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“La forza della nonviolenza” - Ghandi e dintorni
La nonviolenza non è una rinuncia ad ogni lotta contro la malvagità. Al contrario, la nonviolenza come la concepisco io è una lotta contro la malvagità ancora più attiva e più vera della rappresaglia, la cui reale natura è quella di fare aumentare la malvagità. Quella che mi propongo è un’opposizione mentale e perciò morale all’immoralità. Cerco di spuntare il filo della spada del tiranno non levandogli contro un’arma ancora più affilata, ma frustando la sua aspettativa di vedermi opporre resistenza fisica. Offrendogli la resistenza dell’anima, non posso che confonderlo. Sulle prime ne resterà sconcertato, poi, alla fine, si sentirà spinto ad un’intesa che non lo umilierà, ma lo solleverà. M. K. Gandhi La forza pacificatrice della nonviolenza Generalmente per nonviolenza si intende il non ricorrere, nelle situazioni conflittuali, a comportamenti violenti. Nell’accezione comune questo termine ha il significato di una semplice astensione dalla violenza. In questo contesto la nonviolenza viene ad identificarsi come un comportamento profondamente nelle passivo, realtà non in grado sociali di più incidere fortemente contrassegnate dalla ingiustizia. Forse è perché la violenza ha accompagnato il cammino dell’uomo lungo tutto il suo percorso evolutivo marcando i processi di trasformazione sociale, economico-culturale se nell’immaginario collettivo la violenza assume il senso di una inevitabile situazioni realtà di ogni forte qual contrasto volta sia si a vengono livello a creare personale, gruppale, etnico, che tra stati. Ma la violenza sarebbe solo uno dei modi per risolvere una situazione conflittuale. Con il ricorso ad essa si intende eliminare colui che viene percepito come nemico, e, quindi, come responsabile del conflitto. Secondo Lanza del Vasto, invece, ci si può relazionare nelle situazioni conflittuali attraverso cinque diverse modalità comportamentali: la neutralità, lo scontro, la fuga, la resa e la nonviolenza.1 Dei cinque modi per affrontare un conflitto, generalmente, ci si tende a muovere all’interno dei primi quattro, perché della nonviolenza si ha un’idea negativa venendola ad identificare come un semplice comportamento passivo. Vedremo, invece, come la nonviolenza si ponga, a tutti 1 Lanza del Vasto, Che cos’è la nonviolenza , Jaca Boock, Milano 1978 p. 12, in: J. Semelin, Per uscire dalla violenza, Abele, Torino 1985, p. 108 gli effetti, come una possibile valida alternativa alla violenza nella risoluzione dei conflitti. Colui che crede nell’efficacia della nonviolenza non ha, comunque, una posizione pregiudiziale nei confronti della violenza, in quanto potrebbero venirsi a creare situazioni tali da renderla necessaria e, quindi, giustificabile. E, infatti, c’è violenza e violenza; non tutte le forme di violenza sono uguali. Dobbiamo mettere sullo stesso piano la violenza di un imprenditore senza scrupoli che utilizza manodopera infantile per trarre il massimo guadagno dalla sua attività ed una eventuale ribellione di questi bambini che presi dalla rabbia arrivassero a dare fuoco alla sua auto o a minacciarlo? La ribellione di un popolo sottomesso può assumere le forme di una lotta armata verso il paese che lo sta dominando, ma questa violenza è dello stesso tenore di quella esercitata dallo stato invasore? È sacrosanto il diritto di una persona, di un popolo al riscatto della propria dignità e se il ricorso alla violenza mette in atto un processo di liberazione è auspicabile che questa scelta venga fatta. La passività può essere segno di codardia e, allora, è di gran lunga preferibile una scelta coraggiosa che metta a rischio la propria vita. Gandhi, a questo proposito, è stato esplicito. Sia nei rapporti interpersonali, sia nei rapporti tra sudditi e stato non ha avuto dubbi nel consigliare caldamente la violenza quando l’alternativa fosse stata la codardia. "Credo che nel caso in cui l’unica codardia e la esempio, quando scelta violenza, mio io figlio possibile fosse consiglierei maggiore mi quella la tra la violenza. Ad chiese quello che avrebbe dovuto fare se fosse stato presente quando nel 1908 fui aggredito e quasi ucciso, se fuggire e vedermi uccidere oppure usare la sua forza fisica, come avrebbe potuto e voluto, e difendermi, io gli risposi che sarebbe stato suo diritto difendermi anche facendo ricorso alla violenza. In base a questo stesso principio ho partecipato alla guerra contro i boeri, alla cosiddetta ribellione degli zulù e all’ultima guerra.[...] Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo o rimanesse divenisse disonore.” onore piuttosto testimone che, in modo impotente del codardo, proprio 2 In un’altra occasione così si espresse: “... Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione”3. C’è, quindi, una violenza disumana, brutale che genera ogni sorta di soprusi e di ingiustizie in chi la subisce e c’è la violenza degli oppressi come risposta in difesa del proprio onore. C’è la violenza, silenziosa ma devastante, delle grandi multinazionali che, pur di fare crescere i loro profitti, non esitano a calpestare i più elementari diritti dei lavoratori dei paesi poveri, in stretto connubio con governi antidemocratici e corrotti, e vi è la violenza di chi cerca attraverso la lotta armata la libertà del proprio popolo. La violenza, però, pur trovando una sua giustificazione in determinati l’importanza contesti, che rischia vengono ad di stravolgere acquisire i i mezzi. fini In per tale prospettiva la pratica della violenza potrebbe divenire una costante della pratica politica segnando profondamente il nuovo ordine politico e sociale. Come dice Hannah Arendt: “La pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è verso un mondo più violento”4. Gandhi, pur giustificando il ricorso alla violenza in determinati contesti, la considera, però, moralmente cattiva, in quanto non si può pensare, ad esempio, di costruire una condizione di maggiore giustizia sociale alimentando l’odio verso la controparte e cercando di colpirla provocandole quanta 2 M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza , Einaudi, Torino. 1973, pp. 18, 19 3 Ivi, p.22 4 H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996, p.88 più sofferenza possibile. Gandhi ha mostrato al mondo che esiste una lotta senza distruzioni e uccisioni. A chi gli obiettava che poteva essere lecito il ricorso alla violenza se il fine che ne giustificava l’impiego era buono, Gandhi rispondeva che piantando della gramigna non si otteneva una rosa e che tra i mezzi e fini vi era lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero. È merito suo se l’India è arrivata all’indipendenza dal dominio inglese solo con le armi della nonviolenza. Il nemico non è stato demonizzato, non si è alimentata una cultura dell’odio; i soldati inglesi non sono stati bersagliati con slogan offensivi, ma trattati con rispetto e cortesia. Accogliere su se stessi tutta la sofferenza che l’azione dell’altro determina costituisce, per Gandhi, l’essenza della nonviolenza. Non l’offesa, quindi, verso l’altro per arrecargli danno e sofferenza, ma il renderlo partecipe delle pene da lui causate può aprirgli il cuore e renderlo consapevole della sua azione. Quello della sofferenza volontaria è un aspetto fondamentale dell’azione nonviolenta, per il forte impatto che questa ha nell’avversario e nell’opinione pubblica. Il digiuno è l’espressione più elevata della sofferenza volontariamente assunta, perché il nonviolento rigettando, con questa scelta, l’uso della violenza si presenta come vittima innocente. Questo comportamento spiazza del tutto l’avversario abituato com’ è a doversi difendere ed attaccare; la vittima, accogliendo su di se tutta la sofferenza per l’ingiustizia subita, si mostra all’avversario privo di sentimenti ostili. Viene in questo modo ribaltata la rozza logica della violenza che, costruendo essa stessa l’idea del nemico, vede nella sua eliminazione fisica la sola modalità di risoluzione del conflitto. Certo, nello scenario della lotta politica non è molto frequente imbattersi in persone che, invece di colpire l’altro, venendo così incontro alle attese dell’immaginario collettivo, pongono deliberatamente delle sofferenze a se stesse con il rischio della stessa vita. La vittima e il persecutore: la Lucia de “I promessi sposi” Lucia, nei Promessi sposi, rappresenta in modo significativo il personaggio della vittima sacrificale fatta oggetto di persecuzione da parte del potere personificato da don Rodrigo. rapita per lettore Quando Lucia, su ordine di quest’ultimo, viene essere viene condotta investito al dalla castello dell’Innominato sofferenza di questa il povera vittima innocente e prova verso di essa una profonda pietà. Dopo il terrore, l’angoscia e la perdita dei sensi iniziali, Lucia, ritornata in sé, prega e supplica i suoi rapitori di lasciarla andare. “... Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una famiglia, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morire tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia...”