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“La forza della nonviolenza” - Ghandi e dintorni

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“La forza della nonviolenza” - Ghandi e dintorni
La nonviolenza non è una rinuncia ad ogni lotta contro la
malvagità. Al contrario, la nonviolenza come la concepisco io è
una lotta contro la malvagità ancora più attiva e più vera
della
rappresaglia,
la
cui
reale
natura
è
quella
di
fare
aumentare la malvagità. Quella che mi propongo è un’opposizione
mentale e perciò morale all’immoralità. Cerco di spuntare il
filo della spada del tiranno non levandogli contro un’arma
ancora più affilata, ma frustando la sua aspettativa di vedermi
opporre
resistenza
fisica.
Offrendogli
la
resistenza
dell’anima, non posso che confonderlo. Sulle prime ne resterà
sconcertato, poi, alla fine, si sentirà spinto ad un’intesa che
non lo umilierà, ma lo solleverà.
M. K. Gandhi
La forza pacificatrice della
nonviolenza
Generalmente per nonviolenza si intende il non ricorrere,
nelle situazioni conflittuali, a comportamenti violenti.
Nell’accezione comune questo termine ha il significato di
una semplice astensione dalla violenza.
In questo contesto la nonviolenza viene ad identificarsi
come
un
comportamento
profondamente
nelle
passivo,
realtà
non
in
grado
sociali
di
più
incidere
fortemente
contrassegnate dalla ingiustizia.
Forse è perché la violenza ha accompagnato il cammino
dell’uomo lungo tutto il suo percorso evolutivo marcando i
processi
di
trasformazione
sociale,
economico-culturale
se
nell’immaginario collettivo la violenza assume il senso di una
inevitabile
situazioni
realtà
di
ogni
forte
qual
contrasto
volta
sia
si
a
vengono
livello
a
creare
personale,
gruppale, etnico, che tra stati.
Ma la violenza sarebbe solo uno dei modi per risolvere una
situazione conflittuale. Con il ricorso ad essa si intende
eliminare colui che viene percepito come nemico, e, quindi,
come responsabile del conflitto.
Secondo Lanza del Vasto, invece, ci si può relazionare
nelle
situazioni
conflittuali
attraverso
cinque
diverse
modalità comportamentali: la neutralità, lo scontro, la fuga,
la resa e la nonviolenza.1 Dei cinque modi per affrontare un
conflitto, generalmente, ci si tende a muovere all’interno dei
primi quattro, perché della nonviolenza si ha un’idea negativa
venendola
ad
identificare
come
un
semplice
comportamento
passivo. Vedremo, invece, come la nonviolenza si ponga, a tutti
1
Lanza del Vasto, Che cos’è la nonviolenza , Jaca Boock, Milano 1978
p. 12, in: J. Semelin, Per
uscire dalla violenza, Abele, Torino
1985, p. 108
gli
effetti,
come
una
possibile
valida
alternativa
alla
violenza nella risoluzione dei conflitti.
Colui che crede nell’efficacia della nonviolenza non ha,
comunque,
una
posizione
pregiudiziale
nei
confronti
della
violenza, in quanto potrebbero venirsi a creare situazioni tali
da renderla necessaria e, quindi, giustificabile.
E, infatti, c’è violenza e violenza; non tutte le forme di
violenza sono uguali. Dobbiamo mettere sullo stesso piano la
violenza
di
un
imprenditore
senza
scrupoli
che
utilizza
manodopera infantile per trarre il massimo guadagno dalla sua
attività ed una eventuale ribellione di questi bambini che
presi dalla rabbia arrivassero a dare fuoco alla sua auto o a
minacciarlo? La ribellione di un popolo sottomesso può assumere
le
forme
di
una
lotta
armata
verso
il
paese
che
lo
sta
dominando, ma questa violenza è dello stesso tenore di quella
esercitata dallo stato invasore? È sacrosanto il diritto di una
persona, di un popolo al riscatto della propria dignità e se il
ricorso alla violenza mette in atto un processo di liberazione
è auspicabile che questa scelta venga fatta. La passività può
essere segno di codardia e, allora, è di gran lunga preferibile
una scelta coraggiosa che metta a rischio la propria vita.
Gandhi, a questo proposito, è stato esplicito. Sia nei
rapporti interpersonali, sia nei rapporti tra sudditi e stato
non ha avuto dubbi nel consigliare caldamente la violenza
quando l’alternativa fosse stata la codardia. "Credo che nel
caso
in
cui
l’unica
codardia
e
la
esempio,
quando
scelta
violenza,
mio
io
figlio
possibile
fosse
consiglierei
maggiore
mi
quella
la
tra
la
violenza.
