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⇔ Definizione operativa di `Grandezza Fisica`:
Definizione operativa di ‘Grandezza Fisica’: “Ente suscettibile di misura introdotto per la descrizione di un fenomento fisico” • Grandezze la cui misura è diretta (“grandezze fondamentali”): - definizione di un procedimento (ripetibile) di misura, ossia di un confronto tra l’oggetto in esame e un oggetto omogeneo assunto come unità di misura - definizione di un “campione” di riferimento e di una unità di misura Esempi: grandezza fisica lunghezza tempo massa temperatura ⇔ unità di misura metro, pollice (“inch”),... secondo chilogrammo, oncia,... grado (Celsius,Farenheit,…) • Grandezze la cui misura è indiretta (“grandezze derivate”): Sono espresse in funzione delle “grandezze fondamentali” Esempi: velocità (metri al secondo), accelerazione (metri al secondo2), corrente elettrica, etc... Evoluzione nel tempo della definizione delle unità di misura Esempio: la grandezza fondamentale “lunghezza” 1 metro ≡ - 1/107 distanza tra polo nord ed equatore calcolata sul meridiano di Parigi; (1791) - “metro campione” : dist. tra 2 righe incise su una barra di platino-iridio conservata a Sevrès (Parigi) ; (1889) - 1.650.763,73 2 p10 →5d 5 Kripton 86, nel vuoto λ - 1/ 299 792 458 dello spazio percorso dalla luce nel vuoto in 1 secondo (1960) (1983) Sistema Internazionale (S.I.) di Unità di Misura ( adottato dalla XIV Conferenza Generale di Pesi e Misure, Parigi, 1971 ) Grandezza fondam. Unità • Lunghezza Metro Simbolo m Definizione 1/299792458 dello spazio percorso dalla luce nel vuoto in 1 s • Tempo Secondo s 9192631,77 periodi della radiazione prodotta dalla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di Cesio 133 • Massa Kilogrammo kg massa di un campione cilindrico di Pt-Ir conservato a Sevrès • Temperatura Grado Kelvin K 1/273,16 della temperatura assoluta del punto triplo dell’acqua Sistema Internazionale (S.I.) di Unità di Misura ( adottato dalla XIV Conferenza Generale di Pesi e Misure, Parigi, 1971 ) Grandezza fondam. Unità Simbolo Definizione • Corrente elettrica Ampère A intensità di corrente che in due conduttori rettilinei paralleli e di lunghezza infinita posti a distanza di 1 m produce -7 una forza di 2x10 N • Intensità luminosa Candela cd intensità luminosa di una sorgente di frequenza 5x1014 Hz la cui intensità energetica é 1/683 W/sterad • Quantità di sostanza Mole mol quantità di sostanza contenente tante “unità elementari” (atomi /molecole/ioni...) pari al numero di Avogadro NA = 6,02252 10 23 Incertezza nella misura delle grandezze fisiche “Ogni misurazione è un’operazione chiaramente definita che dà un determinato risultato numerico e che, se immediatamente ripetuta, darà lo stesso risultato”. E.Schröedinger Come abbiamo visto, alla base di ogni teoria fisica c’è un processo di misura, ossia di confronto tra un oggetto da misurare, ad es. una grandezza fisica B, e un opportuno oggetto ad esso omogeneo assunto come unità di misura [b]. Il risultato della misura sarà dunque un numero b che esprime il rapporto tra la grandezza fisica e la sua unità di misura, ossia ci dice quante volte l’unità di misura è contenuta nell’oggetto misurato: b= B → B = b [b] [b] Ad esempio, se B è una lunghezza, allora [b] sarà il metro (m) e un ipotetico risultato di misura sarà del tipo: B = 2.5 m In realtà però l’espressione B = 2.5 m è incompleta poichè nessuna misura di una grandezza fisica è precisa in assoluto. Ogni risultato numerico ottenuto tramite un processo di misura è infatti affetto da un errore, il quale non è un difetto eliminabile bensì un elemento intrinsecamente connesso alla misura stessa e che in qualche modo ne definisce la qualità. Avremo quindi: B = b ± Δb [b] , dove Δb è appuno l’errore. Potenze di Dieci E’ prassi comune, nel linguaggio scientifico, scrivere i numeri coinvolti in un processo di misura sotto forma di numeri decimali con una sola cifra nella parte intera moltiplicati per una opportuna potenza di dieci, ovvero nella cosiddetta “notazione scientifica”. Ad esempio: 36900 = 3.96 104 oppure 0.0021 = 2.1 10-3 Se l’esponente è positivo: la potenza di 10 è uguale al numero 1 seguito da tanti zeri quant’è il valore dell’esponente. Se l’esponente è negativo: la potenza ha per base il reciproco della base e per esponente l’opposto dell’esponente. Esempio Esempio 101 = 10 10-1= 1/101= 0,1 ; 10-2 =1/102=0,01 ; 10-3 = 0,001 102 = 100 Nota: una potenza di 10 cambia il segno dell’esponente se “viene trasferita” dal numeratore al denominatore. 103 = 1 000 104 = 10 000 . . . Esempio 10-2 = 1/102 = 0,01 10-5 = 1/105 = 0,00001 Se l’esponente è 0 la potenza vale sempre 1 con qualsiasi base, purché diversa da zero. 1010 = 10 000 000 000 Esempio 100 = 1 PROPRIETÀ DELLE POTENZE: Prodotto Il prodotto di due o più potenze aventi ugual base è uguale a una potenza che ha per base la stessa base e per esponente la somma algebrica degli esponenti. Esempio 103 · 104 · 102 = 103+4+2 = 109 104 · 10-2 = 10 4-2 = 102 Quoziente Il quoziente di due potenze aventi ugual base è uguale a una potenza che ha per base la stessa base e per esponente la differenza degli esponenti. Esempio 104 /105 = 104 -5 = 10-1 105/10-3 = 105 – (-3) = 108 Potenza di potenza Per elevare a potenza una potenza si moltiplicano gli esponenti. Esempio (103)3 = 10 3 · 3 =109 (103) -2 = 10 3· (-2) = 10-6 Radice La radice di una potenza è uguale ad una potenza che ha per base la stessa base e per esponente il rapporto fra l’esponente del radicando e l’indice della radice. Esempio 10 4 = 104/2 = 102 3 10 9 = 109/3 = 103 Ordini di Grandezza: distanze • velocità della luce: 299792458 m/s ≅ 2.99 108 m/s • 1 anno luce (a.l.) ≅ 2.99 108 m/s 365.25 d 86400 s/d ≅ 0.946 1016 m • dimensioni del sistema solare ≅ 1010 Km ≅ 10 ore-luce Diametro del: 5 Terra : 1,274 104 Km Giove: 1,4 10 Km Sole:1,4106 Km • dimensioni della nostra galassia (Via Lattea) ≅ 1.6 1021 m (≅ 1.6 105 a.l.) • distanza della galassia più vicina (Andromeda , M31) ≅ 2.5 1022 m (≅ 2.5 106 a.l.) • dimensioni dell’ Universo conosciuto ≅ 1026 m (≅ 1010 a.l.) Ordini di Grandezza: tempi e masse log T(s) Tempi: 10 -15 -3 5 7 15 17 Periodo di Periodo di “anno” Età dell’ oscillazione di una oscill. del Universo nota musicale “giorno” 10 campo e.m. (ν = 440 Hz) (10 anni) della luce visibile La Periodo di rivoluzione ( c = λν = λ / T) del Sole nella nostra Galassia (∼220 milioni di anni) Masse : log M (Kg) 10 -30 elettrone -27 -7 2 24 30 protone batterio Uomo Terra Sole 42 Galassia LA CINEMATICA I tre concetti fondamentali della cinematica E’ l’insieme di tutti gli oggetti rispetto ai quali il movimento avviene con le stesse caratteristiche E’ la linea che unisce tutte le posizioni attraverso le quali è passato un oggetto (un punto materiale) in movimento E’ un oggetto così piccolo rispetto alle dimensioni della traiettoria da esso percorsa che può essere considerato un punto geometrico (però dotato di massa). Talvolta ci riferiremo ad esso utilizzando altri termini quali “corpo” o “particella”. Il Diagramma Orario x = f (t) Il Diagramma orario permette di rappresentare la posizione di un oggetto o di un punto materiale in moto unidimensionale al passare del tempo sotto forma di una curva (da non confondere con la traiettoria dell’oggetto nello spazio reale) descritta dalla funzione x(t), ossia x=f(t). x(t) x4 x2 oggetto fermo x3 x1 x0=x(t0) t0 t1 t2 t3 t4 t Diagramma orario della posizione di un armadillo al passare del tempo Qual’è la velocità dell’armadillo? Diagramma della Velocità: v = f (t) La veocità di un oggetto si definisce come la distanza percorsa dall’oggetto durante il suo cammino divisa per il tempo impiegato a percorrere tale distanza velocità costante velocità variabile Anche la velocità, come lo spostamento, è una grandezza vettoriale. Nel caso unidimensionale il suo modulo coincide con la velocità scalare. Una velocità negativa indica semplicemente un verso di percorrenza nel senso delle x decrescenti. Velocità scalare media = Diagramma orario coefficiente angolare In generale la velocità scalare media è uguale alla pendenza (coefficiente angolare) della retta che unisce i due punti tra i quali si verifica il moto. Nel caso dell’armadillo avremo: Δx 6m v= = = 2 m /s Δt 3s distanza