riportano il lettore ad affrontare Gadda, Bontempelli, Campanile, Zavattini come se nulla fosse stato già detto in precedenza. Ci si trova di fronte ad un linguaggio che scopre costantemente se stesso e, per chiudere il cerchio di quello che è un “ciclo di risate” del Novecento, affronta il ventennio più fecondo, che va dagli anni Sessanta e Settanta, costituito da Arbasino, Calvino, Malerba e Manganelli. La seconda parte, specifica quanto la prima, solo che l’occhio del critico si apre sul quotidiano, sul presente e sul contemporaneo più recente, è ‘palazzeschiana’ perché non potrebbe essere diversamente riconoscibile se non in questo modo. Il senso è essere capace, non per detrarre a qualcuno un metodo ma usarlo intelligentemente per accrescerlo. Pedullà nella seconda parte del libro pone un tema fondamentale che è quello dell’importanza del maestro. Un tema che egli riesce a porre non come mera esigenza polemica, mostrando una scrittura al vetriolo, ma pone l’imperativo quasi sussurrandolo all’orecchio del lettore, facendo passare, attraverso ciò che analizza, il sottile messaggio della scoperta del maestro e dei valori che egli promuove. Nella seconda parte del libro, infatti, il nostro ‘saggio’ si sposta, utilizzando brevi scritti d’argomento sociale e politico, oltre che letterario, compiendo una rimarcatura del ‘metodo Palazzeschi’, consentendo che la natura degli scritti e l’ordine stesso delle parole esploda e trovi la sua vera natura in Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi. Un linguaggio che non è infantile ma maturo, perché sa calarsi con semplicità in argomenti non facili da trattare. Ed è questo il titolo 1 G. Bonaviri, “Una critica narrata con sorridente divertimento”, Osservatore romano, 3/7/2007 3 della seconda parte del libro. Se la prima è intessuta sulla poetica di Perelà, la seconda è l’Attualità del “Controdolore”, in merito alla condizione degli italiani e degli umani, a essere protagonista. In tema di maestri, per Pedullà l’unico non può che essere Giacomo Debenedetti, l’amico e il mentore di una strategia, oltre che di una passione. E in che modo Pedullà pone il tema dell’importanza del maestro? Ritengo, come dicevo poc’anzi, che il tutto venga sottilmente e sagacemente sussurrato, suggerito, consigliato, rammentando qua e là la formazione e il contatto con il mondo della scuola (si descrive la Locride e i giovani che l’hanno rinvigorita dopo l’omicidio Fortugno). L’aspetto assolutamente affascinante di questo “suggerimento tra le righe” che Pedullà pone imprescindibile, oltre ad essere naturale in merito a quello che Debenedetti rappresenta nel Novecento sul fronte della critica militante, ma costituzionalmente evidente nell’opera di Palazzeschi, per cui si determina una condizione in cui ciò che si esprime è ciò che l’occhio vede senza miopia, senza difetti, è il principio secondo cui la scuola è il professore e non la riforma, è la qualità individuale del singolo professore a rendere evidente una qualità, a suscitare capacità di comunicazione, forse anche iperbole, ma soprattutto desiderio di trasmettere conoscenza. Pedullà ammicca alla sua fortunata formazione. Oggi la soluzione per un giovane è avere la ventura di trovare un buon professore. Qualunque scuola, anche la più ambiziosa, se non riesce a fare scattare la scintilla nello studente, ha fallito. I genitori possono anche scegliere la scuola pubblica o privata, laica o cattolica, ma dovrebbero poter anche indirizzare il figlio nella sezione in cui c’è il professore giusto. E Pedullà ha incontrato il professore giusto, Giacomo Debenedetti, come Pavese ha incontrato Augusto Monti. Allora il docente, così inteso come perno della scuola, è il maestro, qualcuno che oltre ad avere una stabilità, un ordine e un obiettivo, è anche colui che ti conduce verso slanci eversivi, a cambiare le regole, a sentirti parte integrante di una nuova formazione e di una nuova mentalità. Il messaggio che passa tra le righe, leggendo la seconda parte del libro di Pedullà, è appunto questo: è l’allievo che consacra il maestro (nel