Ad
chiese
quello
che
avrebbe dovuto fare se fosse stato presente quando nel 1908 fui
aggredito e quasi ucciso, se fuggire e vedermi uccidere oppure
usare la sua forza fisica, come avrebbe potuto e voluto, e
difendermi,
io
gli
risposi
che
sarebbe
stato
suo
diritto
difendermi anche facendo ricorso alla violenza. In base a
questo stesso principio ho partecipato alla guerra contro i
boeri,
alla
cosiddetta
ribellione
degli
zulù
e
all’ultima
guerra.[...] Preferirei che l’India ricorresse alle armi per
difendere
il
suo
o
rimanesse
divenisse
disonore.”
onore
piuttosto
testimone
che,
in
modo
impotente
del
codardo,
proprio
2
In un’altra occasione così si espresse: “... Tuttavia,
sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per
autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di
coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione”3.
C’è, quindi, una violenza disumana, brutale che genera
ogni sorta di soprusi e di ingiustizie in chi la subisce e c’è
la violenza degli oppressi come risposta in difesa del proprio
onore. C’è la violenza, silenziosa ma devastante, delle grandi
multinazionali che, pur di fare crescere i loro profitti, non
esitano a calpestare i più elementari diritti dei lavoratori
dei
paesi
poveri,
in
stretto
connubio
con
governi
antidemocratici e corrotti, e vi è la violenza di chi cerca
attraverso la lotta armata la libertà del proprio popolo.
La violenza, però, pur trovando una sua giustificazione in
determinati
l’importanza
contesti,
che
rischia
vengono
ad
di
stravolgere
acquisire
i
i
mezzi.
fini
In
per
tale
prospettiva la pratica della violenza potrebbe divenire una
costante della pratica politica segnando profondamente il nuovo
ordine politico e sociale.
Come dice Hannah Arendt: “La pratica della violenza, come
ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è
verso un mondo più violento”4.
Gandhi, pur giustificando il ricorso alla violenza in
determinati contesti, la considera, però, moralmente cattiva,
in quanto non si può pensare, ad esempio, di costruire una
condizione di maggiore giustizia sociale alimentando l’odio
verso la controparte e cercando di colpirla provocandole quanta
2
M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza , Einaudi, Torino.
1973, pp. 18, 19
3
Ivi, p.22
4
H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996, p.88
più sofferenza possibile. Gandhi ha mostrato al mondo che
esiste una lotta senza distruzioni e uccisioni.
A chi gli obiettava che poteva essere lecito il ricorso
alla violenza se il fine che ne giustificava l’impiego era
buono, Gandhi rispondeva che piantando della gramigna non si
otteneva una rosa e che tra i mezzi e fini vi era lo stesso
inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero.
È merito suo se l’India è arrivata all’indipendenza dal
dominio inglese solo con le armi della nonviolenza. Il nemico
non
è
stato
demonizzato,
non
si
è
alimentata
una
cultura
dell’odio; i soldati inglesi non sono stati bersagliati con
slogan offensivi, ma trattati con rispetto e cortesia.
Accogliere su se stessi tutta la sofferenza che l’azione
dell’altro determina costituisce, per Gandhi, l’essenza della
nonviolenza. Non l’offesa, quindi, verso l’altro per arrecargli
danno e sofferenza, ma il renderlo partecipe delle pene da lui
causate può aprirgli il cuore e renderlo consapevole della sua
azione.
Quello
della
sofferenza
volontaria
è
un
aspetto
fondamentale dell’azione nonviolenta, per il forte impatto che
questa ha nell’avversario e nell’opinione pubblica.
Il digiuno è l’espressione più elevata della sofferenza
volontariamente assunta, perché il nonviolento rigettando, con
questa scelta, l’uso della violenza si presenta come vittima
innocente. Questo comportamento spiazza del tutto l’avversario
abituato com’ è a doversi difendere ed attaccare; la vittima,
accogliendo su di se tutta la sofferenza per l’ingiustizia
subita, si mostra all’avversario privo di sentimenti ostili.
Viene in questo modo ribaltata la rozza logica della violenza
che, costruendo essa stessa l’idea del nemico, vede nella sua
eliminazione
fisica
la
sola
modalità
di
risoluzione
del
conflitto.
Certo, nello scenario della lotta politica non è molto
frequente imbattersi in persone che, invece di colpire l’altro,
venendo così incontro alle attese dell’immaginario collettivo,
pongono deliberatamente delle sofferenze a se stesse con il
rischio della stessa vita.
La vittima e il persecutore: la Lucia de “I promessi sposi”
Lucia,
nei
Promessi
sposi,
rappresenta
in
modo
significativo il personaggio della vittima sacrificale fatta
oggetto di persecuzione da parte del potere personificato da
don Rodrigo.
rapita
per
lettore
Quando Lucia, su ordine di quest’ultimo, viene
essere
viene
condotta
investito
al
dalla
castello
dell’Innominato
sofferenza
di
questa
il
povera
vittima innocente e prova verso di essa una profonda pietà.
