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Nude Literary Review - Numero IV: 30 Dicembre 2012

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Nude Literary Review - Numero IV: 30 Dicembre 2012
1
Indice
Introduzione.............................................................................................................p. 4
Elisa Giuliana - Giampiero Pire!o, Figure del desiderio......................................p. 6
Emanuele Del Rosso, Vuoti rice!acoli di desiderio...............................................p. 12
Carolina Pernigo, Le forme dell’ossessione: due casi a confronto..........................p. 20
Sarah De Sanctis, Nel nome del Padre...................................................................p. 28
Francesco Giusti, Il desiderio lirico e la sua impossibile
soddisfazione: sostituzione o mediazione?...............................................................p. 37
Silvia Nugara, Une mélancolie arabe: scri!ura e desiderio
tra le pagine di Abdellah Taïa...................................................................................p. 49
2
Introduzione
La le!eratura, come ogni cosa, è mossa dal desiderio. Non solo il desiderio
dell’autore di comunicare, avvincere, talvolta far sfoggio di bravura, ma anche
quello del le!ore: perché comprare un libro, dedicargli tempo ed energia? Cosa
vuole il le!ore? Svago, stimolo, o entrambi?
E poi, il desiderio dei personaggi, da Antigone a Madame Bovary a Bartleby,
che con le loro azioni o non-azioni rendono la trama possibile. Dalla psicoanalisi alla filosofia, dalla teoria le!eraria ai cultural studies, anche nella contemporaneità ci si interroga sulle trame del desiderio celate nelle pagine dei libri.
Noi di Nude, proseguendo il cammino dei numeri scorsi e concludendo il percorso di questo primo anno, tenteremo di analizzare il desiderio, la sua assenza
e le sue perversioni nella le!eratura e nella società di oggi, avvalendoci anche
dei preziosi contributi di alcuni dei relatori del recente convegno ‘Figure del
desiderio. Retorica, temi, immagini’ tenutosi all’Università Normale di Pisa dal 13
al 15 dicembre.
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Figure del desiderio
di Giampiero Pire!o e Elisa Giuliana
Il tema dell’etica e quello del desiderio sono intimamente connessi. Si parli di desiderio sessuale, o di meccanismi teorici del desiderio in senso generale (come tensione
verso una meta lontana), prima o poi entra sempre in gioco la questione di ciò che si
ritiene giusto e ciò che si pensa sia sbagliato. Dal desiderio come momento rivoluzionario di ro!ura dell’ordine autoritario stabilito nel dramma di Antigone (nella le!ura
che offre Slavoj Žižek in Interrogating the Real), alla rivoluzione sessuale degli anni
sessanta, fino alla crisi del desiderio del modernismo e post-, in qualche modo questo
ha sempre, anche indire!amente, avuto a che fare con la messa in discussione o il rafforzamento dell’asse!o etico di una data società in una data epoca. Oggi questo tema
è tornato alla ribalta in maniera prorompente in quanto sembra si sia generato un
meccanismo perverso per cui noi siamo sì in grado di desiderare, ma solo per una
frazione di secondo, ovvero nella misura in cui il nostro desiderio venga immediatamente appagato. Inutile dire che, perché questo accada, troppo spesso l’ogge!o offertoci come soluzione al nostro streben non è altro che un simulacro, un simbolo – sbiadito e insipido – di ciò a cui aneliamo. Il desiderio stesso come forza movente ne
risulta danneggiato: in fondo si desidera perché non si ha, e nel momento in cui si o!iene
(o si pensa di o!enere) ciò che si vuole il sentimento che ci spinge all’azione si placa.
Come notato in tempi forse meno sospe!i da Jean Baudrillard:
La società […] genera un’ansia che poi cerca di placare. Essa soddisfa e delude,
mobilita e smobilita. All’insegna della pubblicità, istituisce il regno della libertà del
desiderio, in cui però il desiderio non è mai veramente libero (in quanto tale liberazione significherebbe la fine dell’ordine sociale): esso è liberato dall’immagine
soltanto quanto basta affinché la sua comparsa scateni i riflessi associati dell’ansia
e del senso di colpa. Innescato dall’immagine solo per essere da essa disinnescato,
indo!o a sentirsi colpevole per ingranare il meccanismo, il desiderio nascente
viene cooptato dall’organismo di controllo. […] Nella società dei consumi la gratificazione è massiccia, ma la repressione lo è altre!anto.1
Siamo stati ormai educati così bene a questo gioco del bastone e della carota che ci
viene difficile anche solo immaginare che possa esserci di più. Il diba!ito su queste
questioni, in Italia, è stato ravvivato dalla recente pubblicazione del libro Ritra!i del
desiderio di Massimo Recalcati, che ha ispirato il convegno annuale dell’associazione
Compalit (Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Le!eratura),
tenutosi dal 13 al 15 dicembre a Pisa. Ho avuto il piacere di intervistare Giampiero
Pire!o, membro del comitato organizzativo dell’evento pisano e docente di Metodolo-
1 Jean Baudrillard, Le Système Des Objets p. 249, traduzione mia.
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Giampiero Pire!o, Elisa Giuliana - Figure del desiderio
gia degli studi culturali e Metodologia della cultura visuale presso l’Università Statale
di Milano, il quale mi ha raccontato quali erano le prospe!ive dell’incontro e quali
sono stati i risvolti più sorprendenti. Sono lieta di riportare qui di seguito la nostra
conversazione.
E.G.: Pochi giorni fa si è tenuto il convegno annuale dell’associazione Compalit, al quale lei ha
partecipato in qualità di moderatore nonché parte del comitato organizzativo. L’argomento affrontato quest’anno è stato “Figure del desiderio – retorica, temi e immagini”: mi può spiegare
il motivo di questa scelta? Avete pensato che la questione del desiderio e dei suoi processi fosse
particolarmente rilevante oggi, o è stata una decisione casuale?
G.P.: È stata una scelta ampiamente discussa. L’associazione prevede un dire!ivo,
composto da cinque persone, che ogni anno si riunisce e diba!e l’argomento per il
convegno dell’anno successivo da presentare all’assemblea dei soci. Quindi il diba!ito
parte all’interno del gruppo dire!ivo: di solito si dà molto spazio al collega o alla collega che ha proposto la propria università come sede del convegno, essendo questa
persona il padrone di casa, per così dire, e si privilegiano le sue idee. Questo è stato il
caso anche del convegno pisano: l’organizzatrice, Marina Polacco, ha proposto il tema
del desiderio, si è discusso a lungo, e poi ci siamo trovati d’accordo tu!i quanti,
declinando tale argomento su parecchi fronti.
La stru!ura dei convegni, per lo meno nei due mandati del dire!ivo di cui io faccio
ancora parte, è suddivisa in tre sezioni parallele, ognuna gestita da coppie di responsabili che si occupano di applicare il tema del convegno a se!ori diversi. Quest’anno c’è
stata una sezione squisitamente le!eraria, un’altra più teorica, e la terza – quella di cui
mi sono occupato con Massimo Fusillo – ha preso in considerazione la cultura visuale,
quindi immagini, rappresentazioni e raffigurazioni. Il tema del desiderio ci ha trovati
tu!i d’accordo e si è pensato anche – e questo ha trovato spazio in quella che è stata la
tavola rotonda finale – di collegare tale questione all’a!ualità contemporanea, quindi
“crisi del desiderio” o “desiderio in tempo di crisi”. Senza giocare troppo sulle parole,
ci siamo impegnati ad esplicitare quanto più possibile il problema dei rapporti con
l’a!ualità e con la vita, per evitare di costruire l’ennesimo convegno che prende le distanze da quanto succede nel mondo. Si è pensato di far riferimento all’ultimo libro di
Recalcati, Ritra!i del desiderio, che è uscito proprio nei giorni in cui discutevamo questo
problema, e di invitarlo per una serata di diba!ito. Adesso, a convegno finito, si possono tirare le fila e, forse anche per via della sua partecipazione, le suggestioni e le influenze del libro di Recalcati sono state molto forti: infa!i la stragrande maggioranza
degli interventi ha interpretato il desiderio in chiave psicanalitica. È stato sicuramente
il terreno più ba!uto rispe!o agli anni scorsi e c’è stato un boom di riferimenti lacaniani. Aggiungo anche che nella tavola rotonda finale la saggezza e la competenza di
Remo Ceserani hanno segnalato il rischio di questo a!eggiamento: un po’ scherzando
e un po’ seriamente, ha chiesto ai partecipanti quanti hanno effe!ivamente le!o Lacan
e quanti hanno invece le!o il libro di Recalcati che ha le!o Lacan, indicando quindi
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Giampiero Pire!o, Elisa Giuliana - Figure del desiderio
l’utilità di non a!enersi ad un unico metodo, per eccelso che sia, e ribadendo quelli che
sono stati i principi dell’associazione nel ‘93, ovvero pluralità di metodo e comparazione
anche tra approcci metodologici. Rispe!o ai convegni passati – io personalmente ne ho
seguiti cinque come organizzatore – devo dire che mai quanto quest’anno c’è stato un ricorso alla psicanalisi, ed è curioso che altri percorsi che abbiamo suggerito anche nel call for
papers siano stati meno recepiti. Rifle!endo su tu!i gli interventi, il presidente Massimo
Fusillo ha de!o che sarebbe stato bello avere modo e tempo di poter ricominciare da capo,
ribaltare le premesse alla luce di quanto avevamo ascoltato, analizzare proprio le scelte dei
partecipanti e interrogarsi sul perché abbiamo avuto un convegno di questo genere.
E.G.: In effe!i, dando un’occhiata al prospe!o dell’evento emerge proprio l’interesse verso un approccio multidisciplinare; anche se di fa!o sembra esserci stata una certa insistenza sui temi della
psicanalisi, forse riconducibile al particolare momento storico, che richiede una riflessione profonda
sui procedimenti dell’inconscio. A questo proposito, mi piacerebbe comprendere il meccanismo per
cui si generano i feticci nella società contemporanea. Seguendo René Girard2, il desiderio è triangolare nel senso che ha bisogno di un mediatore. La società odierna pone una grande a!enzione sugli
ogge!i e sull’immagine, amplificando a dismisura la funzione del mediatore, che perciò tende a
diventare feticcio. Vuole spiegarmi secondo lei questo come avviene e per quale motivo?
G.P.: Dunque, non so se sono in grado di darle la risposta, ma posso sempre giocare su
quanto si è de!o e si è sentito al convegno. Ancora una volta, c’è una responsabilità bibliografica molto forte: lo studio di Massimo Fusillo, Feticci, che è uscito recentemente ed è
stato un punto di riferimento, assieme al libro di Recalcati e molto più di Girard, che è
stato citato solo tangenzialmente. A dire il vero, ci aspe!avamo che nella nostra sezione,
quella dedicata all’iconologia e alla responsabilità delle figurazioni, ci sarebbero stati più
interventi che prendessero dire!amente in considerazione questo problema; ciò nondimeno un intervento splendido di Francesco Ghelli, uno degli interventi plenari, è stato
dedicato alla responsabilità della pubblicità nella formulazione del desiderio, che ha proprio rifle!uto sull’aspe!o di cui stiamo parlando, quindi il feticcio della merce e il desiderio interpretato come mercificazione. I conce!i di capitalismo, neocapitalismo e post-capitalismo sono riapparsi costantemente, e l’analisi molto raffinata di Ghelli ha preso in
considerazione figure del calibro di Pasolini, arrivando a quello spot del Carosello di molti anni fa in cui l’icona pasoliniana Nine!o Davoli si presta alla pubblicità dei crackers
Saiwa, quindi ponendo il problema se fosse stato un tradimento dell’ideologia di Pasolini
oppure una riflessione sul proprio personaggio. Anche testi di questo genere sono rientrati nel diba!ito sulla responsabilità dell’ogge!o feticcio in le!eratura e nella vita quotidiana, oltre a tante altre forme culturali della contemporaneità.
E.G.: In merito al suo discorso sulla pubblicità mi viene in mente White Noise di De Lillo, in cui il racconto è inframmezzato dalla ripetizione di marche di ogge!i (ad esempio, Coca Cola, Fanta, etc.), inserite
2 René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque (prima ed. 1961).
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Giampiero Pire!o, Elisa Giuliana - Figure del desiderio
nella storia come fossero delle pause pubblicitarie in tv. Parlando di meccanismi del desiderio, noi di Nude
ci chiedevamo se il fenomeno del feticcio fosse legato alla tendenza dell’individuo contemporaneo al godimento immediato, quindi alla jouissance di cui parla Jacques Lacan3, e in particolare se fosse un fenomeno derivante dal mondo capitalista, o dal postmoderno, o se invece fosse qualcosa che c’è sempre stato.
G.P.: Sicuramente le radici storiche sono state rivisitate. Cito tra i molti uno dei più
straordinari interventi che è stato quello di Nadia Fusini, che è partita da Medea ed è
arrivata a Lady Macbeth, e da Macbeth alla problematica contemporanea: il desiderio
di potere, il desiderio indo!o, il desiderio suggerito, imposto, e così via. Quindi, per
rispondere alla sua domanda, direi che il fenomeno del feticcio in prima istanza è un
riconoscimento di una modalità di essere e di sentire che ha radici storiche e secolari,
e il nostro approccio ancora una volta non prescinde – anzi esige – un orientamento
che spazi dalla cultura classica a quella contemporanea. Naturalmente, tu!avia, una
grande responsabilità appartiene al postmodernismo, in cui si ha la necessità di identificare in una cosa precisa e in un ambito – come quello della cultura materiale – la
meta da raggiungere. Un’altra delle considerazioni che sono state fa!e alla tavola rotonda finale è come la maggior parte degli interventi abbiano interpretato il desiderio
come fallimento. Ci sono stati molti contributi dedicati al desiderio fallito, alla mancanza, alla proiezione che non è stata realizzata. Infa!i, sempre un po’ scherzando e un
po’ cercando ragioni più concrete, uno degli interventi finali ha voluto portare la voce
dell’o!imismo e della positività, ricordando che non esistono soltanto fallimenti, mancanze e delusioni, ma che possiamo interpretare una serie di fa!i culturali, politici e
sociali della storia recente come un investimento in un desiderio realizzato. Tu!avia,
non è forse casuale che da parte dei giovani che hanno partecipato al convegno abbia
prevalso un a!eggiamento poco o!imistico e meno positivo.
E.G.: Mi viene da pensare che il desiderio immediato e quello fallito potrebbero essere due facce
della stessa medaglia, ovvero il desiderio realizzato in prodo!i facilmente fruibili serve a placare
un desiderio di qualcos’altro, che oggi viene visto come irraggiungibile. Che ne pensa?
G.P.: Certamente c’è la percezione di qualcosa di più grande, di più ideale, ma difficile
se non impossibile da raggiungere. E non è un caso che l’intervento sull’o!imismo sia
venuto da una collega non giovanissima. La generazione dei trentenni, rispe!o a quella dei cinquantenni e oltre, ha uno sguardo ben diverso su queste cose, molto più disilluso. Sono state prese in considerazione le colpe e i fallimenti delle varie utopie della
storia del Novecento, e non è molto consolante se si pensa che il grosso degli interventi ha messo l’accento sulla disillusione, e che le dinamiche della seduzione sono state
scarsamente prese in considerazione. Anche su questo fronte i giovani che lavorano
oggi non si sono cimentati, come invece avrei immaginato – ma io appartengo ad
un’altra generazione.
3 Jacques Lacan, Le séminaire, Livre XX, Encore, 1972-1975 (Paris: Editions du Seuil, 1975).
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Giampiero Pire!o, Elisa Giuliana - Figure del desiderio
E.G.: Chiudiamo su note poco rassicuranti, ma sicuramente valide per numerosi spunti di riflessione. Può dirmi quale sarà l’argomento del prossimo convegno?
G.P.: Il prossimo convegno avrà come tematica “Retorica e retoriche” – è un titolo ancora molto generico, comunque si tra!erà la retorica del potere. Questo tema del potere è stato prepotentemente richiamato in causa anche da parte degli interventi del
pubblico, quindi ci è sembrato un buon argomento per l’anno prossimo. Il convegno si
terrà in autunno presso l’Università di Parma, e l’organizzatore sarà Giulio Iacoli.
E.G.: Un tema decisamente a!uale, in cui noi di Nude saremmo ben felici di cimentarci! La
ringrazio e spero di rivederla in quell’occasione.
In effe!i la questione del desiderio e quella della retorica del potere sono interconnesse. Come spiega Slavoj Žižek interpretando Lacan, “belonging to a society involves
a paradoxical point at which each of us is ordered to embrace freely, as the result of our
choice, what is anyway imposed on us.”4Questo significa che desideriamo abbracciare i
de!ami della società, e questa aspirazione non è spontanea, bensì indo!a. Persino l’ansia e il soddisfacimento del piacere sono costruiti in questo senso: “enjoyment itself,
which we experience as “transgression”, is in its innermost status something imposed,
ordered.”5È evidente che per giungere ad una consapevolezza del nostro tempo è necessario capire a fondo i meccanismi che ne stanno alla base, e in tale senso, iniziative
come quella di Compalit sono fondamentali, in quanto districare la matassa che lega
desiderio, etica e linguaggio del potere è un passo essenziale per rieducarci al “godimento che non dissipa la vita”6 e liberarci dagli inganni della retorica.
4 Slavoj Žižek, How to Read Lacan , p. 12. Per un estra!o dal libro cliccate qui.
5 Žižek, For They Know Not What They Do: Enjoyment As a Political Factor , p. 9.