nostro caso basterebbe leggere Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti per capirlo, oltre al suddetto libro), è l’allievo che consacra il professore nel momento in cui lo cerca, lo desidera e lo imita. Se per Pedullà la seconda parte del libro è “critica di un letterato che va fuori dal seminato per scrivere di politica, cultura, Tv, università, letteratura, Cina, India, Medio Oriente, Isreale, Blair e Zapatero, Stato Sociale, sanità, immortalità, energia atomica e alternativa, costume, mafia, Sud, questioni centrali ed estremismi vari”, il senso precipuo di questa autoanalisi sta nel fatto che “ogni linguaggio incontra prima o poi la vita”, e per incontrare la vita deve aver dovuto incontrare un maestro che l’abbia spiegata nel migliore dei modi. Seguendo un maestro e assumendo tutto l’insegnamento possibile, come patrimonio costituente una migliore e maggiore identità con il prossimo, ecco che si giunge ad una reazione. Reazione spontanea e genuina. Questo è il libro in cui maggiormente Walter Pedullà reagisce sia alle idee generali che condannano la Neoavanguardia, una letteratura che vuole fare del riso una capacità troppo eccelsa – e così sembra di tornare ai tempi del miglior Eco, ovvero al Nome della rosa, in cui il riso è perversione perché storce l’anima e il viso – e reagisce al sistema attuale in cui l’economia gestisce la politica e non viceversa. Si è portati a chiedersi perché un critico, mentre si occupa di letteratura contemporanea, sia tenuto quasi a tracimare, a sconfinare, ad entrare in territori nei quali la critica militante e letteraria sembra non esistere. Perché la critica è la vita, ma se Pedullà tracima è non per far piangere il lettore – ad incupirsi lui non ci pensa neanche – ma è solo nella speranza di far nascere qualche riso intelligente e non sciatto, che Pedullà si siede comodamente e non assume nessuna posa. Un riso, oggi, “lontano parente del Controdolore”. Mentre se ne sta seduto, placido e contento, sicuro di rappresentare un mondo che esiste, oltre a poter continuare ad esistere, con il timbro forte della sua voce, egli ci fa capire quanto c’è di necessario e di fondamentale da capire. Direi che questo libro persegue un doppio fine, ha un duplice scopo: da una parte analizza, setaccia, porta la luce dove c’è il buio, quindi specchia il mestiere del critico; dall’altra parte sostanzia questo mestiere, fa coincidere i suoi opposti, che possono essere quelli per cui l’impegno critico appare unidirezionale, mentre il critico si stacca dal suo cordone ombelicale, si nutre d’altro e, evitando commistioni inutili e superficiali, fa prevalere la vita sulla forma – come auspicava Pirandello, altro maestro – ed evita spiacevoli indigestioni. 4 D’altronde è il cibo l’unica cosa che nutre veramente, così come la critica è l’unica cosa che legittima e preserva ogni cibo sulla base della sua sostanza. La reazione che Pedullà innesca sul filo della scrittura è una reazione che guarda proprio al nutrimento, a quello che la letteratura dice confermando sostanza. Il nodo da cui si parte è questo: quello che appare attraverso lo studio come elogio di una forma, di un pensiero, e poi nel quotidiano è lontano dalla visione di un particolare, non può essere considerato come un mero esercizio della ragione intellettiva, ma deve proseguire nel percorso della vita e dell’esistenza. Uno studio, un esercizio, una nuova formula non ha sostanza se non s’imbatte in altra sostanza, se il pensiero non diventa azione. Ecco l’analisi di Pedullà; ecco quel è il tema fondamentale, ed ecco la reazione al dovuto superamento di un’etica, e anche di un’estetica, che con sé non porta il bene se non è capace di toccarlo. Pedullà tocca, e c’invita a toccare! La sostanza dell’analisi di Pedullà è proprio questa, cioè di chi dice delle cose perché le ha toccate. Egli scrive, nella prima parte del libro, sentenziando sulla poetica del Controdolore, che “Il Controdolore di Palazzeschi manda a dire sin dal 1914 che tutto è risibile: anche la morte. Scrive Palazzeschi: «Maggiore quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo». Infatti secondo lui, «non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano». Il dolore è solo la superficie, sotto c’è il riso, scavate nel vostro intimo: in principio ci fu una risata, di Dio”2. Tutta l’orchestra è così al completo. In principio ci fu il caos perché ci fu una risata. Una risata che capì che quel caos sarebbe continuato, se non avessimo provato almeno una volta a riderne. Il riso deforma, sì! Deformando ci dà accesso alla conoscenza (Gadda). Il compito che l’inventore del “Controdolore” si dà – continua l’autore – è di burlarsi della vita e del mondo. “Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange”. Il dolore? “Scortecciate, e troverete la felicità”. Il mondo è tutto un gioco, sin dalla sua creazione. Il senso del “Controdolore” non è invitare a ridere senza una ragione, o ridere così allegramente delle disgrazie altrui, cosa che già accade, senza che esistano poetiche e afflati di compassione oppure l’empatia. Nessuno vuole ridere sugli omicidi di mafia, ad esempio, ma perché anche lì è valido il Controdolore? Perché non c’è niente che prima o poi non possa diventare ridicolo, non per l’omicidio in sé, e quindi per il dolore che si rispetta, che è sacro, ma perché il riso nasce nel momento in cui ridicolo è promuovere la difesa dei cittadini, “fare lo Stato senza Stato” e reinventarselo giornalmente come fa l’uomo di fumo, e sentire che c’è la necessità di affrontare l’emergenza. L’emergenza sono coloro che dicono che va affrontata l’emergenza. Affrettiamoci a capirlo il più presto possibile, perché “il riso è la sola manifestazione seria del mondo”. Secondo questo principio “Palazzeschi poteva dire di essere l’avanguardia dell’avanguardia”. Infatti proprio perché questa letteratura, la letteratura dell’avanguardia, è incentrata tutta sulla visione del mondo costituito da i suoi opposti (dolore, sofferenza, guerra/gioia, felicità, pace), Palazzeschi non è stato mai così tanto “citabile” come ora. Si vive in una società in cui regna il caos, ma non si riesce a farlo davvero esplodere in una bella risata. Se Palazzeschi già dal 1914 ci manda a dire queste cose attraverso i suoi scritti, Pedullà oggi ci dice che il tema del riso, della sperimentazione, del gioco fatto per integrare nuovi sistemi e modelli di letteratura, in questo libro così evidenti, è connaturato ad una esigenza che si offre spontanea nella pratica e doverosa nella tecnica. Il sunto del Controdolore è il sunto di una strategia della comunicazione che intende essere immediata ma non priva di un meccanismo che svela al suo interno un altro fondamentale “controdolore”. Ci si muove osservando mosse ed intenzioni. La coscienza relativistica, su cui la modernità ha costruito le sue fondamenta, stabilisce che la tipologia culturale del neosperimentalismo può funzionare anche oggi. E perché? Perché quando un codice collassa, va riformulato. Non è ammessa nessuna nostalgia e non si fanno incontri tra sopravvissuti. Tutti desiderano nuova vita. Come spiega il nostro ‘saggio’, “il secolo ha sempre nutrito l’idea che sotto ogni tempo limitato c’è una struttura che lo regge segretamente: poteva essere il vocianesimo, poteva essere il futurismo, poteva essere l’ermetismo, potevano essere i neorealisti i delegati a rappresentare storicamente il primo decennio del secondo dopoguerra. Poi toccò al neosperimentalismo della neoavanguardia la delega a individuare il 2 W. Pedullà, E lasciatemi divertire, p. 63, Manni ed. 2006 5 linguaggio entro il quale sarebbero maturati le idee, le parole e i gesti con cui si sarebbero manifestati a ogni loro livello gli anni Sessanta”. Sperimentalismo è, dunque, la parola d’ordine, forse anche di un ordine che non piace ma che c’è, che esiste e non teme repressioni. La scienza è già ben nutrita di questa parola, che per nulla deve imporre necessarie stravaganze ma semplicemente approccio costante alla realtà. L’opposto al riso non è il dolore, ma la realtà. E questa è inseguita dallo sperimentalismo. Lo sperimentalismo è modernità che non deperisce, come