Dopo
il
terrore,
l’angoscia
e
la
perdita
dei
sensi
iniziali, Lucia, ritornata in sé, prega e supplica i suoi
rapitori di lasciarla andare. “... Cosa v’ho fatto di male io?
Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che
m’avete fatto voi ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per
voi. Se avete anche voi una figlia, una famiglia, una madre,
pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato.
Ricordatevi
che
dobbiamo
morire
tutti,
e
che
un
giorno
desidererete che Dio vi usi misericordia...”. Quei rozzi e
violenti soldati possiamo immaginarli nell’ atto di rassicurare
con
parole
per
loro
inusitate
quella
povera
giovane
e
trattenerla facendo uso solo della forza necessaria perché
Lucia non si getti fuori dalla diligenza. Quei bravi, avvezzi a
ben altre imprese, c’è da credere che avrebbero dato chissà che
cosa
por
di
trovarsi
indaffarati
in
operazioni
ben
più
rischiose.
Paradossalmente, i rapitori si trovano nella condizione di
dovere consolare chi è stato fatto oggetto della loro violenza
e il lettore attento riesce a cogliere in quegli animi induriti
da
un
lungo
esercizio
della
violenza
il
barlume
di
una
indistinta pietà. Alle accorate implorazioni di Lucia che li
supplica
di
lasciarla
andare
non
prima,
però,
di
averli
invitati a pensare quello che avrebbero patito se un loro
congiunto si fosse trovato nello stato in cui, ora, si trova
lei, quegli uomini duri e rozzi non trovano altre parole se non
un perentorio: “Non possiamo”.
Solitamente, da chi è fatto oggetto di violenza ci si
attende una risposta reattiva più o meno rabbiosa a seconda
della
forza
della
controparte,
ma
è
proprio
questo
atteggiamento di resistenza che impedisce al carnefice di fare
esperienza della violenza da lui stesso messa in atto verso la
vittima. Lucia, perdonando di cuore i suoi rapitori per quello
che le hanno fatto, li mette in grande difficoltà perché,
spiazzati, non possono ricorrere a quelle che sono le loro
abituali risposte.
In base a questo rovesciamento la vittima salva i propri
persecutori; l’animo duro e grossolano dei rapitori conosce,
forse per la prima volta, una specie di intenerimento e di
umana pietà che li avrebbe certamente portati a liberare la
vittima innocente se non avessero, poi, dovuto rendere conto
del proprio operato al malvagio mandante.
Di questo trambusto interiore provato dai bravi ce ne
parla,
poco
assistiamo
più
avanti
all’arrivo
nel
al
racconto,
castello
il
Manzoni,
dell’Innominato
laddove
della
carrozza.
“Ebbene?” disse l’Innominato.
“Tutto a un puntino,” rispose, inchinandosi, il Nibbio:
“l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo
solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi,
nessuno incontro: ma...”
“Ma che?”
“Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che
l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena,
senza sentirla parlare, senza vederla in viso".
“Cosa? cosa? che vuoi tu dire?”
“Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo...
M’ha fatto troppa compassione”.
“Compassione!
Che
sai
tu
di
compassione?
Cos’è
la
compassione?”
“Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una
storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia
prendere possesso, non è più uomo”.
“Sentiamo un poco come ha fatto costei per muoverti a
compassione”.
“O signore i1lustrissimo! Tanto tempo...! O piangere,
pregare, e fare cert’occhi e diventar bianca bianca come morta,
e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole ...”
Manzoni, con la drammatica vicenda del rapimento di Lucia
e con il rapporto che ne fa il Nibbio all’Innominato, offre al
lettore, come motivo di profonda riflessione, uno dei motivi
più elevati della religione cristiana.
È noto che della violenza intenzionalmente arrecata ad una
vittima procuri una certa ripugnanza in chi la esercita se lo
spazio
che
separa
la
vittima
dal
carnefice
è
tale
che
quest’ultimo assista a tutta la sofferenza patita da quella. Ma
la distanza in se non basta per avviare un cambiamento nel
carnefice; occorre che la vittima si disponga ad un particolare
atteggiamento
verso
quest’ultimo
visto
come
colui
che
sta
sbagliando e che può essere rieducato e salvato. E, infatti,
sono “quelle certe parole ...” (dette da Lucia, ma che il
Nibbio, però, non riferisce all’Innominato) ad infrangere il
comportamento stereotipato del bravo e a fargli sorgere quel
sentimento di pietà, misto al desiderio di alleviare que11e
sofferenze di cui lui stesso è responsabile.