6 Massimo Recalcati, Ritra!i del desiderio
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Vuoti ricettacoli di desiderio
di Emanuele del Rosso
Qualche mese fa, ho letto un articolo sul Guardian circa il desiderio mimetico, una teoria di René Girard che m'è parsa immediatamente utile per un lavoro su letteratura
e società come questo. Quindi mi sono procurato Struttura e personaggi nel romanzo
moderno, nel quale l'intellettuale francese per la prima volta presenta la sua idea. In
realtà durante la sua vita Girard ha scritto una quantità enorme di saggi a riguardo,
e Struttura è il primo: ma vorrei usare la sua teoria solo come punto di partenza per
sollevare una serie di questioni attraverso le quali proverò a tratteggiare la situazione
del lettore nella società contemporanea.
Ora, Girard dice che il personaggio di un romanzo, come per esempio Don Chisciotte,
desidera sempre attraverso un mediatore, con il quale si confronta e che imita, per
ottenere l'oggetto del suo desiderio – in questo caso lo status di cavaliere; il desiderio
quindi non è “puro”, ma mediato da Amadigi di Gaula, un altro personaggio di un
romanzo che il Don ha letto. Quindi abbiamo un triangolo: sulla cima, l'oggetto desiderato, e agli altri due angoli il personaggio e il mediatore.1
In questo caso, il mediatore è esterno, perché è irraggiungibile dal protagonista; è contemporaneamente amato-odiato, ma i due non si incontrano mai. In altre circostanze
invece potremmo trovare un mediatore interno, più vicino al soggetto desiderante e in
lotta con questo, magari perché entrambi vogliono l'oggetto, o magari perché è proprio
il mediatore interno a possederlo. Qui il risentimento del personaggio verso il mediatore è tanto più forte quanto più i due siano a contatto tra loro.
Ma, secondo Girard, la teorizzazione nietzschiana della morte di Dio segna una svolta:
i personaggi dei romanzi improvvisamente restano senza il più grande “desiderio verticale” immaginabile – con il Messia come mediatore – e possono soltanto rivolgersi
ad un mediatore interno, sceso sulla terra e in lotta contro di loro per il possesso o il
raggiungimento dell'oggetto desiderato. Non esistono più opere come, per esempio, I
promessi sposi, in cui la fede premia i personaggi facendoli trionfare sui loro antagonisti. Gli attanti si muovono in un mondo pieno di conflitti, privati anche, oramai, della
possibilità di una visione più grande, e di una più grande speranza:
Dio è morto, tocca all'uomo prendere il suo posto. La tentazione dell'orgoglio è eterna ma
diventa irresistibile nell'era moderna poiché è orchestrata e amplificata in maniera inaudita.
[...] Tu!i gli uomini scoprono nella solitudine della loro coscienza che la promessa è fallace, ma
nessuno è capace di universalizzare questa esperienza. La promessa rimane vera per gli altri.2
1 Girard, p. 7.
2 Girard, p. 52.
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Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
Come avrete notato, il discorso del francese è latamente valido anche sul piano reale,
oltre che su quello letterario. Sta qui la parte della sua teoria che a me interessa. Del
resto in esergo a Struttura sta una citazione da Scheler: "L'uomo ha o Dio o un idolo".
Era chiaro fin dall'inizio. La cosa riguarda noi. Anche privati dell'idea di un'entità sovrana a cui rapportarci, abbiamo comunque bisogno di un qualche esempio da seguire; purtroppo, tra l'altro, vale a poco il fatto che noi, quali essere umano ora soli
tra noialtri, cerchiamo di convincerci – in un modo che Girard chiama romantico – che
non abbiamo alcun bisogno di un mediatore perché il nostro desiderio è direttissimo
all'oggetto; che non stiamo imitando nessuno, che viviamo una vita libera ed autodeterminata. Sappiamo benissimo che stiamo pateticamente mentendo a noi stessi.
Certo, si potrebbe dire con un po' di leggerezza, l'uomo medio non passa il tempo a
pensare a Nietzsche! Ma poi ecco che arriva il postmoderno, con il suo enorme bagaglio di scetticismo teorico verso la verità, il reale, l'universale, il pan- e, sopratutto, le
metanarrative – naturalmente riassumo all'estremo – e realizza proprio la fine del desiderio verticale di cui sopra: scende per le strade ed alla morte di Dio aggiunge altre
morti, trucidando tutte le cosiddette grandi narrative, sistemi inclusivi e totalizzanti.
Lascia anch'esso l'uomo libero di muoversi in una realtà dominata dagli uomini; siamo
liberi di combattere per i nostri desideri contro altri, differenti da – e uguali a – noi allo
stesso tempo; siamo sia mediatori che soggetti desideranti e possiamo, o forse dobbiamo, invidiare il prossimo e vivere una vita priva di “spinta verticale”3.
E fin qui, non c'è molto di nuovo; abbiamo solo ripercorso due tappe fondamentali della storia degli ultimi due secoli. Io però aggiungerei qualcosa ancora, qualcosa che in
parte contraddice quanto detto: c'è, penso, anche nell'era della fine del desiderio verticale, un oggetto irraggiungibile nel quale noi concentriamo tutti i nostri sforzi. È l'idea
di benessere occidentale, che riassume in se stessa alcuni dei più importanti argomenti
che caratterizzano quello che consideriamo essere l'uomo contemporaneo, quindi concetti metafisici come la famiglia, la libertà, l'autodeterminazione – o presunta tale – la
scalata sociale, l'istruzione e, la più importante, la possibilità di consumo. Se possiamo
avere queste cose, possiamo essere “felici”. Bauman, nel suo Modernità liquida, spiega
come la società del XXI secolo non sia meno moderna di quella tradizionalmente definita tale, e tutt'al più possa esserlo in modo differente: “ciò che la rende altrettanto
moderna di quanto lo fosse un secolo fa è ciò che ne differenzia la modernità da tutte
3 A proposito dell’Altro, è molto interessante il collegamento che Recalcati fa tra il pensiero
di Lacan e quello di Girard in Jacques Lacan. Desiderio, godimento e sogge!ivazione : “Il desiderio del sogge!o non può in questa relazione essere confermato se non in concorrenza, in
rivalità assoluta con l’altro nei confronti dell’ogge!o verso cui tende.” La violenza scaturisce,
dice Recalcati, da un eccesso di prossimità con l’altro, in cui vediamo l’immagine del nostro “Io
ideale” creatasi nello stadio dello specchio lacaniano: ciò che vorremmo essere e non siamo, ciò
che vorremmo avere e non abbiamo. (Recalcati, p. 43)
13
Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
le altre forme storiche di coabitazione umana: la compulsiva e ossessiva, continua,
irrefrenabile, sempre incompleta modernizzazione”4. Quindi un telos ce lo abbiamo. Viviamo, dice Bauman citando Max Weber, nella “impossibilità di sentirci gratificati”5.
Ed ecco che torna Girard: non stiamo infatti parlando di un desiderio verticale? Se
non altro perché si tratta di un fine irraggiungibile, una gara contro tutto e tutti. Ed è
anche una meta-narrativa, ordinatrice, mostrataci dalla televisione, dal cinema e dai
nuovi – oramai quasi adulti – media, dai quali possiamo vedere come le nostre vite
dovrebbero essere. Come ha scritto Terry Eagleton, “everyone has now been converted into consumers, mere empty receptacles of desire,”6 e tutti noi dobbiamo seguire i
nostri mediatori esterni, che fanno bella mostra di sé sugli schermi e non sono in lotta
con noi, perché sono lontane e intoccabili entità, fatte, parafrasando Shakespeare, della
stessa materia di cui sono fatti i sogni7.
Per completezza vorrei aggiungere qui una puntualizzazione, che può anche essere
una obiezione giustificata: Bauman afferma esattamente l'opposto di quel che dico
io, sostenendo che l'epoca postmoderna è caratterizzata dal crollo della convinzione
che “la strada lungo la quale procediamo abbia un fine”8: ci sono moltissime ragioni
per sostenerlo, ma credo che lo sforzo della società Occidentale sia rivolto proprio a
nascondere questa evidenza, a convincerci che invece le cose miglioreranno sempre di
più, che le malattie verranno debellate, che ci sarà cibo per tutti, eccetera. Tra l'altro,
poche pagine dopo aver sostenuto che siamo consci dell'insensatezza di tutti i nostri
sforzi, Bauman aggiunge che i continui “traslochi” a cui ci costringe l'epoca postmoderna non ci danno “nessuna sensazione di «essere arrivati»”: verissimo, ma allora,
se sappiamo che non c'è un fine, perché continuiamo a comportarci come se ci fosse?
Quel che si può dire, come minimo, è che siamo costretti ad avere un telos, per quanto
consapevoli della sua inutilità.
E questo telos è una grande narrativa eccome: è l'idea di benessere occidentale che sopperisce alla mancanza di grandi narrazioni. Certo, non è una metanarrativa “pura”,
perché non include in modo metastorico tutti gli eventi dal passato al presente; eppure
lo è, in un altro senso, perché noi, apparentemente, possiamo immaginare il progresso umano solo come una strada a senso unico verso la felicità, ed è questa la strada
che (pensiamo) percorre la cultura occidentale. L'entropia sociale – forze disgregative
interne, individualismo imperante – io trovo, è tenuta a freno dalla fiducia verso un
desiderio naturale e onnicomprensivo di benessere; questa è una grande narrativa – e
4 Bauman, p. 18.
5 Ivi, p. 19.
6 Terry Eagleton, The Illusion of Postmodernism. Mi scuso, ma proprio non sono riuscito a recuperare la pagina da cui ho tra!o la citazione.
7 William Shakespeare, La tempesta, a!o IV, scena I
8 Bauman, p. 19.
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Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
noi, sempre più poveri e tristi a dispetto della nostra superiorità economica e culturale,
stiamo sperimentando la sua falsità.9
Ma torniamo all'argomento che qui interessa. Diamo per esempio uno sguardo alla
politica: possiamo trovare anche qui il desiderio mimetico? Pensiamo a Berlusconi, un
modello di uomo – macho all'italiana, come spesso si pensa all'estero – per quelli che lo
ammirano e un buon esempio per i falsi liberali capitalisti che vogliono un modo facile
e veloce per far grana, non importa come. Come ogni mediatore esterno è intoccabile
e irraggiungibile, ma allo stesso tempo il suo populismo lo avvicina alle masse, rendendolo uno strano ibrido tra mediatore interno ed esterno: ricchissimo e inarrivabile
certo, ma rude, invidiato ovviamente, ma gran simpaticone, un piacevole ragazzaccio
attempato, uno come noi, un “compagno di bevute”. Žižek lo ha definito un “leader
'umano, troppo umano'” sostenendo che rappresenti “una sorta di laboratorio sperimentale del nostro futuro”, un compromesso tra “tecnocrazia liberale permissiva e
populismo fondamentalista”10. È stato una guida sulla strada del farsi-da-sé per una
bella fetta di italiani, e solo per questo suo ruolo di modello di successo.
Torniamo al romanzo, ora. Come abbiamo visto, il desiderio triangolare è ovunque.
Ma, non è strano che io non abbia speso una parola riguardo arte e cultura? In effetti
non lo è. Dewey ha scritto – ne ho già parlato nello scorso numero della rivista – che, in
una società imperfetta come la nostra, le arti sono spinte nel “ghetto dei musei” e così,
anche se può sembrare che ciò dimostri il loro valore, in realtà è solo che sappiamo
esattamente dove non andare per evitarle: “guarda e passa”, direbbe Dante. Così, è
difficile parlare di una letteratura che, nello scorso mezzo secolo, possa aver avuto
un qualche ruolo di mediatrice in qualche tipo di desiderio. Pensiamo a questo,
chiamando in causa di nuovo Manzoni: difficilmente ci capiterà di leggere di fatti
di cronaca come “capoclan dei Casalesi si redime dopo aver letto il capitolo de I
promessi sposi riguardante la conversione dell'Innominato”, ed invece è molto più
plausibile che si senta parlare di un “bunga-bunga mega party” sulla falsa riga di
quello più famoso, e che tra l'altro non ci si scandalizzi minimamente – anzi l'opinione di molti è che l'organizzatore, invidiato quale mediatore esterno verso lo
spasso, sia uno che sa godersi la vita. L'esempio è paradossale, ma il punto è che
la letteratura ha perso precipitosamente appeal in ogni senso, che non siamo più
abituati ad averci a che fare davvero, che non ci verrebbe neanche in mente che
essa possa costituire un esempio.
9 Potremmo anche me!erla in termini antitetici: invece che ricerca di benessere potremmo
chiamarla allontanamento dal dolore , di modo da me!erci in linea, in parte, con il discorso
di Rorty sulla solidarietà. Inoltre il fa!o che sia falsa non significa che non esiste, ma solo che
esiste e non dice il vero: esiste che io voglia svegliarmi domani stando meglio di come sto oggi,
ma non esiste questa certezza, contrariamente a quanto ci viene insistentemente de!o.
10 Slavoj Žižek , Dalla tragedia alla farsa, p. 65 .
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Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
Anche ideologicamente: certo essa può rivelarsi molto utile a sviluppare una certa idea
del mondo, a capire come le cose dovrebbero essere, potendo conoscere altre culture, e
capirle. Ciascuno potrebbe, in teoria, trovare in un romanzo o in una poesia un grande
mediatore verso la felicità, anche semplicemente pensando al buon esempio che possiamo trarre da un romanzo o un racconto: del resto il “lieto fine” non è anche il nostro
fine? Eppure, nel grande gioco della ricerca di benessere, non c'è affatto spazio per la
lettura11.
Il problema grosso è che i nuovi media, nostri veri “portatori di cultura”, spingono
nella direzione opposta, e sono mediatori più forti di qualsiasi racconto scritto o opera
d'arte; ci mostrano una immagine del mondo che non fa altro che rinforzare la nostra
idea che tutti facciano un po' quel che gli pare, e dunque perché noi no? con tutto ciò
che questo relativismo etico si porta dietro. Dando uno sguardo ai nostri programmi
TV, per esempio, quel che possiamo vedere è una società spaventata dal diverso –
dall'altro, lontano da noi e allo stesso tempo vicino, sempre pronto a rubarci il lavoro
e in lotta per avere lo stesso oggetto che desideriamo noi. Allora scopriamo che il nostro ruolo di mediatori nel grande triangolo adesso è di mediazione interna, perché
il soggetto desiderante, se prima lontano, è ora alla porta, e non vale meno di quanto
noi valiamo; quindi dovrem(m)o trovare un modo di convivere, perché vogliamo la
stessa cosa allo stesso tempo, ed è facile che tutto ciò sfoci in rabbia e violenza. Non
voglio ridurre il problema delle migrazioni alla geometria naturalmente, ma vediamo
bene che il desiderio mimetico può avere una dimensione così enorme da comprende
l'intero sistema in cui viviamo.
Un altro grande tema, che voglio solo accennare, direttamente connesso a tutto quel
che ho detto, è l'influenza del mercato sulla letteratura. Il mercato segue i nostri gusti,
o siamo noi a scegliere quel che il mercato vuole sia meglio per noi? La linea di confine
tra le due idee è davvero sottile. Pensiamo soltanto ad alcuna “critica letteraria” che
suggerisce libri da leggere – a volte pagata da qualche casa editrice: non potrebbero
essere solo mediatori esterni di cui ci fidiamo, magari per via della loro fama di romanzieri, per esempio? Sei certo di decidere da solo? Cosa vuoi davvero? Probabilmente è
impossibile dirlo.
Tuttavia, un'alternativa potrebbe esserci. A rischio di ripetermi, non posso fare a meno
di sottolineare che il web mi pare sempre più una strada percorribile: è lì che potremmo trovare una qualche forma di letteratura diversa dalle pietanze già pronte e
semifredde che ci vengono servite dal mercato. Certamente una letteratura che possa
riprendere il suo ruolo di mediatrice verso il nostro desiderio di benessere non può
11 Cito un appunto fa!omi da Sarah De Sanctis: “A questo proposito, noterei che la ricerca del
benessere dipende dalla scienza. La scienza dà sapere spendibile, la le!eratura dà un sapere
critico, che non crea profi!o e in più è scomodo per il potere. Non stupisce che le facoltà umanistiche in tu!o il mondo stiano pressoché fallendo.”
16
Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
sorgere nel luogo dell'omologazione e della massificazione per eccellenza, ossia il mercato; invece, nella rete ce ne è per tutti i gusti, e la maggiore libertà autoriale, benché
sia una lama a doppio taglio, garantisce una gamma più vasta di possibilità. Sono certo
che ciascuno di noi deve avere una sua strada per la “felicità”, ed è solo perché siamo
senza alternative che abbiamo dei gusti così simili.
E qui si ripete la solita obiezione, a cui ho risposto nel primo numero di Nude, riguardo l'immondizia che gravita nella rete, e torno a ripetere – forse con eccessiva fiducia
– che c'è una buona probabilità che per contenuti come quelli letterari la cosa si possa
autoregolare da sé. Ma non voglio parlare di questo.