. Quei rozzi e violenti soldati possiamo immaginarli nell’ atto di rassicurare con parole per loro inusitate quella povera giovane e trattenerla facendo uso solo della forza necessaria perché Lucia non si getti fuori dalla diligenza. Quei bravi, avvezzi a ben altre imprese, c’è da credere che avrebbero dato chissà che cosa por di trovarsi indaffarati in operazioni ben più rischiose. Paradossalmente, i rapitori si trovano nella condizione di dovere consolare chi è stato fatto oggetto della loro violenza e il lettore attento riesce a cogliere in quegli animi induriti da un lungo esercizio della violenza il barlume di una indistinta pietà. Alle accorate implorazioni di Lucia che li supplica di lasciarla andare non prima, però, di averli invitati a pensare quello che avrebbero patito se un loro congiunto si fosse trovato nello stato in cui, ora, si trova lei, quegli uomini duri e rozzi non trovano altre parole se non un perentorio: “Non possiamo”. Solitamente, da chi è fatto oggetto di violenza ci si attende una risposta reattiva più o meno rabbiosa a seconda della forza della controparte, ma è proprio questo atteggiamento di resistenza che impedisce al carnefice di fare esperienza della violenza da lui stesso messa in atto verso la vittima. Lucia, perdonando di cuore i suoi rapitori per quello che le hanno fatto, li mette in grande difficoltà perché, spiazzati, non possono ricorrere a quelle che sono le loro abituali risposte. In base a questo rovesciamento la vittima salva i propri persecutori; l’animo duro e grossolano dei rapitori conosce, forse per la prima volta, una specie di intenerimento e di umana pietà che li avrebbe certamente portati a liberare la vittima innocente se non avessero, poi, dovuto rendere conto del proprio operato al malvagio mandante. Di questo trambusto interiore provato dai bravi ce ne parla, poco assistiamo più avanti all’arrivo nel al racconto, castello il Manzoni, dell’Innominato laddove della carrozza. “Ebbene?” disse l’Innominato. “Tutto a un puntino,” rispose, inchinandosi, il Nibbio: “l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessuno incontro: ma...” “Ma che?” “Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso". “Cosa? cosa? che vuoi tu dire?” “Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione”. “Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?” “Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prendere possesso, non è più uomo”. “Sentiamo un poco come ha fatto costei per muoverti a compassione”. “O signore i1lustrissimo! Tanto tempo...! O piangere, pregare, e fare cert’occhi e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole ...” Manzoni, con la drammatica vicenda del rapimento di Lucia e con il rapporto che ne fa il Nibbio all’Innominato, offre al lettore, come motivo di profonda riflessione, uno dei motivi più elevati della religione cristiana. È noto che della violenza intenzionalmente arrecata ad una vittima procuri una certa ripugnanza in chi la esercita se lo spazio che separa la vittima dal carnefice è tale che quest’ultimo assista a tutta la sofferenza patita da quella. Ma la distanza in se non basta per avviare un cambiamento nel carnefice; occorre che la vittima si disponga ad un particolare atteggiamento verso quest’ultimo visto come colui che sta sbagliando e che può essere rieducato e salvato. E, infatti, sono “quelle certe parole ...” (dette da Lucia, ma che il Nibbio, però, non riferisce all’Innominato) ad infrangere il comportamento stereotipato del bravo e a fargli sorgere quel sentimento di pietà, misto al desiderio di alleviare que11e sofferenze di cui lui stesso è responsabile. Quando Lucia si trova al cospetto delI’Innominato non sa di avere a che fare con un uomo da tempo lacerato da una profondo disagio esistenziale. La presenza di Lucia nel castello potrebbe rendere vani tutti quei tentativi fatti per arginare una crisi che si va, di giorno in giorno, facendo sempre più devastante. Per questo si pente di essersi impegnato in quell’impresa e si preoccupa di liberarsi al più presto della giovane. Ma nel frattempo un pensiero ostinato gli occupa la mente. Non è possibile che uno come il Nibbio, rozzo e volgare, sia stato capace di provare compassione per una povera fanciulla. Cosa può avere detto o fatto costei per muoverlo a compassione? Ormai è deciso a vederla, anzi vuole incontrarla subito, abituato com’è a mettersi alla prova con un atteggiamento di sfida. Trovatasi di fronte all’Innominato Lucia lo supplica di lasciarla andare perché essendo una povera creatura non può avere commesso nulla di male. “Cosa le ho fatto io? ... Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? ... Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura... Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa: pregherò per lei, tutta la vita... Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei! ...Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene... !” Quanto avrebbe desiderato l’Innominato che quella giovane fosse stata la figlia di qualche suo acerrimo nemico o di uno di quei vili che avrebbero voluto vederlo morto! E, invece, si trova davanti una povera fanciulla innocente che nulla ha fatto da rendere giustificabile il suo stato di prigionia. La fede profonda di Lucia produce, in questo contesto, un singolare pregherà paradosso. per lui per La vittima tutta la dice vita all’Innominato perché il Signore che lo preservi da ogni male e lo invoca, con pacata e rassegnata afflizione, affinché si cali per un momento nella sua condizione per provare quella pena e quella sofferenza che la tormentano. Nelle parole di Lucia non c’è alcun segno di rancore; la vittima si limita a proclamare la propria innocenza invocando la misericordia di colui che ingiustamente la tiene segregata. Nella logica della violenza, rozza ed elementare, ognuna delle parti giustifica la propria risposta violenta in base alla risposta meccanismo dell’altro, autoreferenziale innescando, che così, conduce, per un perverso la tensione raggiunta, alla distruzione del sistema. Come si vede, in questo contesto, non c’è spazio per il dialogo, per il rispetto dell’altro, inteso come persona, e il conflitto si intende risolto nella misura in cui una delle due parti riesce a sopprimere l’altra. Anche laddove il conflitto assume caratteri particolari, in quanto vede contrapposti un carnefice e una vittima, assistiamo, generalmente, in quest’ultima ad un comportamento che esprime odio e rancore verso chi si ostina a non credere nella sua innocenza. L’Innominato, preso commiato dalla vittima, è assalito da un groviglio di pensieri che lacerano un animo già sofferente. Manzoni descrive in modo efficace questa terribile lotta interiore che conduce l’Innominato ad afferrare una pistola per porre fine ad una vita diventata insopportabile. E mentre s’immaginava, assorto in tormentose contemplazioni, che cosa sarebbe accaduto nel castello alla notizia della sua morte “andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola”. Una disperazione ancora più nera cala sul suo martoriato animo quando al pensiero che quell’altra vita sia un’invenzione dei preti ne fa seguito un altro che non esclude che la vita possa avere una prosecuzione dopo la morte. E “mentre stava con le mani nei capelli, battendo i denti, tremando... gli tornarono in mente quelle parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” Quelle parole procurano a quell’anima tormentata ed afflitta un improvviso ed inaspettato sollievo e nella sua mente Lucia appare non più come sua prigioniera “ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni”. E, così, quell’incontro fortemente voluto dall’Innominato per mettere alla prova la propria durezza d’animo, la sua insensibilità verso gli strilli e le concitate suppliche di una donna disperata acquista, come per incanto, il senso di una salvifica trasformazione. Ora l’Innominato aspetta con ansia l’arrivo del giorno per correre da Lucia e liberarla e “sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita”. E nella frenesia per una ritrovata vita, che solo poco prima pareva irrimediabilmente perduta, immagina di essere lui stesso ad accompagnare Lucia dalla povera madre. Il prosieguo della storia è noto. Da quel giorno l’Innominato darà una svolta profonda alla propria vita; quel coraggio sprezzante di ogni pericolo, quella volontà forte e determinata, non più alleati della violenza, ma messi al servizio di più nobili idee, serviranno la pace e il bene degli altri. Gli scettici, coloro che pregiudizialmente non credono al potere della nonviolenza, potrebbero dire che in questi casi scatta l’istinto di sopravvivenza e che il comportamento di Lucia non è altro che un tentativo inconsapevole e disperato di avere salva la vita; in altre parole, quando si vede sfuggire la propria vita si è disposti a tutto pur di conservarla. Con questa diversa lettura, le suppliche accorate di Lucia, quell’invocare angoscioso la misericordia dell’Innominato non sarebbero altro che l’espressione di un animo pavido in preda di una incontrollabile paura. E ciò che noi avevamo indicato come uno degli aspetti più elevati della nonviolenza scade, in questa ottica, ad un miserevole e poco dignitoso tentativo di sfuggire ad una possibile morte. Del caso Lucia, paradossalmente, gli scettici potrebbero servirsene per sostenere punti di vista diametralmente opposti e screditare la nonviolenza della sua pretesa di risolvere pacificamente i conflitti. Costoro, però, non conducono avanti la riflessione e, credendo di avere individuato il punto debole della nonviolenza proprio là dove i nonviolenti si sforzano di dimostrarne la funzione pacificatrice e salvifica, finiscono, paradossalmente, per mettersi nella condizione di non comprendere gli effetti rivoluzionari. Ma, fortunatamente, la nonviolenza continua ad esprimersi nella storia nonostante gli scettici. Dicevamo che se i dubbiosi conservassero un atteggiamento più aperto e meno pregiudiziale non avrebbero difficoltà a scorgere in Lucia un animo puro, limpido e sincero; quel pregare per il persecutore, perché Dio lo conservi da ogni male, nasce da una fede profonda, da un genuino desiderio per il bene di una persona che, in questo caso, necessita del soccorso della grazia divina. Dal punto di vista di Lucia chi ha bisogno di aiuto è l’Innominato e questo traspare chiaramente dal suo atteggiamento, coerente con la sua storia di giovane onesta e virtuosa. Abbiamo sostenuto che un aspetto fondamentale della nonviolenza è il coraggio; ebbene, anche questo non manca a Lucia. In passato la giovane ha dimostrato in più occasioni di averne, come quando, ad esempio, ha urlato a Renzo che non sarebbe stata mai sua moglie se avesse cercato difarsi giustizia da solo ammazzando don Rodrigo o quando, sul finire del racconto, si mostra ostinata nell’essere fedele ad un voto che solo l’intervento provvidenziale di padre Cristoforo riesce a sciogliere. Lucia, quindi, non è una giovane pavida o, come qualcuno potrebbe essere portato a pensare, codarda; è, invece, mia donna forte, sorretta da solidi principi che la conducono anche al supremo sacrificio se questo fosse necessario. E, difatti, quando, rinchiusa in una stanza del castello, riceve la visita dell’Innominato, dopo che costui, con voce tonante e sdegnata torna a comandarle di alzarsi, dopo averle detto una prima volta di alzarsi da una posizione rannicchiata che aveva assunto in un cantuccio, Lucia si mette in ginocchio e dopo avere congiunto le mani in atto di preghiera, alza gli occhi al viso di costui e, riabbassandoli subito, con un tono che lascia trasparire una risoluta volontà dice di essere pronta per essere ammazzata. Se Lucia, nella gravità della situazione, mentisse cercando di dissimulare l’odio e il rancore (sentimenti che lei poteva ragionevolmente provare verso chi la teneva ingiustamente in uno stato di prigionia) con il fingere una premurosa sollecitudine verso il futuro di un uomo che le era nemico, c’è da credere che la finzione sarebbe smascherata e che la risposta dell’Innominato sarebbe dura e severa, compromettendo quel processo di crisi che da tempo si era