Quando Lucia si trova al cospetto delI’Innominato non sa
di avere a che fare con un uomo da tempo lacerato da una
profondo
disagio
esistenziale.
La
presenza
di
Lucia
nel
castello potrebbe rendere vani tutti quei tentativi fatti per
arginare una crisi che si va, di giorno in giorno, facendo
sempre più devastante. Per questo si pente di essersi impegnato
in quell’impresa e si preoccupa di liberarsi al più presto
della giovane. Ma nel frattempo un pensiero ostinato gli occupa
la mente. Non è possibile che uno come il Nibbio, rozzo e
volgare, sia stato capace di provare compassione per una povera
fanciulla. Cosa può avere detto o fatto costei per muoverlo a
compassione? Ormai è deciso a vederla, anzi vuole incontrarla
subito,
abituato
com’è
a
mettersi
alla
prova
con
un
atteggiamento di sfida. Trovatasi di fronte all’Innominato
Lucia lo supplica di lasciarla andare perché essendo una povera
creatura non può avere commesso nulla di male.
“Cosa le ho fatto io? ... Sono una povera creatura: cosa
le ho fatto? ... Mi lasci andare; per carità mi lasci andare!
Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir
tanto una povera creatura... Perché lei mi fa patire? Mi faccia
condurre in una chiesa: pregherò per lei, tutta la vita... Se
lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà
morire, e per me sarà finita; ma lei! ...Forse un giorno anche
lei... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi
da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a
patir queste pene... !”
Quanto avrebbe desiderato l’Innominato che quella giovane
fosse stata la figlia di qualche suo acerrimo nemico o di uno
di quei vili che avrebbero voluto vederlo morto! E, invece, si
trova davanti una povera fanciulla innocente che nulla ha fatto
da rendere giustificabile il suo stato di prigionia.
La fede profonda di Lucia produce, in questo contesto, un
singolare
pregherà
paradosso.
per
lui
per
La
vittima
tutta
la
dice
vita
all’Innominato
perché
il
Signore
che
lo
preservi da ogni male e lo invoca, con pacata e rassegnata
afflizione,
affinché
si
cali
per
un
momento
nella
sua
condizione per provare quella pena e quella sofferenza che la
tormentano.
Nelle
parole
di
Lucia
non
c’è
alcun
segno
di
rancore; la vittima si limita a proclamare la propria innocenza
invocando la misericordia di colui che ingiustamente la tiene
segregata.
Nella logica della violenza, rozza ed elementare, ognuna
delle parti giustifica la propria risposta violenta in base
alla
risposta
meccanismo
dell’altro,
autoreferenziale
innescando,
che
così,
conduce,
per
un
perverso
la
tensione
raggiunta, alla distruzione del sistema. Come si vede, in
questo contesto, non c’è spazio per il dialogo, per il rispetto
dell’altro, inteso come persona, e il conflitto si intende
risolto nella misura in cui una delle due parti riesce a
sopprimere l’altra. Anche laddove il conflitto assume caratteri
particolari, in quanto vede contrapposti un carnefice e una
vittima,
assistiamo,
generalmente,
in
quest’ultima
ad
un
comportamento che esprime odio e rancore verso chi si ostina a
non credere nella sua innocenza.
L’Innominato, preso commiato dalla vittima, è assalito da
un groviglio di pensieri che lacerano un animo già sofferente.
Manzoni
descrive
in
modo
efficace
questa
terribile
lotta
interiore che conduce l’Innominato ad afferrare una pistola per
porre fine ad una vita diventata insopportabile. E mentre
s’immaginava, assorto in tormentose contemplazioni, che cosa
sarebbe accaduto nel castello alla notizia della sua morte
“andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del
pollice, il cane della pistola”. Una disperazione ancora più
nera cala sul suo martoriato animo quando al pensiero che
quell’altra vita sia un’invenzione dei preti ne fa seguito un
altro che non esclude che la vita possa avere una prosecuzione
dopo
la
morte.
E
“mentre
stava
con
le
mani
nei
capelli,
battendo i denti, tremando... gli tornarono in mente quelle
parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio
perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”
Quelle
parole
procurano
a
quell’anima
tormentata
ed
afflitta un improvviso ed inaspettato sollievo e nella sua
mente Lucia appare non più come sua prigioniera “ma in atto di
chi dispensa grazie e consolazioni”. E, così, quell’incontro
fortemente voluto dall’Innominato per mettere alla prova la
propria durezza d’animo, la sua insensibilità verso gli strilli
e le concitate suppliche di una donna disperata acquista, come
per incanto, il senso di una salvifica trasformazione. Ora
l’Innominato aspetta con ansia l’arrivo del giorno per correre
da Lucia e liberarla e “sentire dalla bocca di lei altre parole
di refrigerio e di vita”. E nella frenesia per una ritrovata
vita, che solo poco prima pareva irrimediabilmente perduta,
immagina di essere lui stesso ad accompagnare Lucia dalla
povera madre.