percorsa tempo trascorso Δx x 2 − x1 v= = Δt t 2 − t1 unità di misura: metri al secondo (m/s) La velocità istantanea Grazie al nuovo metodo introdotto da Cartesio, già nel XVII secolo si era in grado di calcolare la velocità media di un corpo. Ma nè Galileo, nè Cartesio, nè i loro contemporanei, erano in grado di calcolare la velocità istantanea di un corpo nè tantomeno di descrivere il moto di un corpo che procede a velocità variabile, accelerando o decelerando. Δx → 0 Δt → 0 La soluzione al problema fu trovata un secolo più tardi da Isaac Newton, il vero gigante della Scienza Classica, e da Gottfried Leibniz, i quali nel XVIII secolo inventarono un nuovo metodo matematico noto come calcolo infinitesimale. Con questo metodo la velocità istantanea resta definita attraverso un ‘passaggio al limite’ come la velocità media durante un intervallo di tempo infinitamente piccolo (cioè, al limite, per Δt tendente a zero): Δx v= → Δt Δx v(t) = lim Δt→0 Δt La velocità istantanea è la derivata dello spostamento A questo punto è semplice rendersi conto che la velocità istantanea definita in precedenza non è nient’altro che la derivata prima dello spazio rispetto al tempo: v(t) = lim Δt→0 Δx dx = Δt dt Esempio: La posizione x(t) (curva oraria) di una particella che si muove sull’asse x è data dall’espressione: x = 7.8 + 9.2t − 2.1t 3 dove x è espresso in metri e t in secondi. Qual’è la velocità della particella al tempo t=3.5s? Sapendo che la velocità istantanea è la derivata prima rispetto al tempo della funzione posizione x(t), possiamo scrivere: dx d = (7.8 + 9.2t − 2.1t 3 ) → v(t) = 0 + 9.2 − (3)(2.1)t 2 dt dt m v(3.5s) = 9.2 − (6.3)(3.5) 2 = −68 ...che per t=3.5s diventa: s v(t) = dove il segno meno indica che la particella si muove nel senso delle x decrescenti. Accelerazione istantanea L’accelerazione istantanea (o semplicemente accelerazione) è la rapidità di variazione della velocità in un certo istante ed è matematicamente rappresentata dalla derivata prima della velocità rispetto al tempo: Δv dv a(t) = lim = Δt→0 Δt dt Geometricamente rappresenta dunque la pendenza della curva v(t) in quel punto. Combinando questa equazione con quella che descrive la velocità istantanea per una particella avremo: dv d ⎛ dx ⎞ d 2 x a(t) = = = dt dt ⎝ dt ⎠ dt 2 che ci dice che l’accelerazione della particella in un certo istante è la cosiddetta derivata seconda (ossia la derivata della derivata prima) della sua posizione rispetto al tempo. Moto con accelerazione costante In molti dei più comuni tipi di moto l’accelerazione è costante o pressochè costante (ad esempio quando deceleriamo avvicinandoci a un semaforo rosso, o quando acceleriamo ripartendo al verde). Quando l’accelerazione è costante, la distinzione tra accelerazione media e istantanea perde di significato e quindi possiamo scrivere: v − v0 a= a = t−0 dove v0 è la velocità al tempo t=0 e v è la velocità al generico istante di tempo t. Avremo quindi la seguente relazione tra velocità e accelerazione: v(t) = v 0 + at che è l’equazione di una retta, cioè del tipo: y = mx + q Accelerazione nel moto di caduta libera Uno degli esempi più comuni di moto uniformemente accelerato unidimensionale è quello di un oggetto lasciato libero di cadere in prossimità della superficie terrestre. Galileo fu il primo a rendersi conto che non è vero che gli oggetti più pesanti cadano più velocemente di quelli più leggeri e ad ipotizzare che, in assenza di aria o di altre resistenze, tutti gli oggetti cadrebbero con la stessa accelerazione costante. Somma di vettori Un altro metodo per sommare i vettori è il cosiddetto metodo del parallelogramma (b), completamente equivalente al metodo coda-punta (a). In esso i due vettori vengono tracciati a partire da una stessa origine (ossia sovrapponendone le code) dopodichè si costruisce il parallelogramma che ha questi vettori come lati adiacenti: il vettore risultante sarà dato dalla diagonale del parallelogramma tracciata a partire dalla comune origine. Rappresentazioni polare e cartesiana di un vettore Abbiamo dunque due modi per rappresentare un vettore in un dato sistema di coordinate: a) Darne il modulo V e l’angolo che il vettore forma con l’asse x (rappresentazione polare) b) Darne le componenti Vx e Vy (rappresentazione cartesiana) Esempio. Supponendo che il vettore in figura (a) rappresenti uno spostamento di 500m in direzione 30° nord, rispetto ad est, e sapendo che sen 30° = 0.500 e cos 30° = 0.866, dalle formule viste poco fa avremo, nella rappresentazione cartesiana: Vx = V cos(30°) = (500m)(0.866) = 433m (est) Vy = Vsen(30°) = (500m)(0.500) = 250m (nord) ...da cui è anche possibile tornare indietro e ricavare il modulo e l’angolo (rappresentazione polare) per mezzo delle trasformazioni: V = Vx + Vy 2 2 tgθ = Vy Vy → θ = arctg Vx Vx Moto di un proiettile in due dimensioni Se l’oggetto è lanciato con un certo angolo iniziale verso l’alto, l’analisi è simile a quella fatta nel caso precedente ma stavolta è presente anche una componente verticale della velocità vy0>0 che a causa della gravità decresce uniformemente fino a quando l’oggetto raggiunge il punto più alto della traiettoria, dopodichè cresce nuovamente in modulo e con verso opposto. La componente orizzontale vx0 resta invece costante come nell’esempio precedente. Equazioni del moto uniformemente accelerato (a=cost) in due dimensioni componente x (orizzontale) (I-x) v x = v x 0 + ax t (II-x) 1 2 x = x 0 + v x 0 t + ax t 2 (III-x) v x 2 = v x 0 2 + 2ax (x − x 0 ) componente y (verticale) (I-y) v y = v y 0 + ay t (II-y) 1 2 y = y 0 + v y 0 t + ay t 2 (III-y) v y = v y 0 + 2ay (y − y 0 ) 2 2 Caso particolare: Equazioni del moto di un proiettile (ax =0, ay = – g = cost) moto orizzontale, unif. (ax=0, vx=cost.) moto verticale, unif.accel. (ay= – g) (I-y) v y = v y 0 − gt (II-x) x = x 0 + v x 0 t (II-y) 1 y = y 0 + v y 0 t − gt 2 2 v x 0 = v 0 cos θ ; v y 0 = v 0 senθ (III-y) v y = v y 0 − 2g(y − y 0 ) (I-x) vx = vx0 2 2 Problema concettuale n.1 Un ragazzo su una collina punta la sua fionda caricata con un palloncino ad acqua orizzontalmente verso un secondo ragazzo che fa da bersaglio (poverino!) e che sta appeso al ramo di un albero (non avendo evidentemente di meglio da fare!). Nell’istante in cui il palloncino viene lanciato, il ragazzobersaglio, pensando di fare una furbata e di evitare così di essere colpito, abbandona istintivamente la presa e si lascia cadere dal ramo... Ha fatto bene o ha fatto male a mollare la presa? Ha fatto malissimo! Problema concettuale n.2 Una bambina è seduta su un carretto che si muove verso destra con velocità costante. La bambina stende la mano e lancia una mela verticalmente verso l’alto (nel suo sistema di riferimento), mentre il carretto continua a muoversi con velocità costante. Trascurando l’attrito dell’aria, la mela cadrà (A) dietro il carretto, (B) sul carretto, (C) davanti al carretto? Suggerimento Ragionare ponendosi nel sistema di riferimento del terreno... La risposta corretta è la B! La Prima Legge della Dinamica Isaac Newton riconobbe subito l’importanza del concetto di inerzia, cioè di questa tendenza di un oggetto a mantenere il suo stato di quiete o di moto rettilineo, tanto che nei suoi famosi “Principia Mathematica” (1687), opera che per trecento anni costituì la base della Meccanica classica, promosse il principio di inerzia a Prima Legge della Dinamica. L’enunciato originale della prima legge di Newton (o Principio di Inerzia) è quindi: Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme fino a quando non agisca su di esso una forza risultante diversa da zero. Esempio concettuale Uno scuolabus fa una brusca frenata e tutti gli zaini appoggiati sul pavimento scivolano in avanti. Quale forza produce questo movimento? Non è una forza a causare lo slittamento ma l’inerzia degli zaini, che tendono a mantenere la velocità che avevano prima della frenata! La Massa Di solito il termine “massa” viene usato come sinonimo di “quantità di materia”, ma è meno ambiguo definire la massa di un corpo come una misura della sua inerzia, cioè una misura della resistenza che il corpo oppone al tentativo di modificarne il moto: maggiore è tale inerzia, maggiore sarà la massa del corpo! Massa e Peso L’unità di misura della massa nel Sistema