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Depressione e crisi religiosa
Depressione e crisi religiosa Mariano Galve Moreno* 2004, Dolentium Hominum “Non si capisce come si possa andare avanti senza la fede” N ella nostra cultura occidentale, pur se è definita del “benessere”, si vanno diffondendo sempre più dei sintomi che si potrebbero definire “depressivi”. Oggi la depressione è la malattia di moda. Potrebbe essere diagnosticata a chiunque abbia dei problemi esistenziali. Nessuno dubita poi che la vecchia configurazione della nostra vita stia saltando in aria e che mondo e religione stiano attraversando una crisi profonda, senza che nessuno sappia, né possa, definirla nella sua totalità e nelle sue relazioni. Ciò che non è altrettanto evidente e che, con tutta sicurezza, non è di moda, è l’esistenza di un forte legame – profondo e segreto – tra depressione e crisi spirituale. E questo perché siamo abituati solamente all’evidenza dell’esteriorità, negando ciò che è vitale per ogni uomo, e cioè che l’interiorità possiede un proprio respiro e fornisce ossigeno a tutto l’essere, che in questo luogo interiore sta il cemento sul quale si fonda ogni vincolo stabile con gli altri e, forse, per alcuni, la pietra angolare che permette di sentirsi abitato dall’Altro, e che solo e grazie a loro – Dio e gli altri – il nostro spirito si alimenta, respira, diventa mobile, ardente e amichevole. Attualmente questi vincoli sani e sananti sono, se non negati, certamente disattesi e, pertanto, cultura e individuo seguono la facile tendenza dello “sforzo minimo” che favorisce l’aumento della depressione. Le cosiddette “malattie croniche” lo sono perché non si è discesi a quel punto centrale privilegiato della nostra interiorità e, poiché non si dispone delle forze che vi abitano, si vedono obbligate a ripetersi senza tregua, come il bambino che i genitori non vogliono ascoltare e che martirizza tutti con la sua insistenza. La crisi della nostra spiritualità Dobbiamo dire che ci stiamo avvicinando al punto in cui i beni esteriori – prosperità e beni materiali – stanno sostituendo i beni spirituali come ideale. Tale tendenza sta creando una considerevole dissociazione e negazione del ruolo che le nostre necessità spirituali svolgono nella vita. Benché il benessere materiale aumenti, la nostra necessità di amare – suprema e unica norma religiosa – e che costituisce una massima garanzia contro la depressione, viene trascurata e può perfino soccombere. * Psicologo, Saragozza (Spagna) Per questo, ci attacchiamo alle soddisfazioni esterne, mentre la difficile lotta per la ricchezza interiore e la pace di coscienza restano lasciate al caso, dando luogo, secondo me, alla radice dell’attuale crisi religiosa. Le nostre lotte – tra amore e odio, tra ira e pazienza, tra compulsione e ascesi – ricevono pochissimo aiuto dalla nostra attenzione e dai nostri sforzi consapevoli. È certo che la nostra grande necessità di incoraggiare e nutrire l’amore e di sopprimere e modificare l’odio, sta cercando nuove vie nella vita, ma come problema interno individuale ottiene poco appoggio diretto. Nella depressione lo spirito ammutolisce e la vita si assenta quando in loro non riponiamo fiducia, quando li disprezziamo, li opprimiamo e li richiudiamo come un bambino in una stanza buia. Quando ciò avviene, nascono la sofferenza, il danno, la pena e il dolore. Nel depresso, la vita non sembra essere vita, la storia e il movimento vitale sembrano sospesi, la speranza non sa cosa sperare, l’essere non esiste, si limita ad essere una possibilità della quale non è consapevole. Il depresso non teme la morte né l’attende, la morte è egli stesso. In questa esperienza nulla riesce a calmare né a rappacificare. Niente assicura il depresso che sta attraversando un processo di ricapitolazione vitale nei suoi due aspetti, la vita e la morte, vicine e sorelle inseparabili. Tuttavia, sotto la spessa cappa gelata, la vita scorre