Il
prosieguo
della
storia
è
noto.
Da
quel
giorno
l’Innominato darà una svolta profonda alla propria vita; quel
coraggio sprezzante di ogni pericolo, quella volontà forte e
determinata,
non
più
alleati
della
violenza,
ma
messi
al
servizio di più nobili idee, serviranno la pace e il bene degli
altri.
Gli scettici, coloro che pregiudizialmente non credono al
potere della nonviolenza, potrebbero dire che in questi casi
scatta l’istinto di sopravvivenza e che il comportamento di
Lucia non è altro che un tentativo inconsapevole e disperato di
avere salva la vita; in altre parole, quando si vede sfuggire
la propria vita si è disposti a tutto pur di conservarla.
Con questa diversa lettura, le suppliche accorate di
Lucia,
quell’invocare
angoscioso
la
misericordia
dell’Innominato non sarebbero altro che l’espressione di un
animo pavido in preda di una incontrollabile paura. E ciò che
noi avevamo indicato come uno degli aspetti più elevati della
nonviolenza scade, in questa ottica, ad un miserevole e poco
dignitoso tentativo di sfuggire ad una possibile morte.
Del caso Lucia, paradossalmente, gli scettici potrebbero
servirsene per sostenere punti di vista diametralmente opposti
e screditare la nonviolenza della sua pretesa di risolvere
pacificamente i conflitti. Costoro, però, non conducono avanti
la riflessione e, credendo di avere individuato il punto debole
della nonviolenza proprio là dove i nonviolenti si sforzano di
dimostrarne la funzione pacificatrice e salvifica, finiscono,
paradossalmente,
per
mettersi
nella
condizione
di
non
comprendere gli effetti rivoluzionari. Ma, fortunatamente, la
nonviolenza continua ad esprimersi nella storia nonostante gli
scettici.
Dicevamo che se i dubbiosi conservassero un atteggiamento
più aperto e meno pregiudiziale non avrebbero difficoltà a
scorgere
in
Lucia
un
animo
puro,
limpido
e
sincero;
quel
pregare per il persecutore, perché Dio lo conservi da ogni
male, nasce da una fede profonda, da un genuino desiderio per
il bene di una persona che, in questo caso, necessita del
soccorso della grazia divina. Dal punto di vista di Lucia chi
ha
bisogno
di
aiuto
è
l’Innominato
e
questo
traspare
chiaramente dal suo atteggiamento, coerente con la sua storia
di giovane onesta e virtuosa.
Abbiamo
sostenuto
che
un
aspetto
fondamentale
della
nonviolenza è il coraggio; ebbene, anche questo non manca a
Lucia. In passato la giovane ha dimostrato in più occasioni di
averne, come quando, ad esempio, ha urlato a Renzo che non
sarebbe
stata
mai
sua
moglie
se
avesse
cercato
difarsi
giustizia da solo ammazzando don Rodrigo o quando, sul finire
del racconto, si mostra ostinata nell’essere fedele ad un voto
che solo l’intervento provvidenziale di padre Cristoforo riesce
a sciogliere.
Lucia, quindi, non è una giovane pavida o, come qualcuno
potrebbe essere portato a pensare, codarda; è, invece, mia
donna forte, sorretta da solidi principi che la conducono anche
al supremo sacrificio se questo fosse necessario. E, difatti,
quando, rinchiusa in una stanza del castello, riceve la visita
dell’Innominato, dopo che costui, con voce tonante e sdegnata
torna a comandarle di alzarsi, dopo averle detto una prima
volta
di
alzarsi
da
una
posizione
rannicchiata
che
aveva
assunto in un cantuccio, Lucia si mette in ginocchio e dopo
avere congiunto le mani in atto di preghiera, alza gli occhi al
viso di costui e, riabbassandoli subito, con un tono che lascia
trasparire una risoluta volontà dice di essere pronta per
essere ammazzata.
Se
Lucia,
nella
gravità
della
situazione,
mentisse
cercando di dissimulare l’odio e il rancore (sentimenti che lei
poteva
ragionevolmente
provare
verso
chi
la
teneva
ingiustamente in uno stato di prigionia) con il fingere una
premurosa sollecitudine verso il futuro di un uomo che le era
nemico, c’è da credere che la finzione sarebbe smascherata e
che
la
risposta
dell’Innominato
sarebbe
dura
e
severa,
compromettendo quel processo di crisi che da tempo si era
avviato dentro di lui. La sincerità è una qualità fondamentale
di una personalità nonviolenta; chi interagisce con una persona
limpida, sente l’onestà e la purezza di questa e ne viene
positivamente coinvolto.
