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Estratto dal testo in catalogo di Claudio Spadoni

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Estratto dal testo in catalogo di Claudio Spadoni
“Nui pittori si pigliamo licentia, che si pigliano i poeti e i matti”
Paolo Caliari (il Veronese)
Estratto dal testo in catalogo di Claudio Spadoni
Le parole in esergo, pronunciate dal Veronese nell'interrogatorio cui fu sottoposto dal tribunale
dell'Inquisizione nel luglio del 1573 per l'Ultima Cena, ora a Venezia alle Gallerie dell'Accademia
(l'artista, com'è noto, se la cavò cambiandone il titolo) erano una difesa, apparentemente
ingenua ma in realtà molto scaltra, per giustificare gli arbitrii, le stranezze dei pittori, come
quelle “che si pigliano i poeti e i matti”; licenze nondimeno molto sospette agli occhi di chi
considerava del tutto sconveniente “dipingere buffoni, imbriachi, todeschi, nani et simili
scurrilità” alla “Cena Ultima del Signor”. Nei tempi agitati del Concilio Tridentino si può ben
immaginare di quale peso potessero gravarsi. Con malcelata abilità il Veronese la butta da un lato
in una questione di esigenze compositive, di necessità pittoriche, dall'altro rifugiandosi in un
quantomai improbabile riferimento ai nudi di Michelangelo della Cappella Sistina.
Nessun accostamento possibile, venendo a tempi
facile
meno lontani, nonostante tutta la
letteratura romantico-decadente sull'eccentricità, la diversità, il genio che
nell'artista farebbe tutt'uno con la follia. Per non dire, poi, del protrarsi del mito
moderno del 'maledettismo', resistente anche alle stagioni del pieno disincanto, come
certi conclamati esempi recenti stanno a dimostrare: un nome per tutti, Basquiat.
Comunque tutt'altra cosa rispetto a quella che il buon Orazio d'antica memoria aveva
chiamato
“amabilis insania”.
Resta che il tarlo romantico, ma s'intende del
romanticismo più profondo, che si è insinuato nell'immagine, nell'identità dell'artista,
favorendone un'irreversibile trasformazione, ha attraversato l'arte moderna fomentando
altri dubbi, non già etici e meno ancora religiosi. Dubbi dei quali si è alimentata la
psicanalisi, ma anche altre scienze umane fondate con uno statuto di 'modernità', anche
a prescindere, quasi sempre, dal destino assegnato agli artisti da altri e anch'essi
moderni organi di giudizio, fors'anche più impietosi, spesso, della famigerata
Inquisizione che aveva portato sul banco degli imputati il Veronese. Quello che è
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diventato, per usare un'espressione corrente , il 'sistema dell'arte moderna', con musei,
istituzioni pubbliche e private, il mercato, sempre più onnivoro e decisivo nella
consacrazione degli artisti, nel determinare una scala di valori dove l'estetico e
l'economico coincidono. Poi, naturalmente, la critica ufficiale, nella sua progressiva
mutazione genetica, con le sue talora pirotecniche performances: da 'militante', nel
fervore ideologico del mito dell'avanguardia, a più pragmaticamente 'manageriale' e
quindi,
dernier cri, più banalmente 'curatoriale'. E non da ultimo,
il sempre più
sistematico, ipertrofico, avvolgente dominio dei mass media, portato fino all'esaltazione
tautologica in un lucido delirio di onnipotenza.
Normalità e follia
Un sasso, o anche solo un sassolino nello stagno. O magari in qualche luogo fluviale
nelle cui prossimità fin dalla notte dei tempi ha allignato la “disragione”, come scriveva
Michel Foucault. Ma qui sono in causa delle vicende per le quali si sfiorano, si
sovrappongono, si intrecciano, collidono saperi diversi, e non solo storia e teorie
dell'arte, o meglio di ciò
che chiamiamo arte, per riprendere la nota definizione,
all'apparenza tautologica, di Dino Formaggio; ma antropologia, sociologia, filosofia del
linguaggio, psicanalisi. E non ultima, per vicende di una creatività fortemente critica,
ecco la disciplina che incombe con tutto il peso della sua stessa storia: la psichiatria.