Il problema è che il nostro più grande desiderio triangolare è frustrato da una mediazione inadeguata. Il postmoderno ci ha tolto tutti gli idoli, ogni certezza, e non è detto
che non fosse giusto, ma il fatto che ci siano proposte di un ritorno-a-qualcos'altro
significa che non riusciamo a trovare una strada percorribile12. Infatti le forze in movimento qui sono due: da una parte, essendo tutto relativizzato all'estremo, non c'è nulla
a cui aggrapparsi, e dall'altra, nei fatti, questa relatività è una imposizione localistica
da parte di faccini e faccioni che ci dicono, sostanzialmente, cosa è giusto: il po-mo forse artisticamente e filosoficamente può rivendicare tutta una frizzantezza spensierata,
ma l'epoca postmoderna è una gran noia in cui le cose si ripetono e ripetono, ed in cui
siamo di fatto privati della nostra libertà. Infatti, citando Bauman, “ci si sente liberi
nella misura in cui l'immaginazione non supera i desideri reali”13, e di fatto il mestiere
dei mediatori esterni, dei quali è tappezzato il nostro desiderio di benessere occidentale,
è darci un fine irraggiungibile, o meglio ancora surrogarlo con feticci acquistabili a
buon mercato, privandoci sostanzialmente della nostra libertà.
Perciò, tornando a quel che dicevo, la mediazione è inadeguata perché omologante, e
se potessimo tutti sceglierci i nostri mediatori, interni o esterni che siano, forse avremmo un vero risultato. Per questo parlo del web: la possibilità che si sviluppi una letteratura che trovi la giusta strada per insegnare qualcosa, proponendo i giusti mediatori,
uscendo forse dal vicolo cieco postmoderno – magari proprio sulla scorta di un ritorno
ai fatti oramai sulla bocca di tutti – deve esistere, e può esistere solo in zone almeno in
parte al di fuori della routine del mercato.
12 Parlo del diba!ito nuovo realista, per capirci. Ferraris, a onor del vero, ripetutamente sottolinea che non si tra!a affa!o di un ripercorrere i propri passi. Ma a me pare che una componente nostalgica, nelle idee che propone, sia presente. Con ritorno-a-qualcos’altro, forse, si
può definire adeguatamente il conce!o nuovo realista: non si tra!a di tornare indietro, ma di
proporre qualcos’altro, sono d’accordo; però la parola ritorno è necessaria, perché la volontà di
proporre il nuovo si basa su evidenze che c’erano già prima che il postmoderno le nascondesse:
un “ritorno a qualcosa di nuovo”.
13 Bauman, p. 4.
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Emanuele del Rosso - Vuoti rice!acoli di desiderio
Lo so, sembra impossibile anche solo immaginare qualcosa di tanto multiforme da
riuscire a sfuggire ai mastini della cultura di massa14. Si tratterebbe di qualcosa di velocissimo e imprendibile, sempre pronto allo scarto e sempre rivolto al vero, ed anche
noi – e qui sta il bello – saremmo continuamente al suo inseguimento15.
14 E proprio perché multiforme, capace di soddisfare ciascuno di noi, di volta in volta.
15 Me!o in nota, per non rovinare l’o!imismo della chiusa, una postilla che ci riporti alla
dura realtà. David Foster Wallace, in “E unibus pluram: gli scri!ori americani e la televisione”
(in Tennis, Tv, trigonometria e tornado) parlando della narrativa di immagine, scrive: “la ragione
per cui questo a!acco irriverente, postmoderno, non riesce ad aiutare i giovani immaginisti a
trasfigurare la tv è semplicemente che la tv li ha ba!uti sul tempo”. Il problema, in senso lato,
è anche oggi lo stesso.
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Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
di Carolina Pernigo
Non c’è mai fine al desiderio. Neanche nell’epoca della società di massa, della moltiplicazione delle voglie e della loro soddisfazione immediata, della pubblicità dilagante
e degli uomini- zombies che invadono i centri commerciali, come in Dawn of the Dead
(1978) di Romero. Il regista americano aveva ben compreso che “la compulsione più
profonda e radicata dell’uomo tardo-novecentesco era l’acquisto, il consumo, o meglio
l’acquisto nella speranza di un consumo gratificante e definitivo della merce; quel consumo che non c’è mai e che fa sì che si continui a voler comprare”1. L’homo consumens
descritto da Zygmunt Bauman nel suo famoso saggio del 2007 è una creatura onnivora
e desiderante, e pertanto perennemente insoddisfatta e inappagata; troppo facilmente
ottiene ciò a cui ambisce e nulla si rivela mai all’altezza delle sue aspettative, nulla è
mai realmente voluto. Viene meno l’attesa spasmodica e frustrante che dà valore alla
ricerca, mentre imperversa una cultura sempre più orientata alla fruizione immediata
dei beni. Se dunque il sogno permane, come motore dell’umana esistenza, cambia però
inevitabilmente forma, nella vita come nella letteratura.
Analogamente, c’è un progressivo indebolimento nelle trame romanzesche del topos
dell’inseguimento inesauribile dell’oggetto bramato, dal sacro Graal ad Angelica in
fuga, e si impone invece un motivo nuovo, che è quello dell’ossessione. Come può
essere definita infatti l’ossessione erotica se non la forma estremizzata, tutta contemporanea, del desiderio? Pare che nel ventesimo – ma ancor più nel ventunesimo – secolo,
le uniche relazioni amorose possibili siano dominate dagli squilibri e dalle nevrosi. L’inestricabile nesso che collega eros e thanatos assume sfumature inedite, frutto di complessi e disfunzioni psichiche inspiegabili se non alla luce del determinato periodo
storico in cui maturano.
L’ossessione diventa quindi tema letterario di primaria importanza, ma anche strumento espressivo in sè. Non sono poche le opere novecentesche in cui l’autore ricerca
deliberatamente una coincidenza di significante e significato, di forma e di contenuto,
di stile e di trama. La scrittura odierna risulta infatti profondamente influenzata dal
nuovo modo, deviante e straniato, di intendere la passione. Due esempi particolarmente significativi, cui intendo dedicare questo saggio, sono costituiti da Un amore
(1963) di Dino Buzzati e L’odore del sangue (1979; I ed. postuma 1997) di Goffredo Parise.
Il primo, trasfigurazione letteraria di un’esperienza autobiografica dello scrittore bellunese, è stato, non a caso, definito da Eugenio Montale la “dissezione quasi anatomica
1 Stefano Tani, “Sulle metafore del ventunesimo secolo: lo schermo, l’alzheimer, lo zombie”,
Il ponte, LIV, n. 3, marzo 2008, p. 115.
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
di un sentimento amoroso che molti diranno patologico”2. Il protagonista, Antonio
Dorigo, è il tipico inetto novecentesco: architetto specializzato in scenografie teatrali, a
quarantanove anni vive ancora con i genitori e per colpa di una rigidissima educazione
cattolica è del tutto incapace di relazionarsi in modo spontaneo con l’altro sesso. Frequentatore abituale di postriboli, l’uomo si innamora di una giovanissima prostituta,
Adelaide Anfossi, detta “Laide” come molte famose cortigiane della classicità. E se il
soprannome rimanda immediatamente alla natura laida della professione di lei, “Ade”
evoca invece il regno dei morti umbratile e malinconico degli antichi, facendo già intravedere il piccolo inferno privato in cui quest’incontro farà sprofondare Antonio. La
ragazza, ballerina di second’ordine alla Scala, viene descritta attraverso un sistematico
ricorso alle tecniche dell’accumulazione retorica: “era una faccia decisa, spiritosa, ingenua, furba, pulita, provocante” [UA, 29]; “sfrontata, maliziosa, civetta, popolaresca,
sicura di sé” [UA, 61]; ma soprattutto era “la donna più desiderabile fra tutte le donne
del mondo, lei ossessione incubo fatalità mistero vizio segretezza chic malavita grande
città perdizione amore, […] ragazzina e non ragazzina, bambina e donna, fiorellino e
peccato” [UA, 145]. L’attrazione dell’uomo per Laide nasce da una misteriosa sensazione di déjà vu, dall’impressione di averla già intravista per strada alcuni mesi prima e
di esserne stato colpito per “una di quelle intuizioni dell’animo apparentemente assurde, [per] un presentimento: come se [quel momento] avesse importanza nella sua vita”
[UA, 38]. La pervasività del sentimento di Dorigo è segnalata fin da subito anche da un
punto di vista meramente formale, attraverso l’erompere – poi costante nel romanzo –
delle ripetizioni anaforiche:
L’incontro con la Laide gli aveva lasciato uno strano turbamento[: c]ome se qualcosa lo avesse toccato dentro. Come se quella ragazza fosse diversa dalle solite. Come
se fra loro due dovessero succedere molte altre cose. Come se lui ne fosse uscito
differente. Come se Laide incarnasse nel modo più perfe!o e intenso il mondo
avventuroso e proibito. Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando
uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma
non sa di che cosa né il motivo. [UA, 52]
L’idea della passione come patologia incurabile, qui appena accennata, diviene ben
presto il leitmotiv della trama. Un intero capitolo, il XIV, è dedicato alla sintomatologia
dell’ossessione amorosa: la mente di Antonio è tutta focalizzata sulla ragazza che, vero
e proprio parassita dell’anima, si infila nel suo cervello per risucchiarne ogni energia
vitale. Tutto ciò che non la riguarda cessa di avere alcuna importanza e “per quanto
egli cerchi di ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della
giornata, ogni cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce fulmineamente a lei
attraverso tortuosi e maligni riferimenti” [UA, 92]. La gelosia lo attanaglia e lo porta a
maturare pensieri insani: “immaginava per esempio che la Laide fosse andata sotto un
2 AAVV, “Antologia Critica”, in Dino Buzzati, Un amore [UA ], Milano, Mondadori, 1963 e
2006, p. 7.
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
tram e avesse perduto una gamba. Come sarebbe stato bello. Lei inferma, tagliata fuori per
sempre dal mondo della prostituzione, del ballo, delle avventure, non più insidiata da nessuno” [UA, 95]. La giovane si rende ben conto del proprio ascendente sull’amante e lo sfrutta senza remore: si fa dare passaggi in auto, lascia conti da pagare, chiede prestiti, affida il
cagnolino da accudire mentre si allontana con il “cugino” Marcello. Al contempo, però, si
mostra sempre più indifferente, irraggiungibile. Dorigo si sente in balia di una forza superiore che lo trascende e lo trascina verso un baratro sempre più prossimo, eppure non può
contrastarla in nessun modo. Più cresce la sua umiliazione, più cresce la dipendenza. Laide
non gli basta mai, le poche ore che passa in sua compagnia gli fanno percepire con maggiore intensità che lei non è realmente sua e che molto di più è il tempo che la donna può
trascorrere in compagnia di altri amanti. Le propone allora un patto, nel vano tentativo di
ingabbiare lei come la passione come lo domina: cinquantamila lire a settimana, in cambio
di visite a cadenza regolare e di una sorta di diritto di prelazione sugli impegni della sua
vita. La ragazza accetta e l’uomo crede finalmente di essersi liberato dalla sua oppressione:
“adesso era lei sotto, adesso era lui a dominare. Né si chiedeva se non fosse abietto vincere
nel duello d’amore soltanto a base di soldi. La consolazione era tale che il modo di raggiungerla non aveva più alcuna importanza” [UA, 147]. Ma subito dopo, eccolo ricadere nell’incubo, opportunamente enfatizzato grazie all’enumerazione e ad un sapiente uso anaforico:
Non si era liberato, ecco la questione, non si era affa!o liberato. Il pensiero di lei,
tormento, inquietudine, angoscia, totale infelicità, la possedeva come prima. Peggio di prima anzi perché il pa!o con Laide […] ora gli dava un barlume di diri!o su
di lei. […] Peggio di prima perché adesso quell’embrione di diri!o rendeva ancora
più insopportabile la libertà di Laide. [UA, 148-149]
Si inizia a comprendere come questo romanzo sia per Dino Buzzati anche l’occasione
per uno splendido esercizio stilistico. Tutte le tecniche narrative, le figure del discorso,
gli espedienti formali vengono piegati alla necessità di descrivere la fissazione erotica
del protagonista. Le interrogative affettive e retoriche si accumulano creando una climax di tensione crescente, la caduta della punteggiatura e la sintassi franta rendono il
turbamento emotivo dell’uomo innamorato, l’attenzione spasmodica allo scorrere dei
minuti mette in rilievo la monomania di Antonio. Dal discorso indiretto si scivola senza soluzione di continuità nel flusso di coscienza, e il lettore quasi non se ne avvede:
Antonio comincia a sentire la solita tensione. […] Basterebbe avere la certezza che lei viene[,
ma] la certezza non c’è. I precedenti non bastano. Ogni volta, quando sono passati dieci
minuti, incalza l’ossessione: la Laide stasera non viene la Laide non verrà la Laide non verrà
e domani non telefonerà la Laide non verrà e non telefonerà mai più[. S]ono passati dodici
minuti l’ultima volta era in ritardo di dieci, al massimo è stata in ritardo di sedici minuti,
quindi c’è ancora un margine[. P]er me è spaventoso ogni volta è così amme!o che la colpa
è mia amme!o che io sono un fissato che è una specie di forma mentale ma non ne posso
più. No così è impossibile andare avanti non vivo più non lavoro più non mangio più non
dormo più. [UA, 167-168]
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
La ragazza, riluttante a rinunciare alla propria libertà, continua a condurre la propria
esistenza indipendentemente da lui, accampando scuse, bugie e storie inverosimili a
cui Antonio ciecamente si ostina a credere. Ogni tentativo di interrompere una relazione che si fa via via più degradante e avvilente è vano, poiché “senza di lei non c’è
più senso nella vita nel lavoro nei discorsi nel mangiare nel vestirsi, tutto è assurdo e
idiota senza lei” [UA, 248]. Perciò, quando finalmente – messo di fronte alla realtà dei
continui tradimenti dell’amata – l’uomo, in un estremo sussulto di dignità, la lascia,
la risoluzione non può che essere di breve durata. L’ultimo capitolo, con un coup de
théâtre inaspettato, svela il senso dell’intero romanzo: si era lasciato il protagonista solo
e disperato; lo si ritrova ora, trascorsi pochi mesi, a letto, insieme a Laide. Lei riposa
quieta, in totale abbandono. La si scopre redenta, devota, incinta. Del passato non si
parla più, davanti alla nuova coppia si apre un futuro di potenziale felicità. Eppure
Dorigo non è sereno. La passione, per quanto tormentosa, era pur sempre indice di
vitalità, di giovinezza, di impulsi persistenti dell’animo: “il pensiero di Antonio era interamente succhiato da lei, da quella vertigine, era un patimento era una cosa terribile,
mai lui aveva girato con simile impeto, mai era stato così vivo” [UA, 269]. Soddisfatto
il desiderio che alimentava l’ossessione, il protagonista vede all’improvviso riemergere uno spettro dimenticato, una “torre grande e nera […] sprofondata nell’animo
da quando era ragazzo” [UA, 269], l’incubo – a sua volta maniacale, nevrotico – della
morte incombente. Tutto preso da questa nuova idea fissa, Dorigo non riesce più a
pensare ad altro, a concentrarsi sulla donna che gli giace al fianco, radiosa e splendente
nella stagione lieta della sua vita. Un’epifania di bellezza ha luogo nella stanza da letto,
ma passa tragicamente inosservata: “la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno,
neppure lui alzerà gli occhi a guardarla” [UA, 270].
Altrettanto frustrante si rivela per il lettore L’odore del sangue, composto da Goffredo Parise nel 1979 in seguito ad una violenta crisi cardiaca e poi chiuso per anni in
un cassetto, da dove sarebbe stato tirato fuori per una rilettura nel giugno 1986, tre
mesi prima della morte dell’autore. Il romanzo, mai licenziato ufficialmente, è stato
pubblicato postumo solo nel 1997. La storia è narrata in prima persona da Filippo,
psicanalista cinquantacinquenne, che si configura immediatamente come personaggio
negativo, arrogante e narcisista. Sposato da vent’anni con Silvia, a lui legata da una
devozione quasi religiosa, da due la costringe ad accettare la sua relazione con una
ragazza di campagna poco più che adolescente, ultima di tutta una serie di adulteri3.
Uomo esistenzialmente inquieto, perennemente soverchiato dalla noia, Filippo non
sa scegliere tra le due donne poiché gli sono necessarie entrambe: la giovane, Paloma,
come incarnazione dell’eros e dello slancio verso il futuro; la moglie, a cui lo lega un
rapporto simbiotico e indissolubile, come compagna di lunghe conversazioni telefo3 “Da una diecina d’anni, o per una ragione o per l’altra scappavo sadicamente da Roma e andavo con altre donne e Silvia rimaneva a Roma sublimando e non amando masochisticamente
nessun altro all’infuori di me”, Goffredo Parise, L’odore del sangue [OS ], Milano, BUR, 1997 e
2004, p. 14.
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
niche, specchio in cui riflettere il proprio ego smisurato. La situazione di equilibrio
che sembra essersi creata vacilla però tutto a un tratto quando anche Silvia, inaspettatamente, si innamora di un altro, un venticinquenne ignorante e fascista, dedito al
culto del corpo e della violenza, uno di quei “giustizieri della notte […] che avevano
assassinato Pasolini, […] che avevano stuprato le ragazze del Circeo, […] che avevano
bruciato un somalo dormiente” [OS, 91]. Colto alla sprovvista dalla notizia, Filippo in
un primo momento viene colto da uno stato di ottundimento, di narcosi, dopodiché
inizia a sentire l’odore del sangue, che è l’odore della morte ma anche della vita, dello
sperma e delle passioni carnali, degli impulsi animali sopiti nell’animo umano e del
dirompere della giovinezza. Accompagnato a questo odore, si presenta alla mente un
oscuro e funesto presentimento, un senso di agguato e di minaccia diffusa. Il marito
geloso, incapace di accettare l’idea che la moglie da lui plagiata e “quasi eterodiretta”
[OS, 29] abbia potuto riversare i propri sentimenti altrove, cerca di razionalizzare la
situazione riducendola a un caso clinico da analizzare. Ostinatamente ribadisce il suo
desiderio di conoscere la verità per poterla esorcizzare4, celando così le proprie motivazioni egoistiche, in primis il tentativo di sanare l’orgoglio ferito distruggendo Silvia
a sua volta.