La funzione mediatrice del Terzo
Vorrei riportare, ora, due bellissimi episodi; a parlarne
è Rene Girard nel libro: “Vedo satana cadere come la folgore”.5
La città di Efeso era infestata da una terribile epidemia
di peste e a nulla erano serviti i tentativi dei suoi abitanti
per
liberarsene.
Disperati,
i
cittadini
si
rivolsero
ad
Apollonio di Tiana celebre per i suoi miracoli. Costui, giunto
ad Efeso in men che non si dica, rassicurò subito gli abitanti
che avrebbe debel1ato il giorno stesso quel terribile flagello.
Condotta
la
popolazione
al
teatro,
dove
risiedeva
l’immagine del dio protettore della città, si guardò attorno
finché
il
suo
sguardo
non
cadde
su
un
vecchio
e
povero
mendicante; vestito di stracci e sporco. Il poveraccio per
indurre a pietà i passanti andava furbescamente strizzando gli
occhi come se fosse cieco. Apollonio, chiamati attorno a se i
cittadini, li sollecitò a raccogliere più pietre possibile per
scagliarle contro quel poveraccio, visto come nemico degli dei.
Il mendicante, sentendosi minacciato di morte, supplicava
e implorava gli Efesi di lasciargli salva la vita e di avere
pietà. I cittadini non capivano il comando rivolto a loro da
Apollonio
ed
erano
fortemente
turbati
all’idea
di
dovere
uccidere un uomo miserevole e che per di più non aveva commesso
nulla contro di loro. Di fronte alla loro riluttanza Apollonio
spronò, con ancor più enfasi, i cittadini al lancio delle
pietre.
Chi li spingeva così ostinatamente a volere la morte di un
vecchio
mendicante
non
era
una
persona
qualunque
ma
un
personaggio che aveva fama di compiere grandi miracoli e che
loro avevano chiamato per vincere la terribile peste. Appena
qualcuno
si
convinzione!)
5
azzardò
a
(possiamo
lanciare
le
prime
immaginare
pietre,
il
con
quale
mendicante
R. Girard,
Vedo satana cadere come la folgore
, Adelphi, Milano
2001. Vedere il capitolo : L’orrendo miracolo di Apollonio di
Tiana,pp.75-89
sprigionò verso i lapidatori tutto il suo odio e rancore
attraverso uno sguardo ostile e rabbioso, mostrando ai presenti
occhi pieni di fuoco. Gli Efesi videro l’inganno in cui erano
caduti e, presi da un’ira convulsiva, lanciarono così tante
pietre da formarne, su quello che credevano essere, ora, un
demone, un vero e proprio ammasso.
Questo fatto mi pare estremamente interessante, perché
offre la possibilità di riflettere sui comportamenti collettivi
che si possono innescare in particolari condizioni sociali e
politiche.
René
scrittore
Girard
greco
riporta
questo
Filostrato,
a
episodio,
conferma
ripreso
del
suo
dallo
modello
esplicativo del meccanismo del capro espiatorio. La città di
Efeso
era
attraversata
da
profonde
tensioni,
bastava
che
qualcuno, dotato di una certa intelligenza e carisma, avesse
individuato in un elemento socialmente fragi1e il responsabile
della crisi interna che la violenza delle varie fazioni si
sarebbe coalizzata e scaricata, attraverso la lapidazione,
sulla povera vittima designata.
Apollonio, in questo, sarebbe stato un maestro, in quanto
riesce ad innescare un contagio mimetico tale da condurre i
cittadini di Efeso a scaricare la loro bramosia di violenza su
un uomo derelitto. Una volta appagata la sete di violenza gli
Efesi si sentono come risollevati e scoprono con meraviglia che
la terribile epidemia è sparita.
Gli
mendicante
Efesi
dallo
sentono
sguardo
di
non
essersi
rabbioso
era
sbagliati,
proprio
un
quel
demone
responsabile dei contrasti e delle angustie che attraversavano
la città. La lapidazione, allora, ha del miracoloso, in quanto
mette improvvisamente fine ad una crisi dagli esiti rovinosi
per la comunità.
Quando si creano tali particolari contesti può essere
impossibile frenare la violenza.
Quando il Terzo assume i tratti di una persona influente e
carismatica sulla comunità è inevitabile che una eventuale
vittima da lui designata come responsabile della crisi venga a
trovarsi nella difficile situazione di non potere evitare la
collera di una collettività assetata di violenza.