Savinio diceva della comicità, se non si perdono d’occhio le nuove tecniche scientifiche, il lessico in formazione, le idee che vanno emergendo nell’attrito con la realtà sociale3. Tutto ciò ha generato un disordine inteso come commistione troppo evidente ed incongrua di verità. Il tipo definitivo di approdo guardato come ircocervo, come assurdità totale. Nonostante ciò, Pedullà mette ordine in questo disordine di apparenze, sentimenti, tecniche ed esigenze, stabilendo che la desemantizzazione in aumento nella prima fase di sviluppo della neoavanguardia si è risolta “in uno spessore” di significato per via dello scontro che rallenta lo svuotamento messo in atto. Quello che ha dato vigore al neosperimentalismo è stato il parlarne. Se fosse scivolato via nel silenzio non sarebbe stato neppure neosperimentalismo. “Quando questo diventa irresistibile, perché nulla resiste a un massacro comico che in quanto esplosione di riso non ha bisogno di motivazioni negativo, il sapere è ridotto ad una foglia superficiale sulla quale i comportamenti prima si imprimono come meri gesti, poi diventano azioni concrete”. Le parole di Pedullà non lasciano nulla all’immaginazione, tant’è che aggiunge che “il fenomeno è enorme, come si vede non solo dallo sforzo di chi lo difende ma dal rancore con cui lo si attacca per falsare il bilancio”. Un bilancio che è netto, preciso e non di parte. La cultura non presenta mai aspetti faziosi, soltanto aspetti feriali. Dopo il neosperimentalismo a livello di politica culturale non c’è stato nulla che potesse essergli all’altezza. Un neosperimentalismo che esiste perché è chiave d’accesso anche alle strutture tradizionali: è neoclassicismo, e non classicismo e basta. La sperimentazione è costante, anche se le repliche e la pigrizia non mancano. Mostrata la concretezza della poetica di Palazzeschi nella prima parte del libro, non poteva non nascere, nella seconda, una reazione da parte di chi intende sbagliato osservare che quello che appare come replica oggi, sulla base di un’indagine speculativa che è di ieri, condotta sul fronte dell’arte e della letteratura, non possa essere aggiuntivo di una nuova capacità nell’interpretare la realtà più imminente. Dirà Pedullà, esprimendomi qui al futuro rallegrando l’idea del presente, che “il critico militante ha il dovere di essere giudizioso, ma, se cerca solo grandi opere, cambi mestiere. Si accontenti pure di quei materiali da costruzione che sono un episodio di romanzo, una poesia, un racconto breve capaci di svelargli un segreto4”. Il tema è la cultura e la critica. La critica serve la cultura perché la cultura non è serva. La critica militante ha il suo tempo nel presente, anche quando prende le armi a difesa di un “classico”: colui che, secondo Heisenherg, è “complementare al presente” come una scoperta scientifica superata ma non falsa. È superata ma non è falsa l’avanguardia, che ha dato tanti movimenti al Novecento. Tutto è superato, nulla è falso, ma sarebbe fantastico avere ora una bella scoperta, magari non scientifica, capace di dare una spinta alla letteratura e alla società5. Si deduce che non esiste solo una tradizione, quella nota come tradizione lirica, ma ne esistono due: quella lirica, e quella dell’avanguardia. Marinetti e Palazzeschi sono tradizione così come lo sono Cardarelli e Montale. Il fine è quello – dice mirabilmente Pedullà – “di individuare il libro e le parole di una causa da non perdere”. Ecco perché la scrittura evolve e il critico tracima. Dando a Palazzeschi quello che è di Palazzeschi, non si incorre in nessun errore se si adottano un paio di occhiali da sovrapporre a lenti con cui non si vede più bene la realtà. Pedullà fa del Controdolore la cifra distintiva di una nuova analisi che si orienta su versanti che non chiamano più in causa la letteratura, ma che ne sono pur sempre figli. Seguendo l’insegnamento di Barthes, “attraverso la scrittura, il sapere riflette incessantemente sul sapere”, il critico che legge con attenzione un’opera ci metta pure del suo, perché la critica è anche scrittura. A tal