avviato dentro di lui. La sincerità è una qualità fondamentale di una personalità nonviolenta; chi interagisce con una persona limpida, sente l’onestà e la purezza di questa e ne viene positivamente coinvolto. La funzione mediatrice del Terzo Vorrei riportare, ora, due bellissimi episodi; a parlarne è Rene Girard nel libro: “Vedo satana cadere come la folgore”.5 La città di Efeso era infestata da una terribile epidemia di peste e a nulla erano serviti i tentativi dei suoi abitanti per liberarsene. Disperati, i cittadini si rivolsero ad Apollonio di Tiana celebre per i suoi miracoli. Costui, giunto ad Efeso in men che non si dica, rassicurò subito gli abitanti che avrebbe debel1ato il giorno stesso quel terribile flagello. Condotta la popolazione al teatro, dove risiedeva l’immagine del dio protettore della città, si guardò attorno finché il suo sguardo non cadde su un vecchio e povero mendicante; vestito di stracci e sporco. Il poveraccio per indurre a pietà i passanti andava furbescamente strizzando gli occhi come se fosse cieco. Apollonio, chiamati attorno a se i cittadini, li sollecitò a raccogliere più pietre possibile per scagliarle contro quel poveraccio, visto come nemico degli dei. Il mendicante, sentendosi minacciato di morte, supplicava e implorava gli Efesi di lasciargli salva la vita e di avere pietà. I cittadini non capivano il comando rivolto a loro da Apollonio ed erano fortemente turbati all’idea di dovere uccidere un uomo miserevole e che per di più non aveva commesso nulla contro di loro. Di fronte alla loro riluttanza Apollonio spronò, con ancor più enfasi, i cittadini al lancio delle pietre. Chi li spingeva così ostinatamente a volere la morte di un vecchio mendicante non era una persona qualunque ma un personaggio che aveva fama di compiere grandi miracoli e che loro avevano chiamato per vincere la terribile peste. Appena qualcuno si convinzione!) 5 azzardò a (possiamo lanciare le prime immaginare pietre, il con quale mendicante R. Girard, Vedo satana cadere come la folgore , Adelphi, Milano 2001. Vedere il capitolo : L’orrendo miracolo di Apollonio di Tiana,pp.75-89 sprigionò verso i lapidatori tutto il suo odio e rancore attraverso uno sguardo ostile e rabbioso, mostrando ai presenti occhi pieni di fuoco. Gli Efesi videro l’inganno in cui erano caduti e, presi da un’ira convulsiva, lanciarono così tante pietre da formarne, su quello che credevano essere, ora, un demone, un vero e proprio ammasso. Questo fatto mi pare estremamente interessante, perché offre la possibilità di riflettere sui comportamenti collettivi che si possono innescare in particolari condizioni sociali e politiche. René scrittore Girard greco riporta questo Filostrato, a episodio, conferma ripreso del suo dallo modello esplicativo del meccanismo del capro espiatorio. La città di Efeso era attraversata da profonde tensioni, bastava che qualcuno, dotato di una certa intelligenza e carisma, avesse individuato in un elemento socialmente fragi1e il responsabile della crisi interna che la violenza delle varie fazioni si sarebbe coalizzata e scaricata, attraverso la lapidazione, sulla povera vittima designata. Apollonio, in questo, sarebbe stato un maestro, in quanto riesce ad innescare un contagio mimetico tale da condurre i cittadini di Efeso a scaricare la loro bramosia di violenza su un uomo derelitto. Una volta appagata la sete di violenza gli Efesi si sentono come risollevati e scoprono con meraviglia che la terribile epidemia è sparita. Gli mendicante Efesi dallo sentono sguardo di non essersi rabbioso era sbagliati, proprio un quel demone responsabile dei contrasti e delle angustie che attraversavano la città. La lapidazione, allora, ha del miracoloso, in quanto mette improvvisamente fine ad una crisi dagli esiti rovinosi per la comunità. Quando si creano tali particolari contesti può essere impossibile frenare la violenza. Quando il Terzo assume i tratti di una persona influente e carismatica sulla comunità è inevitabile che una eventuale vittima da lui designata come responsabile della crisi venga a trovarsi nella difficile situazione di non potere evitare la collera di una collettività assetata di violenza. Il ruolo del Terzo, in un contesto di crisi, è fondamentale per la mediazione che può svolgere tra le parti in conflitto. Apollonio di Tiana era al corrente di quello che stava accadendo all’interno della città di Efeso, sapeva che la città era tormentata da profondi contrasti “suscettibili- come scrive René Girard- di scaricarsi su quello che noi chiameremo un capro espiatorio” e proprio per questo suscita un contagio violento che può essere appagato solo con l’individuazione di un soggetto socialmente fragile su cui scaricare la collera di una collettività avida di violenza. Non c’è dubbio che la vittima designata si venga a trovare in una difficilissima situazione. Il povero mendicante resta annichilito al sentire l’incitamento che Apollonio fa agli Efesi perché lo uccidano con il lancio delle pietre. Non gli resta, allora, che implorarli e supplicarli di avere pietà per un povero cieco che nulla di male può avere commesso. Nella sorpresa e nel turbamento degli Efesi per la ferma esortazione con cui Apollonio li spingeva all’uccisione di una povera vittima innocente cogliamo quella spontanea e naturale avversione per il male portato verso esseri indifesi che nulla hanno fatto per poterlo giustificare. Il povero mendicante avrebbe avuto salva la vita, perché gli Efesi rifiutavano l’idea di dovere lapidare una persona miserevole e innocente e che per di più aveva suscitato in loro un umano sentimento di pietà. Di fronte alle ripetute insistenze di Apollonio che incitava con tono fermo a scagliare pietre sul povero malcapitato possiamo immaginare gli Efesi turbati da un vero e proprio dilemma. Se avessero lanciato dei sassi, così come veniva loro intimato di fare, avrebbero dovuto affrontare un forte senso di orrore e di ripugnanza per del1e sofferenze inflitte ad una vittima che sapevano essere innocente; se, invece, si fossero rifiutati di lanciare le pietre, per la pietà che era stata in loro destata, avrebbero disatteso i suggerimenti di chi avevano di proposito chiamato per debellare l’epidemia, e che sapevano per fama essere un uomo al di fuori del normale e capace di grandi miracoli. C’è da credere che lo spazio intercorso prima che qualcuno si decidesse a lanciare la prima pietra sia stato per gli Efesi infinito per la natura ansiogena del conflitto, cosicché quando qualcuno si è deciso, rompendo gli indugi, a raccogliere e lanciare la prima pietra, la comunità ha come tratto un profondo sospiro di sollievo. Come dice giustamente René Girard “La prima pietra è decisiva perché è la più difficile da scagliare”.6 Quel primo lancio, quindi, anche se ce lo aspettiamo poco deciso e sicuramente impreciso, costituisce un modello mimetico per i cittadini, tanto è vero che il secondo non tarda ad arrivare e il terzo, potendo disporre di ben due model1i, arriva assai rapidamente. E quando il povero mendicante, vistosi perduto, rinuncia alla finzione della cecità per rivolgere agli Efesi uno sguardo bieco e pieno di odio con occhi iniettati di sangue, costoro sono indotti a vedere nella vittima quel ripugnante demone che Apollonio chiede a loro di vedere, quel demone responsabile di quella terribile peste che tanti danni e disagi ha seminato nella città. E, allora, il lancio delle pietre si fa così rabbioso, per la bramosia di violenza che si era impadronita dei loro animi, che non ha termine prima che il corpo dello sventurato non è stato ricoperto da un ammasso di sassi. Quando una vittima è stata designata e opportunamente demonizzata da parte di un Terzo che gode agli occhi della comunità di indubbio ascendente e prestigio, per lei non c’è scampo. Le forze in campo sono squilibrate troppo a sfavore della vittima che assurge al ruolo di un vero e proprio capro espiatorio. Lo sventurato mendicante era riuscito nel suo intento di suscitare pietà, compassione negli abitanti di Efeso ed era tutto 6 ciò Ivi,p.83 che ragionevolmente ci si poteva aspettare che potesse fare in un simile contesto. Purtroppo, questo non gli è bastato per poter avere salva la vita. Anche se avesse scelto di conservare la finzione della cecità fino in fondo, scartando la scelta dell’odio verso i suoi oppressori in favore di una umana pietà e commiserazione verso coloro che riteneva stessero sbagliando, per il povero straniero non ci sarebbe, comunque, stato scampo. Una volta lanciata la prima pietra, altre, per effetto del contagio mimetico, ne sarebbero arrivate. Il secondo fatto riportato da René Girard è quello famoso dell’adultera che Gesù salva da una sicura lapidazione. Gli scribi e i Farisei gli conducono allora una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne del genere. Tu che ne dici?” Dicevano questo per metterlo in trappola, e avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito per terra. E poiché insistevano nell’interrogarlo, rialzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli contro di lei la prima pietra!”