Il
ruolo
del
Terzo,
in
un
contesto
di
crisi,
è
fondamentale per la mediazione che può svolgere tra le parti in
conflitto. Apollonio di Tiana era al corrente di quello che
stava accadendo all’interno della città di Efeso, sapeva che la
città era tormentata da profondi contrasti “suscettibili- come
scrive René Girard- di scaricarsi su quello che noi chiameremo
un capro espiatorio” e proprio per questo suscita un contagio
violento che può essere appagato solo con l’individuazione di
un soggetto socialmente fragile su cui scaricare la collera di
una collettività avida di violenza.
Non c’è dubbio che la vittima designata si venga a trovare
in una difficilissima situazione. Il povero mendicante resta
annichilito al sentire l’incitamento che Apollonio fa agli
Efesi perché lo uccidano con il lancio delle pietre. Non gli
resta, allora, che implorarli e supplicarli di avere pietà per
un povero cieco che nulla di male può avere commesso. Nella
sorpresa e nel turbamento degli Efesi per la ferma esortazione
con cui Apollonio li spingeva all’uccisione di una povera
vittima
innocente
cogliamo
quella
spontanea
e
naturale
avversione per il male portato verso esseri indifesi che nulla
hanno fatto per poterlo giustificare.
Il povero mendicante avrebbe avuto salva la vita, perché
gli Efesi rifiutavano l’idea di dovere lapidare una persona
miserevole e innocente e che per di più aveva suscitato in loro
un
umano
sentimento
di
pietà.
Di
fronte
alle
ripetute
insistenze di Apollonio che incitava con tono fermo a scagliare
pietre sul povero malcapitato possiamo immaginare gli Efesi
turbati da un vero e proprio dilemma. Se avessero lanciato dei
sassi, così come veniva loro intimato di fare, avrebbero dovuto
affrontare un forte senso di orrore e di ripugnanza per del1e
sofferenze
inflitte
ad
una
vittima
che
sapevano
essere
innocente; se, invece, si fossero rifiutati di lanciare le
pietre, per la pietà che era stata in loro destata, avrebbero
disatteso i suggerimenti di chi avevano di proposito chiamato
per debellare l’epidemia, e che sapevano per fama essere un
uomo al di fuori del normale e capace di grandi miracoli.
C’è da credere che lo spazio intercorso prima che qualcuno
si decidesse a lanciare la prima pietra sia stato per gli Efesi
infinito per la natura ansiogena del conflitto, cosicché quando
qualcuno si è deciso, rompendo gli indugi, a raccogliere e
lanciare
la
prima
pietra,
la
comunità
ha
come
tratto
un
profondo sospiro di sollievo.
Come dice giustamente René Girard “La prima pietra è
decisiva perché è la più difficile da scagliare”.6
Quel primo lancio, quindi, anche se ce lo aspettiamo poco
deciso e sicuramente impreciso, costituisce un modello mimetico
per i cittadini, tanto è vero che il secondo non tarda ad
arrivare e il terzo, potendo disporre di ben due model1i,
arriva assai rapidamente.
E quando il povero mendicante, vistosi perduto, rinuncia
alla finzione della cecità per rivolgere agli Efesi uno sguardo
bieco e pieno di odio con occhi iniettati di sangue, costoro
sono indotti a vedere nella vittima quel ripugnante demone che
Apollonio chiede a loro di vedere, quel demone responsabile di
quella terribile peste che tanti danni e disagi ha seminato
nella città. E, allora, il lancio delle pietre si fa così
rabbioso, per la bramosia di violenza che si era impadronita
dei loro animi, che non ha termine prima che il corpo dello
sventurato non è stato ricoperto da un ammasso di sassi.
Quando una vittima è stata designata e opportunamente
demonizzata da parte di un Terzo che gode agli occhi della
comunità di indubbio ascendente e prestigio, per lei non c’è
scampo. Le forze in campo sono squilibrate troppo a sfavore
della vittima che assurge al ruolo di un vero e proprio capro
espiatorio.
Lo sventurato mendicante era riuscito nel suo intento di
suscitare pietà, compassione negli abitanti di Efeso ed era
tutto
6
ciò
Ivi,p.83
che
ragionevolmente
ci
si
poteva
aspettare
che
potesse fare in un simile contesto. Purtroppo, questo non gli è
bastato per poter avere salva la vita. Anche se avesse scelto
di conservare la finzione della cecità fino in fondo, scartando
la scelta dell’odio verso i suoi oppressori in favore di una
umana pietà e commiserazione verso coloro che riteneva stessero
sbagliando, per il povero straniero non ci sarebbe, comunque,
stato scampo. Una volta lanciata la prima pietra, altre, per
effetto del contagio mimetico, ne sarebbero arrivate.