Internazionale (SI) è, come sappiamo, il kilogrammo (kg). Ma bisogna stare attenti a non confondere la massa di un oggetto con il suo peso: infatti la massa è una proprietà intrinseca dell’oggetto (essendo legata alla sua quantità di materia o alla sua inerzia) mentre il peso è – come vedremo – una forza, cioè la forza di gravità che agisce sull’oggetto a causa dell’attrazione gravitazionale esercitata dalla Terra, e dunque dipende dall’entità di tale forza di attrazione. Ne consegue che se ad esempio portassimo un corpo sulla Luna, la sua massa resterebbe la stessa mentre il suo peso risulterebbe essere un sesto di quello misurato sulla Terra! La Seconda Legge della Dinamica Dalla prima legge della dinamica abbiamo appreso che una forza netta non nulla applicata ad un corpo deve modificarne necessariamente la velocità, cioè provocare un cambiamento del modulo, della direzione o del verso del vettore velocità. Dunque l’azione di una forza produce una accelerazione. Ma qual’è la relazione funzionale esatta tra forza e accelerazione? Da semplici esperimenti è possibile verificare che applicando una forza doppia ad un certo oggetto, l’accelerazione prodotta sarà due volte più grande, applicando una forza tripla, l’accelerazione sarà tre volte più grande, e così via. Quindi è facile convincersi che l’accelerazione di un corpo (e non la sua velocità, come pensava Aristotele!) è proporzionale alla forza risultante ad esso applicata. Ma è facile convincersi che l’accelerazione prodotta da una forza dipende anche dalla massa dell’oggetto a cui è applicata: a parità di forza risultante, infatti, più grande è la massa minore sarà l’accelerazione osservata. Quindi l’accelerazione di un corpo è inversamente proporzionale alla sua massa. Basandosi su queste evidenze Newton enunciò e formalizzò matematicamente la sua celebre seconda legge della dinamica: La forza netta agente su un corpo è uguale al prodotto della sua massa m per l’accelerazione assunta dal corpo. La Terza Legge della Dinamica La seconda legge della dinamica, o seconda legge del moto di Newton, descrive quantitativamente come le forze influenzano il moto. Ma come si originano le forze? L’osservazione mostra che ogni volta che un corpo esercita una forza su un secondo corpo, il secondo esercita sul primo una forza uguale in modulo e direzione ma di verso opposto. Ad esempio, se premete la vostra mano contro lo spigolo del banco che avete di fronte, sentirete che il banco esercita sulla vostra mano una forza esattamente uguale e contraria. E più forte premerete contro il banco, più forte sarà la reazione che il banco opporrà alla vostra spinta. La terza legge della dinamica formulata da Newton, conosciuta anche come “Principio di azione e reazione”, sintetizza queste osservazioni ed afferma che: Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale ed opposta. Il Principio di Azione e Reazione Ma allora sorge spontanea una domanda: come mai, se ad ogni forza applicata ne corrisponde un’altra uguale ed opposta, queste due forze non si annullano tra di loro? Pensate a cosa accade quando una pattinatrice sul ghiaccio esercita una forza (spinta) su un muro per ricevere a sua volta una spinta all’indietro da parte del muro: come mai queste due forze uguali ed opposte non si elidono per dare una risultante vettoriale nulla come accadeva invece nell’esempio del libro spinto sul tavolo, dove la spinta e l’attrito si annullavano permettendo al libro di muoversi a velocità costante? Semplicemente perchè mentre nel caso del libro entrambe le forze in gioco, la spinta e l’attrito, agiscono sul libro e dunque è lecito sommarle, le forze in gioco nell’esempio della pattinatrice sono esercitate su oggetti diversi (il muro e la pattinatrice) e dunque non possono essere sommate! Importante: due o più forze possono essere sommate vettorialmente tra loro solo ed esclusivamente se agiscono sullo stesso corpo. Il Principio di Azione e Reazione Perchè se il principio di azione e reazione è perfettamente simmetrico, quando una bambina imprime al terreno una spinta per giocare a saltare con la corda è lei a spostarsi verso l’alto e non è invece la Terra a spostarsi verso il basso? seconda legge FBT FTB F → aB = BT mB FTB → aT = mT mT >> mB → aT << aB Verso una legge della Gravitazione Universale... La leggenda narra che Newton, mentre guardava la Luna seduto sotto un albero nel suo giardino, sia stato colpito da una mela caduta dall’albero e abbia esclamato: “Una mela? Strano, io sono seduto sotto un pero!” Pero o melo che fosse, il colpo però evidentemente gli fece bene perchè subito dopo ebbe la geniale intuizione che sia proprio la forza di gravità della Terra, che si sapeva già essere responsabile dell’accelerazione (g=9.80m/s2) verso il basso che subiscono tutti i corpi sulla superficie del nostro pianeta, a trattenere la Luna nella propria orbita. E fu questa ispirazione a permettergli di elaborare le idee che lo portarono a sviluppare la sua teoria della gravitazione universale. Il problema, a quei tempi, era che si aveva difficoltà ad accettare l’idea di un’interazione a distanza, cioè di una forza che si esercita tra due corpi senza che questi vengano in qualche modo, direttamente o indirettamente, a contatto. Newton invece affermava proprio questo, che la gravità agisse tra due corpi anche senza contatto, e anche se questi due corpi sono molto distanti tra loro, come ad esempio la Terra e la Luna. Verso una legge della Gravitazione Universale... Dalla cinematica del moto circolare uniforme sappiamo che l’accelerazione centripeta della Luna, dovuta alla forza di gravità della Terra (che quì gioca quindi il ruolo di forza centripeta), è pari a 2.72 *10-3 m/s2, che equivale a circa 1/3600 g : ciò significa che l’accelerazione della Luna verso la Terra è circa 1/3600 dell’accelerazione di un oggetto sulla superficie terrestre. Dai suoi calcoli Newton si accorse che la distanza della Luna dalla Terra, pari a 384000 km, equivale a circa 60 volte il raggio terrestre (6380 km), e che dunque la Luna è 60 volte più lontana dal centro della Terra di quanto lo sia un oggetto dalla superficie terrestre. Ma 60*60=3600, che è l’inverso del numero trovato prima in riferimento all’accelerazione: una bella coincidenza! Noi ci saremmo giocati il numero al superenalotto, ma poichè ai suoi tempi il superenalotto non era ancora stato inventato, Newton si limitò a dedurne che la forza gravitazionale esercitata dalla Terra sulla Luna doveva decrescere con il quadrato della distanza dal centro della Terra. Inoltre, a Newton sembrò verosimile che tale forza di attrazione fosse proporzionale non solo alla massa della Luna ma, per la sua terza legge della dinamica, anche a quella della Terra. La Legge di Gravitazione Universale Mettendo assieme tutte queste intuizioni e deduzioni, ed estendendole audacemente dal caso Terra-Luna al caso di due corpi qualunque dell’Universo, dotati di masse m1 ed m2 e posti ad una distanza reciproca r , Newton enunciò (sempre nei “Principia Mathematica” del 1687) la sua celebre legge di gravitazione universale: Ogni corpo dell’Universo attrae ogni altro corpo con una forza, agente lungo la linea che congiunge i centri dei due corpi, la cui intensità è direttamente proporzionale al prodotto delle rispettive masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra di esse: m1m2 F=G 2 r Ovviamente il valore della costante di proporzionalità G, detta costante di gravitazione universale, non poteva essere ricavato per deduzione ma solo sperimentalmente, anche se si sapeva che doveva essere molto piccolo, in quanto normalmente non notiamo nessuna attrazione tra due oggetti di dimensioni ordinarie ma solo tra gli oggetti e la Terra, che ha una massa enormemente maggiore. Solo nel 1798, circa 100 anni dopo l’enunciazione da parte di Newton, il fisico inglese Henry Cavendish riuscì a confermare sperimentalmente l’ipotesi di Newton e a determinare con sufficiente precisione il valore della costante G. Il suo valore oggi comunemente accettato è: G = 6.67*10-11 Nm2/kg2. Esercizio I due ragazzi in figura sono evidentemente attratti l’uno dall’altra e ci chiediamo se questa forza di attrazione possa essere di natura gravitazionale. A tale scopo, stimiamo l’ordine di grandezza