Vicende che direttamente o indirettamente richiamano un termine mal traducibile,
almeno in questo caso, come 'Borderline'. E non può essere, appunto, che uno sguardo
rivolto là dove i confini sembrano sfrangiarsi, confondersi, dove le acque si intorbidano
solo a sospendere le presunte certezze di una storia dell'arte che criticamente- proprio
nell'accezione etimologica della parola- separa la luce dell'ufficialità dalla penombra o
dal buio dell'emarginazione, del silenzio, della dannazione morale, della segregazione
coatta o, disperatamente, e talora candidamente, volontaria.
diventano così
Normalità e Follia
categorie discriminanti tanto abusate quanto improprie: una
discriminazione che per alcuni ha significato la condanna senza appello al silenzio, o ad
un disconoscimento impietoso. S'intende bene che una campionatura di artisti come
quella offerta da questa mostra- ma si potrebbe dire da ogni possibile mostra sul temanon può che essere molto parziale, ristretta, inevitabilmente limitata, anche se, si spera,
significativa, e comunque tale da agitare dubbi, forse minare qualche
certezza,
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comunque sollevare interrogativi che toccano il principio profondo di quello che attiene
l'atto creativo, le sue scaturigini, il modo in cui si manifesta, e i suoi luoghi. E, appunto,
quel che più preme:vale a dire ciò che decide la sua riconoscibilità.
Storia o biologia ?
Con tutte le riserve del caso per l'eccesso di schematismo, Giulio Carlo Argan indicava
nella biologia e nella storia i saperi di riferimento per
due diverse possibilità.
Rileggiamolo: “Delle due l'una: o l'arte è un prodotto della civiltà 'storica' e può essere
studiata soltanto come una componente della storia della civiltà o della cultura, o è
l'espressione di un impulso profondo e perenne, connaturato all'essere umano e quindi
insopprimibile, se non addirittura la riscossa delle forze genuine dell'esistenza contro la
repressione della civiltà o della cultura. Se così fosse, l'arte sarebbe ancora un fenomeno
naturale e dovrebbe essere studiato con gli stessi metodi scientifici della biologia.” Ma
poiché la riconoscibilità dell'arte, dunque del suo 'valore'
dipende da un giudizio,
“nessuna opera d'arte -sosteneva Argan- è mai stata recepita da una coscienza senza
questo giudizio storico, che può essere giusto o sbagliato, formulato secondo
procedimenti più o meno appropriati.” E ancora: ”Una storia dell'arte è possibile e
legittima solo a condizione che spieghi il fenomeno artistico nella sua globalità.” E
tuttavia non toccava, Argan, se non indirettamente, la questione di una creatività non
riconosciuta, non omologata, per buona parte sommersa, insomma
in alcun modo
ammessa entro i circuiti dell'ufficialità, e dunque del giudizio. Ma è significativa la
considerazione ”che l'arte odierna, e proprio nelle sue punte più avanzate, tende a
rendersi fruibile senza la mediazione del giudizio, presentandosi come ipotesi
sperimentale di attività estetica integrata in un nuovo sistema culturale non più fondato
sul giudizio storico(...) così facendo non fa che sottrarsi al giudizio estetico per
sollecitare un giudizio morale, quasi ritrovando, dei due, la fondamentale distinzione o la
comune origine. Estetico o morale che sia, il giudizio è sempre un giudizio storico
perché non viene pronunciato sulla base di una verità scientifica, ma in rapporto ad una
data situazione umana: ciò di cui si giudica allorché si giudica un'azione è sempre il suo
essere o non essere conforme, nonché i motivi e le conseguenze della sua conformità o
non-conformità ad uno 'status' del costume sociale o della cultura. Gli stessi concetti di
buono e cattivo, a cui si ricorre nel giudizio morale, come quelli di bello e di brutto a cui
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si ricorre nel giudizio estetico, non sono altro (escludendo ogni ragion metafisica) che
formule riassuntive con le quali si indicano serie di esperienze positive o negative o di
giudizi di valore e non-valore.” Con la parziale conclusione che l'abolizione di simili
categorie in una lettura fenomenologica dell'arte “ha infatti svuotato e vanificato il
concetto di arte, e la storia dell'arte, come storia di 'poetiche', ha preso il posto
dell'estetica, ormai radiata dal novero delle discipline filosofiche.”