In questo senso, si possono rimettere in discussione le parole di Cesare Garboli laddove sostiene che “una riprova d[ella] macroscopica mancanza di lima e di rilettura
[del testo] è data dalle frequenti ripetizioni. […] Se Parise avesse avuto il tempo e la
voglia di ritornare sul suo romanzo [s]icuramente ne avrebbe riconosciuto le sviste, le
imperfezioni, […] gli errori, le incongruenze. Avrebbe corretto e modificato”5. Se infatti è indubbio che l’opera appaia scritta di getto e presenti diverse note stridenti, nella
sintassi come nell’intreccio, si può anche ipotizzare che l’autore abbia scelto deliberatamente di tornare in più punti sulle stesse scene, sugli stessi episodi, sugli stessi dialoghi, che si ripetono a intervalli regolari diventando elementi portanti e fili conduttori
della trama. L’odore del sangue narra della vittoria dell’ossessione sulla razionalità, delle
pulsioni inconsce sulla psicanalisi. Filippo crede di osservare l’avventura di Silvia con
l’occhio del medico, ma è invece quello del marito che inevitabilmente prevale e filtra
la realtà. Prova ne è che la nevrosi scaturisce non da un dato reale, ma da una fantasia
notturna in cui l’uomo immagina la moglie praticare una fellatio al giovane amante
senza volto. Questa scena, poi rievocata continuamente nel sonno e nella veglia, “da
4 Cfr. ad esempio: “Quale miglior metodo per esorcizzare qualunque cosa se non quello della
conoscenza[?]” [OS, 20]; “[l’ossessione] la sentivo crescere mostruosamente in me senza che io
potessi farci nulla. Non avevo né forza né strumenti per esorcizzarla” [p. 58]; “avrei tentato con
tu!e le mie forze di partecipare al suo amore, di conoscerlo; se non altro sarebbe servito ad esorcizzare la mia ossessione, quella sì è davvero una nevrosi” [OS, 70]; “pensavo che, una volta
sapute le cose, esse si sarebbero in qualche modo ogge!ivate e dunque esorcizzate” [OS, 86];
“una volta saputa la verità […] avrei esorcizzato l’ossessione” [OS, 121]; “il ragazzo di Silvia
[era] il demone da esorcizzare” [OS, 163].
5 Cesare Garboli, “Prefazione”, in Goffredo Parise, L’odore del sangue, p. VIII.
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
quel momento […] non cessò non mi abbandonò più e da visione divenne ossessione”
[OS, 56-57]. Da qui il ritornare compulsivo, se non masochistico, sulle stesse domande
scabrose: “E…fate all’amore?” [OS, 44]; “E fate all’amore?” [OS, 61]; “mi cacci di casa e
poi dici che non fai all’amore con questo ragazzo?” [OS, 66]; “ma ti piace fare l’amore
con questo ragazzo?” [OS, 78]; “ma ti piace o non ti piace fare l’amore con lui?” [OS,
99]; “e l’amore lo fate sempre, ogni giorno?”, “ma quando lo fai ti piace?” [OS, 146]; “e
il ragazzo di ora come ce l’ha il cazzo?” [OS, 167], e così avanti, instancabilmente. I problemi che angosciano il narratore sono sempre gli stessi, le espressioni per esprimerli
ricorrenti: la reticenza di Silvia, il presunto plagio di cui è vittima, la sua sottomissione
incondizionata al ragazzo, definito troppe volte “prepotente”, e quindi potenzialmente pericoloso6. Il pensiero assillante penetra nella mente di Filippo e non l’abbandona,
proprio come era già capitato ad Antonio Dorigo nel romanzo di Buzzati:
Non soltanto non avevo sonno ma non potevo nemmeno leggere, alzarmi, muovermi, lavorare, pensare a qualche cosa che non fosse Silvia. […] Volevo andare
da lei, da Silvia, vederla, sentivo quel morso, a me purtroppo ben noto, della gelosia e sapevo che non mi avrebbe dato pace. Cento volte alzai il ricevitore per fare
il numero di Silvia e cento volte lasciai cadere rabbiosamente la corne!a. [OS, 90]
Per avere un secondo parere sulla questione, l’uomo si rivolge ad un amico psicanalista, ma si rifiuta di ascoltarne i saggi consigli. Recatosi alla seduta per avere un
sostegno, quando si vede avversato nelle sue insostenibili posizioni subito si chiude in
se stesso, negando anche l’evidenza. Al professionista che lo mette in guardia circa gli
esiti potenzialmente nefasti del suo comportamento e che cerca di spingerlo a ritrovare
un equilibrio, evitando di forzare la mano alla moglie, il protagonista oppone un vago
e indistinto concetto di destino. La risposta del medico è lapidaria e già anticipa l’epilogo della vicenda: “Si direbbe che lo voglia provocare tu questo destino orribile, si direbbe che tu non ami affatto Silvia, come dici, ma la odi e la vuoi punire. Insomma si direbbe
che la vuoi uccidere perché si è innamorata di un altro” [OS, 135-136]. E così è, in fin dei conti.
La storia di una passione malata non può che finire nel modo peggiore: pungolata dai continui
interrogatori del marito, la donna si abbandona a un vortice di degradazione che la conduce inevitabilmente alla morte. Viene trovata, un giorno, nel salotto di casa propria, seviziata e strangolata. Incaricato di riconoscerne il cadavere all’obitorio, Filippo si identifica con Romeo che piange sul corpo senza vita di Giulietta. La conclusione sancisce il definitivo trionfo dell’egotismo
deviato del narratore: “Credo di non averla mai amata come in quel momento in cui immaginai,
anzi vidi me stesso disteso accanto a lei sul carrello dell’obitorio. Poi entrò Giovanni e mi portò
fuori, a Roma, nell’odore del sangue” [OS, 229].
Silvia è caduta da vittima innocente di un amore perverso e malato, non già il suo proprio per il giovane romano, quanto quello del marito nei suoi confronti. Filippo può
invece continuare a vivere, o forse anche ricominciare, carico di nuove speranze. Solo
6 Per la reticenza cfr. pp. 44, 58, 76, 80, 83, 84, 86, 87, 94, 95, 99, 108, 118, 142, 147, 149, 173; per
il tema del plagio invece cfr. pp. 64, 65, 66, 75, 88, 117, 135, 176, 196, 198.
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Carolina Pernigo - Le forme dell’ossessione: due casi a confronto
parzialmente consolatoria è allora la sua finale ammissione di colpa: “non si seppe chi
aveva ucciso Silvia e io sapevo però che il vero mandante ero io stesso” [OS, 230].
A pochi anni di distanza l’uno dall’altro, Buzzati e Parise osano scendere negli abissi
dell’animo umano per raccontare una storia che, in un modo o nell’altro, li tocca da
vicino. Con tecniche diverse, ma con risultati non poi così dissimili, i due parlano di un
amore che è in realtà non-amore, possesso, supremo trionfo dell’io con le sue devianze
e le sue psicosi. E dimostrano in modo evidente come l’esasperazione del desiderio
propria della contemporaneità possa avere esiti luttuosi, quale che sia la forma che
assume.
26
Nel nome del Padre
di Sarah de Sanctis
Io non desidero, voglio
Sogge!i spaesati, alla deriva, vuoti, privi di punti di riferimento ideali, ingessati in
identificazioni conformistiche, indifferenti, chiusi nelle loro nicchie narcisistiche,
prigionieri delle loro pratiche di godimento dove l'Altro è assente; legami liquidi, sbriciolati dalla potenza idolatrica dell‘ogge!o di godimento offerto illimitatamente dal sistema globale del mercato, sempre a disposizione, contiguo, adesivo,
incalzante; legami morti, privi di desiderio, ase!ici, smembrati, fragili, inconsistenti, legami che riducono la dimensione dell‘incontro con l‘Altro alla riproduzione
monotona dello Stesso1.
Ecco la descrizione che Massimo Recalcati fa del soggetto contemporaneo. Un quadro
tutt'altro che allegro, che vede l'uomo postmoderno (o ipermoderno, secondo la definizione di Lipovetsky riproposta dallo psicoanalista) come vuoto, chiuso su se stesso,
narcisistico e abbindolato dall'inesorabile fluire di “oggetti” più che del desiderio, del
consumo, offerti dal generoso sistema capitalistico. Ma cosa si intende esattamente per
“legami liquidi” e “legami morti, privi di desiderio”? Credo che qui occorra fare un
piccolo passo indietro e dare un'occhiata a cosa avesse da dire Freud sui meccanismi
del desiderio umano.
Come tutti sanno, Freud fa largo uso della metafora famigliare edipica, per cui il bambino ha un rapporto di amore incestuoso con la madre, in cui il padre si mette in mezzo
e “castra” simbolicamente il bimbo. Questo suona magari un po' perverso ai più, ma è
molto più vero di quanto non sembri. L'amore incestuoso può essere pensato facilmente come il risultato della felicità assoluta e incondizionata che solo nel grembo materno
è possibile provare. Cullati nell'inconsapevolezza, ogni nostro desiderio è esaudito
prima ancora di essere scientemente formulato, e ce ne stiamo lì beati, con qualcun
altro che si prende amorevolmente cura di noi. Poi segue il trauma della nascita, e la
pacchia finisce. Il frapporsi del padre può quindi essere inteso come l'ingresso nella
dura realtà.
Lacan rielabora tutto questo in chiave linguistica, per cui la Legge del Padre viene a
coincidere con l'ingresso del bambino nell'ordine simbolico, vale a dire il linguaggio.
Mi spiego: come insegnava già Bachtin, il linguaggio non è neutrale né è un semplice
strumento a nostro uso. Pertanto, nel momento in cui noi pronunciamo una parola
1 Questo saggio deve molto alla le!ura di L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica
psicoanalitica di Massimo Recalcati, da cui provengono anche le citazioni a lui riferite. Questa in
particolare si trova a p.2.
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
non ci limitiamo mai, in nessun caso, a fare un'affermazione di qualche tipo. In ogni
nome, in ogni frase, ciò che noi intendiamo dire si unisce inestricabilmente all'eco di
tutto quello che è già stato detto in passato – in fondo è questa l'origine dell'impasse
postmoderna. Per dirla in termini molto semplici, non esiste la denotazione pura: essa
è sempre legata alla connotazione. Questo significa che non appena noi entriamo nella sfera linguistica perdiamo per sempre il contatto “diretto” con la realtà: esso sarà,
d'ora in avanti, sempre mediato dal linguaggio e dalle sue implicazioni. D'altronde è
solo tramite il linguaggio che la società umana può funzionare. In un certo senso, noi
perdiamo la realtà ma usciamo anche dal solipsismo: è tramite il linguaggio (e tramite
tutte le convenzioni simboliche in cui il sociale si muove) che riusciamo, banalmente,
a comunicare.
Vediamo quindi che, sia in Freud che in Lacan, la perdita di un rapporto privilegiato
con la madre/la realtà, che avviene per via della Legge del Padre/l'ordine simbolico,
coincide con l'uscita dal solipsismo e l'ingresso nel sociale2. Questa perdita archetipica
dà origine all'inconscio, luogo ove risiede la libido, il desiderio. In fondo, già Platone
ci diceva che non si può desiderare qualcosa che si ha già: il desiderio nasce dalla mancanza. Ebbene, questa mancanza della Madre per via dell'intromissione del Padre è ciò
che fa scattare nell'uomo il meccanismo del desiderio.
Questo è quel che accade di solito. L'individuo ha desideri repressi che lo pongono
a “disagio nella civiltà”, se posso parafrasare il titolo dell'opera di Freud: inconsciamente vorrebbe probabilmente uccidere il suo prossimo o quantomeno sfruttarlo sessualmente, ma nella società questa cosa risulta impossibile, deve frenarsi e diventa
nevrotico (a questo proposito, vedi il mio articolo nello scorso numero di Nude). Tuttavia, questo meccanismo non scatta per forza: se non c'è il Padre, non può esserci il
desiderio, e se non c'è il desiderio…beh ci ritroviamo nel quadretto poco felice dipinto
da Recalcati.
Ebbene, in una nota lapidaria ma densa di significato, Lacan, nel 1968, parlava di “evaporazione del Padre”. Siamo nel primo postmodernismo3, negli anni in cui la spinta
antiautoritaria raggiunge i suoi massimi vertici e, forse malauguratamente, la vittoria. Una volta che il Padre non c'è più, che è stato spodestato, infatti, le conseguenze
sono drammatiche. Se per Freud eravamo tutti nevrotici perché costretti a reprimere
le pulsioni in conflitto con la società, ebbene oggi siamo tutti psicotici. Recalcati spiega
chiaramente che se la nevrosi è una malattia della Civiltà, la psicosi scaturisce dal rifiuto
2 Potrebbe forse sembrare, erroneamente, che la madre rappresenti l’inconsapevolezza e che
quindi abbia poco a che spartire con il reale. Il legame fra i due conce!i non è questo: consiste
nel fa!o che entrambi costituiscono l’ogge!o del desiderio (la possibilità di un rapporto im-mediato) che viene perduto a causa del Padre, rispe!ivamente in Freud e Lacan.
3 L’origine esa!a del postmoderno è ovviamente una questione spinosa, ma condivido l’opinione più diffusa che ne colloca l’inizio del postmoderno negli anni ‘60.
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
della civiltà (dell'ordine simbolico, del padre)4. La libertà del soggetto è assoluta, e si
ritorna al reale in quanto tale, senza la mediazione simbolica. Questo ha due conseguenze drammatiche.
La prima: sul piano individuale. Il collasso del simbolico porta inevitabilmente al
solipsismo, a individui atomizzati e narcisistici. Il desiderio scompare, sostituito dal
godimento im-mediato, con la complicità del discorso del capitalista. Al desire si sostituisce il drive: una spinta che arriva direttamente dall'Es5, mortifera, che ci impone
di ripetere, ripetere e ripetere (consumare all'infinito, nel regno dell'usa e getta, senza
arrivare mai a una vera soddisfazione). L'inconscio, sede del desiderio, aveva anche
la grande qualità di essere unico e irripetibile per ciascuno di noi. Nessun discorso
universale è possibile se si parla di inconscio. In mancanza di esso, però, l'unicità si
annulla, e si arriva alla seconda conseguenza, quella sociale.
Ovvero, il conformismo. Il via libera al godimento spegne il desiderio, forza motrice e
rivoluzionaria, che è in perenne lotta contro il Padre e contro la Legge. Ora, invece, la
Legge coincide con il godimento stesso, e ogni tensione critica scompare. Come diceva
Žižek, viviamo nell'era in cui l'imperativo categorico non ha più nulla della severa
morale kantiana, bensì è l'invito a incarnare l'uomo del godimento di De Sade, e praticare il motto: enjoy!! La psicosi di oggi è compatibile con il buon ordine, lavora a braccetto
con il capitalismo stesso. Non si lotta con la realtà, vi si aderisce. Il soggetto è apatico,
indifferente, vuoto, alla deriva nella realtà liquida baumaniana, ma attaccato come una
roccia all'iperindetificazione con l'Altro. Non c'è una vera apertura, non accogliamo
l'Altro, ma vogliamo essere come lui, come tutti, e come tutti avere l'Ipad.
4 La nevrosi ha origine da un confli!o fra l’Io e il Superio, ovvero, in termini non tecnici, tra
l’individuo e la società, che lo costringe a reprimere alcuni dei suoi più primordiali istinti. La
psicosi è invece un rifiuto completo della realtà. Se il nevrotico è Woody Allen, lo psicotico è il
Propriscin di Gogol.
5 L’Es (le!. “tu sei”), o Id (le!. “ciò”, “la cosa”), è l’inconscio. Entrambi i termini denotano una
presenza estranea, e indipendente dal sogge!o.
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
Il discorso del capitalista
In una conferenza a Milano nel 1972, Lacan propone brevemente una nozione che
verrà poi ampiamente sviluppata da Žižek, e che sancisce il passaggio definitivo dalla dialettica hegeliana del servo-padrone al trionfo del capitalismo. Lacan, per ovvie
ragioni, amava utilizzare i simboli. A ogni discorso (vale a dire, legame sociale) corrisponde quindi uno schema simbolico. Ecco, la cosa interessante è che la dialettica del
servo padrone (quindi quella dei tempi di Freud, del potere tradizionale) e quella del
capitalismo sono schematicamente identiche. A eccezione di una piccola, ma cruciale,
inversione:
S1/ $
diventa
$/ S1
S1 sta per la Legge, $ non sta per i soldi, ma per il soggetto (barrato perché, secondo
Lacan, irrappresentabile del tutto). Questo ribaltamento fa sì che non ci sia più un Ideale a ‘dirigere' la società, bensì il capriccio del singolo, l'imperativo al godimento individuale. È evidente che questo tipo di discorso in realtà è al limite del discorso stesso,
perché invece di costituire un legame sociale causa una spinta centrifuga e relativista
(il relativismo, anche in etica, è un ben noto effetto collaterale del postmoderno).