dell’intensità della forza gravitazionale che essi esercitano l’uno sull’altra, sapendo che le loro masse sono m1=75kg ed m2=50kg e supponendo che la loro distanza reciproca sia r=0.5m (anche se quest’ultima, come si vede in figura, sembrerebbe in procinto di tendere a zero...) Arrotondando G a 10-10 Nm2/kg2, ed utilizzando la legge di gravitazione universale di Newton, avremo: F=G m1m2 −10 2 2 (50kg)(75kg) −6 ≈ (10 Nm /kg ) ≈ 10 N 2 2 r (0.5m) che è un’intensità troppo piccola per poter essere apprezzata. Ne concludiamo che la forte attrazione sperimentata dai due ragazzi non deriva sicuramente dalla forza gravitazionale ma da qualche altro tipo di forza difficile da calcolare matematicamente. Ad ogni modo, da ipotesi empiriche su come evolverà la faccenda, potremmo forse supporre che sia in azione una legge di gravidazione universale... La Legge di Gravitazione Universale Utilizzando la legge di gravitazione universale possiamo finalmente comprendere per via analitica perchè l’accelerazione di gravità g sulla superficie terrestre non dipende dalla massa dei corpi in caduta libera, come aveva intuito Galileo per via sperimentale. Se infatti scriviamo la seconda legge di Newton in modo da ricavare l’accelerazione g a cui è soggetto un corpo di massa m sulla superficie terrestre a causa della forza di gravità FG, di cui ormai conosciamo l’espressione dalla legge di gravitazione universale, avremo: FG = mg → g = FG mm 1 m → g = G 2T → g = G T2 m rT m rT dove mT e rT sono, rispettivamente, la massa e il raggio della Terra, e dove si è supposto che la massa inerziale, quella che compare nel prodotto mg, e la massa gravitazionale, quella che compare nell’espressione di FG, siano equivalenti (supposizione corroborata dai dati sperimentali ed utilizzata da Einstein nella nota forma del “principio di equivalenza”, che sta alla base della teoria della Relatività Generale). In realtà, una volta misurato G, e sapendo che g = 9.80 m/s2, fu lo stesso Cavendish ad utilizzare l’equazione appena ottenuta per stimare la massa della Terra, fino ad allora sconosciuta: grT 2 (9.80m /s2 )(6.38 ⋅10 6 m) 2 → mT = = = 5.98 ⋅10 24 kg −11 2 2 G 6.67 ⋅10 Nm /kg La Legge di Coulomb Abbiamo visto dunque che le cariche elettriche sono di due tipi e interagiscono mediante una forza elettrica che può essere sia attrattiva che repulsiva. Il primo a determinare con precisione l’espressione esatta dell’intensità della forza elettrica fu l’ingegnere e fisico francese Charles-Augustin Coulomb, il quale verso la fine del XVIII secolo eseguì una serie di esperimenti con una bilancia di torsione simile a quella usata da Cavendish per determinare il valore della costante di Gravitazione Charles Coulomb (1736-1806) Universale. Per mezzo dei suoi esperimenti con la bilancia di torsione Coulomb si rese conto che il modulo della forza elettrica che un corpo di carica Q1 esercita su un secondo corpo di carica Q2, di piccole dimensioni, era direttamente proporzionale alla carica esistente su ciascuno dei due corpi mentre era inversamente proporzionale al quadrato della distanza r tra i loro centri. Da ciò dedusse immediatamente che la forma funzionale dell’intensità della forza elettrica dovesse essere del tipo: F=k Q1 ⋅ Q2 r2 con k costante di proporzionalità: è questa la famosa Legge di Coulomb, che fornisce appunto il valore del modulo della forza elettrica che si esercita tra due corpi carichi. La direzione della forza è quella della retta congiungente i due corpi laddove il verso dipende invece, come sappiamo, dal segno delle cariche: se i segni delle cariche sono concordi i corpi si respingono (dunque i vettori della forza elettrica punteranno all’esterno come nelle figure a e b) mentre se sono discordi i corpi si attraggono (e i vettori della forza elettrica punteranno l’uno verso l’altro, all’interno, come in figura c). Coulomb versus Newton F=k Q1 ⋅ Q2 r2 F=G m1 ⋅ m2 r2 Il Campo Elettrico Abbiamo visto che una delle proprietà comuni sia all’interazione gravitazionale che a quella elettrostatica è la cosiddetta “azione a distanza”, cioè la capacità di tali tipi di forze di esercitare attrazione o repulsione senza bisogno di un contatto diretto tra gli oggetti coinvolti nell’interazione (come invece accade per le forze più comuni con cui abbiamo a che fare, tipo la forza di attrito, quella esercitata da una mano che tira o che spinge, o da una racchetta che colpisce la palla, etc.). Ma come è possibile esercitare una azione a distanza? Già Newton e Cartesio avevano qualche problema ad accettare l’esistenza di una interazione che, come quella gravitazionale, sembrava avvenire istantaneamente, indipendentemente dalla distanza e in assenza di un mediatore noto. Fu per rimediare a un tale disagio che nella prima metà dell’800 lo scienziato britannico Michael Faraday introdusse, nello studio dei fenomeni elettromagnetici, il celebre concetto di “campo”, che poi si è rivelata essere una idee delle più fruttuose nella storia della fisica moderna. Michael Faraday (1791-1867) Faraday suggerì che ogni carica elettrica Q producesse attorno a sè un “campo elettrico” che pervade l’intero spazio (vedi figura), e dunque una seconda carica che venisse posta in un punto P nelle vicinanze di Q risentirebbe della forza elettrica esercitata su di essa non già direttamente dalla carica Q ma indirettamente dal campo elettrico prodotto da Q: in questa descrizione dell’interazione elettrostatica, quindi, le cariche non interagiscono più direttamente tra loro ma attraverso la mediazione dei campo elettrico da esse generato, campo che sarà tanto più intenso quanto più ci si trova nelle vicinanze della carica che lo ha prodotto. Lavoro compiuto da una Forza Costante Il termine “lavoro” in fisica assume un significato molto preciso che elimina le ambiguità legate all’uso dello stesso termine nel linguaggio naturale. Il lavoro W compiuto da una forza costante F su un oggetto qualunque è definito come il prodotto del modulo dello spostamento d per la componente della forza parallela allo spostamento stesso: W = F|| d Supponendo che la forza costante F formi un angolo θ con la direzione dello spostamento, la componente ad esso parallela sarà uguale a F|| = F cosθ e dunque potremo scrivere, utilizzando la notazione del prodotto scalare: W = F ⋅ d → W = (F cos θ )d = F|| d Nelle unità di misura del SI (MKS) il lavoro si misura in Joule (J): 1J = 1N * 1m . Nel sistema CGS invece si misura in erg: 1erg = 1dyna * 1cm. James Joule Prodotto scalare di due vettori La relazione appena trovata, W = Fd cos θ , è una relazione scalare che in realtà deriva dalla definizione più generale di lavoro, una definizione che fa uso della nozione di prodotto scalare tra due vettori. → → Dati due vettori a e b, di moduli rispettivamente a e b e che formano un angolo Φ (< 180°) l’uno rispetto all’altro, il loro prodotto scalare è definito dall’espressione: a ⋅ b = abcosφ Tale prodotto si legge “a scalar b” ed evidentemente dà come risultato uno scalare, cioè un valore numerico che dipende dal valore dei moduli a e b e dal valore del coseno dell’angolo Φ (che è compreso tra 1 e –1). Al variare dell’angolo Φ avremo dunque: φ = 0° → cosφ = 1 → a ⋅ b = ab > 0 φ = 180° → cosφ = −1 → a ⋅ b = −ab < 0 φ = 90° → cosφ = 0 → a ⋅ b = 0 Φ Φ Φ Lavoro compiuto da una Forza Costante Se un uomo è fermo in attesa dell’ascensore con un pesante pacco in mano, il senso comune ci direbbe che sta compiendo lavoro, ma se siete stati attenti a quanto detto finora avrete capito che dal punto di vista della fisica l’uomo... non compie alcun lavoro! Infatti, nostante egli eserciti una forza FP diretta verso l’alto per contrastare la forza peso (e quindi, dal suo punto di vista, sta certamente faticando!), essendo il suo spostamento nullo (d=0) la fisica ci dice che W = 0. Ma la cosa strana è che, a ben guardare, l’uomo non ha compiuto lavoro nemmeno durante il tragitto nel quale ha trasportato il pacco camminando a velocità costante dal supermercato all’ascensore... Perchè??? θ=90° Semplicemente perchè durante il tragitto la forza applicata è sempre perpendicolare allo spostamento e dunque, come appena visto, si ha cos90°=0, cioè W=Fdcos90°=0 e la forza non compie lavoro! Lavoro ed Energia Cinetica Riassumendo, quindi, possiamo