. E, riabbassato il capo, scriveva per terra. Ma quel1i, udito ciò, se ne andarono uno per uno, iniziando dai più vecchi, fino agli ultimi; rimase solo Gesù con la donna posta nel mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” “Nessuno, Signore” essa rispose. E Gesù le disse: “Nemmeno io ti condanno. Va’ e da adesso non peccare mai più”(Giovanni, 8, 3-11). In questo episodio le parti in causa ricoprono ruoli differenti rispetto al racconto precedente. Infatti, la folla è inferocita e ostinata a fare giustizia secondo la Legge, la vittima designata per la lapidazione è stata colta in flagrante adulterio e il Terzo, Gesù, si assume, in questo contesto, il non facile ruolo di pacificatore e di salvatore della vittima. La folla è in preda ad una bramosia di violenza e si accosta a Gesù più per metterlo in difficoltà ed accusarlo che per avere un suo autorevole giudizio riguardo a quello che si accingeva a fare. Invece, nell’episodio precedente, è Apollonio che raduna attorno a se gli Efesi e che li incita a colpire il demone che si nasconde sotto le sembianze di un miserabile mendicante. Gesù, in una così critica situazione che lo avrebbe potuto portare a condividere la stessa sorte dell’adultera, sceglie il silenzio e, chinatosi, si mette a scrivere con il dito per terra. La folla, scorgendo in questo atteggiamento un segno di una insormontabile difficoltà e ritenendo di avere messo Gesù alle corde lo incalza con più enfasi con le stesse precedenti domande. Gesù, allora, sollevando lentamente il capo, con tono pacato, invita i presenti a lanciare le pietre a condizione, però, che chi lo avesse fatto fosse stato senza peccato. La risposta di Gesù mette in grave difficoltà la folla, perché non dice loro di non lanciare le pietre ma di farlo a condizione che fossero stati senza peccato. In questo modo Gesù costringe i presenti ad un’immediata riflessione che li conduce ad identificarsi con quell’adultera colpevole di avere infranto la Legge e che per questo volevano punire con la morte. René Girard vede in quel chinarsi a terra di Gesù il tentativo di evitare lo sguardo di chi aveva l’animo oscurato dalla sete di violenza. In quell’atmosfera sovreccitata, Gesù decide di non scendere sullo stesso piano dei giustizieri, evita i loro sguardi sinistri e mantiene un tono di voce pacata. Se Gesù, dice Girard, avesse mantenuto il suo sguardo fermo negli occhi rabbiosi di quegli uomini particolarmente eccitati, costoro vi avrebbero visto riflessa la loro stessa collera e si sarebbero sentiti provocati. Gesù evita di offrire ai presenti il benché minimo pretesto che possa indurli ad accettare una sfida che li avrebbe condotti a mettere in atto il loro fermo proposito. La sfida di Gesù avviene su un piano diverso: si pone a difesa della vittima e la vuole salvare da una sicura lapidazione, evitando tutto ciò che può apparire agli occhi di provocazione. quegli uomini un benché minimo accenno di Gesù è consapevole della difficoltà dell’impresa e sa che se non fosse riuscito nel suo intento di fare riflettere la folla avrebbe potuto trovarsi a fianco dell’adultera e fare la sua stessa fine. Ma dopo che Gesù ha pronunciato pacatamente la frase: “Chi di voi è senza peccato, scagli contro di lei la prima pietra” nessuno trova il coraggio di lasciare quella prima pietra che abbiamo visto innescare, nell’episodio precedente, un contagio mimetico di tipo violento. E così in questo episodio si produce un mimetismo di natura opposta a quello precedente: la folla alla spicciolata se ne va, non essendo nessuno disposto al lancio della prima pietra. Per potere eccitare gli animi degli Efesi e scaricare, così, la loro rabbia verso il povero malcapitato, ad Apollonio, per vincere la loro forte ritrosia iniziale, non è sufficiente la sua autorità, il suo diabolico stratagemma continuato a rimanere enorme quella ascendente: massa incredula e di senza persone recalcitrante qualche avrebbe alle sue raccomandazioni. Quell’uomo misero non è colpevole perché ha fatto qualcosa che meriti una pubblica condanna, ma è colpevole per essere nemico degli dei, per essere un demone dalle parvenze umane e, quindi, tanto più pericoloso quanto meno facilmente riconoscibile. E, infatti, la loro riluttanza non si spiega se non con la riuscita del travestimento, trasformazione che inganna i comuni mortali, ma non chi ha la capacità come lui di andare al di là delle apparenze. Con la demonizzazione della povera vittima Apollonio cerca astutamente di scrollare di dosso dagli Efesi quella naturale e comprensibile ritrosia a compiere un atto che avrebbe suscitato in loro disgusto e ripugnanza. Una volta introdotto il disimpegno affettivo verso la vittima c’è solo da attendere che qualcuno faccia il primo passo per innescare, per contagio mimetico, la violenza collettiva. Gesù, invece, ponendosi a difesa della vittima, tiene vivo negli uomini il disgusto per l’azione violenta che si accingono a compiere con una semplice frase di grande effetto. Infatti, ognuno trovandosi nell’intimo non senza peccati viene come spinto inconsapevolmente a subire una sorta di identificazione con la vittima e a provare orrore e repulsione al solo pensiero che qualcuno possa fare a lui ciò che poco prima era disposto a fare in modo così determinato e risoluto a quella. Abbiamo visto come in questi due episodi non ci fosse comunque possibilità di salvezza per le vittime designate. Qualsiasi comportamento da esse adottato non le avrebbe evitato una fine certa. Come si vede la nonviolenza può non essere efficace qualora compattano le rivalità determinando nel mimetiche gruppo o degli nella uomini società si una sovreccitazione suscettibile di venire scaricata su una vittima designata. Gli stessi maestri della nonviolenza, pur nutrendo una profonda fede nella nonviolenza, non la ritenevano, però, miracolosa. Come abbiamo visto in precedenza il ruolo dei Terzi può essere fondamentale nell’orientare il conflitto in una particolare direzione. Nell’episodio dell’adultera non è la donna a chiedere l’aiuto di Gesù ma sono gli scribi e i Farisei a condurla Apollonio, al non suo gode cospetto. agli Il occhi Terzo, di a questi differenza uomini di di una particolare venerazione, tanto è vero che si sono avvicinati a lui non tanto con l’atteggiamento di chi vuole rimettersi alla decisione del Maestro quanto con l’intenzione di tendergli una trappola ed accusarlo. Gesù, però, pur esponendosi a non pochi rischi prendendo le difese della donna, riesce a mettere in grande difficoltà quegli uomini assetati di giustizia e a risolvere il conflitto in favore di quella. Chi si appresta a mettere in atto un’azione nonviolenta deve preoccuparsi come prima cosa di informare l’opinione pubblica delle ragioni della lotta cercando di destare in essa un sentimento di solidarietà attiva in modo che si produca una pressione verso la controparte. Qualsiasi potere, per quanto autoritario possa essere, è sensibile agli umori dell’opinione pubblica; nessun governo dispotico può ragionevolmente pensare di restare al potere per troppo tempo senza un certo consenso. Se certi regimi si sono, nel passato recente, caratterizzati per una estrema crudeltà ciò è dovuto al fatto che la maggior parte della popolazione si è riconosciuta nella politica espressa da questi e non, come sostiene, purtroppo, una diffusa credenza, alla mancanza di spazio per potere esprimere disapprovazione senza incorrere in gravi pericoli. Come dice Etienne de la Boétie: “basta che il tiranno non lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento”7 Certo, le misure repressive messe in piedi da Hitler erano tali da scoraggiare qualsiasi dissenso, ma se c’era davvero una maggioranza silenziosa contraria al regime questa prima o poi avrebbe trovato il modo per farsi sentire. Ora, però, ci interessa parlare di questa maggioranza silenziosa che può essere, se opportunamente mobilitata, trasformata in una straordinaria forza di pressione. Questo è un momento cruciale di tutte le lotte nonviolente. Quando il conflitto vede coinvolti il potere dello stato e dei cittadini, l’azione nonviolenta deve mirare a rendere pubbliche le ragioni del conflitto, le difficoltà e le sofferenze che le disposizioni del governo producono. Il Terzo, l’opinione pubblica, viene chiamato in causa perché veda da vicino le conseguenze che l’azione del persecutore provoca sulle vittime. Sottraendosi consapevolmente alle provocazioni del potere forte, che astutamente cerca di innescare una rivalità mimetica generatrice di violenza, l’azione nonviolenta riporta continuamente l’attenzione sulle ragioni concrete del conflitto costringendo l’avversario a confrontarsi su un terreno a lui poco congeniale. Questo è un aspetto fondamentale della lotta nonviolenta, perché il potere, cercando di continuo di spostare 7 E. de La Boétie, dal Discorso sulla servitù volontaria , a cura di L. Geninazzi, Jaca Book, Milano, 1979, p.73 in J. Semelin, P e r uscire..., op.cit., p. 11 il conflitto sul terreno dello scontro, rivela la propria fragilità nella capacità di dialogo e di mediazione. La lotta nonviolenta non mira ad umiliare l’avversario mettendolo alle corde e privandolo di qualsiasi possibilità di onorevole fuga; l’obiettivo è di costringere l’avversario al dialogo, perché si trovi un dignitoso compromesso che soddisfi entrambe le parti. Questo è un aspetto importante della lotta nonviolenta, in quanto si assicura distruzione, che l’avversario non si hanno che non si intenzioni vuole ostili la nei sua suoi confronti, ma che si intende semplicemente raggiungere degli obiettivi ritenuti importanti per chi lotta e che l’avversario può ragionevolmente concedere perché non di profilo troppo elevato. Qualora l’avversario sia chiuso e ostinatamente fermo nelle proprie posizioni, ostacolando in tal modo qualsiasi possibilità di ragionevole compromesso, lo si metterà al corrente della propria determinazione nel portare avanti la lotta e delle diverse azioni che si metteranno in campo. L’obiettivo, graduando l’intensità della forza che le diverse azioni messe in campo possono esprimere, è sempre quello di costringere l’avversario al negoziato perché si trovi un soddisfacente compromesso tra le parti. Il dialogo, come dice Jacques Semelin, è consustanziale alla nonviolenza. I conflitti risolti con l’umiliazione di una delle parti prima o poi riesploderanno, perché l’odio e la vendetta covati nell’intimo troveranno sempre, prima o poi, l’occasione per esplodere in forme di incontrollata violenza. La storia è zeppa di trattati di pace firmati da paesi vincitori che hanno ridisegnato gli stati con una totale insensibilità verso le minoranze presenti in determinate aree o che hanno imposto condizioni di pace ai perdenti tali da creare nel popolo sconfitto sentimenti di profonda ostilità. La pace per essere vera va costruita tenendo conto delle esigenze di tutti e non imposta dall’alto per difendere gli interessi e i privilegi di pochi. È proprio in ragione di questo che la lotta nonviolenta non ha lo scopo di umiliare o, peggio, distruggere l’avversario, ma quello di trovare attraverso il dialogo un compromesso che le parti possono liberamente sottoscrivere. Abbiamo visto come in un conflitto sia vitale per l’azione nonviolenta coinvolgere il Terzo, per evitare il rischio sempre presente di cadere in una crisi mimetica da cui chi lotta rischia di avere la peggio avendo a che fare con un potere reso ancora più forte per l’appoggio, ora esplicito, della maggioranza silenziosa. I sostenitori della nonviolenza non si stancano mai di sottolineare l’importanza del Terzo che da spettatore, o peggio da sostenitore attivo del potere, può, invece, trasformarsi in un convinto sostenitore della causa nonviolenta creando così le condizioni che incoraggino il dialogo in direzione di un compromesso tra le parti che sia reciprocamente soddisfacente. Gesù, nell’episodio dell’adultera, si schiera decisamente dalla parte della vittima, vista, invece, come colpevole e, quindi, meritevole di morte, da coloro che si limitavano a seguire alla lettera la Legge. Le scritture non ne parlano, ma possiamo immaginare la donna in preda alla