proposito E 3 Vedi in op. cit. (p. 122) Vedi in op.cit. (p.180) 5 ibidem (p.181) 4 6 lasciatemi divertire diventa davvero il libro che è: un libro non camaleontico ma rigorosamente coerente. Un libro dello spazio libero individuato dove c’è più prigionia della scrittura. Un libro dell’esodo, visto che Pedullà in esso cita costantemente passi da Palazzeschi e da Svevo come fossero Vangeli laici. Le parabole non mancano, e l’estro si moltiplica frenetico e capace di tenere a bada la curiosità evasiva del lettore, per Pedullà meno ipocrita e più fratello. Così, racchiuso nella primizia dei suoi intendimenti, scopi, propositi e mire, ecco che si materializza quel “metodo Palazzeschi”, quella strategia della “parola gravida”, incinta di metafora. Profondamente metaforica è la scrittura di Pedullà, che scivola serena e precisa sulla pagina, come uno sciatore che se ne va sulla neve. Bianca, la pagina si arricchisce di colori, diventa multiforme, poliedrica ed è pronta ad investire chiunque trovi sul suo percorso. Una scrittura che s’apre come un gelsomino dopo che il critico militante ha meditato tutta la notte sull’argomento da trattare. Per cui non s’aprono solo “i fiori notturni” ma anche i critici, che sono squisitamente notturni. Pedullà prende bene la mira, e scrive. E siccome scrive, spara sul serio, come in Italia sta facendo un altro figlio legittimo del Controdolore, Roberto Saviano. Scrive, ad esempio, che “la spazzatura sarà poesia”. L’analisi si confà all’uomo di fumo, s’innesta come un seme nel suo terreno fertile, mostra ad uno ad uno i sentimenti del presente, le angosce, le malattie e le speranze, e si tuffa in quel mare in cui pochi sono capaci di nuotare. “L’immondizia, scrive il nostro ‘Ped’, – partendo da un assunto realistico per diventare fantastico, perché fantastico è il risultato che si consegue – è un fattore di crescita di tutto rispetto. Nel Napoletano è un’industria ben maggiore dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. Insieme, per mutuo scambio, ci cresce pure la camorra, che grazie a Dio impedirà che l’immondizia si sollevi fino al cielo. Non si ripeterà il gesto orgoglioso di emulare la Torre di Babele. Si accontenti d’essere diventata da schifezza che era all’inizio un peculiare connotato dell’uomo moderno. Dove non ci sono montagne di spazzatura, lì c’è il declino di cui tanto parlano gli economisti di tutto rispetto. L’immondizia è ciò che l’uomo butta. Nulla si crea e nulla si distrugge? In affetti è assai difficile, non dico di distruggerla, bensì riciclarla. Viene perciò fatta precipitare in enormi fossati. C’è la teoria, non sappiamo quanto camorristica, che un giorno avverrà quanto è già avvenuto per i materiali che in qualche migliaio d’anni si sono trasformati in petrolio. L’immondizia sarà il nostro petrolio, suppergiù come lo è già il mare, che d’altronde tanto somiglia alla spazzatura. […] S’ignora cosa essa diventa dopo che è stata riciclata. Qualcuno crede di averla riconosciuta al palato, ma non ci sono prove certe da cui risulti che ci danno da mangiare l’immondizia: indirettamente, è ovvio dirlo. Molti usano l’espressione come metafora di cibo letteralmente immondo. Tuttavia se vogliamo mangiare tutti, dobbiamo turarci il naso […]. L’evoluzione di una figura retorica come la metafora solleva il problema dell’immondizia al livello che è proprio dell’arte. È strutturale? Ebbene, l’immondizia opera in superficie, ma se dura troppo il caldo c’è da temere per la tenuta del sistema. La domanda assillante invece è quest’altra: è possibile con la spazzatura, con cui è dimostrato che si fa tutto, generare o rigenerare poesia? Gadda nell’Adalgisa, Manganelli nell’Inferno e Pagliarani in Fecaloro hanno scritto prose e versi indimenticabili ispirandosi agli escrementi umani. Che cosa osta allora all’eventualità che qui si auspica di fare della grande letteratura con l’immondizia? Molti critici ‘emunctae naris’ rifiutano come spazzatura la narrativa e la poesia d’oggi. Chi ha memoria ricorda che succedeva pure nel passato, quand’anche ce ne fosse meno