considerare il lavoro come una forma di energia in transito da un oggetto ad un altro (un po’ come il denaro transita da un conto corrente ad un altro). Infatti un lavoro totale positivo su un oggetto fa aumentare la sua energia cinetica (proprio come un versamento di denaro fa aumentare il saldo di un conto corrente), mentre un lavoro totale negativo la fa diminuire (come un prelievo fa diminuire il saldo di un conto corrente). Se invece il lavoro totale su un oggetto è nullo, la sua energia cinetica resta costante, e quindi resta costante anche la sua velocità. Dalla definizione di energia cinetica K = 1 2 mv ricaviamo che: 2 1) l’energia cinetica, nel SI, viene misurata con la stessa unità di misura del lavoro, cioè in Joule, come del resto è naturale che sia, visto che il lavoro è energia in transito. Infatti dall’analisi dimensionale dell’espressione di K si ricava che: [K] = [m][v]2 = kg m2/s2 = Joule 2) l’energia cinetica è direttamente proporzionale alla massa ma direttamente proporzionale al quadrato della velocità: ciò significa che, se la massa di un corpo raddoppia, la sua energia cinetica raddoppia, ma se è la velocità del corpo a raddoppiare, la sua energia cinetica diventa quattro volte maggiore: il corpo sarà quindi in grado di compiere un lavoro quattro volte maggiore (e, se si tratta ad es. di un’auto che urta contro un altra auto, dei danni quattro volte maggiori!) Energia Potenziale Come abbiamo visto, l’energia cinetica posseduta da un corpo dipende esclusivamente dalla sua massa e dalla sua velocità, quindi essa è presente in ogni corpo in movimento a prescindere dall’esistenza o meno di altre forze che agiscono sul corpo stesso. Esiste invece un’altra fondamentale forma di energia legata alla capacità di un corpo di compiere lavoro a causa della sua configurazione o della sua posizione rispetto ad altri corpi: questa forma di energia si chiama energia potenziale e, pur essendo anch’essa legata alla capacità di un corpo la sua definizione varia a seconda del tipo di forza da cui essa trae origine. Un tipico esempio di energia potenziale (legata alla configurazione) è quella associata ad una molla compressa: in questo caso, finchè la molla è tenuta in compressione (b), essa non si muove, quindi non possiede energia cinetica, ma è comunque potenzialmente in grado di compiere lavoro, come diventa chiaro non appena si lascia la molla libera di espandersi (c) e di trasmettere energia cinetica ad altri corpi eventualmente a contatto con essa. Ad esempio, la molla di un giocattolo a carica acquista la sua energia potenziale grazie al lavoro che viene compiuto su di essa da chi carica il giocattolo per mezzo della chiavetta. Dopodichè, quando la molla si svolge, essa restituisce l’energia potenziale immagazzinata esercitando a sua volta una forza e compiendo così il lavoro necessario per far muovere il giocattolo. Energia Potenziale Gravitazionale L’esempio più comune di energia potenziale è comunque quello di energia potenziale gravitazionale, cioè di quell’energia potenziale associata all’azione della forza di gravità. Se infatti consideriamo un mattone tenuto fermo dalla nostra mano ad una certa altezza h dal suolo, esso possiede evidentemente una certa energia potenziale, in quanto se lasciato libero di muoversi, esso cadrà verso il suolo acquisendo velocità e dunque energia cinetica, e potrà a sua volta compiere lavoro su un eventuale oggetto su cui cadrà (ad esempio su un picchetto, piantandolo nel terreno). Diversamente da quanto accadeva per la molla, in questo caso l’energia potenziale del mattone sospeso è dovuta alla sua posizione rispetto alla Terra, che esercita su di esso una attrazione gravitazionale. Potremmo dunque calcolare calcolare l’energia potenziale gravitazionale del mattone indirettamente, attraverso una misura del lavoro necessario a sollevarlo. Energia Potenziale Gravitazionale Se adesso lasciamo cadere il mattone da fermo dall’altezza h sotto l’azione della gravità, un attimo prima di toccare il suolo esso avrà acquistato una velocità pari a: v 2 = 0 + 2g(y 2 − y1 ) = 2gh e quindi una energia cinetica: 1 2 1 mv = m(2gh) = mgh 2 2 corrispondente alla sua capacità di compiere lavoro. Quindi il lavoro speso per sollevare il mattone, mgh, è esattamente uguale al lavoro che esso diventa in grado di effettuare in virtù della sua posizione acquisita. In generale, definiamo allora l’energia potenziale gravitazionale Ug di un oggetto, dovuta alla gravità della Terra, come il prodotto del suo peso mg per la sua quota y al di sopra di una quota di riferimento (ad esempio il terreno): U g = mgy Pietre che cadono Un semplice esempio di conservazione dell’energia meccanica è dato da una pietra che viene lasciata cadere da un’altezza h sotto l’azione della gravità: → E1 = K1 + U1 = 1 mv12 + mgy1 = 0 + mgy1 2 E1 = E 2 = E → E 2 = K2 + U2 = 1 1 mv 2 2 + mgy 2 = mv 2 2 + 0 2 2 Teoria Atomica della Materia Una delle prove sperimentali più evidenti dell’esistenza degli atomi è il cosiddetto moto Browniano, scoperto dal botanico britannico Robert Brown nel 1827 mentre osservava al microscopio il moto di granelli di polline in sospensione nell’acqua i quali, anche se quest’ultima era apparentemente immobile, si muovevano lungo dei cammini tortuosi. La spiegazione della teoria atomica è che i grani siano urtati dalle molecole d’acqua in rapido movimento: da quì si dedusse che gli atomi (o le molecole) di qualunque sostanza devono sempre essere in movimento o in vibrazione, cosa che avevamo già anticipato parlando degli stati della materia (nel 1905, studiando il moto browniano da un punto di vista teorico, Albert Einstein riusci anche a calcolare la dimensione degli atomi, il cui diametro tipico è stato valutato in circa 10-10 m). solidi U(x) (( )) (( )) (( )) (( )) liquidi Moto Browniano (( (((( )) (( )) (((( gas Robert Brown (1773-1858) La Temperatura Nel contesto della teoria atomica appena riepilogato diventa immediato fornire una interpretazione microscopica di una delle grandezze fisiche più importanti, la Temperatura. In fisica, come nella vita di tutti i giorni, la temperatura è considerata come la misura di quanto un oggetto è freddo o caldo: infatti diciamo che un oggetto è caldo se ha un’alta temperatura, mentre è freddo se ha una bassa temperatura. Ebbene, la teoria atomica ci permette di affermare che la temperatura è una proprietà emergente legata alla vibrazione o al movimento dei miliardi di atomi e di molecole di cui sono costituite le sostanze solide, liquide o gassose. Questo significa che i singoli atomi non sono caldi o freddi, ma si limitano a muoversi o vibrare ad una certa velocità: maggiore è questa velocità, maggiore sarà la temperatura misurata come effetto collettivo emergente dal moto atomico. Non c’è da sorprendersi, dunque, che molte delle proprietà della materia cambino al variare della temperatura. Ad esempio, la maggior parte dei materiali si espande se viene riscaldata: una barra di ferro è più lunga quando è calda che non quando è fredda, così come le strade o i marciapiedi si espandono o si contraggono al cambiare della temperatura (questo spiega perchè vengano installati spaziatori comprimibili o giunti espandibili a intervalli regolari lungo le strade o i binari della ferrovia). Anche la resistenza elettrica di un materiale (che studieremo più avanti) o il colore irraggiato dagli oggetti variano con la temperatura: la luce bianca di una lampadina incendescente proviene da un filo di tungsteno estrememente caldo, mentre la temperatura del sole e delle altre stelle può essere misurata dal colore della luce che emettono. Teoria Cinetica dei Gas Perfetti Abbiamo già detto più volte che è possibile dare una interpretazione microscopica della temperatura e della pressione di un gas in termini del moto frenetico e casuale dei suoi atomi o delle sue molecole e dei loro urti con le pareti del contenitore: in linea di principio si potrebbe dunque pensare di applicare le leggi della meccanica classica di Newton alle sia pur numerosissime (circa 1025/m3, a STP) molecole di un gas perfetto, per studiare come dal loro moto emergano le caratteristiche macroscopiche (P, V, T) del sistema considerato. Il problema è che, attualmente, un tale compito va al di là delle