vergogna per un atto che aveva la riprovazione della comunità; la vediamo con il capo abbassato, silenziosa, triste, rassegnata ad una fine che tutti ritenevano, vista l’autorità delle scritture, necessaria. Nella povera donna non c’è odio, non c’è ribellione, non il più piccolo tentativo di giustificazione per il suo comportamento; essa appare a Gesù innocente, una vera e propria vittima sacrificale. Quando l’adultera, dopo le parole di Gesù, sente che nessuno l’accusa e vede che quella folla assetata di giustizia se ne va alla spicciolata, resta come ammutolita e senza parole. E, infatti, quando Gesù, rimasto solo con lei, le dice: “Nessuno ti ha condannato?” e lei risponde:”Nessuno, Signore” possiamo cogliere in quella asciutta espressione un misto di incredulità, stupore e riconoscenza. Il Terzo si schiera dalla parte di coloro che lottano a condizione che questi si comportino in modo tale da apparire come vittime innocenti. È difficile anche per chi detiene il potere giustificare violenza agli indiscriminata occhi verso dell’opinione chi non ha pubblica fatto nulla una per provocarla. Quando questo accade il potere rivela la propria profonda natura violenta e persecutoria. Ed è proprio questo smascheramento che la nonviolenza vuole procurare con la sua azione tendente a mostrare all’opinione pubblica come la sofferenza subita dalle vittime innocenti risponda al perverso meccanismo di colpevolizzare le vittime per poterle perseguitare Il potere giocherà tutte le sue carte pur di trasformare quelli che sono avvertiti come nemici in vittime sacrificali e rendere giustificata e, quindi credibile, la sua risposta violenta. Ma se chi lotta riesce a non cadere nelle trappole tese furbescamente dal potere, evitando, così, la rivalità mimetica, il Terzo, l’opinione pubblica, finirà per schierarsi dal1a parte di coloro che, pur subendo violenza, non rispondono con gli stessi mezzi. E, infatti, chi riuscirà ad essere più credibile agli giustificare le occhi dell’opinione sofferenze pubblica inflitte su chi chi cerca di non reagisce, adducendo a sostegno della propria azione una violenta campagna diffamatoria, o coloro che, mostrando a tutti i segni del1a violenza subita, mantengono un comportamento nonviolento? In questa prospettiva il paradosso è eclatante, in quanto a non fare uso di violenza sono proprio coloro che ne subiscono gli effetti. Ebbene, tutto questo verrà colto dalla opinione pubb1ica che finirà per mobilitarsi a fianco dei perseguitati e, allora, quella violenza che il potere aveva giustificato sotto la spinta di una rozza colpevolizzazione, finirà per ritorcerglisi contro. L’opinione qualcuno, per pubblica tende difendere la a sentirsi propria minacciata causa, se sceglie deliberatamente la violenza. Proprio per questo chi detiene il potere cerca di snaturare le ragioni di chi gli si oppone presentando la controparte come sobillatrice dell’autorità costituita mettendo in atto una campagna persecutoria tesa ad innescare una rivalità mimetica che giustifichi la violenza persecutoria. Questa strategia che può apparire a prima vista sottile è, in realtà grossolana e rozza e può, addirittura, essere controproducente per il potere se chi gli si oppone non risponde alle provocazioni e si dimostra fermo nel ricondurre il contrasto sul piano del contenzioso. La scelta della nonviolenza allora paga, perchè finisce, paradossalmente, per essere vantaggiosa anche per coloro che ciecamente le si oppongono, in quanto da un negoziato da cui le parti in causa ne escano entrambe soddisfatte, si potranno avere maggiori possibilità di stabilità e di pace rispetto ad un conflitto risolto in modo repressivo che costringerà il potere, con danno per tutti, a mantenere alto il controllo repressivo. Se il discorso fin qui fatto ha una sua fondatezza allora appare chiara la debolezza teorica di coloro che teorizzano la necessità del terrorismo come risposta ad una politica di aggressione e di sfruttamento. Il terrorismo non potrà mai vedere soddisfatti vittima di una gli obiettivi profonda che persegue, contraddizione. Non si in quanto capisce, infatti, come si possa sostenere di lottare, con probabilità di successo, per la libertà del proprio popolo con il mettere in atto un comportamento violento che mira a colpire in modo indifferenziato il popolo nemico. Il terrorismo attirerà alla propria causa sempre un numero limitato di persone ed è improbabile che con questo consenso si possa distruggere un avversario che si ritroverà, nel frattempo, più compattato e più forte. Chi imbocca questa strada pericolosa non comprende l’importanza del Terzo che, anzi, viene colpito, in quanto nemico. In questo, il terrorismo dimostra una imperdonabile cecità politica per un fanatismo che, reso cieco da odio e sete di vendetta, colpisce nel mucchio con l’intento di arrecare all’avversario quanta più distruzione possibile. Il popolo percepire più aggressore la tenderà, sofferenza e le in questo modo, limitazioni del a non popolo aggredito, ma sarà condotto ad identificarsi con quelle vittime innocenti casi brutalmente colpite da una cieca e incomprensibile violenza. Ogni persona si identificherà nelle povere vittime innocenti che solo il caso ha voluto fossero quelle e non altre. Ognuno sentendosi una vittima potenziale del terrorismo sarà condotto, a sua insaputa, a considerare nemico anche quel popolo da cui i terroristi provengono e ciò contribuirà a scavare ulteriormente quel fossato che prima li divideva. Quel Terzo, l’opinione pubblica del popolo oppressore, di cui il terrorismo non solo non ritiene svolgere un ruolo importante per la propria causa, ma che, addirittura, considera nemico, in quanto comunque parte di quel popolo che deve essere distrutto, alla fine si riprende tutta quell’importanza che abbiamo visto ricoprire nella riflessione precedente e contribuisce, in modo determinante, alla sconfitta di quello. Il terrorista, al pari della vittima innocente, accetta la propria morte ma, implicando la sua azione la morte dell’altro, non fa altro che rafforzare la risposta repressiva dello stato. Paradossalmente, lo stato si serve del terrorismo, ne ingigantisce la portata per rafforzare le misure repressive verso il popolo considerato nemico e rendere il controllo più soffocante. Quello del terrorismo è un esempio chiaro di come la violenza non solo non sia efficace per risolvere una situazione di forte ingiustizia, ma sia addirittura controproducente, perché, come dice Semelin, “molto di più lo stato si serve del terrorismo, esagerandone anche i pericoli, di quanto esso non lo minacci”.8 L’episodio di Apollonio di Tiana ci offre la possibilità di parlare di un altro aspetto importante della nonviolenza: la disubbidienza civile. Gli Efesi alle reiterate sollecitazioni 8 J. Semelin, Per uscire..., op. cit., p. 80 di Apollonio perché lanciassero pietre contro il mendicante rispondono con un atteggiamento di incredulità e sbigottimento; non comprendono come un povero straniero possa essere responsabile dell’epidemia che regna in città. Abbiamo visto demonizzato il come in poveraccio modo con astuto lo Apollonio scopo di abbia distogliere l’attenzione su ciò che gli Efesi erano chiamati a fare. Apollonio sapeva che il primo cittadino che avrebbe ubbidito ai suoi ordini avrebbe innescato un effetto a catena tale da coinvolgere tutta la comunità. Nessuno se l’è sentita di disubbidire al maestro, dimostrando in questo di fidarsi di più delle sue parole che della realtà percepita dai sensi. Nell’uomo c’è la tendenza a conformare il proprio comportamento a quello del gruppo di cui si fa parte e questo in ragione di una semplice considerazione di ordine energetico; è, infatti, proprio molto difficile comportamento e rischioso all’interno di differenziare un gruppo che il abbia nell’uniformità del modo di pensare il segno distintivo della propria caratterizzazione. È noto che l’educazione che si riceve nelle agenzie educative, il peso dei condizionamenti determinato da una presenza istintivo sempre di più massiccia stabilità e dei mass sicurezza media, portano il bisogno l’individuo a seguire le idee correnti e a modellare acriticamente il proprio comportamento su quello della maggioranza. Quando si subisce il fascino di persone autorevoli per fama e prestigio si tenderà a vedere in queste dei veri e propri modelli da seguire e da imitare. Chi lavora nel campo della pubblicità dà prova di conoscere molto bene le tecniche di manipolazione di massa quando, sfruttando la tendenza della mente alla omologazione, costruisce modelli di comportamenti così autorevoli per sicurezza, prestigio e bellezza da indurre surrettiziamente gli individui, vittime inconsce di un istintivo bisogno identificatorio, a conseguire falsi bisogni di successo e di potenza. In un mondo sempre più globalizzato, dove le grandi centrali del potere economico tenderanno con sempre più sottili strumenti di diabolica raffinatezza, di creare un mondo sempre meno differenziato, i bambini, gli adolescenti, ma anche gli adulti vanno incontro ad una vera e propria spersonalizzazione sia per l’incapacità di porsi criticamente verso certi messaggi e certi modelli che, anzi, imitano e fanno propri, sia per l’impossibilità di riconoscere quelle forme sottili di persuasione che, agendo a livello subliminale, sfuggono al controllo della coscienza. La pubblicità si appropria indebitamente dei bisogni interiori dell’uomo, come il bisogno del senso di appartenenza, il bisogno di sicurezza, ma anche di quelli di natura opposta, come il desiderio di distinguersi, di differenziarsi dagli altri e proponendo per tutti differenti modelli in cui identificarsi offre dei surrogati che inducono chi li adotta a trovare un’illusoria forma di appagamento. L’ipotesi riguardante la tendenza della mente ad uniformarsi alle aspettative e alle richieste dell’autorità ha trovato conferma in ambito scientifico. La ricerca si proponeva di scoprire fino a che punto potesse arrivare il grado di ubbidienza all’autorità da parte di soggetti spinti ad infliggere delle sofferenze a degli attori che fingevano di ricevere effettivamente una carica elettrica. Non c’è dubbio che di fronte alle sofferenze inflitte questi soggetti provassero un certo disagio che si trasformava in un vero e proprio conflitto: se il crescere della sofferenza degli allievi determinava un certo senso di nausea che li spingeva ad interrompere l’esperimento, le ingiunzioni decise dell’autorità (lo sperimentatore) li spingevano a continuare con il ricordare loro che si erano moralmente impegnati in un esperimento di alto valore scientifico. Sui soggetti veniva