Oltre al relativismo e al solipsismo, la distruzione di ogni legame causata dal discorso
del capitalista fa sì che il discorso amoroso in quanto tale perda di senso. L'incontro
con l'Altro viene meno. Il rapporto autentico con un'altra persona, in questo vortice
solipsistico, è pertanto sostituito con una serie di surrogati non-umani, che si gestiscono senza impegno e il cui costo emotivo è pari a zero: di qui le dipendenze da droga
e alcol, ma anche cibo, tecnologia, lavoro. Cosa c'è di più capitalista del workaholism?
Questo discorso, facendo leva sul godimento immediato, sulla stupidità del consumo
cieco e autocatalizzante, funziona a meraviglia. Non potrebbe andare meglio di così.
Se non che, dice Lacan, “ça se consomme si bien que ça se consume”: funziona talmente bene che si autoconsuma per la rapidità folle con cui viaggia. È come una macchina
in discesa libera: acquista velocità, calpesta e distrugge ogni ostacolo, ma è diretta
all'autodistruzione. È per questo che il godimento senza desiderio è un'espressione
della pulsione di morte.
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
Il non-desiderio in letteratura
Vi chiederete cosa c'entri tutto questo con la letteratura. Ebbene, se è vero che la letteratura è specchio della società, c'entra eccome.
Partirei dal narcisismo e dalla chiusura nei confronti dell'Altro: la letteratura del postmoderno, con la sua insistenza sulla metanarrativa, non fa esattamente questo? Si
chiude su se stessa, si studia, si analizza, e se ne frega bellamente del lettore. Foster
Wallace una volta ha detto che leggere un romanzo metanarrativo è come osservare
una persona molto colta conversare con se stessa. Non c'è spazio, né interesse, per la
comunicazione. Prendete ad esempio il brano che segue, tratto da Lost in the Funhouse
di John Barth. Frasi lasciate incomplete, punteggiatura mancante, digressioni metaletterarie che inframmezzano la già carente narrazione: è una letteratura convoluta e
onanistica, che riflette perfettamente il soggetto postmoderno.
The smell of Uncle Karl's cigar smoke reminded one of. The fragrance of the ocean
came strong to the picnic ground where they always stopped for lunch, two miles
inland from Ocean City Having to pause for a full hour almost within sound of
the breakers was difficult for Peter and Ambrose when they were younger; even at
their present age it was not easy to keep their anticipation, stimulated by the briny
spume, from turning into short temper. The Irish author James Joyce, in his unusual
novel entitled Ulysses, now available in this country uses the adjectives snot-green
and scrotum-tightening to describe the sea. Visual, auditory tactile, olfactory, gustatory Peter and Ambrose's father, while steering their black 1936 LaSalle sedan
with one hand, could with the other remove the first cigare!e from a white pack
of Lucky Strikes and, more remarkably, light it with a match forefingered from its
book and thumbed against the flint paper without being detached.
“For whom is the funhouse fun?” recita l'incipit dell'opera di Barth: per chi? Per nessuno, verrebbe da dire, o certamente non per il lettore. A questo proposito, Colette Soler
ha parlato di narcinismo: il cinismo è in effetti l'altra faccia della medaglia del Narciso6.
Come dicevamo, se si è chiusi su di sé si finisce per snobbare il rapporto con prossimo,
come privo di importanza, un dettaglio, un accessorio superfluo. E il cinismo, l'ironia,
il distacco beffardo non sono forse le caratteristiche portanti della letteratura postmoderna?
Per quanto riguarda il conformismo e il rapporto col capitalismo, la prima e più ovvia
conclusione è che il trionfo del mercato si è imposto sullo scrivere, e il pubblico non fa
che ingurgitare l'ennesimo thriller, o l'ennesima storiella d'amore, in un meccanismo
6 Secondo la tradizione filosofica che dà il nome al termine, “cinismo” indica infa!i indifferenza verso i sentimenti e la morale comune, promuovendo l’autarchia (ossia, ancora una volta,
individualismo e rifiuto dell’altro).
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
in cui il libro è un oggetto di consumo qualunque, privato di ogni vero significato. Ma
di questo si è già detto abbastanza. Mi interessa di più osservare come i grandi romanzi del tardo postmoderno, come quelli di Bret Easton Ellis o Don DeLillo, riflettano
esattamente questa ubiqua mercificazione del mondo odierno.
Chiunque abbia letto American Psycho sarà d'accordo con me. Una narrazione apparentemente “tradizionale”, senza bizzarrie stilistiche di sorta, fornisce lo sfondo per
una vicenda profondamente disturbante, tanto più tale in quanto drammaticamente
familiare . Il male che si compie per noia, senza un vero motivo, creato non dalle emozioni negative ma dalla mancanza di emozioni di qualsivoglia tipo (ricordate il waning
of affect di Jameson?) non è necessariamente una novità: basti pensare allo Stavrogin
dei Demòni di Dostoevskij. Quello che però è distintamente appartenente alla nostra
epoca è il malsano rapporto con gli oggetti di consumo che sublima e si sostituisce al
rapporto con l'Altro umano. Nel mondo di American Psycho, frasi come questa:
“Hello, Halberstam," Owen says, walking by.
“Hello, Owen," I say, admiring the way he's styled and slicked back his hair, with
a part so even and sharp it... devastates me and I make a mental note to ask him
where he purchases his hair-care products, which kind of mousse he uses, my final
guesses a=er mulling over the possibilities being Ten-X.”
Coesistono con, e completano, episodi come il seguente:
“I tried to make meat loaf out of the girl but it becomes too frustrating a task and
instead I spend the a=ernoon smearing her meat all over the walls, chewing on
strips of skin I ripped from her body”
E la voce narrante è sempre la stessa.
In un certo senso, tuttavia, anche un romanzo come American Psycho può essere considerato espressione di cinico nichilismo. L'incipit del libro cita il “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” dell'inferno dantesco, e l'ultima frase, significativamente, è “This
is not an exit”, questa non è un'uscita. L'opera di Ellis, in questo senso, può essere considerata come uno specchio impietoso del mondo in cui viviamo, una pars destruens
alla quale non si contrappone la construens. Ed è questo, forse, il problema. L'indulgere in una specie di pornografia della violenza è senza dubbio scioccante, e inquieta il
lettore, lo spinge forse ad aprire gli occhi. Ma nessuna speranza, nessuna via d'uscita
sono possibili in un romanzo in cui il lettore è condannato al ruolo di voyeur passivo.
Il mondo sarà anche un posto orrendo, ma forse abbiamo bisogno di ricordarci come
si fa ad essere umani in un luogo del genere.
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Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
Is this an exit?
Fenomeni inquietanti di a!acco e di sregolazione pulsionale del corpo, tendenza
suicidaria, pratiche di godimento compulsive e dissipative, esperienze di angoscia
senza nome, violenza, aggressività, comportamenti a rischio che a!entano la conservazione della vita, incentivazione eccessiva delle stimolazioni, somatizzazioni,
disinvestimento libidico, ritiro autistico e disinserzione dai legami sociali, godimento mortifero del vuoto, apatia narcisistica, indifferenza verso la vita (…)7
Questa lista potrebbe fare da compendio dei disturbi dei personaggi che compaiono
nell'opera di David Foster Wallace. Spero che il lettore perdoni la mia insistenza su
questo scrittore. È che, come spero di dimostrare, sono convinta che nessuno come lui
colga la verità dell'essere umano oggi. Invito chiunque a trovare una rappresentazione
più efficace, disperata e tragica del solipsismo di quella che lo scrittore ci propone in
‘The depressed person'. Non c'è neanche bisogno di ricordare come Infinite Jest racconti la solitudine senza scampo dell'uomo di oggi, che sublima la mancanza dell'altro con
dipendenze di ogni tipo, e pure rimane incapace di qualsiasi forma di condivisione
vera. Persino nel suo noto e più ‘leggero' saggio sulla sua crociera ('Una cosa divertente che non farò mai più') Foster Wallace affronta questo tema, smascherando il fatto
che il lusso di quella vacanza, con la sua pretesa di cullare e viziare i suoi ospiti, altro
non è che un surrogato (ovviamente fallimentare, di consumo e transitorio) per ricreare la sensazione di spensieratezza e benessere del grembo materno.
Eppure, a differenza di Ellis, Wallace ci lascia intravedere una luce in fondo al tunnel.
Nello stesso Infinite Jest, ad esempio, abbiamo sì il cinico Hal Incandenza, prigioniero
di un impossibile linguaggio privato8 a tal punto che, nel primo episodio del libro che
ne è anche la conclusione, si ritrova completamente e letteralmente incapace di qualsivoglia comunicazione. Abbiamo però anche Don Gately, che in maniera molto meno
seducente e un po' sempliciotta combatte con tutte le sue forze – in quello che è forse
un ultimo retaggio di eroismo - il circolo vizioso dell'edonismo solipsista.
Non a caso, Wallace non prende la caduta del Padre alla leggera. Considerate, ad esempio, il brano che segue, che non posso fare a meno di citare nella sua interezza:
For me, the last few years of the postmodern era have seemed a bit like the way
you feel when you're in high school and your parents go on a trip, and you throw a
party. You get all your friends over and throw this wild disgusting fabulous party.
For a while it's great, free and freeing, parental authority gone and overthrown, a
cat's-away-let's-play Dionysian revel. But then time passes and the party gets louder and louder, and you run out of drugs, and nobody's got any money for more
7 Recalcati, p.18.
8 In questo Foster Wallace si rifà al celebre argometo di Wi!genstein secondo cui non è possibile un linguaggio privato.
34
Sarah de Sanctis - Nel nome del Padre
drugs, and things get broken and spilled, and there's cigare!e burn on the couch,
and you're the host and it's your house too, and you gradually start wishing your
parents would come back and restore some fucking order in your house. It's not
a perfect analogy, but the sense I get of my generation of writers and intellectuals
or whatever is that it's 3:00 A.M. and the couch has several burn-holes and somebody's thrown up in the umbrella stand and we're wishing the revel would end.
The postmodern founders' patricidal work was great, but patricide produces orphans, and no amount of revelry can make up for the fact that writers my age have
been literary orphans throughout our formative years. We're kind of wishing some
parents would come back. And of course we're uneasy about the fact that we wish
they'd come back--I mean, what's wrong with us? Are we total pussies? Is there
something about authority and limits we actually need? And then the uneasiest
feeling of all, as we start gradually to realize that parents in fact aren't ever coming
back --which means we're going to have to be the parents.9
La legge del Padre non verrà re-istituita, non torneremo a credere nelle metanarrative.
Eppure, l'autorità e il limite sì, ci sono necessari. Diceva Eco nelle sue 'Postille' a Il nome
della rosa che l'avanguardia è quella che supera i limiti, il postmoderno è quello che non
ha più niente rispetto cui essere ‘avan', è quello che viene quando tutte le regole sono
state infrante e non si può che rielaborare il passato, in mancanza della possibilità di
creare qualcosa di davvero nuovo10. Ora che siamo alla fine del postmoderno, toccherà
a quelli come Foster Wallace fare il padre. E forse, istanze anti-autoritarie o meno, questo non è poi un male.
9 Il brano è tra!o dalla celebre intervista di Larry McCaffery.
10 Umberto Eco, Il nome della rosa, pp. 528-529.
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Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione:
sostituzione o mediazione?
di Francesco Giusti
I limiti del mio linguaggio
costituiscono i limiti del mio mondo.
L. Wi!genstein, Tractatus logico-philosophicus , 5.6, 1922
1. Perché non la sublimazione?
Per il Freud del celebre saggio Il poeta e la fantasia (1908) la creatività artistica rientra
nell'ambito delle fantasie compensative del nostro desiderio frustrato dal reale e dalla
civiltà ed è molto prossima alla sublimazione, consiste cioè nella trasformazione di un
desiderio che non può trovare soddisfazione e accettazione nella società civile in un
desiderio che possa invece trovare una collocazione sociale1. Seppur in termini diversi,
un meccanismo simile si ritrova in Lacan nella sua nota definizione della sublimazione
come "elevazione dell'oggetto alla dignità della Cosa"2 e serpeggia anche nelle pagine
di Massimo Recalcati nel bel libro Il miracolo della forma: "Nella sublimazione artistica
l'oggetto d'arte diventa un oggetto immaginario che si colloca, per via di un'elevazione
simbolica, nel luogo vuoto del reale della Cosa"3.
Un approccio puramente psicoanalitico alla creazione poetica, definita appunto nei
termini classici della sublimazione, solleva alcune questioni che provo a mettere in evidenza:
• anche quando cerca di eliminarlo dal suo terreno, deve postulare l'esistenza di un
Io o, meglio, di un soggetto più o meno solido che quantomeno ‘sublimi' un desiderio
già posseduto o che lo possiede, che sia quel desiderio. Un soggetto, un inconscio, che è
ancora un qualcosa4;
• sembra fondarsi sempre su un incontro passato, un ‘già saputo' o ‘già provato' dal
soggetto che sembra non lasciare uno spazio che sia motivazionale per nuove conoscenze;
1 Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, V, 1905-1908 (Torino: Bollati Boringhieri, 1981):
375-383.
2 Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicanalisi, 1959- 1960, a cura di G. B. Contri
(Torino: Einaudi, 1994): 141.
3 Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicanalitica (Milano: Bruno Mondadori, 2011): 14.
4 Cfr. Antonio Di Ciaccia – Massimo Recalcati, Jacques Lacan (Milano: Bruno Mondadori,
2000): 6-10.
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
• questo soggetto che si fa nel desiderio sembra dover essere, almeno in gran parte,
inconsapevole dei meccanismi che subisce e che lo (in)formano;
• la sublimazione appare come una sottrazione all'orizzonte umano della temporalità,
in questo senso rende finito quell'oggetto del desiderio, che dovrebbe essere infinito
alla percezione, privandolo di quella mutabilità/variabilità nel tempo che lascia in esso
un ‘sempre qualcos'altro da godere/conoscere'.
Mentre la sublimazione si presenta come un processo puramente interiore, eterofondato
(dalla Legge che ostacola il desiderio) e ‘creativo': è il soggetto a creare un nuovo oggetto, certo a partire da un precedente reale, che però deve essere abbandonato perché il
processo possa dirsi compiuto, e non spiega (cioè, non motiva) perché debba mostrare nel testo lirico il processo stesso che subisce. Nell'approccio al problema, diciamo
affettivo/cognitivo e ‘immanente', che vorrei adottare, il soggetto desidera conoscere
l'oggetto che ha incontrato nel suo mondo e che si è offerto al suo sguardo, la rappresentazione (il testo lirico) costituisce lo strumento della sua conoscenza, del suo tentativo
di approssimazione dell'oggetto e all'oggetto, e il desiderio per l'oggetto può, quindi,
diventare desiderio per la rappresentazione. Conservando un oggetto reale esterno, sia
pure nelle sue tracce come lacune della rappresentazione, si mantiene quella ‘differenza' tra il soggetto e l'oggetto e tra l'oggetto e la sua rappresentazione che è essenziale
per il processo cognitivo nella dimensione umana.
La sublimazione, come soddisfazione sostitutiva del desiderio, è uno spostamento dell'investimento libidico (in senso lato affettivo) da un oggetto che non può essere posseduto ad un oggetto sostitutivo, in un processo di sostituzione. Nei meccanismi del soggetto interno alla poesia lirica (come genere letterario) sembra di individuare un lavoro
differente: un processo di mediazione per cui un soggetto individua un oggetto reale e
singolare appartenente al mondo della sua esperienza (anche immaginativa) e, nel suo
investimento affettivo e cognitivo, lo rende mediatore del suo potenziale progresso in
direzione di un senso per il reale (Dio, l'Intero, una metafisica) inattingibile direttamente per la sua esperienza.
Una sublimazione si può forse rintracciare nel testo in quanto tale, nella poesia come
forma, che si fa oggetto – creato dal soggetto e quindi su cui può esercitare un controllo (possesso) potenzialmente maggiore – di un investimento affettivo suppletivo
dell'inattingibile oggetto d'amore reale. Ma, per fare questo, bisogna di nuovo uscire
dal testo, in direzione di un ipotetico soggetto dell'enunciazione, abbandonando proprio l'unico soggetto che conosciamo: il soggetto dell'enunciato. All'interno del testo
– considerato come una messa in scena della creazione poetica, il soggetto esiste nelle sue
parole, ha vita solo da quando e finché produce parole – il meccanismo non sembra essere
di tipo sublimatorio; anzi, nell'arco tracciato nel testo, nello spazio costruito dalle parole, il
soggetto lirico, colui che dice ‘io', sembra restare profondamente legato all'oggetto singolare terreno, al primo oggetto del suo desiderio per come questo si mostra.
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
L'oggetto del desiderio – spesso nella tradizione lirica una donna, la natura o un'opera
d'arte – subisce evidentemente una progressiva idealizzazione, cioè le sue qualità e il
suo valore vengono considerati molto più elevati di quelli effettivamente dimostrati
dall'esperienza, di quel che può essergli ‘oggettivamente' riconosciuto (ma quale sarebbe lo sguardo oggettivo?). Quindi una questione di mutabilità dell'oggetto legata
alle continue mutazioni del desiderio più che di oggettività fissante del giudizio. Tale
idealizzazione può essere considerata sintomo della funzione di cui viene più o meno
rapidamente investito: farsi mediatore del senso tra un soggetto preso dalla sua esistenza
terrena e chiuso nei vincoli che essa comporta e un Senso collocato, nella tradizione
platonico-cristiana, sempre al di là dell'esperibile: Dio, l'unità, l'intero, un qualche tipo
di metafisica che renda conto e dia valore alle deficienze dell'esistenza, al suo disordine, alla sua frammentarietà.