capacità di qualsiasi moderno computer, dunque per capire come le proprietà macroscopiche di un gas perfetto emergano dalle caratteristiche microscopiche delle sue molecole bisogna ricorrere a ragionamenti di tipo statistico. Di questo si occupa la cosiddetta “teoria cinetica”, una teoria che a partire da alcune ipotesi semplificative (cioè che (1) il gas sia, appunto, perfetto, che (2) le sue molecole siano numerossissime, che (3) obbediscano alle leggi della meccanica classica e che (4) gli urti delle molecole con le altre molecole o con le pareti del contenitore siano perfettamente elastici e di breve durata – il che permette di trascurare l’energia potenziale associata alle collisioni) riesce a ricavare una relazione della massima importanza che lega l’energia cinetica media delle molecole di un gas alla sua temperatura assoluta. Equilibrio Termico e Calore Abbiamo visto che la possibilità di misurare la temperatura di un oggetto con un termometro è legata all’evidenza sperimentale che, quando due corpi a diverse temperature vengono posti a contatto, essi raggiungeranno dopo un po’ di tempo la stessa temperatura: quando ciò avviene diciamo che i due corpi hanno raggiunto l’equilibrio termico. Quando mettiamo una pentola piena d’acqua su un fornello acceso, sappiamo che il calore in qualche modo “fluisce” spontaneamente dalla fiamma del fornello, più calda, all’acqua della pentola, più fredda, finchè la temperatura di quest’ultima non diventa sufficiente a portarla all’ebolizzione. Dunque, la temperatura sembra essere una misura del calore... ma cos’è esattamente il calore? Poichè esso sembra fluire dai corpi più caldi a quelli più freddi (dal fornello alla pentola, dal Sole alla Terra, dal nostro corpo al termometro per la febbre), nel XVII-XVIII secolo si pensava che esso fosse appunto una sostanza fluida, chiamata fluido “calorico”, che con la sua minore o maggiore concentrazione era responsabile della diversa temperatura dei corpi: si credeva che quando due corpi, con temperature diverse, vengono messi a contatto, il calorico passasse da quello in cui era più concentrato all'altro, fino a trovare una condizione di equilibrio ad una concentrazione di fluido calorico intermedia. Il problema era che però non si riusciva in alcun modo a individuare sperimentalmente tale fluido! Il Calore Nel corso dell’800 cominciò invece a diffondersi l’idea (stavolta corretta) che il calore fosse una delle forme con cui i corpi si scambiano energia: si capì infatti che, come il lavoro, anche il calore poteva essere considerato energia in transito da un corpo all’altro. Mentre però il lavoro può essere considerato un trasferimento di energia ordinato (potremmo paragonarlo all’azione di un esercito che avanza, che ha un moto e una forza di impatto ben direzionata), il quale si traduce in un aumento dell’energia cinetica o potenziale complessiva (macroscopica) degli oggetti coinvolti, il calore corrisponde a un trasferimento di energia disordinato (paragonabile all’azione di una folla, dove gli individui si muovono ciascuno in una direzione diversa), che si traduce in un aumento dell’energia cinetica o potenziale (microscopica) delle particelle che costituiscono gli oggetti stessi! Prima che l’idea del calore come scambio di energia si affermasse, il calore veniva misurato in funzione della sua capacità di innalzare la temperatura dell’acqua: si era introdotta infatti la caloria (cal), definita come la quantità di calore necessaria ad innalzare la temperatura di 1 grammo d’acqua da 14.5°C a 15.5°C. Osservazione 1: la quantità di calore necessaria per innalzare la temperatura di 1 grammo d’acqua in generale cambia leggermente con la temperatura, ma poichè nell’intervallo 0-100°C la differenza è inferiore all’1%, di solito si può trascurare tale effetto nella maggioranza dei casi. Osservazione 2: spesso, invece della caloria, si utilizza la kilocaloria (kcal), che equivale a 1000 calorie; quindi 1 kcal è il calore necessario a innalzare 1 kg di acqua di 1°C. Talvolta la kilocaloria è chiamata Caloria (con la “C” maiuscola), o “grande caloria”, ed è l’unità di misura con cui ancora oggi viene specificato il valore energetico dei cibi. Calore ed Energia Interna Con il suo esperimento Joule svelò dunque definitivamente la vera natura del calore: il calore non è una sostanza, un fluido calorico e nemmeno una forma di energia, ma può essere definito come il modo attraverso il quale l’energia viene trasferita da un corpo più caldo ad un altro più freddo a causa della loro differenza di temperatura. Generalizzando questo discorso, possiamo descrivere un certo oggetto o insieme di oggetti come un sistema che si trova ad una data temperatura Ts e che interagisce con l’ambiente esterno ad esso, alla temperatura Ta: se Ts è diversa da Ta, allora Ts si modificherà finchè le due temperature non saranno uguali (equilibrio termico). Ora sappiamo che tale cambiamento di temperatura è dovuto al trasferimento di un qualche tipo di energia dal sistema all’ambiente o viceversa: questa energia è detta “energia interna”, o a volte anche “energia termica”, ed è data dalla somma delle energie cinetiche e potenziali associate ai moti casuali degli atomi, delle molecole e degli altri corpi microscopici all’interno degli oggetti che compongono il sistema o l’ambiente. Quando viene trasferita, l’energia interna si chiama, appunto, calore e si indica con il simbolo Q. Nella situazione (a) della figura quì accanto, Ts>Ta, quindi viene trasferita energia dal sistema all’ambiente: in questo caso il sistema perde energia interna e lo scambio di calore si considera negativo, cioè Q<0; nella situazione (b) Ts=Ta, quindi sistema e ambiente sono già in equilibrio termico e non c’è scambio di calore, cioè Q=0; infine, nella situazione (c), si ha Ts<Ta quindi l’energia interna viene trasferita dall’ambiente al sistema, che guadagna energia e incrementa la propria temperatura: in tal caso lo scambio di calore si considera positivo, cioè Q>0. Ricapitolando... La Termodinamica Termodinamica è il nome che viene dato allo studio di tutti quesi processi che coinvolgono il trasferimento di energia sotto forma di calore e di lavoro. lavoro Ricordiamo che la differenza tra lavoro e calore sta nel fatto che il calore è un trasferimento di energia “disordinato” dovuto ad una differenza di temperatura mentre il lavoro è un trasferimento di energia “ordinato” non dovuto ad una differenza di temperatura ma a cause di origine meccanica. calore In termodinamica è d’uso riferirsi spesso all’oggetto o agli oggetti presi in considerazione con il termine, già incontrato, di “sistema”, mentre tutto ciò che del sistema non fa parte (tutto il resto dell’Universo) verrà definito con il termine “ambiente esterno”. Va precisato, quì, che con “sistema aperto” si intende un sistema in grado di scambiare sia energia che materia con l’ambiente, mentre con “sistema chiuso” un sistema in grado di scambiare con l’ambiente solo energia ma non materia: molti dei sistemi ideali che si studiano in fisica sono chiusi, mentre la maggior parte dei sistemi reali, compresi anche piante, animali ed esseri umani, sono aperti, poichè oltre all’energia scambiano materiali (ossigeno, nutrimento, prodotti di rifiuto) con l’ambiente. Infine, un sistema che non può scambiare nè energia nè materia con l’ambiente esterno si dice “isolato”: spesso in termodinamica si fa riferimento a sistemi isolati, anche se l’unico vero sistema isolato che si conosca è (per definizione!) l’Universo nel suo complesso. Non potendo scambiare con l’esterno nè materia nè energia, per un sistema isolato vale sempre la conservazione dell’energia, nel senso che il calore perso da una parte di esso (a maggiore temperatura) deve essere sempre uguale al calore guadagnato da un’altra parte (a minore temperatura). Il Primo Principio della Termodinamica Consideriamo adesso un sistema chiuso, cioè in grado di scambiare solo energia con l’ambiente. Sappiamo che, dal punto di vista macroscopico, un sistema può possedere energia cinetica (dovuta al suo eventuale movimento) ed energia potenziale (dovuta ad eventuali forze conservative che agiscono su di esso), mentre dal punto di vista microscopico esso possiede sicuramente una energia interna (o termica) dovuta alla somma delle energie cinetiche e potenziali degli atomi e/o delle molecole che lo compongono. Sappiamo anche che l’energia interna del sistema aumenta se esso assorbe calore e che, invece, l’energia interna diminuisce se esso perde in qualche modo calore. Per il principio di conservazione dell’energia meccanica, sappiamo inoltre che il lavoro compiuto su un corpo è in grado di farne variare in maniera ben definita l’energia cinetica e quella potenziale: a questo punto potremmo aspettarci, quindi, che se estendiamo il principio di conservazione dell’energia anche all’energia interna, quest’ultima potrebbe aumentare se viene compiuto lavoro sul sistema o diminuire se il sistema compie lavoro sull’ambiente. In effetti è proprio questo ciò che accade in natura e questa nuova formulazione del principio di conservazione dell’energia, che viene così esteso dai soli fenomeni meccanici anche ai fenomeni termici, è conosciuta con il nome di primo principio della termodinamica. Esso recita che la variazione di energia interna ΔE di un sistema chiuso, è uguale all’energia aggiunta al sistema mediante il calore assorbito meno l’energia persa mediante il lavoro compiuto dal sistema sull’ambiente esterno. Sotto forma di equazione il primo principio diventa: ΔE = Q − W dove Q è il calore complessivo assorbito dal sistema e W il lavoro complessivo compiuto dal sistema. Occorre fare attenzione ai segni di Q e W perchè se ad esempio W, nell’equazione quì sopra, fosse il lavoro compiuto sul sistema, esso sarebbe negativo ed E aumenterebbe; e anche Q sarebbe negativo se fosse il calore ceduto dal sistema. Il Primo Principio della Termodinamica Abbiamo detto che il primo principio della termodinamica è nient’altro che il principio di conservazione dell’energia meccanica esteso anche ai fenomeni termici e a processi termodinamici che coinvolgono sia il calore che il lavoro. Questi ultimi, lo sappiamo, sono solo modi in cui l’energia viene trasferita dal sistema all’ambiente o viceversa, e dunque Q e W non sono variabili di stato, (variabili, cioè, caratteristiche dello stato di un sistema) come invece lo sono la pressione P, il volume V, la temperatura T, la massa m, il numero di moli n e, ovviamente, l’energia interna E. Per esprimere il primo principio con un’equazione che sia veramente completa, cioè che includa oltre al calore, al lavoro e all’energia interna di un sistema anche la sua eventuale energia cinetica (K) e quella potenziale (U), dovremmo scrivere: ΔK + ΔU + ΔE = Q − W Esempio Un proiettile di 3.0 g che viaggia a 400 m/s perfora il tronco di un albero ed esce dall’altra parte con una velocità di 200 m/s. Dove è finita l’energia cinetica persa dal proiettile e quale energia è stata trasferita? Quì il nostro sistema è formato dal proiettile + l’albero, e in esso non è coinvolta energia potenziale (quindi ΔU=0). Non viene compiuto lavoro su (o dal) sistema da parte di forze esterne (W=0), nè vi è aggiunta di calore dall’esterno, poichè non vi è trasferimento di energia da o per il sistema dovuto ad una differenza di temperatura (Q=0). In sostanza, quello che accade è che l’energia cinetica del proiettile si trasforma in energia interna (energia termica) del proiettile e dell’albero; infatti il primo principio della termodinamica ci dice che: 1 1 ΔK + ΔE = 0 → ΔE = −ΔK = −(K f − K i ) = m(v i2 − v 2f ) = (3.0 ⋅10 −3 kg)[(400m /s) 2 − (200m /s) 2 ] = 180J 2 2 Dunque, le energie interne di proiettile ed albero crescono entrambe, ed entrambi subiscono un aumento di temperatura. Se avessimo scelto come sistema il solo proiettile, allora sarebbe stato compiuto lavoro su di esso e vi sarebbe stato trasferimento di calore. Il Secondo Principio della Termodinamica Abbiamo visto che il primo principio della termodinamica stabilisce che l’energia totale (meccanica + termica) di un sistema chiuso si conserva durante qualsiasi trasformazione di stato. Esso non spiega però come mai in natura si osservino, ad esempio, solo trasformazioni in cui il calore fluisce dagli oggetti più caldi a quelli più freddi e perchè non possa avvenire spontanemante il contrario (nel qual caso l’energia totale continuerebbe ancora comunque a conservarsi). Esistono moltissimi esempi in natura di trasformazioni che avvengono solo in un senso ma mai nel senso inverso: perchè quando mettiamo una pentola sul fuoco il calore passa dal fuoco alla pentola e non viceversa? perchè un sasso che cade a terra dall’alto si riscalda a causa del’urto col terreno, ma un sasso che si trova già a terra, se riscaldato, non si solleva? Perchè i vasi di vetro si rompono in mille pezzi, mentre mille pezzi di vetro non si ricompongono mai spontaneamente a formare un vaso? Perchè se mettete il caffè nel latte e mescolate ottenete un caffellatte, ma se mescolate un caffellatte non otterrete mai spontaneamente la separazione tra latte e caffè? In tutti questi esempi, il primo principio della termodinamica non sarebbe violato da nessuna delle trasformazioni inverse, ma esse non avvengono comunque perchè in tal caso sarebbe violato un altro, secondo e fondamentale, principio della termodinamica, formulato dai fisici nella seconda metà dell’Ottocento. Esso può essere enunciato in molti modi diversi ma equivalenti, uno dei quali è quello dovuto al fisico tedesco R.J.E. Clausius (1822-1888) e che sembra quasi tautologico: “Il calore fluisce naturalmente da un oggetto caldo a uno freddo, ma non fluisce spontaneamente da un oggetto freddo a uno caldo”. La domanda resta però ancora la stessa di prima: perchè questo avviene? L’Entropia La formulazione però forse più nota del secondo principio della termodinamica non ha a che fare esplicitamente con le macchine termiche, bensì con una grandezza fisica molto importante ed affascinante, la cosiddetta entropia: “In qualsiasi trasformazione spontanea, l’entropia totale, cioè l’entropia di un sistema più quella dell’ambiente, aumenta sempre”. Ma che cos’è l’entropia? Il concetto di entropia fu introdotto da Clausius nel 1860 ed è essenzialmente una misura del disordine di un sistema fisico. Dato un sistema ad una certa temperatura, volume, pressione ed energia interna, esso avrà anche una dato valore Rudolf Clausius dell’entropia S, che è anch’essa una variabile di stato del sistema e la cui (1822-1888) variazione è in relazione termodinamica con il calore Q fornito al sistema per Q mezzo di una trasformazione reversibile a temperatura T costante (in Kelvin): → ΔS = T Contrariamente alle leggi di conservazione viste finora, il secondo principio della termodinamica ci dice che l’entropia di un sistema isolato non solo non si conserva ma addirittura cresce sempre, cioè si ha sempre ΔS > 0 (solo nelle trasformazioni ideali si può avere, al limite, ΔS=0). La ragione di ciò risiede nella definizione di entropia come misura del disordine di un sistema, e spiega definitivamente perchè il calore fluisce dai corpi più caldi a quelli più freddi, perchè i vasi rotti non si ricompongono da soli o perchè il latte e il caffè, una volta mescolati, non si separano mai spontaneamente (in utima analisi, spiega cioè perchè esiste la cosiddetta “freccia del tempo”): tutto ciò succede per motivi statistici, cioè semplicemente perchè il passaggio dall’ordine al disordine è molto, ma molto, più probabile del passaggio dal disordine all’ordine. Dunque in natura avvengono spontaneamente solo processi che fanno aumentare il disordine di un sistema, cioè ne fanno aumentare l’entropia! La Corrente Elettrica Fino al 1800 la tecnologia coinvolta nello studio dell’elettricità era molto primitiva e gli scienziati si limitavano a produrre elettricità statica mediante strofinio dei corpi. Tutto cambiò all’improvviso quando nel 1801 il già citato Alessandro Volta presentò a Napoleone la sua pila elettrica, una batteria che si dimostrò in grado di produrre per la prima volta un flusso continuo di carica, cioè quella che oggi chiamiamo una corrente elettrica continua. Abbiamo già mostrato che, in condizioni statiche, all’interno di un conduttore il campo elettrico è nullo: in caso contrario, dicevamo, le cariche (gli elettroni) presenti nel conduttore dovrebbero muoversi. Rovesciando il discorso, appare chiaro che per mettere in moto le cariche all’interno