ancora senza che nessuno lo sappia, nemmeno lui stesso. Solo lì si mantiene la vita come una spia accesa che resiste come una ridotta in tempo di guerra. E, in questa cappa profonda della nostra interiorità, nascerà quella misteriosa capacità di rinascere, di recuperarsi, di perdersi nell’altro, di reimpostarsi altrove. In questo senso il lamento e il sintomo sono il risultato di una negoziazione tra la chiamata alla vita e la paura di vivere. Lo sguardo curativo si compiace nell’identificare le due forze presenti, però sceglie fermamente uno dei due partiti: quello di quel desiderio timido e vacillante, che cerca di farsi sentire e trovare una strada tra le sottigliezze dell’angoscia e i fossati della colpevolezza. Radici della depressione: perdite significative e attacco a tutto ciò che è buono Religione e psicologia esistenziale coincidono nel segnalare due grandi cause che sono all’origine della sofferenza depressiva: una è la perdita di oggetti significativi e l’altra è la cattiva strutturazione dell’impulso distruttivo. Tanto intorno a noi quanto nel nostro mondo interiore esistono molte perdite La perdita può provenire dall’infanzia, in cui il padre o la madre sono morti o hanno abbandonato la famiglia. La perdita potrebbe essere più recente quando un padre o una madre amato o odiato hanno lasciato questa vita senza una parola di riconciliazione. Forse la persona amata non è morta ma se ne è andata e ama un’altra persona. Come può il depresso dimostrare la colpa che prova per aver fallito, l’ira per essere stato abbandonato, la desolazione per essere stato lasciato solo, abbandonato, senza nessuna ricompensa né riconciliazione? C’è dolore anche per la perdita della fanciullezza o per la paura di crescere. Per la perdita della gioventù, della bellezza e della virilità. Dietro c’è il timore di diventare dipendenti dagli altri e causare loro pena. Dolori come questi arrecano disperazione. Il depresso è pieno di una pesante e grigia indifferenza, anche verso le persone che prima erano importanti per lui. L’amore si è allontanato, lasciandolo con la percezione della sua assenza. La depressione come “separatività” Mi dà molta pena quando sento qualcuno dire allegramente: “Non credo in Dio”. Ho quindi l’impressione che, per seguire la moda e la più ottusa permissività, stiamo perdendo la cosa più preziosa che abbiamo e che, purtroppo, in questo stesso movimento si stia impadronendo di noi il virus della depressione. Dal punto di vista religioso, la parola chiave per comprendere la depressione si chiama separatività. Il male radicale, che è fonte di tutte le esperienze depressive, viene dal nostro credere erroneamente di essere separati da Dio, da noi stessi e dagli altri. Il sentimento di aver dannato e distrutto la relazione con Dio e ciò che essa simbolizza – il suo legame con il paradigma della bontà –, diminuisce la fiducia del depresso nella sincerità delle sue relazioni successive e lo fa dubitare della propria capacità di amare e di essere buono. Possono anche levarsi dubbi nei riguardi del Sommo Bene. Sotto la pressione dell’ansia depressiva, la fede e la fiducia negli oggetti buoni di solito vengono scossi. I cambiamenti significativi dell’umore avvengono con maggiore probabilità in coloro che non hanno stabilito, con sicurezza, la loro parentela con Dio e non sono capaci di mantenere la gratitudine verso di Lui. Alla perdita significativa di Dio si somma la grave distruzione del ritmo temporale. Il depresso perde la memoria selettiva ed è incapace di vedersi e rileggersi nel proprio passato; non accetta il presente, pieno di sofferenza e solitudine e, soprattutto, non ha futuro perché, nel movimento stesso della perdita di Dio, ha perso anche la trascendenza. La perdita del futuro, su cui è cimentato il “senso della vita”, scombussola il tempo vissuto. Così, ad esempio, il tentativo di cancellare dalla Costituzione Europea le sue radici cristiane, falsa il nostro