Poiché la poesia lirica si mostra come un dispiegamento del soggetto singolare che
prende voce direttamente ed è quasi sempre coinvolto in una relazione oggettuale,
essa può essere un campo di indagine privilegiato per questo tipo di fenomeni, che
si danno come più velati in altre forme artistiche. Il soggetto lirico può benissimo far
sue le parole di Wittgenstein poste in esergo: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti
del mio mondo” (Tractatus logico-philosophicus 5.6), e si potrebbe ancora restringere in i
limiti del mio discorso sono i limiti del mio mondo perché, se non c'è soggetto al di fuori del
singolo evento di discorso, il mondo e il discorso vengono a coincidere.
2. L'impossibile abbandono dell'oggetto e la ‘desublimazione'
L'abbandono dell'oggetto è un problema tipicamente platonico ed è ‘necessario' se il
movimento è diretto verso una metafisica. È il filosofo greco a rimproverare alla poesia l'essere un'imitazione di secondo grado – in quanto creazione di immagini verbali
– di un oggetto del mondo sensibile che, a sua volta, è imitazione, ovviamente degradata, dell'Idea (la Forma eterna) che giace dietro ogni sua particolare incarnazione.
A differenza del ragionamento filosofico, la poesia non può ascendere dall'oggetto
all'Idea (il mythos poetico non può mai farsi logos5) e in qualche modo il poeta rimane
sempre legato all'oggetto della sua mimesi.
Nella poesia lirica, laddove un soggetto incontra con il proprio sguardo un oggetto
singolare (quell'oggetto ai miei sensi), l'impossibilità di abbandonarlo assume un valore
5 Cfr. Ernst Cassirer, Eidos ed eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone, a cura
di M. Carbone (Milano: Raffaello Cortina editore, 2009); ed. or. “Eidos und Eidolon. Das Problem
des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen”, in Vorträge der Bibliothek Warburg, II, 1922-1923,
parte I (Leipzig-Berlin: Teubner, 1924): 1-27.
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
strutturante6. Una impossibilità che si lega ad una specifica resistenza alla sublimazione e al trasferimento sul piano dei concetti, che è anche resistenza al pieno possesso.
L'oggetto del desiderio non può essere la donna, ma sempre quella donna che incontra
il mio sguardo. Un oggetto che se pone resistenze alla mia penetrazione conoscitiva,
cioè né si offre nella sua interezza alla mia percezione né si espone totalmente nella
mia rappresentazione, con il suo peso di ‘oggetto reale' pone allo stesso tempo resistenze alla mia sublimazione, al mio processo interiore di ricollocazione/ricostruzione
rassicurante dell'oggetto.
A questo concetto vorrei collegare quel processo che Denis de Rougemont, cercando di
fondarlo da un punto di vista di storia della cultura, descrive in L'Amore e l'Occidente.
Sintetizzando al massimo la tesi che qui interessa, si può dire che per de Rougemont
quella dei provenzali non è affatto una sublimazione dell'amore terreno, uno ‘spostamento' dell'istinto sessuale o del desiderio, bensì una sorta di desublimazione o,
meglio, profanizzazione di un amore maturato per il divino, una materializzazione
dello spirituale:
Al contrario, se l'anima non può unirsi essenzialmente a Dio, come sostiene l'ortodossia cristiana, ne deriva che l'amore dell'anima per Dio è un amore reciproco
infelice nel preciso senso dell'espressione. (...) È prevedibile allora che questo amore
si esprimerà nel linguaggio passionale, cioè nel linguaggio dell'eresia catara "profanizzato" dalla le!eratura e ado!ato dalle umane passioni; poiché la sua retorica è
appunto la più ada!a a tradurre e a comunicare l'ineffabile essenza del sentimento
vissuto7.
L' amore-passione è la strada dell'uomo separato da Dio. De Rougemont non cancella
certo il dualismo mondo sensibile/metafisica che fin dalle origini fonda la cultura occidentale, e la conseguente visione del sensibile come degradazione, privazione e mancanza, piuttosto si limita a capovolgere l'interpretazione del fenomeno storico.
Se a Dio si sostituisce un più generico intero, vale a dire la totale coincidenza con
l'oggetto che sarebbe pienezza della conoscenza senza mediazioni della rappresentazione (e dell'immaginazione), è dalla separazione, dalla distanza riducibile
ma non colmabile, che nasce la conoscenza come atto – il conoscere del linguaggio
e della rappresentazione (con la sua retorica ereditata nei secoli) – e l' amore-passione come desiderio irrealizzabile di fusione con l'intero. Il superamento di sé per
giungere ad unirsi col trascendente "non è altro che esaltazione del narcisismo.
6 Per una considerazione dell’impossibilità di questo distacco condo!a su alcune riflessioni di
Freud e María Zambrano mi perme!o di rinviare al mio “Il meriggio nella natura. Riflessioni
estetiche su un’utopia poetica”, prossima pubblicazione in Studi di Estetica.
7 Denis de Rougemont, L’Amour et l’Occident (Paris: Librairie Plon, 1939); ed. it. L’amore e l’occidente, trad. di L. Santucci, intr. di A. Guiducci (Milano: Rizzoli Bur, 1998): 208.
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
Non mira più alla liberazione dei sensi, ma alla spasmodica intensità del sentimento8".
L'Eros tenta di sostituire la trascendenza mistica intensificando il sentimento, ripiegando dall'oggetto come fine sull'amore come azione, dal linguaggio dell'Amore
divino alla retorica del cuore umano.
Certo, probabilmente i due meccanismi non possono essere del tutto isolati e non si
escludono a vicenda. Tuttavia, quel che l'io lirico moderno compie, con il suo linguaggio, non è tanto il trasferimento del suo oggetto d'amore sul piano del divino, quanto
la ricerca del divino o dell'intero negli oggetti che incontra sulla sua strada e questa
ricerca è ciò a cui si dà tradizionalmente il nome di amore.
3. Una poetica dello scacco
La completa realizzazione della mediazione presuppone che il soggetto debba possedere
pienamente l'oggetto, ma tale operazione si rivela come irrealizzabile almeno quanto
l'accesso diretto al Senso. Le dinamiche del soggetto, nella poesia moderna, si mostrano come continuo fallimento nel ripetuto tentativo di possesso di un oggetto che resiste
allo spostamento o, in misura ancora maggiore, all'abbandono9. Il desiderio affettivo e
cognitivo del soggetto si delinea e si rinnova nell'impossibilità di possedere totalmente l'oggetto (anche e soprattutto nella sua rappresentazione), ma è in questa distanza
che solo può darsi, perché l'abbandono dell'oggetto implicherebbe una scomparsa del
desiderio e quindi del linguaggio, mentre il pieno possesso, come totale coincidenza
estatica, implicherebbe un annullamento del soggetto e della sua voce. Affinché ci sia il
desiderio, l'oggetto non può essere né da sempre perduto né sicuramente da perdere,
alla base deve esserci un'illusione dell'attingibile che, se non può essere mai possesso
reale, si definisca almeno come illusione di rappresentabilità e di possesso nei versi.
Una impossibilità di rappresentazione integrale che si riflette all'indietro in una parzialità della visione e dell'immaginazione che si realizza in quel feticismo dei dettagli che
tanto caratterizza la poesia lirica. Il soggetto e l'oggetto, nel testo, si fondano reciprocamente e il primo arriva a coincidere con il desiderio dell'oggetto, sembra quasi non
esistere al di fuori di tale desiderio.
A questo punto si può fare un'ipotesi attraente e alquanto pericolosa: e se anche l'oggetto, almeno all'interno dell'universo poetico, fosse creato dal desiderio?
Riprendendo parzialmente la proposta antiedipica di Deleuze e Guattari, si può considerare il desiderio come azione (reale) e produzione (materiale) e l'inconscio non come
‘teatro' in cui si mette in scena sempre il medesimo dramma, ma come un'officina in
8 De Rougemont, L’Amore e l’Occidente, p. 222.
9 Si veda Francesco Giusti, “Il sogge!o creatore e la legge del reale (l’istanza auto-censoria
interna all’opera)”, Between II.3 (2012).
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
cui si crea qualcosa che prima non c'era, per cui il soggetto che dice ‘io', il desiderio
creativo e l'oggetto che viene creato fanno parte di un unico movimento immanente.
Se ne può dedurre che, in un'ottica non trascendente, la mancanza strutturale (ontologica) e quindi sempre antecedente, che la tradizione occidentale riconosce al desiderio dal
mito dell'androgino di Platone fino al complesso di Edipo e alla psicoanalisi lacaniana,
diventa un fallimento epistemologico, un errore nel possesso dell'oggetto, una irriducibile differenza, perché non c'è coincidenza tra il desiderio creatore e l'oggetto creato, la
creazione non implica il possesso10. Una volta creato, l'oggetto impone la sua presenza
e la sua distanza reali. E, si potrebbe aggiungere, in questa differenza si instaura la conoscenza, non come un qualcosa o come un momento diverso dal desiderio, ma come
il desiderio stesso di colmare quella differenza. In questo modo l'intero movimento/
relazione soggetto-oggetto si istituisce come desiderio affettivo e cognitivo per un reale che è il desiderio stesso. Il soggetto desiderante crea il reale che lo contiene, il testo
stesso, almeno quanto ne è creato.
4. L'Infinito di Giacomo Leopardi e l'impossibilità di essere ancora soggetto
L' Infinito, un testo a cui Leopardi diede stesura definitiva tra il 1818 e il 1821, in particolare nel periodo compreso tra la primavera e l'autunno del 1819, e pubblicato nel
1826 nella serie degli Idilli, mostra un percorso del soggetto – itinerarium mentis in infinitum è la nota definizione di Blasucci11 – meno comune, nella poesia lirica, di quanto
non sembri.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
10 Gilles Deleuze – Felix Gua!ari, Capitalisme et Schizophrénie 1. L ‘Anti-Œdipe (Paris: Minuit,
1972); ed. it. L’Anti-Edipo, trad. di A. Fontana (Torino: Einaudi, 1975), sopra!u!o nel primo
capitolo del titolo Le macchine desideranti. La poesia lirica, proprio in quanto le!eratura, può
rivelarci quanto un certo modello di desiderio – il desiderio come mancanza e privazione – è
una costruzione culturale elaborata nella storia ed ereditata dalla tradizione.
11 Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito (Bologna: il Mulino, 1985).
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.12
L'Io, che istituendosi al principio del testo si presenta immediatamente come soggetto di affetti,
ci presenta in apertura due oggetti particolari per poi, altrettanto immediatamente, abbandonarli per spingersi al di là di questi. Un oggetto, la siepe, si fa stimolo al pensiero soltanto per via
negativa: l'ostacolo percettivo permette, o costringe, la fuga della mente dall'esperienza immediata dei sensi13. E al di là della siepe – un al di là raggiunto di colpo in un semplice "sedendo e
mirando" – si aprono spazi senza limiti, silenzi sovrumani e quiete profondissima. La congiunzione avversativa ‘ma' con cui inizia il quarto verso segna l'inizio del distacco, dell'astrazione.
Ma cosa accade al soggetto al di là della siepe? Si annulla. L'eternità e l'immensità non sono
fatte per l'esperienza del singolo, o meglio ancora, perché in esse il singolo continui ad avere
esperienza. Si annienta in una fusione con l'universale. Superando d'un colpo la contingenza,
la circostanza dell'ambiente naturale, il soggetto abbandona il suo essere Io, il suo "pensiero"
annega in una tale immensità e, anche se dolce come ogni unio mystica, in quel mare si è costretti
a "naufragare". Nel processo di indiamento, che porta il soggetto a trascendere i confini spaziali
dell'Io per fondersi con l'infinito/assoluto, l'Io e il suo pensiero non possono sopravvivere.
L'operazione che Leopardi mette in scena – come percorso che punta direttamente al sublime ideale, a suo modo un processo di sublimazione di sé, delle proprie condizioni in quanto
soggetto umano – ha a che fare con l'entusiasmo come improvvisa e momentanea coincidenza
totale del soggetto con l'oggetto che annulla quella distanza che è necessaria perché sia possibile
la conoscenza umana. Annegando nell'infinito il soggetto perde il suo "pensiero" e, se per un
istante può assaporare la dolcezza del momento, la poesia però deve concludersi, perché scompare l'istanza che la sostiene, colui che dice "io", e deve cessare il linguaggio come strumento di
rappresentazione e interpretazione, perché nella coincidenza non c'è né bisogno né possibilità
di conoscenza.
Leopardi ci mostra in questo idillio un tentativo di innalzamento di sé – da essere umano circostanziato ad una sorta di dio fuso con il Tutto – che, in quanto riuscito, porta come conseguenza
l'annullamento del sé e del proprio desiderio conoscitivo. La sublimazione non spiega la rappresentazione, non ci dà ragione del desiderio rappresentativo sotteso alla creazione poetica, che è
sforzo conoscitivo di un oggetto che, evidentemente, deve conservarsi, almeno in parte, fuori di
me che guardo ed io fuori di esso che è guardato. Per cui il momento fondativo, il punto d'ori12 Giacomo Leopardi, Poesie e prose, 2 voll., a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni (Milano:
Mondadori, 1987)
13 Il “pensiero” in cui si ‘crea’, si ‘forma’ l’infinito non è, ovviamente, la ragione analitica,
bensì “una facoltà immaginativa, la quale può concepire la cose che non sono, e in un modo
in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale
che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione
del piacere” (Zibaldone, 167, 12-23 luglio 1820). Edizione Zibaldone, a cura di G. Pacella, 3 voll.
(Milano: Garzanti, 1991).
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
gine, è lo scacco dello sguardo che non coglie l'intero – lo sguardo che incontra la siepe – non il
suo superamento verso un trascendente. È nel momento in cui la sublimazione afferma la sua
possibilità, chiede di essere attivata, che si rivela qualcosa dell'oggetto come qualcosa di non
posseduto, di non conosciuto. Un qualcosa che da un lato continua ad indicare l'oggetto reale
(non nella sublimazione, ma nella potenzialità stessa della sublimazione resta qualcosa dell'oggetto reale), dall'altro dà ragione del desiderio conoscitivo che si mostra nella rappresentazione:
nella rappresentazione dell'oggetto del desiderio resta sempre qualcosa ancora da rappresentare. La rappresentazione totale, il cogliere l'oggetto in tutti i suoi aspetti è impossibile tanto nello
sguardo quanto nell'immagine creata; ma il desiderio di questa rappresentazione totale che nasce
nell'incontro con l'oggetto è l'intenzione dell'atto conoscitivo. In questo senso un'opera poetica
è sempre necessariamente parziale, non definitiva. E ciò che essa mostra non è tanto il rappresentato, nell'immagine non abbiamo l'oggetto, quanto l'atto stesso dello sguardo e il rivelarsi
del desiderio conoscitivo che è l'istituirsi del soggetto. In questo senso la poesia lirica mette in
scena una relazione estetica: l'incontro, nel tempo e nello spazio della percezione, tra un soggetto
che si fa desiderante e un oggetto che si fa desiderato e, quindi, il desiderio di colmare lo spazio
tra i due poli, uno spazio che per sua essenza non può essere colmato da un'istanza che possa
chiamarsi soggetto, per ottenere una piena rivelazione, una conoscenza totale, una perfetta rappresentazione.
5. Ode on a Grecian Urn e i limiti dell'oggetto
Nell' Ode su un'urna greca, Keats identifica un oggetto ben preciso – per di più un'opera d'arte
‘senza tempo' eppure creata dal genio umano – come oggetto del suo desiderio conoscitivo (I).
Thou still unravish'd bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring'd legend haunt about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady ?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?14
14 “Tu, ancora inviolata sposa della quiete,/ Figlia ado!iva del tempo lento e del silenzio,/ Narratrice
silvana, tu che una favola fiorita/ Racconti, più dolce dei miei versi,/ Quale intarsiata leggenda di foglie
pervade/ La tua forma, sono dei o mortali,/ O entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia?/ E che uomini
sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?/ Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?/ E i flauti, e i cembali? Quale
estasi selvaggia?” in John Keats, ed. by E. Cook (Oxford: Oxford University Press, 1990). Traduzione da
John Keats, Poesie, a cura di S. Sabbadini (Milano: Mondadori, 1986).
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
Nella prima strofa il soggetto si rivolge all'urna, questa "ancora inviolata sposa della
quiete", come ad un (s)oggetto dal complesso statuto ontologico, una forma al contempo divina e umana, perfetta e silenziosa, posta al di fuori del tempo, che mostra storie
di dei o di esseri umani più dolcemente di quanto possano fare le "nostre rime". Inizia il tentativo di rappresentazione-interrogazione piena di meraviglia di questa forma
che racconta di una vita accaduta altrove e compare una prima serie di domande che
aspetta risposta.