di un conduttore e per poi continuare a mantenerle in moto, è necessaria la presenza di un campo elettrico e dunque di una differenza di potenziale (tensione): collegando ai poli di una pila elettrica le estremità di un filo di materiale conduttore (filo elettrico) si ottiene infatti una corrente di cariche in movimento e, dunque, quello che generalmente viene chiamato un “circuito elettrico”, al quale è possibile collegare poi un qualunque dispositivo elettrico (una lampadina, una stufa, una radio, etc.) La corrente elettrica che fluisce nel filo viene definita come la quantità di carica ΔQ che attraversa la sezione trasversale del filo nell’unità di tempo, cioè: I= ΔQ Δt La sua unità di misura sarà dunque il Coulomb al secondo, detto Ampère (A): 1 A = 1 C/s Il Magnetismo La storia del magnetismo ha inizio alcune migliaia di anni fa in Asia minore dove, in una regione greca chiamata Magnesia, furono scoperte alcune rocce in grado di attrarsi reciprocamente, alle quali fu dato il nome di “magneti”. Lo stretto legame tra il magnetismo e l’elettricità fu però scoperto solo nel corso del XIX secolo, quando ci si accorse che le correnti elettriche sono in grado di produrre effetti magnetici proprio come i magneti: oggi moltissimi dispositivi di uso comune sfruttano le proprietà magnetiche dell’elettricità, dai motori agli altoparlanti, dalle memorie dei calcolatori ai generatori elettrici. Tutti abbiamo avuto esperienza di come una calamita (un esempio tipico di magnete) sia in grado di attrarre piccoli oggetti di ferro. Qualunque sia la sua forma, un magnete possiede sempre due estremità, dette poli, dove gli effetti magnetici sono più evidenti. L’ago magnetico di una bussola ne è un esempio: una delle sue estremità tende a puntare verso il polo nord terrestre, e per questo viene detta “polo nord” (N) del magnete, mentre l’altra viene detta “polo sud” (S). Tra i poli di un magnete si genera un’interazione che può essere sia attrattiva che repulsiva ed esiste anche se i magneti non vengono a contatto (azione a distanza): in analogia a quanto accade per le cariche elettriche, si verifica sperimentalmente che poli magnetici dello stesso tipo si respingono mentre poli magnetici opposti si attraggono. Ma i poli magnetici differiscono dalle cariche per una loro caratteristica molto importante e per certi versi strana: spezzando una barretta magnetica non si ottengono un polo nord e un polo sud separati, bensì si ottengono due nuovi magneti completi, ciascuno dotato di un polo nord e un polo sud, e così via. Un polo magnetico isolato (monopòlo) non è ancora stato osservato in natura! Relazioni tra fenomeni elettrici e magnetici Nelle lezioni precedenti abbiamo mostrato che i fenomeni elettrici e quelli magnetici sono in stretta relazione gli uni con gli altri. In particolare abbiamo visto che: ( 1 ) l e c o r re n t i e l e t t r i c h e producono campi magnetici: Filo elettrico rettilineo infinito B r (2) i campi magnetici esercitano una forza sulle cariche elettriche in moto o sui conduttori percorsi da corrente: Solenoide o Bobina ad N spire F = qv × B .P F = Il × B Magnetismo nella Materia A questo punto diventa immediato comprendere da cosa ha origine il atomo magnetismo nella materia e quali sono le sue proprietà. Infatti, da un punto di vista miscroscopico, è plausibile pensare che ogni atomo possegga delle m e proprietà magnetiche a causa del movimento degli elettroni intorno al nucleo, movimento che costituisce a tutti gli effetti una corrente: in questo ciascun atomo si comporterebbe come una minuscola spira dotata di un momento di i dipolo magnetico m e associato al moto orbitale degli elettroni (si consideri che il moto di un singolo elettrone e– equivale ad una corrente i, circolante nel verso ems opposto al senso di rotazione dell’elettrone, di circa 1.6*10-3 A, in grado di generare un campo magnetico di 20 T al centro dell’atomo!). In realtà i momenti magnetici orbitali degli elettroni di un atomo multielettronico, non essendo le orbite dei vari elettroni complanari tra loro, tendono ad annullarsi reciprocamente. Ogni elettrone però possiede un altro momento magnetico legato al suo cosiddetto spin, che è una proprietà quantistica intrinseca classicamente interpretabile come dovuta ad una rotazione dell’elettrone su se stesso. Di solito gli elettroni hanno, a coppie, spin antiparalleli che ancora una volta si compensano, ma gli atomi con un elettrone “spaiato” mantengono un momento di spin m s dello stesso ordine di quello orbitale. Sostanze come il ferro, il cobalto o il nichel, sono dette ferromagnetiche e sono utilizzate per costruire magneti permanenti: esse sono caratterizzate da momenti magnetici atomici di spin che normalmente sono disallineati (figura a sinistra) ma che in presenza di un campo magnetico esterno anche molto debole tendono ad allinearsi producendo una materiale magnetizzazione macroscopica del materiale, che permane ferromagnetico a lungo anche una volta che il campo viene rimosso. L’Induzione Elettromagnetica Per approfondire questa sensazionale scoperta, Faraday condusse ulteriori esperimenti che mostrassero in azione il fenomeno dell’induzione elettromagnetica. Un esperimento tipico consiste ad esempio nell’introdurre rapidamente un magnete all’interno di una spira collegata ad un galvanometro e verificare come la conseguente rapida variazione del campo magnetico intercettato dalla spira sia in grado di indurre in essa una f.e.m., e dunque una corrente, rivelata da uno spostamento verso destra dell’ago del galvanometro (a). Analogamente, allontanando bruscamente il magnete dalla spira, si osserverà uno spostamento dell’ago del galvanometro nella direzione opposta, indizio di una corrente indotta che circola nella spira in senso opposto rispetto al caso precedente (b). Infine, mantenendo magnete e spira a riposo l’uno rispetto all’altro non si osserverà alcun passaggio di corrente e l’ago del galvanometro resterà fisso sullo zero (c). Ovviamente i risultati di questo esperimento sarebbero esattamente gli stessi se a muoversi fosse la spira piuttosto che il magnete: quello che conta, ai fini dell’induzione di una f.e.m., è solo il moto relativo dell’uno rispetto all’altra! Le Equazioni di Maxwell nel vuoto 1) Legge di Gauss per il Flusso Elettrico 3) Legge dell’induzione di Faraday dΦ B ∫ E ⋅ dl = − dt Q ∫ E ⋅ dA = ε 0 2) Legge di Gauss per il Flusso Magnetico ∫ B ⋅ dA = 0 James Clerk Maxwell (1831-1879) 4) Legge di Ampère generalizzata dΦ E ∫ B ⋅ dl = µ0I + µ 0ε 0 dt Le equazioni scritte sopra sono le equazioni di Maxwell in forma integrale valide nel vuoto, cioè in assenza di materiali dielettrici o magnetici. In ulteriore assenza di cariche (Q=0) e di correnti (I=0), le equazioni di Maxwell finiscono per dipendere solo dalla presenza di campi elettrici e magnetici variabili ed assumono una forma ancora più semplice e simmetrica: 1) Legge di Gauss per il Campo Elettrico ∫ E ⋅ dA = 0 2) Legge di Gauss per il Campo Magnetico ∫ B ⋅ dA = 0 3) Legge di Faraday dΦ B E ⋅ d l = − ∫ dt 4) Legge di Ampère-Maxwell dΦ E B ⋅ d l = µ ε 0 0 ∫ dt La Luce come Onda Elettromagnetica Ed ecco il colpo di scena: questa velocità trovata da Maxwell, che poteva essere riscritta così 2.99792 ⋅10 8 m /s ≈ 3.00 ⋅10 8 m /s = 300000 km /s corrispondeva ad una velocità già ai suoi tempi sperimentalmente ben nota.... Maxwell aveva dunque scoperto che la luce visibile era nient’altro che un’onda elettromagnetica, scoperta per quel tempo importantissima in quanto, se pure si era già stabilito che la luce si comportava come un’onda, nessuno era ancora riuscito a spiegare quale fosse la natura di quest’onda, cioè a capire cosa effettivamente oscillasse nelle onde luminose. Adesso Maxwell aveva trovato la risposta: ad oscillare era il campo elettromagnetico! Fu però solo 8 anni dopo la morte di Maxwell, cioè nel 1887, che lo scienziato tedesco Heinrich Hertz riuscì a produrre sperimentalmente le prime onde elettromagnetiche e ad osservarne gli effetti, che coincidevano perfettamente con tutti i comportamenti tipici della luce. Si capì anche che la luce visibile era solo un particolare tipo di onda elettromagnetica ed occupava solo una piccola porzione di uno spettro molto più ampio: Heinrich Hertz (1857-1894)