esercitata una notevole pressione psicologica con ordini a continuare l’esperimento sempre più decisi e drastici L’esperimento ha largamente confermato l’ipotesi iniziale, in quanto il sessanta per cento ha condotto fino in fondo la prova. Costoro per interrompere l’esperimento avrebbero dovuto ribellarsi espressamente all’autorità (lo scienziato), ma non hanno trovato la forza per farlo e così per risolvere un conflitto che sarebbe presto diventato per loro insostenibile questi soggetti sono venuti via via diminuendo l’attenzione verso la vittima per orientarla verso le richieste dello sperimentatore. Una volta superato il picco dello stato di tensione questi soggetti divengono completamente insensibili alle sofferenze da loro causate alla vittima preoccupandosi di eseguire al meglio gli ordini impartiti dall’autorità. Si viene in questo modo a creare quel disimpegno quell’identificazione affettivo verso verso l’autorità che le vittime abbiamo e visto determinarsi nei fenomeni persecutori. Quel sessanta per cento che ha condotto fino in fondo l’esperimento, dice Milgram, era costituito da persone assolutamente normali, per niente aggressive, persone che non hanno, però, trovato il coraggio di opporsi all’autorità dello scienziato e di sottrarsi così agli obblighi che ritenevano di essersi assunti partecipando all’esperimento. E, così, scrive Milgram, “persone assolutamente normali, affatto prive di ostilità, possono diventare gli agenti di un atroce processo distruttivo, attenendosi semplicemente ai compiti che sono stati loro affidati”9 Questi studi hanno largamente dimostrato la tendenza della natura umana a conformarsi alle disposizioni ingiunte da un’autorità. Riteniamo che la percentuale, già di per sé elevata, di coloro che hanno avvalorato l’ipotesi di Milgram sarebbe stata sicuramente più consistente se, ad esempio, i soggetti che si sono sottoposti individualmente all’esperimento avessero potuto disporre di un modello che, d’accordo con lo sperimentatore, 9 S. Milgram, Obbedienza all’autorità , Bompiani, Milano 1975, in J. Semelin, Per uscire..., op. cit., p. 56 avesse inflitto fin dall’inizio scariche elettriche sulla vittima senza mostrare il più piccolo segno di disagio o se avessero condotto la prova assieme ad altri soggetti. Abbiamo visto in precedenza l’alto valore simbolico del gesto del primo individuo verso il gruppo allorchè, rompendo gli indugi, esegue l’ordine impartito dalla autorità. In tali situazioni si viene ad innescare un contagio mimetico che finisce per coinvolgere tutti, portando gli individui a compiere con determinazione e accanimento ciò che solo poco prima suscitava in loro un forte senso di ripugnanza e di orrore. Quando la disubbidienza è una virtù Proprio in ragione della tendenza della natura umana al conformismo e all’ubbidienza all’autorità che l’educazione acquista un ruolo insostituibile nel formare cittadini responsabili e consapevoli. Occorre certamente educare i giovani al rispetto delle regole, al senso civico, ma si dovrà anche insegnare loro, come dice don Milani, che il senso dello stato può essere testimoniato in certe occasioni, dal disobbedire ad una legge ingiusta più che da una sua rigorosa osservanza. I grandi maestri della nonviolenza hanno tutti ribadito l’alto valore educativo e di testimonianza della disubbidienza qualora le leggi dello Stato, che si è tenuti ad osservare quando sono giuste, sono palesemente ingiuste. Ma la nonviolenza esprime tutto il suo amore costruttivo per la legge quando alla disubbidienza verso le leggi ritenute ingiuste si accompagna la disponibilità ad accettare le conseguenze che la loro violazione comporta. Il nonviolento dà prova di senso civico e di amore per le leggi sia, come dice Gandhi, quando ubbidisce in modo spontaneo e convinto a leggi ritenute giuste, sia quando, ponendosi in modo civile al di fuori della legge, si rende disponibile ad accogliere le sanzioni che l’infrazione della legge comporta. Ed è nell’accettare di buon grado la punizione che la violazione della legge presuppone che il nonviolento da prova di coraggio e forza interiore. La disubbidienza civile diviene un dovere morale laddove si viva sotto un governo dispotico, perché, dice Gandhi, “il seguace della resistenza civile è pericoloso per uno stato autocratico, poiché attira l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni per le quali oppone la sua resistenza contro lo stato”.10 Abbiamo visto come sia molto più facile stare nel gruppo, comportarsi come i più, come quella grande maggioranza silenziosa dove ognuno, stando diligentemente al proprio posto, rende possibili immani tragedie. Troppo spesso si tacita la propria coscienza con il dirsi che la situazione non consentiva spazi reali di espressione democratica e che la responsabilità per certi atti di barbarie debba andare ricercata ai massimi gradi di responsabilità politica. Ma certi delitti, dice don Milani, hanno richiesto la partecipazione di un numero imprecisato di corresponsabili. Il disastro di Hiroshima non sarebbe mai accaduto se politici, scienziati, tecnici, operai ed aviatori avessero disobbedito. Credo che non ci siano parole più belle di quelle scritte da don Milani a conclusione di questa breve riflessione sulla disubbidienza civile: “... Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo ne davanti agli uomini ne davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno responsabili di tutto”.11 10 M. K.Gandhi, Teoria e pratica..., op., cit., p. 185 Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana , a cura di Michele Gesualdi, Mondadori, Mi]ano 1968, p. 260 11 Lotte e campagne nonviolente La capacità di soffrire è essenzialmente un atto d’amore, un amore che non conosce limiti, ostacoli, un amore che può giungere fino al supremo sacrificio se questo è richiesto. Ci possono essere situazioni così difficili che possono richiedere il sacrificio Gandhi, ma queste andare, saranno di morti gran di migliaia di vite umane, volontariamente assunte, lunga a inferiori a quelle dice lungo che si potrebbero avere con il fare ricorso alla violenza o restando passivi. Il mondo sarà, inoltre, moralmente arricchito da tali nobili gesti. Alla spada del tiranno Gandhi non contrappone una spada più affilata, ma cerca di deludere la sua aspettativa di una risposta violenta attraverso una resistenza morale che lo disorienterà e che lo costringerà alla fine a riconoscere la propria ingiustizia senza venire umiliato. La nonviolenza, come dice A. Capitini, nobilita, eleva, unisce al contrario della violenza che abbruttisce e separa gli uomini scavando enormi fossati.12 Ma vediamo un po’ da vicino come Gandhi si preparava ad una campagna di lotta. Non trattandosi di una lotta che doveva colpire il nemico di sorpresa non vi erano strategie occulte, ma le ragioni venivano rese pubbliche con accurato zelo. La lotta doveva avvenire alla luce del sole e coinvolgere il maggior numero di persone. Prima di avviare qualsiasi iniziativa di lotta era preoccupazione di Gandhi informare l’avversario sulle ragioni della protesta; nella lettera Gandhi elencava anche in modo chiaro gli obiettivi che intendeva raggiungere, obiettivi che avevano una loro gradualità, perché lo scopo non era quello di porre alle corde l’avversario, umiliarlo e rendere la sua risposta rabbiosa, ma ottenere il riconoscimento di alcune giuste rivendicazioni. 12 A. Capitini, Rivoluzione aperta, Parenti 1956, pp.1-4 Gandhi si accontentava di compiere dei passi in avanti, d’altra parte se il popolo era stato adeguatamente preparato alla campagna le lotte successive avrebbero consentito il riconoscimento anche degli obiettivi più importanti. Ma Gandhi, come dice Capitini, non voleva stravincere, ma convincere l’avversario con il renderlo consapevole delle ingiustizie commesse e offrirgli una resa onorevole. Alla base del pensiero di Gandhi vi è un rifiuto totale della violenza e della menzogna. Per Gandhi il fine sta nei mezzi. Non è pensabile una società giusta costruita con l’odio e la violenza. Certo, con il ricorso alla violenza, si possono modificare situazioni di forte ingiustizia sociale, ma il costo in termini di sofferenze, di vite umane, può essere molto elevato e l’odio scatenatosi durante il conflitto può durare intere generazioni rendendo fragile il processo di pace. Laddove le lotte sono state portate avanti in modo nonviolento non si sono creati fossati tra le diverse componenti sociali, politiche, religiose della nazione tali da rendere difficile l’opera di riconciliazione. Se coloro che lottano sono opportunamente addestrati ad un comportamento nonviolento si riusciranno a gestire anche situazioni di forte tensione e conflittualità. Coloro che hanno aderito nel Kossovo alla lotta nonviolenta partecipando alle azioni avviate da Ibrahim Rugova, che si ispirava ai grandi maestri della nonviolenza quali Gandhi e Martin Luther King, si impegnavano in modo consapevole a mettere in atto tutta una serie di comportamenti che si richiamano ai principi della nonviolenza. E’ ragionevole pensare che nel Kossovo le cose avrebbero potuto prendere una piega ancor più disastrosa se coloro che hanno seguito Rugova avessero imbracciato le armi. E’ noto che chi detiene il potere non aspetta altro che gli si offra l’occasione per giustificare l’uso spesso indiscriminato della violenza. Quanto è successo a Genova, nel luglio del 2001, in occasione del vertice dei potenti della terra, deve fare riflettere tutti coloro che intendono davvero creare un mondo più giusto. intervenuta Ci in si deve chiedere se la polizia modo cosi violento colpendo anche sarebbe donne e bambini se la manifestazione fosse stata del tutto pacifica. Purtroppo, una piccola minoranza ha offerto il pretesto alla polizia di fare uso di una violenza brutale e indiscriminata. Ebbene, si provi a pensare che cosa sarebbe successo in Italia se quanto accaduto si fosse verificato in un contesto in cui tutti i dimostranti si fossero attenuti scrupolosamente ad un comportamento nonviolento. La nonviolenza, laddove è stata praticata, ha prodotto indiscutibili risultati e per di più senza causare né danni materiali né considerevoli costi umani. L’argomento mi consente di fare alcune semplici considerazioni. Si è sempre sostenuto che in Germania sotto il regime nazista non era pensabile alcuna forma di opposizione. È, infatti, risaputo che il popolo tedesco non ha mai espresso apertamente il proprio dissenso alla politica di Hitler. Ancora oggi, a distanza di settanta anni, si ha difficoltà a credere a quanto è successo a Berlino nei primi giorni del 1943. Quanto accaduto invita tutti