passato, e, per questo motivo, lo tinge con una tinta depressiva. Per usare una frase di Simone Weil, tale spezzettamento del tempo, è cosa da criminali, prostitute e schiavi. È, quindi, un distintivo della disgrazia. Per questo, quando i depressi scavano nel loro passato, scoprono che queste perdite sono state più dolorose e registrate in dimensioni più intense rispetto alle persone non depresse, anche se si tratterà solo di piccoli tradimenti, slealtà, crudeltà, denunce, minacce, rimproveri, viltà, gelosie e ingratitudini che hanno luogo in ogni comunità che non sia guidata dall’amore e dalle persone. Effetti profondi della separatività: essa colpisce l’inconscio Ogni depressione e i suoi sintomi sono interni e rendono difficile la fede nell’amore. Tutti questi pericoli tendono ad allontanarci dalla bontà interiore, per timore della disillusione, dell’abbandono e dell’insicurezza che ci minacciano. Il sentimento del danno causato dalla separatività (da Dio, dagli altri e anche da se stessi), la grande ansia che ne deriva, e la risultante incertezza circa la bontà dei rappresentanti del bene, hanno l’effetto di aumentare la voracità, la compulsione e gli impulsi distruttivi. Voracità in primo luogo. La mancanza di connessione con le fonti del Bene e dei suoi rappresentanti provoca un vuoto interiore che mille e più cose di questo mondo non possono riempire. L’uomo però cercherà di riempire il vuoto e si imbarcherà nel meccanismo inarrestabile della compulsione. Compulsione ad essere, o compulsione di cupidigia e del suo omologo, l’ambizione, che si relazione con la rivalità e la competenza nelle relazioni umane. Per ultimo, l’emergenza degli impulsi distruttivi. A causa del vuoto e dell’insoddisfazione, la rabbia interna mette in moto il meccanismo dell’odio. Conseguenza di ciò è l’impoverimento, perché la rabbia impedisce l’integrazione e la sintesi. Cura. Uscire dalla depressione Le esperienze che sono “timoni di profondità” – l’amore, la creazione e le esperienze religiose – conferiscono un ruolo di strutturazione dell’individuo. Sono le basi di ogni fede, di ogni nascita e di ogni rinascita. Ammettere l’aspro sapore della verità Quanto maggiore è la crisi in noi e nel nostro mondo, quanto più abbondante sarà la domanda di rivelazioni più o meno reali e veritiere. È anche certo che la maggior parte delle volte si ottengono soltanto false risposte a domande autentiche. Il primo dovere del depresso che intenda veramente curarsi, cioè che voglia cambiare la paura in pena, consiste nel lasciarsi cadere senza un lamento, senza pudore né smorfie come un bambino stanco che cade dal sonno e si addormenta nel primo posto che trova. Non si creda che questo voglia dire rendere cronica la sofferenza. Si tratta unicamente di una seconda opportunità che il depresso può concedersi per incamminarsi verso la sua stessa vitalità profonda. Per questo occorre che, in un impulso di fede poco comune, il dolore sia ricevuto, accettato, assorbito e digerito e questo richiede di dare un significato alle sensazioni e una grande capacità di approfondimento delle esperienze. I monaci dell’occidente, i saggi orientali, i padri del deserto, i sufíes dell’islam hanno dedicato la loro vita ad addentrarsi nei sentieri che portano alla vita interiore. E sanno bene che per arrivare al nucleo di questo spazio interiore – dove abitano i tempi e i luoghi retti dalla grazia – è necessario addentrarsi nel mistero attraverso quel fosso depressivo – ammettere questa pena, questa caduta, questo silenzio – come un connubio doloroso tra la vita e la morte. Partire dalla nostra interiorità e ampliare e rafforzare il lieve battito della vita La serietà e la bravura non hanno senso, se il desiderio non è vivo, il cuore vivace e i “polmoni scarlatti”. Queste zone profonde della nostra intimità hanno bisogno di essere nutrite, protette e curate con premura. Il contatto caloroso con gli altri è l’alimento principale del cuore. Tanto