Il soggetto tenta di penetrare nella scena scolpita rivolgendosi al suonatore che sul
flauto intona una musica che non può avere fine, così come gli alberi che gli fanno da
riparo non possono perdere le loro foglie. Le melodie inascoltate sono più dolci perché
non sono toccate dal tempo né sono frutto del reale: è l'immaginazione che produce
queste melodie e dona (tenta di donare) vividezza ad una scena bloccata nella tensione
dell'attesa, più dolce del reale perché rimanda ad un desiderio irrealizzato, un desiderio
che non può compiersi e, quindi, non può avere fine nella dimensione del tempo. Ma
anche la musica è, forse, un tentativo quasi-sensibile di desublimare l'oggetto, di restituire ad esso una vita con cui l'essere umano possa entrare in contatto. Solo nelle forme
dell'arte, o nell'universo di questa Arcadia che all'arte appartiene, l'atto non si compie
e può esistere la dimensione del per sempre. La scena erotica del bacio bloccato nello
slancio, nella non-realizzazione che rende eterni l'amore dell'amante e la bellezza della
donna che non può fuggire, sembra la perfetta realizzazione – direi quasi incarnazione, se non si trattasse, significativamente, di marmo – dell'antico ideale provenzale di
un amore da lontano che mantiene costante la tensione del desiderio, ma è realizzabile
solo nella ‘dimensione della morte', nella fissità di un'immagine scolpita, non in quella
temporalità della vita in cui la poesia lirica e il suo soggetto trovano la loro dimensione.
Nelle forme dell'arte l'amore è sublimato rispetto alla "vivente passione umana" che lascia il cuore addolorato e sazio, la fronte in fiamme e la lingua secca. Nella sua eterna perfezione un tale amore è immortale, ma sembra non avere contatti con l'umano, con il mondo fisico, né sembra più dischiudere a chi lo
osserva le sue verità, resta come chiuso nel suo segreto. Il soggetto non può che fermare di nuovo il suo tentativo di penetrazione alla reiterazione di interrogazioni
destinate a restare prive di risposta di fronte a questa forma che non ha più voce.
Posta di fronte ad una tale impenetrabilità, la conoscenza e, quindi, la rappresentazione non possono che fermarsi alla loro forma negativa, all'interrogazione di un oggetto
chiuso nel suo silenzio. La "forma silenziosa" tormenta e spezza il pensiero umano (si
ricordi come, parallelamente, nell'infinito annegava il pensiero del soggetto in Leopardi), strofa V:
O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say'st,
"Beauty is truth, truth beauty," - that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.15
Quando anche questo tempo sarà passato, il tempo del soggetto, l'impenetrabile simbolo di questa "forma attica" ci sarà ancora a ricordare che "Bellezza è verità, verità
bellezza". Solo questo è dato sapere sulla terra e tanto basta. Eppure il soggetto – e
con lui il testo – si producono solo finché egli si fa osservatore umano dell'opera d'arte
come oggetto di un desiderio affettivo e cognitivo. Che sia la voce dell'urna o quella
dell'osservatore a scandire la rivelazione finale, resta il fatto che essa costituisce un
limite oltre il quale né la poesia né il soggetto sono più dati. Così come il poeta ha
bisogno dell'urna per portare avanti la sua meditazione ekfrastica, a sua volta l'urna
– in quanto opera d'arte – ha bisogno di interagire con l'immaginazione di un essere
umano per completarsi. Il narratore rivela nelle domande il desiderio di com-prendere
la scena, ma l'urna è troppo fissa e limitata per concedere tali risposte. Il tentativo di
‘lettura' dell'urna condotto dal soggetto potrebbe essere visto come il tentativo fallito
di una riconduzione al reale del desiderio, il desiderio di ricomprendere l'oggetto in
una relazione vitale.
In contrasto con la linea interpretativa che, all'interno del lungo dibattito sui versi finali dell'ode, vede in essi un celebrazione del potere trascendente dell'arte, e forse più
vicino alle idee di Charles Patterson e Helen Vendler, vorrei qui promuovere un'interpretazione in direzione della rivelazione di una verità negativa16. Quest'arte perfetta e
impenetrabile è pur sempre una "forma silenziosa", una "fredda pastorale" a cui l'immaginazione del poeta tenta inutilmente di restituire un po' di vita (il ‘calore' dell'amore al verso 26 è frutto solo dell'immaginazione del soggetto). È un monumento
posto a ricordare che la bellezza è verità e la verità è bellezza, e questa verità residuale
e riduttiva, l'unica concessa all'uomo qui sulla terra, sembra negare all'uomo la possibilità di ascendere a verità metafisiche: l'arte antica è tutto ciò che ci ricorda che l'unica
verità a disposizione dell'uomo è la sua eterna bellezza. Una bellezza sublime e chiusa
15 “Oh, forma a!ica! Posa leggiadra! Con un ricamo / D’uomini e fanciulle nel marmo, / Coi
rami della foresta e le erbe calpestate - / Tu, forma silenziosa, come l’eternità / Tormenti e spezzi
la nostra ragione. Fredda pastorale! / Quando l’età avrà devastato questa generazione, / Ancora
tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori / Non più nostri, amica all’uomo, cui dirai / “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / Sulla terra sapete, ed è quanto basta”.
16 Charles Pa!erson, “Passion and Permanence in Keats’s Ode on a Grecian Urn“, in Twentieth
Century Interpretations of Keats’s Odes, Ed. Jack Stillinger (Englewood Cliffs: Prentice-Hall, 1968):
49-50; Helen Vendler, The Odes of John Keats (Cambridge MA: Harvard University Press, 1983):
140-142.
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Francesco Giusti - Il desiderio lirico e la sua impossibile soddisfazione: sostituzione o mediazione?
nella sua enigmatica perfezione che non apre platonicamente le porte ad altre verità,
piuttosto costituisce un limite e uno schermo al desiderio conoscitivo dell'uomo, può
offrirsi come stimolo all'immaginazione ma si rimane al livello della sua splendida
superficie, non concede ulteriori e stabili progressi. In altre parole frustra proprio quel
desiderio che vorrebbe fare dell'urna il suo oggetto di conoscenza profonda e di rappresentazione totale, ma la poesia – l'urgenza espressivo/rappresentativa – esiste fintanto
che esiste la tensione del desiderio. Il soggetto è la voce che opera il tentativo di (de)sublimazione, è l'atto stesso di questa operazione, cessata la quale, ottenuto o fallito che
sia l'obiettivo, il soggetto deve scomparire.
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Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio
tra le pagine di Abdellah Taïa
di Silvia Nugara
L'écriture est quelque chose qui me dépasse1.
(Abdellah Taïa, “Entre les lignes”, radio RTS, 4 settembre 2012)
Diviso tra le due sponde del Mediterraneo, Abdellah Taïa appartiene a una generazione di scrittori marocchini che, come Rachid O. e Karim Nasseri, ha fatto del francese la
propria lingua di espressione letteraria. Il lavoro di Taïa è fortemente legato a diverse
declinazioni del desiderio e lascia ampio spazio alle ambivalenze che derivano dal
tortuoso processo di formazione di un individuo nei contesti sociali e culturali che
attraversa.
Il desiderio è legato alla stessa genesi della scrittura nella vita di questo giovane uomo
che in Marocco sognava di lavorare nel cinema e che, come vedremo, trasferendosi
in Europa scopre la necessità di esprimersi attraverso la narrazione. Inattesa, frutto
di un'urgenza, la scrittura è perciò legata fortemente alla dimensione del desiderio in
quanto supera, sorpassa, prende in contropiede la volontà del soggetto. Infatti, come
ricorda Recalcati in prospettiva lacaniana:
L'esperienza del desiderio è […] un'esperienza di perdita di padronanza, di vertigine, di qualcosa che si dà a me stesso come “più forte” della mia volontà. Il desiderio in quanto forza che mi supera non è qualcosa che “io” posso governare, non è
a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piu!osto l'esperienza di uno
scivolamento, di un inciampo, di uno sbandamento, di una perdita di padronanza,
di una caduta dell'Io.2
La vita e gli scritti dell'autore sono segnati da un desiderio “sempre aperto sulla figura
dell'Altro e sulla sua alterità”, che “non rafforza la credenza nell'Io ma la sfilaccia, la
spiazza, la ridimensiona”3. Si tratta di una spinta legata alla dimensione dell'altrove
e dell'alterità da intendersi in senso ampio sia come ciò che di sconosciuto si trova al
di fuori di sé (un'alternativa di vita possibile, un contesto culturale altro) o all'interno
del sé (la complessità di un soggetto diviso, decentrato, che si scopre “straniero a se
stesso”4) sia come alterità rispetto alla norma sociale dominante (l'omosessualità di
Abdellah Taïa).
Tale contatto con l'altrove e con l'alterità si declina in molti modi. Se recentemente, a
1 “La scri!ura è qualcosa che mi supera”.
2 Massimo Recalcati, Ritra!i del desiderio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 27.
3 Ivi., p. 30.
4 Si veda Julia Kristeva, Étrangers à nous-mêmes, Fayard, Paris, 1988.
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
partire dalla cosiddetta Primavera araba, gli interventi giornalistici di Taïa riflettono
sull'orizzonte della rivolta e sulle nuove speranze dei giovani arabi5, la maggior parte
della sua produzione letteraria, per lo più autobiografica, ricostruisce il periplo ancora
in divenire della sua esistenza: dall'infanzia povera a Salé agli studi universitari a Rabat fino alla borsa di studio e alle relazioni di amicizia che lo hanno condotto prima a
Ginevra e infine a Parigi. L'opera dello scrittore marocchino è fortemente iscritta in un
processo di soggettivazione in cui occupano un posto centrale la riflessione sulla separazione dalla famiglia e in particolare dalla madre, il rapporto tra la lingua-cultura
marocchina d'origine e il campo linguistico-letterario d'approdo nell'Europa francofona, la vocazione che oscilla tra il cinema e la letteratura, l'omosessualità vissuta apertamente nonostante le ricadute che tale rivelazione pubblica ha avuto per la famiglia
rimasta in Marocco6.
In questa breve esplorazione, ci soffermeremo su due motivi fondamentali, tra loro
intrecciati: la sessualità e l'adozione di una lingua straniera. Particolarmente rappresentativa è la scena iniziale del romanzo Une mélancolie arabe7 in cui si può notare come
il desiderio sessuale catalizzi la presa di coscienza, da parte dell'autore bambino, della
necessità di “scrivere” da solo la propria storia lontano dalla terra d'origine.
Siamo negli anni '80. In Marocco picchia il tipico sole maghrebino, lo stesso sole assassino di Mersault, che acceca e rende folli. Nell'ora della siesta, il dodicenne Abdellah
si aggira per le strade del suo quartiere deserto in cerca di avventure e finisce senza
volerlo in una zona sconosciuta:
J'ai qui!é le Bloc 14. Je me suis retrouvé sans l'avoir voulu au Bloc 11, loin de chez
nous, en territoire inconnu, presque chez les ennemis. Juste à côté du terrain de
basket-ball et à quelques pas de la prison Zaki en cours de construction.
5 A questo proposito e tenendo in mente anche l’invocazione Indignez vous! di Stéphane Hessel a cui hanno dato seguito le proteste degli Indignados, è interessante soffermarsi su quanto
scrive Recalcati (pp. 122-123), riprendendo Lacan, in relazione alla rivolta e all’Utopia come
forme di invocazione dell’Altrove e quindi di cambiamento, di trasformazione e “ro!ura con
l’esistente”, di ricerca di un “orizzonte diverso del mondo”.
6 Si veda Zineb Dryef, “Abdellah Taïa, l’homosexualité à visage découvert au Maroc”, Rue89,
4 aprile 2009.
7 Une mélancolie arabe, Seuil, Paris, 2008 è il secondo romanzo di Abdellah Taïa e segue le
raccolte di racconti Mon Maroc, Séguier, Biarritz, 2000 e Le rouge du tarbouche, Séguier, Biarritz,
2004 e il romanzo L’armée du salut, Seuil, Paris, 2006. Taïa è inoltre autore dei romanzi Le jour du
roi, Seuil, Paris, 2010; Infidèles, Seuil, Paris, 2012 e di alcune opere colle!ive. Ad oggi, sono stati
trado!i in italiano tre romanzi rispe!ivamente con i titoli L’esercito della salvezza (2009); Uscirò
da questo mondo e dal tuo amore (2010) e Ho sognato il re (2012) tu!i a cura di Stefano Valenti per
le edizioni Isbn, Milano. Inoltre, un racconto è in via di pubblicazione sul prossimo fascicolo
della rivista A!i Impuri. Brani e dichiarazioni sono citati nel testo in originale, per perme!ere
al le!ore francofono di apprezzare le cara!eristiche espressive dell’autore, e trado!i in nota.
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
Un malheur allait m'arriver.
Le monde était vide. Le Bloc 11, des maisons modestes d'un ou deux étages, en
cours de construction, des maisons non finies, un décor de cinéma désert, oublié
depuis bien longtemps, sans vie, sans circulation. Sans foule.
Nous étions mercredi.
La mort m'avait choisi.
Elle avançait vers moi. Elle me voyait bien. Très bien.
J'avançai vers elle. Je ne la voyais pas. (Une mélancolie arabe, p. 14)8
L'evocazione della morte in questo passaggio iniziale orienta la lettura verso l'attesa
di un esito tragico. Il racconto prosegue con la comparsa di tre ragazzi più grandi che
si rivolgono al protagonista chiamandolo “Leïla”9. Uno di loro, “beau, arrogant, légèrement barbu” (op. cit., ibidem)10, comincia a palpeggiarlo manifestando l'intenzione
di violentarlo insieme ai compagni. Sebbene si tratti del preludio a uno stupro collettivo, l'io narrante commenta senza gravità:
Il croyait que j'avais peur.
Ce qu'il me proposait m'allait très bien. Jouer au sexe avec lui, surtout avec lui,
pour tuer l'après-midi et sa folie était une proposition qui ne se refusait pas. Dans
ma tête je voyais même déjà ce que nous allions faire, inventer. Se dénuder. Se
découvrir. Se toucher. Moi petit. Lui grand. Sa barbe qui pique. Mes fesses excitantes. Se donner l'un à l'autre. Jouer. Oublier de jouer. On n'est plus des enfants. On
fait le sexe pour de vrai. Profond. Il sera toujours le chef. Je ferai semblant d'être le
soumis. Je rêvais. Je rêvais les yeux ouverts. Je rêvais les yeux aveuglés par le soleil
impitoyable. J'étais heureux. Dans mes images et heureux. (op. cit., pp. 15-16)11
8 “Ho lasciato il Blocco 14 e mi sono ritrovato senza volerlo al Blocco 11, lontano da casa, in
territorio sconosciuto, nemico. A fianco del campo da basket, a qualche passo dalla prigione
Zaki in costruzione. Il mondo era vuoto. Il Blocco 11. Case modeste a uno o due piani, in costruzione, non finite, un set cinematografico abbandonato, dimenticato dal tempo, senza folla, senza traffico, senza vita. Era mercoledì. La morte mi aveva scelto. Veniva verso di me. Mi aveva
inquadrato. Andavo verso la morte. Non la vedevo” (Uscirò da questo mondo e dal tuo amore, Isbn,
Milano, 2010, pp. 11-12).
9 “Laila” in trad.
10 “bello, arrogante, con un po’ di barba” (Ivi, p. 12).
11 “Credeva avessi paura. Quel che mi proponeva mi andava bene. Giocare al sesso con lui,
sopra!u!o con lui, per ammazzare il pomeriggio e la sua follia, era una proposta da non rifiutare. Nella mia testa vedevo già quel che avremmo fa!o, inventato. Denudarci. Scoprirci.
Toccarci. Io piccolo. Lui grande. La sua barba che punge. Le mie natiche eccitanti. Darsi l’uno
all’altro. Giocare. Fare sul serio. Non eravamo più dei bambini. Avremmo fa!o sesso vero. Profondo. Io avrei finto di essere so!omesso. Lui sarebbe sempre stato il capo. Sognavo. Sognavo
a occhi aperti. Sognavo, gli occhi accecati dal sole impietoso. Ero felice. Immerso in quel sogno
e felice” (Ivi, p. 13).
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
Il rapporto tra Abdellah e il giovane caïd è ambiguo e carico di erotismo. Il narratore
non si presenta come una “vittima” bensì come un soggetto desiderante immerso nel
sogno e nel piacere che gli procura l'attesa di un contatto fisico, postura resa anche
formalmente attraverso una sintassi sincopata e ansimante. Il protagonista indossa la
maschera della sottomissione arrivando addirittura a comparare la propria docilità a
quella della bestia sacrificale poco prima di essere sgozzata per la ricorrenza di Aïd
el-Kébir. Il ragazzo gode nel tenere la posizione di oggetto nel fantasma dell'Altro ma
non per questo la relazione tra i due è meno violenta. Infatti, per Abdellah, la coercizione non sta tanto nel rapporto fisico quanto piuttosto nel negato riconoscimento del
suo desiderio e della sua persona, come dimostra l'insistenza con cui viene chiamato
“Leïla”:
J'ai voulu un moment lui donner mon vrai prénom, lui dire qu'il me plaisait et qu'il
n'y avait pas besoin de violence entre nous, que je me donnerais à lui heureux si
seulement il arrêtait de me féminiser… Je n'étais ni Leïla, ni sa sœur, ni sa mère.
J'étais Abdellah, Abdellah du Bloc 15 et dans quelques jours j'allais avoir 13 ans.
(op. cit., p. 20)1
In reazione all'imposizione di un rapporto fisico molto più drammatico di quello che
aveva sognato, di un nome che non gli appartiene e di un discorso che non è il suo, il
bambino si ribella e parla:
J'ai ouvert les yeux. Je me suis retourné vers lui et j'ai crié: “Je ne m'appelle pas
Leïla…je ne m'appelle pas Leïla…Je suis Abdellah…Abdellah Taïa.”