noi ad una onesta e disinteressata riflessione. Anche il più sanguinario dei regimi poteva essere sconfitto. Un centinaio di donne ebree e ariane (qualcuno dice qualche migliaio), hanno dato vita all’unica protesta pubblica contro la deportazione degli ebrei. Queste donne coraggiose scesero semplicemente in strada per protestare e chiedere la liberazione dei propri cari. Non fu una protesta organizzata, non si urlavano slogan precisi, non era stata preparata alcuna tattica, quelle donne semplicemente camminavano avanti e indietro sul marciapiede davanti all’edificio in cui erano trattenuti i propri parenti. Si sa che altri passanti, venuti a conoscenza del fatto, si unirono spontaneamente alla protesta; la stessa azione fecero delle persone che si trovavano per caso a passare per la Rosenstrasse. Quelle persone, per la maggior parte donne, camminarono su e giù di fronte all’edificio per una settimana, a volte urlando la loro rabbia, più spesso standosene in silenzio. Dopo una settimana di protesta accadde qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato che succedesse: gli ebrei arrestati furono rilasciati. Il regime non poteva, ovviamente, dare motivo del rilascio dei sequestrati senza ammettere una vera e propria sconfitta, e gli eventi della Rosenstrasse si vennero a conoscere solamente a guerra finita. Poi, chissà perché, di quella protesta memorabile non se ne parlò più. Anche gli storici non si interessarono del caso. Eppure, quanto successo a Berlino nel ‘43 fu una vera lotta, un eroico atto di resistenza al regime che vide coinvolte prevalentemente donne. Gli storici dicono che quella della Rosenstrasse sia stata l’unica manifestazione pubblica sotto il regime hitleriano. Qualcuno avanza il sospetto che non si sia voluto riconoscere ciò che quelle coraggiose donne con la loro protesta avevano ottenuto: la liberazione di prigionieri da parte di un regime ritenuto da tutti inattaccabile. Questa lotta, che merita di essere studiata più attentamente, ha chiaramente dimostrato che non era del tutto fondata l'idea corrente che qualsiasi tentativo di opposizione fosse destinato all'insuccesso. La protesta continuò anche quando per spaventare quelle donne fu posta, sull'altro lato della strada, minacciosa, una mitragliatrice. Queste donne, rispondendo ad un atavico istinto di lotta, erano disposte a tutto pur di riabbracciare i propri figli, i propri mariti. Non erano donne straordinarie, ma semplicemente donne normali, però nell'occasione, disperate, per il sequestro da parte della polizia dei propri cari. Credo che sia legittimo e doveroso chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere nella Germania hitleriana se al posto di qualche centinaia di donne a scendere in strada in quella e in altre occasioni fossero state migliaia e migliaia di persone. Anche i regimi più sanguinari hanno bisogno di un certo appoggio da parte della popolazione e il regime instaurato avrebbero da Hitler potuto fare non era fuoco da su meno. quelle Certo, donne i e soldati facilmente disperderle, ma il potere non è così sciocco e cieco da non ritenere questi gesti folli per il forte impatto emotivo che questi potrebbero avere sulle masse. Che cosa avrebbe pensato e fatto quel popolo tedesco portato all'obbedienza, poco disposto alla protesta, e sicuro che in Germania non c'era spazio per gesti di opposizione? Quanto accaduto nella Rosenstrasse nei primi giorni del marzo del 1943 deve fare riflettere tutti coloro che esprimono scetticismo verso la lotta nonviolenta, ritenuta poco incisiva o del tutto inefficace per modificare una struttura violenta. Ma se una manciata di donne è riuscita, con una protesta improvvisata, e quindi organizzazione tattica, senza ad alcuna avere la preparazione meglio su un e potere ritenuto inattaccabile, credo che sia onesto e ragionevole domandarsi se una lotta nonviolenta, condotta da persone preparate, consapevoli della forza espressa da una protesta pacifica non sarebbe stata in grado di far barcollare, e anche cadere, il più brutale dei regimi. Anche Hitler nel suo folle disegno di morte aveva bisogno di un consenso. Penso che si debba riflettere più a fondo sulla proposta della nonviolenza gandhiana per potere vedere in essa tutto il potenziale di cambiamento che essa ha in sé. Non dobbiamo scordarci che la caduta del muro di Berlino è stata la conseguenza di una protesta del tutto nonviolenta. Se a qualcuno fosse venuto in mente di abbattere quella barriera solo qualche anno prima, magari con metodi violenti, non occorre molta fantasia per immaginare gli esiti catastrofici a cui il mondo sarebbe andato incontro. Se Gandhi, rivolgendosi agli ebrei, li aveva esortati a seguire i suoi insegnamenti chiamandoli anche al supremo sacrificio, se questo fosse stato necessario, era perché la sua fede nel potere dell'ahimsa era incrollabile. D'altra parte per tutta la vita Gandhi non si stancò mai di mettere alla prova i suoi convincimenti per verificarne l'efficacia. Forse ai tedeschi è mancato il coraggio di uscire allo scoperto. Concordo con quanto scrisse Bruno Blau qualche anno dopo la vicenda: "Se un gruppo ristretto di donne è riuscito a dare una svolta positiva al destino dei propri mariti ebrei, così anche i numerosi tedeschi che ora si professano in massa avversari del nazismo, se solo lo avessero voluto, avrebbero potuto evitare quelle efferatezze che ora dicono di non aver condiviso e persino condannato".13 Un chiaro esempio di azione nonviolenta lo abbiamo con M. Luther King. Quando il giovane pastore nero per protestare contro la segregazione razziale incoraggiò i neri al boicottaggio degli autobus il successo della lotta fu enorme. Quei famigerati autobus con i sedili anteriori riservati ai bianchi e quelli posteriori ai neri finirono per circolare quasi vuoti. Lo stupore dei bianchi fu enorme. Molte furono le minacce che M. Luther King ricevette dai bianchi più oltranzisti. In quel clima di tensione ci fu anche chi fece esplodere una bomba davanti alla sua casa. Di fronte ad una così palese provocazione, che solo il caso volle che non ci fossero vittime, molti furono i neri che avrebbero voluto ricorrere ad una risposta dura e violenta. È nella risposta del potere che si può cogliere appieno il senso più vero dell'azione nonviolenta. Rivolgendosi pacatamente ai più esagitati M. L. King ricordò loro che avrebbero vinto se fossero rimasti fedeli alla lotta nonviolenta, che se avessero ucciso dei bianchi non avrebbero ottenuto nulla e che molti erano i bianchi che appoggiavano apertamente le loro lotte. Le autorità giudiziarie, il potere bianco, si trovarono disorientati perché nessuna accusa poté essere avanzata contro chi rifiutava apertamente la violenza. E così, dopo più di un 13 Bruno Blau, avvocato addetto alla preparazione delle statistiche per l'Unione nazionale degli ebrei in Germania, commentò l'episodio della Rosenstrasse in un articolo apparso tre anni dopo. Vedi: N. Shroder, Le donne che sconfissero Hitler, il Saggiatore, Milano 2001, p.34 anno di boicottaggio, il 10 novembre del 1956, la Corte Suprema degli Stati Uniti considerò discriminante la segregazione dei neri negli autobus, ribadendo l'uguaglianza di tutti i cittadini. Anche dopo il successo della dura campagna di lotta M. Luther King non si stancava mai di invitare i neri a non ferire o ridicolizzare i bianchi, ma a rispettarli, perché solo così avrebbero potuto avere il loro rispetto. È questo un chiaro esempio di azione nonviolenta. L'aggressività dei neri è stata risvegliata e canalizzata in forme di protesta organizzate, rispettose dell'avversario. Se quest'ultimo non viene ridicolizzato o peggio demonizzato, ma viene visto come persona è possibile mettere in atto comportamenti che non mirino alla sua distruzione. Lo scopo di un'azione di lotta nonviolenta è quello di far capire all'avversario che sta sbagliando e che non si hanno intenzioni ostili nei suoi confronti.14 Un altro punto cardine dell'azione nonviolenta è la volontà di cercare forme di compromesso che possano essere accettate da entrambe le parti in conflitto. Quando le parti in causa hanno la sensazione di avere trovato un accordo onorevole che procuri vantaggi a tutti è più probabile che si creino condizioni di pace più solide rispetto ad altri contesti conflittuali dove il processo di pace è la conseguenza dell'umiliazione e della sconfitta di una delle due parti attraverso l'uso della violenza. La storia insegna che prima o poi le ostilità riaffiorano violentemente, perché il rancore e l'odio sono energie che il trascorrere del tempo non sempre affievolisce. L'azione nonviolenta per essere incisiva, efficace non ha bisogno, allora, di frasi ostili, di insulti o slogan offensivi indirizzati alla controparte. Non è questa aperta aggressività che garantisce il successo nella lotta. Anzi. Queste espressioni, seppure giustificate in certi contesti di forte ingiustizia sociale e politica, possono nuocere, però, alla 14 Si veda, a questo proposito, il libretto di J. Semelin, nonviolenza spiegata ai giovani, Archinto, Milano, 2001 La forza dell'azione nonviolenta, in quanto offrono all' avversario il pretesto per giustificare la propria risposta violenta. È molto più difficile mantenere, in particolare in situazioni di forte tensione, un comportamento di autocontrollo, piuttosto che lasciarsi andare a reazioni istintive, verbali o fisiche che siano. Per essere in grado di resistere alla tentazione di lasciarsi andare ad espressioni, o peggio ad atti violenti, occorre una grande forza interiore, una profonda consapevolezza di quello che si sta facendo. È per questo che si dice che la nonviolenza non può essere improvvisata e che va, invece, appresa attraverso un lungo ed accurato addestramento. È importante, per esempio, capire che una campagna di lotta deve avere obiettivi precisi e concreti. M. Luther King con la sua protesta non mirava ad una generica uguaglianza tra bianchi e neri o a sradicare le istituzioni; più semplicemente aveva l'obiettivo di porre fine all' odiata discriminazione dei neri. L'azione nonviolenta ha bisogno di tutti, anche delle donne, dei vecchi, dei bambini. Purtroppo sono poco conosciuti quei casi in cui la lotta nonviolenta ha prodotto indiscutibili risultati. In modo troppo semplicistico si scarta, a volte, l'opzione nonviolenta, perché si ritiene che solo la violenza sia il mezzo più idoneo per garantire una rapida giustizia. Spetta, allora, ai nonviolenti convinti dimostrare agli scettici che esiste un altro modo di affrontare i problemi e che questa alternativa è più efficace della stessa violenza. Coloro che credono