d’oggi”. Spettacolare, perché diverte insegnando, è il tratto distintivo del linguaggio di Pedullà. Un linguaggio in cui l’oggetto entra ed esce dal soggetto, da sul referente, e la scrittura si compiace di fare l’amore, di penetrare con dovizia di particolari il suo amante, ovvero l’immondizia. Si capisce che così immondo non è giocare con la merda. Anzi i bambini la toccano come fosse plastilina da modellare, in modo che la fase anale ritorni, da adulto, collocata, ovviamente, nel sedere di qualcun altro. Il segreto è stare attenti a non camminare al centro del corridoio, ma tenersi strettamente su di un lato, magari quello sinistro per coloro che credono nelle scelte individuali, o su quello destro per coloro che si sentono maggiormante di controllare le scelte individuali. “Non prendetevela con chi produce spazzatura letteraria. Non è un miracolo: talvolta chi rovista nei cassonetti scopre qualcosa che può essere efficacemente o artisticamente (il passo è breve) riusato e combinato in modo assai originale. Ricordate l’ars 7 combinatoria cui periodicamente ci si rivolge, quando i materiali nuovi sembrano troppo deperibili? Un po’ di spazzatura vecchia e un po’ di roba nuova possono mettere insieme un capolavoro. Perciò, se vi pare di annegare nell’immondizia editoriale, non gridate allo scandalo. C’è spazzatura peggiore dei libri che prendete in mano. Quando li trovate nei cassonetti, apriteli, e leggeteli. Possono essere più emozionanti, più intelligenti e più avvincenti di tanti volumi che l’editoria riesce a imporre come capolavori. Non è un invito a disfarvi di questi. Saranno anche spazzatura, ma non si sa mai. È questo il ciclo perenne della trasformazione umana. Riciclateli. Ci sarà anche la camorra letteraria nello stabilire cosa vale e cosa no, ma non infierite su coloro che perdono in questa gara. Stanno concimando il terreno in cui si ergeranno. Diversamente da Eraclito che morì nel letame noi oggi ci viviamo. E si vedono i progressi”. Pedullà, dunque, scrive apertamente, è come se parlasse. Il suo è un libro chiarificatore, un libro che impone il dialogo e non la lettura e che si vorrebbe pubblicato da Rizzoli, Einaudi, Bompiani, Donzelli o Mondadari. L’osso, invece, l’ha raccolto un editore intelligente che non può dirsi affatto sprovveduto. Non accade spesso, ma succede anche che il pesce piccolo mangia quello grande. D’altronde l’avanguardia e il suo spirito rende possibile anche l’impossibile, di eccitarsi per cose che appaiono superate, mentre sono squisitamente perverse. Sentendo la scrittura come una costante evoluzione della parola, l’autore accelera senza timore alcuno di sbandare. È sicuro perché conosce la pagina, la frequenta da anni e, ad ogni ‘a capo’, intensifica la sua forza e sorprende il lettore che lo attende al termine del libro per sentirsi unito al senso dello stesso. Ebbene, come ci si sente al termine del libro? Personalmente non ho problemi ha dire che mi sono sentito bene. Ma questo è affare privato. Credo che se il mio ‘io’ sia capace di stare sulla pagina, è possibile che tutti possano stare sulla pagina, nessuno escluso. La pagina accoglie tutti, è madre di conoscenza. La sensazione è quella di aver ascoltato un uomo che sa essere critico perché è capace di insegnare anche cose che non si vedono. Lui, ad esempio, tra gli altri argomenti trattati, vede la televisione come un critico d’arte vede un quadro, cioè muto. Il quadro è muto, il critico gli dà voce. Allo stesso tempo, Pedullà vede la televisione muta, e ci restituisce quelle parole, quel lessico e quella struttura che dovrebbe darci da sé. Ma la Tv non è il male, ben inteso, è solo malata, il che è diverso. Se sei il male non ti puoi curare, ma se sei malato puoi sforzarti a trovare la cura. E Pedullà la trova compiendo un’altra analisi a tema, e badate che quello che ne viene fuori non è semplice fumo, ma un fumo raffinato, che piace. Un fumo che Palazzeschi aveva contribuito a diffondere nell’aria e che Pedullà insegue nell’aria impregnata di fumo. Dopo la lettura di questo libro, infatti, lo smog è assai lontano.