nel Vangelo quanto nella vita di tutti i giorni esistono esseri che incarnano la verità. Sono, nello stesso tempo, autentici, veritieri, verificatori e verificati. Senza ricorrere alla parola, rivelano la nuda realtà di coloro che li avvicinano. La rivelazione nasce dal loro stesso atteggiamento di desiderio e verità di fronte ai quali sentiamo l’anelito e il valore di osare essere alla fine noi stessi, di sopprimere l’anchilosi esistenziale, di contemplare senza compiacenza la nostra timidezza e le nostre timorose apprensioni. Dare tempo al percorso della cura La trasgressione alimenta la colpevolezza e questa il perdono e la riparazione (Winnicott). Allo stesso modo, quest’ultima dà origine all’accettazione di se stesso, alla premura, alla bontà, alla preoccupazione per gli altri, alla sensatezza (ancora Winnicott), che a sua volta causa l’amore per Dio (il Vangelo). Di modo che la trasgressione della legge è il cammino verso la festa del padre (il figliol prodigo: “C’è più gioia in cielo per un peccatore convertito”...). Terapie psicologica e spirituale: riparazione e riconciliazione “Comprendiamo soltanto e ha senso pieno ciò che abbiamo assimilato, espresso e incorporato alla nostra intimità attraverso la confessione e il perdono. Lasciarsi perdonare di fronte alla presenza di un altro è un’alchimia che anima, rianima e vivifica”. Religione e psicoterapia analitica coincidono anche in questo principio: quando una presenza diventa assenza, detto oggetto può essere ricreato, posto in gioco, sostituito nel nostro spazio interiore grazie alla riparazione e alla riconciliazione. Quando ciò avviene, nasce un’altra presenza ancor più presente della precedente, dato che è interna, che fa sì che la vita prosegua il suo cammino nonostante la carenza e la morte. La cosiddetta “elaborazione del lutto” ha in comune il fatto che, oltre alla mancanza, implica alcune elaborazioni, che sono pienezze strappate al vuoto, realizzazioni che trascendono la perdita, sguardi dispregiativi alla morte, immagini della resurrezione. Riconciliazione come accettazione, migliori relazioni con noi stessi e con gli altri e una più chiara percezione della realtà esterna ed interna La situazione di accettazione di noi stessi, certamente dà luogo ad un grande dolore spirituale e a colpa, ma crea anche sentimenti di consolazione e di speranza che, a loro volta, rendono meno difficile l’unità personale. Tale speranza è basata sulla crescente conoscenza inconsapevole che l’idea e l’esperienza di Dio e degli altri, non sono tanto cattive come erano state sentite nei suoi aspetti dissociati dalla depressione. La riconciliazione è, per questo, riparatrice del proprio essere. Il soggetto depresso ha appreso che l’unico punto di appoggio che meriti credito è la sua interiorità calorosa e stabile che contrasta con la ricerca febbrile di contatti molteplici e superficiali, una volta caratteristica della sua esistenza. La guarigione lo ha reso alla sua intimità. Per il soggetto morto e risuscitato è il fondamento di un altro modo di assumere se stesso. Nell’uscire dal nulla depressivo, si rivolge verso il suo interno per aver sperimentato la precarietà e la mancanza di significato dell’esteriorità. Ma la riconciliazione agisce anche come riparatrice di altri esseri. La capacità di assumere la solitudine permette al riconciliato di comprendere e consolare il dolore altrui, dato che conosce per esperienza personale la riparazione e la resurrezione. Quando assume la sofferenza del prossimo e la condivide, si trasforma in sollecitudine, compassione e responsabilità. La riconciliazione è anche creatrice. Ama il mondo abbastanza perché gli sia caro e non lo teme tanto da non trasformarlo. Riunisce in sé quella tenerezza e quella violenza che danno origine alle esistenze animate e alle parole vive. Quando la riconciliazione può essere portata a tali profondità, gli effetti perniciosi della depressione diminuiscono, arrivando