Ragioni e disragioni
Restano sostanzialmente inevasi alcuni interrogativi sulle diverse ragioni e condizioni
della 'creatività', che hanno suscitato interessi non trascurabili nella moderna storia
dell'arte. Interrogativi che agitano ancora, nonostante tutto, la cultura storica e dunque
il giudizio. Gli stessi interrogativi che hanno impropriamente, e spesso malamente,
trovato terreno fertile, con l'avvicendarsi delle avanguardie del primo '900, anche per
letture spregiative soprattutto delle manifestazioni artistiche più eversive, o comunque
meno ligie ai canoni della tradizione. Col risultato di accostare, se non accomunare in
un giudizio liquidatorio, espressioni di alienati con quelle di figure della scena ufficiale
riconosciuta. Fino alle conseguenze estreme delle mostre di 'arte 'degenerata' nella
Germania nazista. Un non esiguo repertorio bibliografico, in materia, sta comunque a
confermare, proprio nei suoi risvolti più negativi e inquietanti, l'acuirsi di una questione
che riguardava la modernità artistica prima ancora che l'arte dei malati. Coi casi, molto
diversi, di Van Gogh e Munch, per fare solo i due nomi più noti, a costituire esempi
paradigmatici di figure a loro modo partecipi della scena artistica anche e proprio nella
loro condizione di disagio o di malattia.
Quasi raggelante l'espressione di
compatimento di De Chirico per il povero Van Gogh, “disgraziato cloromane”. Ma
non a caso il grande 'pictor classicus' aveva assunto una posizione sempre più personale
di aristocratica distanza nei confronti di buona parte della cosiddetta 'arte moderna',
dall'impressionismo in poi.
Per altri aspetti, ricordava Giorgio Bedoni in un saggio su 'Arte e psichiatria', come il clima
instauratosi segnatamente negli anni '20-30 del secolo scorso, portasse figure come lo
psichiatra Wilhelm Weygant a parlare di “opere degradanti per la dignità umana” prodotte da
artisti presi ad esempio quali “esteti perversi”. Ma avvertiva Hans Prinzhorn, eclettico studioso
d'arte e filosofia, psichiatra a Heidelberg dopo la fine della prima guerra, che era decisamente
fuorviante “mettere in comparazione le caratteristiche esteriori dell'arte contemporanea con
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quelle del nostro materiale”, insomma i lavori prodotti da malati. “Ossia, partendo dall'analogia
di fenomeni esteriori, è superficiale e falso trarre la conclusione che anche gli stati psichici
implicati siano simili. L'asserzione:questo pittore dipinge come questo o quel malato, dunque è
malato mentale, non è affatto più convincente né più significativa dell'altra: Pechstein ed Heckel
[nda. del noto gruppo espressionista 'Die Brucke', 'Il ponte'] realizzano sculture in legno simili a
quelle dei negri del Camerun, dunque sono negri del Camerun”. E naturalmente oltre a 'Die
Brucke' basterebbe pensare a quella multiforme vicenda tra esotismo e primitivismo che ha
interessato una larga parte delle vicende artistiche fra Otto e Novecento, prolungandosi
attraverso le avanguardie almeno fino ad alcuni protagonisti del surrealismo. Dall'esotismo
ottocentesco nelle sue diverse inflessioni, al mito esotico-primitivistico di
Gauguin, è un
insieme di culture antiche, l'egizia, la mediorientale, l'atzeca -anche a sorvolare sul 'giapponismo'
portato in auge dagli impressionisti, che era una questione diversa, squisitamente formale- si
assiste ad un multiforme processo di assimilazione di culture altre rispetto a quella egemone
europea. Fino alla più manifesta appropriazione di manufatti tribali, maschere, idoli e oggetti vari
di provenienza coloniale, da parte dei Fauves, fra tutti Matisse, Derain, Vlaminck, e di Picasso,
sulla metà del primo decennio del '900. [...]
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