nella lotta nonviolenta non hanno difficoltà ad individuare, anche nel recente passato, eventi straordinari, classificabili come lotte nonviolente. Si pensi, ad esempio, a quanto è accaduto in Polonia nel 1980, dove dei lavoratori hanno osato opporsi al potere comunista scioperando ad oltranza nei cantieri navali di Gdank. Anche là dove le libertà civili sono fortemente limitate da un governo autoritario ci può essere spazio per una efficace lotta nonviolenta se, come in questo caso, chi protesta non sono tre persone, ma gli operai di un intero cantiere navale. Di fronte ad un dichiarato impegno degli operai che si dicevano disposti ad evitare ogni forma di violenza il governo si trovò disorientato, perché non trovava il modo di scaricare sugli scioperanti il peso di una brutale e collaudata macchina repressiva. Come giustificare di fronte al mondo intero un'eventuale brutale repressione verso gente del tutto aliena da qualsiasi comportamento violento? Quando si vengono a creare queste particolari situazioni anche il potere più cieco non può fare a meno del negoziato. Fu così che quei coraggiosi lavoratori videro riconosciuto il loro sindacato che chiamarono Solidarnosc. Quegli operai non avevano raccolto le provocazioni che a loro venivano rivolte dagli apparati repressivi, sapevano che avrebbero vinto solo se la protesta fosse rimasta pacifica e tale da poter raccogliere l'appoggio del popolo polacco. Creatività e conflitto Abbiamo visto come la violenza sia l'espressione di un approccio volgare al conflitto. Poiché non è ragionevolmente pensabile un mondo senza conflitti si comprende quanto sia importante acquisire un approccio alla realtà fronte alle aperto e rispettoso della diversità. Tendenzialmente problematiche riduce la mente di le possibilità di situazioni lettura a schemi interpretativi che, paradossalmente, si caratterizzano per una crescente questione. rigidità In con altre l'aumentare parole, più dell'insolubilità una risposta si della dimostra inadeguata a risolvere una situazione problematica più tendiamo a riproporla in modo schematico e rigido non comprendendo come possa, improvvisamente, rivelarsi efficace un approccio che ha già abbondantemente operativa. dimostrato tutta la sua debolezza Non riusciamo a capire che è proprio la risposta tentata, e riprodotta in modo stereotipato, a rendere insolubile il problema più che la sua complessità. Nelle gravi crisi che possono sorgere tra gli stati, riveste un ruolo importantissimo l'attività di mediazione di un Terzo che, godendo della fiducia di entrambe le parti, può aiutare i contendenti ad uscire dalle sabbie mobili di una rigida e pericolosa contrapposizione con il ristrutturare i termini del contenzioso in modo da offrire alle parti una nuova visione delle cose. Se si diventa consapevoli che non si ha mai a che fare con una realtà oggettiva, ma sempre con delle immagini della realtà, e che queste possono modificarsi, allora, si è spinti a ricercare creativamente delle soluzioni. Purtroppo, si tende, piuttosto che moltiplicare i punti di vista, a ridurli finché la mente si fissa su un'unica rappresentazione ritenuta la sola possibile. L'unicità delle rappresentazioni comporta in genere la fissazione su un'unica soluzione ritenuta, per la sua ragionevolezza, la sola idonea alla risoluzione del problema e davanti agli inevitabili insuccessi si è portati a riproporla con più insistenza ed enfasi. Di fronte ad una bottiglia riempita a metà c'è chi sarebbe portato a vedervi una bottiglia mezza piena e chi, invece. una bottiglia mezza vuota. Nell'esempio. largamente conosciuto per la sua indubbia efficacia, non si ha difficoltà ad ammettere che entrambe le prospettive sono corrette, ma se proviamo ad immaginare un conflitto determinato dal fatto che ognuno considera la propria interpretazione la sola possibile potremmo vedere i "contendenti" ostinatamente fermi sulle loro rigide posizioni sordi ognuno al punto di vista dell'altro. Di fronte a mille altre situazioni dimentichiamo, però, quanto ci pare così chiaro e ovvio nell'episodio della bottiglia e cadiamo nell'errore di ritenere oggettivo quanto da noi percepito. Fortunatamente noi abbiamo sempre a che fare con delle opinioni diverse della realtà piuttosto che con una realtà oggettiva che, se fosse tale, dovrebbe condurre tutti alle medesime conclusioni. Andiamo paradossale incontro quando, ad una chiudendoci vera al e propria dialogo, situazione opponiamo con sempre più rigidità la nostra verità a quella di un altro altrettanto dogmatico nel proporre la sua; invece di domandarci come possa essere possibile che l'altro, nonostante il nostro crescente coinvolgimento nel definire certa una situazione, non riconosca la validità della nostra soluzione, tendiamo a vedere sempre più grettezza e ostilità nell'atteggiamento di chi si rifiuta di prendere atto di come stanno effettivamente le cose. L'inefficacia della soluzione tentata dovrebbe condurre tutti a capire che non si ha a che fare con una realtà già data ma con delle interpretazioni che si possono moltiplicare a seconda della capacità creativa degli individui. I conflitti spesso rischiano di assumere esiti devastanti più che per la loro complessità per la povertà e fissità degli approcci tentati. Se si riesce a capire che la difficoltà nel risolvere un conflitto sta nella soluzione data più che nella sua effettiva insolvibilità allora verrà compiuto ogni sforzo in direzione di un accordo che possa pacificare le parti. Un operare creativo ci pare essere quello di Alessandro Magno, il quale tagliò con un colpo netto il nodo con il quale Gordio, re della Frigia, aveva legato il giogo al timone del suo carro. Costui, fattosi avanti per tentare un'impresa in cui tutti prima di lui avevano fallito e che, pertanto veniva considerata impossibile, sguainata la spada risolve con un colpo deciso il famoso enigma che voleva dominatore di tutta la terra chi fosse riuscito a scioglierlo. Alessandro con la sua geniale soluzione dimostrò che la solvibilità di un problema dipende dal modo in cui lo si vede. Se coloro che, prima di lui, si preoccupavano di sciogliere un nodo di fatto inestricabile, ponendo così a se stessi una limitazione che Gordio non aveva posto, Alessandro muovendosi nella prospettiva di separare il giogo dal carro, trova la soluzione al famoso enigma. Un altro famoso esempio che si presta efficacemente a comprendere le difficoltà in cui si cade nella risoluzione dei problemi è dato dal problema dei nove punti.15 . . . . . . . . . A chi si rende disponibile per la risoluzione del caso si chiede di collegare tutti i punti che si vedono tracciando quattro linee rette senza mai staccare la penna dal foglio. Quasi tutti coloro che tentano di risolvere il problema falliscono, perché pensano che la soluzione debba andare ricercata all'interno del quadrato, figura che si è portati a vedere ma che non viene data come condizione nella consegna. Ricostruendo la rappresentazione a tutti nota del quadrato ci si autoimpone problema. una Stando limitazione all'interno che rende della irrisolvibile figura del il quadrato occorreranno sempre cinque linee rette per collegare tutti i punti. I più; però, continuano a muoversi ostinatamente all'interno della figura nonostante i continui insuccessi, non rendendosi conto che è la soluzione tentata a rendere irrisolvibile il problema e non tanto la sua insolubilità. La soluzione del problema potrà arrivare solo se.. abbandoniamo l'ingannevole premessa della rappresentazione del quadrato per muoverci liberamente sui punti. 15 Si veda, a questo proposito, il libro di P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fisch, Change, Astrolabio, Roma 1974, pp. 29-42 Un conto è considerare le premesse (l'idea del quadrato), che arbitrariamente abbiamo inferito dalla disposizione dei punti, come reali ed immodificabili, un'altra cosa è rendersi conto che tali premesse, potendo essere vere solo nella misura in cui le abbiamo accettate, possono essere liberamente modificate. Essere consapevoli che non abbiamo mai a che fare con una realtà immodificabile ma con delle idee della realtà e che queste idee si possono, fortunatamente, trasformare ci porta a superare nelle relazioni con gli altri pericolose contrapposizioni che ostacolano una positiva risoluzione dei problemi. La creatività e il dialogo sono strettamente connessi. Mantenere aperta la via del dialogo con l'avversario vuol dire darsi del tempo perché si arrivi ad una felice ridefinizione della situazione che consenta di sbloccare il conflitto aprendolo a nuove prospettive di cambiamento. Un caso di ridefinizione Un mullah si stava dirigendo a dorso del suo cammello alla Mecca quando, giunto nei pressi di un'oasi vide tre uomini che piangevano. Fermatosi chiese che cosa era loro successo. Costoro dissero che, non molto tempo prima, era morto il loro amato padre e che aveva lasciato dei cammelli da dividersi secondo un criterio che loro non riuscivano a rispettare. Infatti, il padre nel testamento aveva stabilito che metà dei cammelli andasse al figlio maggiore, un terzo al secondo e un nono al più giovane. Il problema era che i cammelli da spartire erano 17 e non c'era verso da fare ritornare i conti a meno che non avessero diviso un cammello, cosa che si rifiutavano di fare amando molto quegli animali. Non sapendo cosa fare se ne stavano lì piangendo. Non c'è che dire, il buon padre li aveva messi davvero in una bella situazione. Il mullah seguiva, come assorbito dai suoi pensieri, le espressioni lamentose dei tre uomini, quando, improvvisamente, disse che avrebbe dato loro di buon grado il proprio cammello perché, così, ne avrebbero avuti 18 e non ci sarebbero stati più problemi nella divisione. Gli uomini increduli per tanta bontà rifiutarono il cammello, ma, dinanzi alla pacata determinazione dell'uomo, finirono per accettarlo. E cosi, dividendo 18 per 2, 9 cammelli andarono al figlio maggiore, 18 per tre, 6 al secondo, 18 per 9, 2 al terzo. Sommando i cammelli di ognuno, i fratelli si accorsero che questi erano 17. Rimaneva il cammello del mullah. Costui chiese ai tre fratelli se, ora, erano felici e se poteva riprendersi il cammello dal momento che risultava di troppo. I tre fratelli, pieni di riconoscenza e di stupore perché non avevano capito che cosa davvero fosse successo, gli consegnarono prontamente il cammello. Il mullah allora li benedisse montò sul cammello e scomparve rapidamente nel sole rosso del tramonto.16 A cura di Giuliano Segantini 16 L'episodio è raccontato da J. Galtung in La trasformazione nonviolenta dei conflitti, EGA, Abele, Torino 2000, p.39