ad una maggiore fiducia nelle forze costruttive e riparatrici. Il risultato è una maggiore tolleranza rispetto ai propri limiti come pure migliori relazioni con gli altri e una più chiara percezione della realtà interna ed esterna. Così, in relazione alla compulsione, Wiliam James osservò che “si curano più depressi con la conversione religiosa che con tutta la medicina del mondo. E ritengono che ciò continui ad essere vero nonostante i grandi progressi realizzati dalla moderna psichiatria”. La riconciliazione, rivestita di queste caratteristiche, ci regala anzitutto una relazione sana con Dio, nostro Padre, e con il nostro Redentore, Gesù Cristo, un sì alla grazia e al compito di amarci reciprocamente. L’accettazione riconciliata promuove la soddisfazione Mentre lo stato di non riconciliazione è fonte di grande infelicità, l’atto di riconciliarsi è percepito come substrato degli stati psichici di soddisfazione e di pace e infine della saggezza. Ciò, di fatto, costituisce altresì la base delle risorse interne e dell’elasticità che possono essere osservati in coloro che recuperano la pace spirituale anche dopo aver attraversato una grande avversità e dolore morale. Tale atteggiamento, che include la gratitudine in relazione ai piaceri del passato e il piacere di ciò che il presente può dare, si esprime nella serenità. La gratitudine, come antidoto alla depressione Quanto più spesso si sperimenta la gratificazione nell’atto di relazionarci con Dio e con i suoi analoghi, tanto più sono sentiti il piacere e la gratitudine al livello più profondo, svolgendo un ruolo importante in ogni sublimazione e nella capacità di riparare. La gratitudine è strettamente legata alla generosità. La ricchezza interiore deriva dall’aver assimilato il bene, di modo che l’individuo diventi capace di condividere i propri doni con gli altri. In questo modo è possibile interiorizzare un mondo esterno più propizio e, di conseguenza, si crea una sensazione di arricchimento. Dopo la gelata depressiva, poiché la riconciliazione è nata dalla morte, lo spirito conosce la gratuità, il ricevuto e il dato. Questa vita gratuitamente ricevuta e data gli insegna qualcosa sul mistero della filiazione e della paternità. Mediante il sentimento di gratitudine il credente si apre alla sua storia e alla storia, che sono storie di salvezza. Il polo opposto è la memoria malata, occupata – e, a volte, completamente posseduta – dal risentimento, dal rancore e dall’insoddisfazione. La persona grata non si compiace nello scavare continuamente in vecchie ferite. Il suo sentimento di gratitudine irradia costantemente e aiuta gli altri a liberarsi da lamenti e da accuse. Una vita nuova: esperienza rinnovata e risuscitata “Incommensurabile è l’importanza psico-igienica della terapia contro la paura istaurata da Gesù. Anche se contempliamo la questione semplicemente dall’aspetto della storia delle religioni comparate, vediamo chiaramente che Gesù è l’unico fondatore religioso ad aver eliminato dalla religione l’elemento del timore depressivo” (Bernhard Hanssler). Affrontare la morte depressiva e rinascere è la storia di ogni autentica depressione, che sia stata o meno battezzata con questo nome dalla medicina. Deprimersi e ristabilirsi significa aver assimilato che la vita è più libera e che il desiderio è capace di rinascere e risuscitare. Nella depressione riacquistare la “salute” implica recuperare il senso della vita Il desiderio è un modo di “essere presente” e di “dare senso” in contatto con se stesso, con l’universo e con l’Assoluto. Il desiderio mobilita enormemente il senso della vita. Si sa che nevrosi e depressioni assaltano individui pietrificati in un atteggiamento esistenziale univoco. Per questo, tornare a recuperare il senso della propria vita, è il punto cruciale e primordiale della terapia, nel moto stesso che costituisce l’istante fondamentale di ogni intento incamminato verso la profondizzazione di sé. Uscire