Il était surpris. Dans mes yeux, il lisait enfin autre chose que la peur et la soumission.
Cela ne l'a pas fait changer de projet. (op. cit., p. 23)2
Segue una scena di lotta, con vari altri tentativi di violenza e infine, prima la voce del
muezzin e poi quella della madre dell'aggressore, che gli chiede di andare a comprare
la merenda per la famiglia, salvano Abdellah dallo stupro. Ma il suo destino è segnato,
il bambino si figura già un futuro marchiato dallo stigma per la sua effeminatezza,
immagina gli insulti, gli abusi, l'isolamento, la morte lenta che dovrà subire. Nel continuo registro dell'ambivalenza, docile e in collera, buono e ribelle, Abdellah si rende
conto di essere furiosamente, rabbiosamente, innamorato del suo persecutore e decide
di raggiungerlo per confessarglielo:
1 “Avrei voluto dirgli il mio vero nome, dirgli che ero un ragazzo, un uomo come lui… Dirgli
che mi piaceva e che non era necessario usare la violenza, che mi sarei dato a lui felice se soltanto avesse smesso di tra!armi da femmina… Non ero né Laila, né sua sorella, né sua madre. Ero
Abdellah, Abdellah del Blocco 15 e da lì a pochi giorni avrei compiuto tredici anni” (Ivi, p. 18).
2 “Ho aperto gli occhi. Mi sono voltato verso di lui e ho urlato : «non mi chiamo Laila, non
mi chiamo Laila, sono Abdellah, Abdellah Taïa». Era sorpreso. Nei miei occhi adesso non leggeva più paura e so!omissione. Ma non ha cambiato idea” (Ivi, p. 20).
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
C'est là, dans ce!e rue, ce petit coin écrasé par la morale et la peur, ce coin que j'aimais et détestais à la fois, que j'allais me révéler tout entier aux yeux des autres, les
secouer, créer le choc, faire l'événement. Redevenir calme, soulagé, déjà dans une
autre morale, une autre histoire.
A côté de moi, il y avait un poteau électrique en fer à haute tension. Grand. Très
haut. Familier. Un jouet de l'enfance.
J'allais décoller, voler, écrire autre chose, aimer au grand jour, dire mon amour,
être ce qui ne se dit pas, n'existe pas. En partant, je ne sais pourquoi, de ma main
gauche j'ai touché le poteau.
Electrocution.
Noir.
Absence au monde.
Mort. (op. cit., pp. 29-30)3
Dichiarato morto, il ragazzino viene riportato alla vita dal padre e al suo risveglio decide che il proprio futuro sarà altrove, lontano:
Mon histoire, désormais, j'allais l'écrire seul, en silence, loin du groupe, loin du mauvais œil.
[…] Pour moi, c'était le début de la course. Je me détachais des autres et je commençais à
courir. Pour mon rêve ? pour sauver ma peau? Mon âme?
Avec plaisir, inconscience, je courais. Je courais. Je courais.
Je courais sans rien dire. Sans but.
Je courais vers Ali qui ne m'a plus jamais parlé.
Je courais vers moi inconnu, retrouvé. Perdu.
Je courais pour rencontrer le cinéma, entrer la bouche ouverte dans sa religion et ses images.
Je courais pour fuir les djinns tout en cherchant à les revoir.
[…] Seul. Méfiant. Sans confident. Fou. À chaque pas, de plus en plus fou. A chaque pas essoufflé, heureux, triste. Décidé. Le cinéma serait ma vie. En moi, malgré moi. Il n'y avait plus
que ce!e vérité qui comptait. Qui continuait de parler. De suivre et d'écrire mon histoire.
(op. cit., pp. 31-32)4
3 “È là, in quella strada, in quell’angolo di mondo schiacciato dalla morale e dalla paura, in quell’angolo
che amavo e detestavo al contempo, che mi sarei rivelato completamente agli occhi degli altri, li avrei scossi,
li avrei shoccati, avrei dato scandalo. Mi sarei calmato, mi sarei elevato, in un’altra morale, in un’altra storia.
Mi sarei staccato da terra, avrei volato, avrei scri!o, amato, avrei de!o il mio amore, sarei stato quel che
non si dice, quel che non esiste. Al mio fianco, un palo ele!rico in ferro ad alta tensione. Grande. Molto alto.
Familiare. Era un gioco d’infanzia. Andandomene, non so perché, ho toccato con la mano sinistra il palo.
L’ele!rocuzione. Il nero. L’assenza dal mondo. La morte” (Ivi, pp. 26-27).
4 “La mia storia l’avrei scri!a da solo, in silenzio, lontano dagli altri, dal malocchio. […] L’inizio della
corsa. Mi staccavo dagli altri e cominciavo a correre. Per il mio sogno? Per salvarmi la pelle? L’anima? Correvo con piacere, con incoscienza. Correvo senza dir niente, senza meta. Correvo incontro ad Ali che non
mi ha mai più rivolto la parola. Correvo incontro al mio io sconosciuto, ritrovato, perso. Correvo incontro al
cinema, a bocca aperta, alla sua religione, alle sue immagini. Correvo fuggendo dai jinn e cercando di ritrovarli. […] In solitudine. Diffidente. Folle. Sempre più folle a ogni passo. A ogni passo più felice, triste, senza
fiato. Risoluto. Il cinema sarà la mia vita. Contava soltanto questa verità. E continuava a parlarmi. Contava
soltanto scrivere la mia storia” (Ivi, pp. 28-30).
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
È la conclusione di una scena primaria. Alì è il desiderio, qualcosa con cui il protagonista lotta in
una incessante dialettica tra ribellione e sottomissione. È tramite lo shock dell'amore per Alì che
Abdellah decide che da quel momento il suo sarà un percorso di separazione dal Marocco, dalla
famiglia, dalla religione e quindi anche dalla lingua materna. L'autore stesso ha dichiarato, nel
corso di un'intervista radiofonica:
Pour devenir adulte il faut s'éloigner de ce premier monde qui vous a donné la vie, qui vous
a enseigné plein de choses mais qui au même temps vous enferme : par le simple fait qu'il
vous a dit “je suis là pour vous protéger”, il vous enferme. J'ai compris très très vite, à l'âge
de treize ou quatorze ans, qu'il fallait absolument que je qui!e ma famille, que je qui!e mes
sœurs, mon père, mes deux frères.5
Di opera in opera, l'autore riflette e racconta il processo di conquista della propria soggettività,
articolata attraverso due lingue, due culture, l'esperienza della solitudine e la necessità di appartenere a una comunità. Un processo difficile, complesso e non privo di sofferenza, che implica il
venire a patti con le spinte destabilizzanti che derivano dal desiderio. Come ha scritto Recalcati:
il desiderio non è ciò che rafforza l'identità irrigidendo i suoi confini, non è il cemento
dell'identità, ma è piu!osto ciò che la scompagina, la destabilizza, è un fa!ore di perturbazione dell'identità. Nell'esperienza del desiderio Io non sono mai padrone. Dove c'è desiderio
c'è sempre indebolimento della credenza nei confronti di quell'Io che “io” credo di essere.6
Nella raccolta di racconti Mon Maroc, con cui ha esordito nel 2000, Taïa lega l'approdo alla scrittura in lingua francese con l'arrivo a Parigi facendone anche un gesto di reazione di fronte all'indifferenza dei parigini che suscitano in lui nostalgia e senso di morte:
Il n'y a pas plus affreux que l'indifférence, le sentiment de non-existence, de mort. Je me suis
rendu compte que, comme tous mes compatriotes, j'étais curieux des gens, j'avais faim des
gens, j'étais en manque d'histoires. Des histoires à la marocaine. Je me promenais à Paris dans
l'indifférence générale. C'est à ce moment-là que j'ai souhaité être un livre que je ferais imprimer à plusieurs milliers d'exemplaires et que je donnerais à tous les Parisiens. Ils seraient
obligés de me lire, de me regarder. Ce livre serait sans titre. (Mon Maroc, p. 132)7
5 “Per diventare adulti bisogna allontanarsi da quel primo mondo che ci dà la vita, che ci
ha insegnato tante cose ma che allo stesso tempo ci limita: il semplice fa!o che dica «sono qui
per proteggerti» è limitante. Ho capito molto molto presto, a tredici o qua!ordici anni, che
avrei assolutamente dovuto lasciare la famiglia, la mie sorelle, mio padre, i miei due fratelli”.
Abdellah Taïa intervistato durante la trasmissione radio “Entre les lignes”, RTS, 4 se!embre 2012, nostra
traduzione.
6 Recalcati, p. 28.
7 “Non c’è nulla di peggio dell’indifferenza, il sentimento di non-esistenza, di morte. Mi sono reso conto
che, come tu!i i miei compatrioti, ero curioso delle persone, avevo fame di persone, mi mancavano le storie.
Le storie alla marocchina. Camminavo per Parigi nell’indifferenza generale. Ed è stato allora che ho desiderato diventare un libro da stampare in diverse migliaia di copie e dare a tu!i i parigini. Così sarebbero stati
obbligati a leggermi, a guardarmi. Un libro senza titolo ” (nostra traduzione).
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Adottando la lingua dell'Altro, l'autore paga il prezzo di sentirsi decentrato rispetto alla
norma linguistica e all'universo simbolico del romanzo francese ottocentesco:
Je ne connais pas le français. Je ne suis pas français […]. Je viens d'un monde où le
français n'était pas pour des gens comme moi, je viens d'un monde très pauvre, le
français c'est pour l'élite marocaine, des gens très importantes au Maroc m'ont tout
de suite dit que je ne maîtriserai jamais ce!e langue et aujourd'hui j'ai encore ce sentiment là que je parle ce!e langue avec des manques, des abîmes et donc quand j'écris
dans le français je n'ai absolument aucun désir d'écrire bien le français ou bien d'écrire
un français en référence à Victor Hugo ou à Balzac parce que je n'ai pas ces références-là. Ce que j'ai comme rapport à la langue française, c'est le manque dans la langue
française, le manque dans ma vie.8
Questo rapporto contrastato con il francese come lingua dell'umiliazione e della mancanza – intesa come scacco ma anche come nostalgia9 – evoca, benché con una minore
8 “Il francese non è la mia lingua. Non sono francese […]. Vengo da un mondo in cui il
francese non era certo una lingua per gente come me che sono molto povero, il francese è per
l’élite marocchina; persone molto importanti in Marocco mi hanno subito de!o che non avrei
mai imparato questa lingua e oggi sento ancora che la parlo con delle mancanze, dei buchi e
quindi quando scrivo in francese non ho assolutamente alcun desiderio di scrivere per bene il
francese o di scrivere in un francese che guarda a Victor Hugo o a Balzac perché non sono questi i miei riferimenti. Il mio rapporto con la lingua francese e fa!o di ciò che manca nella lingua
francese, di ciò che manca nella mia vita”. Abdellah Taïa intervistato durante la trasmissione
radio “La Grande table”, France Culture, 13 se!embre 2012, nostra traduzione.
9 Jean Genet, L’ennemi déclaré, Gallimard, Paris, 1991, p. 231: “ce que j’avais à dire à l’ennemi
il fallait le dire dans sa langue, pas dans la langue étrangère qu’aurait été l’argot. Seul un Céline
pouvait le faire. Il fallait un docteur, médecin des pauvres, pour oser écrire l’argot. Lui, il a pu
changer le français bien correct de sa première thèse de médecine en un argot, avec des points
de suspension, etc. Le détenu que j’étais ne pouvait pas faire ça, il fallait que je m’adresse, dans
sa langue justement, au tortionnaire. Que ce!e langue ait été plus ou moins émaillée de mots
d’argot n’enlève rien à sa syntaxe. Si j’ai été séduit, parce que je l’ai été, par la langue, c’est pas à
l’école, c’est vers l’âge de quinze ans, à Me!ray, quand on m’a donné, probablement par hasard,
les sonnets de Ronsard. J’ai été ébloui. Il fallait être entendu de Ronsard. Ronsard n’aurait pas
supporté l’argot...Ce que j’avais à dire était tel, témoignait de tellement de souffrances, que je
devais utiliser ce!e langue-là” (“Quanto avevo da dire al nemico, andava de!o nella sua lingua, non in argot, che sarebbe stata una lingua straniera. Solo uno come Céline poteva. Ci voleva un do!ore, un medico dei poveri, per osare l’argot. Lui si è potuto perme!ere di scambiare
il francese come si deve della sua prima tesi in medicina con l’argot, i punti di sospensione, etc.
Un galeo!o come me no, bisognava che mi rivolgessi, e proprio nella sua lingua, all’aguzzino.
Che questa lingua fosse poi più o meno inanellata con parole in argot non toglie nulla alla sua
sintassi. Se sono stato a!ra!o, perché così è stato, dalla lingua, non è stato a scuola, ma verso i
quindici anni a Me!ray, quando mi hanno dato, probabilmente per caso, i sone!i di Ronsard.
Sono rimasto abbagliato. Bisognava farsi ascoltare da Ronsard. E Ronsard non avrebbe sopportato l’argot…Quanto avevo da dire era tale, e talmente ricco di sofferenze, che quella era la
lingua da usare”, nostra traduzione).
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
carica di rivolta, quanto disse Jean Genet a proposito della “langue du tortionnaire”10.
Autore, tra l'altro, legato al Marocco e ben noto a Taïa, Genet aveva scelto di padroneggiare il “beau langage”, espressione dell'autorità e del potere dell'intellighenzia
francese, proprio per parlare con il nemico e dire ciò che in quel linguaggio sembrava
indicibile. La lingua francese che fin da ragazzo insegue, studia e ama è per Abdellah
Taïa il mezzo con cui entrare in contatto con l'Altrove e in seguito, arrivato a Parigi, ciò
che gli permette di arrivare alla scrittura. È mediante il tradimento della lingua e della
cultura materna11 che Taïa accede alla lingua dell'Altro ed è da questa scissione che
nasce il racconto del suo Marocco, ormai divenuto anch'esso un Altrove:
Bizarrement, en me rapprochant de l'objet de mes études, mon esprit, rassasié peut-être, commença à m'imposer ceci: penser continuellement au Maroc.
Le Maroc me revenait, me sollicitait en permanence. Bien plus : il me suivait
dans tous mes déplacements. Ainsi, au fur et à mesure que je rencontrais cet
objet, toute une réflexion se développait dans ma tête, à mon insu presque,
concernant mon pays d'origine. Ce!e dualité me passionna et me passionne
toujours. Elle me cause de temps en temps un sentiment étrange, difficile à
décrire : je perds tous mes repères et dans les grandes villes d'Europe, je suis
paumé, désaxé. Ils appellent cet état une dépression. Moi dépressif ! je ne le
savais pas. Je dirais plutôt que je vis dans l'entre-deux : chacune des deux cultures me tire de son côté (il y a donc une bataille en moi, dans mon corps).
Cela pourrait être enrichissant – et ça l'est – mais c'est aussi très déstabilisant
(Mon Maroc, p. 139).12
10 Nel racconto ‘Notre radio’, in Mon Maroc, il francese è la lingua dello straniero arrogante
che divide ricchi e poveri, giovani e anziani e crea discordia anche nella famiglia Taïa. Si veda
anche L’accompagnateur in cui M’Barka, madre di Abdellah Taïa, vive come un tradimento il
fa!o che alcuni suoi figli studino le!eratura francese.
11 “Stranamente, avvicinandomi all’ogge!o dei miei studi, la mia mente, forse appagata,
cominciò a impormi di pensare continuamente al Marocco. Il Marocco mi sovveniva, mi stimolava in continuazione. Anzi, era con me ad ogni mossa. Così, a furia di ripensarci, nella mia
testa si sviluppò tu!a una riflessione, quasi senza rendermene conto, sul mio paese d’origine.
Questa dualità mi ha appassionato e mi appassiona tu!ora. Mi suscita di tanto in tanto uno
strano sentimento, difficile da descrivere: perdo l’orientamento e mi ritrovo, nelle grandi ci!à
dell’Europa, confuso, decentrato. La chiamano depressione. Io depresso! Non lo sapevo. Direi
piu!osto che vivo diviso in due : ciascuna delle due culture mi tira dalla sua parte (c’è quindi
una ba!aglia in me, nel mio corpo). Potrebbe sembrare un arricchimento – e in effe!i lo è – ma
è anche molto destabilizzante” (nostra traduzione).
12 Si veda a questo proposito J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano, 1990.
Gli autori mostrano che se in alcuni casi la lingua straniera può dare origine a una scissione
(Spaltung) da cui deriva una drammatica sensazione di esilio e di mutilazione psichica, in altri
casi la lingua straniera perme!e di salvaguardare l’equilibrio interno del sogge!o e di arricchirne l’universo simbolico.
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Silvia Nugara - Une mélancolie arabe: scrittura e desiderio tra le pagine di Abdellah Taïa
Essere divisi tra una lingua-cultura materna e una lingua-cultura straniera è una condizione complessa che può implicare un diniego e una mutilazione del proprio mondo
d'origine ma il caso di Taïa non è così drammatico. Infatti, solo dedicandosi alla scrittura dopo l'allontanamento dall'alveo materno e famigliare e adottando una lingua straniera, lo scrittore marocchino sembra trovare una via di congiungimento tra le proprie
origini e l'universo personale (la propria omosessualità, la propria vie rêvée) costruito e
desiderato: la via di una sognante mélancolie arabe.
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