da una depressione vuol dire permettere nuovamente che questo “senso” agisca nello spazio dell’interiorità: apprendere nuovamente a vivere, a lasciare che in noi operino quelle cure e quei balsami, che consolano e discolpano, che si sono succeduti nel corso della nostra storia. Il ritrovare, dentro o fuori se stesso, un luogo in cui ci sia senso deve essere simultaneo alla scoperta del senso stesso, del suo impiego, dei piaceri e delle consolazioni che fornisce, e della libertà di cui sono umili strumenti. In questo modo, un pezzo di pane e un bicchiere di vino ricevuti e incorporati come simbolo e “senso” rappresentano tutte le cose buone del mondo e, per i cristiani, tutta la buona natura amante di Dio. Profondamente incorporata, una minuscola particola di pane può far sì che entrino in gioco l’infinito della nostra interiorità, l’infinito del mondo e l’infinito di Dio. Nella depressione riacquistare la “salute” implica recuperare la fiducia basilare È necessario non aver nulla da perdere, non sperare nulla dalla forza, non rivendicare la compulsione di essere, non credere nella sopravvivenza per confidare nella resurrezione. La speranza radicale in mezzo alla disperazione, la fiducia in piena inquietudine è un mistero: quello della vita che è più forte della morte. Tale fiducia basilare che emerge dalle profondità dell’essere, dopo il passaggio purificatore attraverso la morte depressiva, fondamenta la realtà, la verità dell’essere e la veracità delle sue relazioni con il mondo e con la propria storia. 5.3. Nella depressione riacquistare la “salute” implica recuperare l’autorizzazione ad amare e ad amarci Ho “vita” se permetto al mio desiderio di operare nel mio corpo, nella mia storia e nel mio mondo; amo se accetto, se spero dall’altro lo stesso movimento libero e fiducioso del suo desiderio. Questa considerazione fiduciosa e amorosa può essere chiamata autorizzazione. Si muore perché non si è amati, si rivive se lo si è. Pertanto, questo sguardo autorizzatore, questa relazione amorosa è il primo dei “gesti” per colui che si è imposto il compito di restaurare una vita, una storia, e una sovranità originale. La madre, ad esempio, è la prima dispensatrice di questa “autorizzazione”, di questo amore che autorizza. La prima offerta del seno, come risposta alla prima fame, insegna al neonato che la necessità annuncia la gioia, che al vuoto di dentro corrisponde l’abbondanza di fuori, che è dolce chiedere e ricevere. Però questa prima approvazione della necessità iniziale si prolunga nel corso della vita rivivificata da ogni esperienza di domanda soddisfatta. Per i credenti il Supremo dispensatore dell’autorizzazione è Dio... che è amore totale e disponibilità totale... Per i non credenti vorrei ricordare la storia di quel giovane psichiatra depresso che cerca di suicidarsi. Guarito, chiede ad un amico cosa deve fare per non ricadere nelle stesse sofferenze. Questi gli risponde: “Ho un trucco per coloro che non credono in Dio. Per sentirci vivi e reali bisogna lasciarsi toccare tutti i giorni da qualcosa o da qualcuno”. È necessario permettere che gli altri ci alimentino il cuore, che ci scambiamo segnali di vita grandi ed emotivi; è necessario lasciare che ci molestino, cioè che ci animino con uno sguardo, una voce, un gesto e, se possibile, una carezza. Vorrei terminare il mio intervento con un appello a mettere in moto ogni grammo di bontà autorizzatrice che esista in Dio, nel mondo, nelle comunità, nelle persone e nelle cose che diano “senso” alla nostra vita. L’inclinazione alla tendenza depressiva della nostra società è forte. Per questo, credo che le scienze che curano il corpo e la mente debbano allearsi con le risorse riconciliatrici sananti della religione, per fornire, senza indugi, il sostegno necessario all’onestà e al benessere intimi, che fanno parte della realtà affettiva interna e sono fonte di una comunione amorosa con il mondo esterno, in cui vivono i fratelli.