Il secondo fatto riportato da René Girard è quello famoso
dell’adultera che Gesù salva da una sicura lapidazione.
Gli scribi e i Farisei gli conducono allora una donna
sorpresa
in
adulterio
e,
postala
in
mezzo,
gli
dicono:
“Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio.
Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne del
genere. Tu che ne dici?” Dicevano questo per metterlo in
trappola, e avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise
a
scrivere
con
il
dito
per
terra.
E
poiché
insistevano
nell’interrogarlo, rialzò il capo e disse loro: “Chi di voi è
senza peccato, scagli contro di lei la prima pietra!”. E,
riabbassato il capo, scriveva per terra. Ma quel1i, udito ciò,
se ne andarono uno per uno, iniziando dai più vecchi, fino agli
ultimi; rimase solo Gesù con la donna posta nel mezzo. Allora
Gesù, alzatosi, le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha
condannata?” “Nessuno, Signore” essa rispose. E Gesù le disse:
“Nemmeno io ti condanno. Va’ e da adesso non peccare mai più”(Giovanni, 8, 3-11).
In questo episodio le parti in causa ricoprono ruoli
differenti rispetto al racconto precedente. Infatti, la folla è
inferocita e ostinata a fare giustizia secondo la Legge, la
vittima designata per la lapidazione è stata colta in flagrante
adulterio e il Terzo, Gesù, si assume, in questo contesto, il
non facile ruolo di pacificatore e di salvatore della vittima.
La folla è in preda ad una bramosia di violenza e si
accosta a Gesù più per metterlo in difficoltà ed accusarlo che
per avere un suo autorevole giudizio riguardo a quello che si
accingeva a fare.
Invece, nell’episodio precedente, è Apollonio che raduna
attorno a se gli Efesi e che li incita a colpire il demone che
si nasconde sotto le sembianze di un miserabile mendicante.
Gesù, in una così critica situazione che lo avrebbe potuto
portare a condividere la stessa sorte dell’adultera, sceglie il
silenzio e, chinatosi, si mette a scrivere con il dito per
terra. La folla, scorgendo in questo atteggiamento un segno di
una insormontabile difficoltà e ritenendo di avere messo Gesù
alle corde lo incalza con più enfasi con le stesse precedenti
domande. Gesù, allora, sollevando lentamente il capo, con tono
pacato, invita i presenti a lanciare le pietre a condizione,
però, che chi lo avesse fatto fosse stato senza peccato. La
risposta di Gesù mette in grave difficoltà la folla, perché non
dice loro di non lanciare le pietre ma di farlo a condizione
che fossero stati senza peccato. In questo modo Gesù costringe
i
presenti
ad
un’immediata
riflessione
che
li
conduce
ad
identificarsi con quell’adultera colpevole di avere infranto la
Legge e che per questo volevano punire con la morte.
René Girard vede in quel chinarsi a terra di Gesù il
tentativo di evitare lo sguardo di chi aveva l’animo oscurato
dalla sete di violenza. In quell’atmosfera sovreccitata, Gesù
decide di non scendere sullo stesso piano dei giustizieri,
evita i loro sguardi sinistri e mantiene un tono di voce
pacata.
Se Gesù, dice Girard, avesse mantenuto il suo sguardo
fermo negli occhi rabbiosi di quegli uomini particolarmente
eccitati, costoro vi avrebbero visto riflessa la loro stessa
collera e si sarebbero sentiti provocati. Gesù evita di offrire
ai presenti il benché minimo pretesto che possa indurli ad
accettare una sfida che li avrebbe condotti a mettere in atto
il loro fermo proposito. La sfida di Gesù avviene su un piano
diverso: si pone a difesa della vittima e la vuole salvare da
una sicura lapidazione, evitando tutto ciò che può apparire
agli
occhi
di
provocazione.
quegli
uomini
un
benché
minimo
accenno
di
Gesù è consapevole della difficoltà dell’impresa e sa che
se non fosse riuscito nel suo intento di fare riflettere la
folla avrebbe potuto trovarsi a fianco dell’adultera e fare la
sua stessa fine. Ma dopo che Gesù ha pronunciato pacatamente la
frase: “Chi di voi è senza peccato, scagli contro di lei la
prima pietra” nessuno trova il coraggio di lasciare quella
prima
pietra
che
abbiamo
visto
innescare,
nell’episodio
precedente, un contagio mimetico di tipo violento. E così in
questo episodio si produce un mimetismo di natura opposta a
quello precedente: la folla alla spicciolata se ne va, non
essendo nessuno disposto al lancio della prima pietra.
Per potere eccitare gli animi degli Efesi e scaricare,
così, la loro rabbia verso il povero malcapitato, ad Apollonio,
per vincere la loro forte ritrosia iniziale, non è sufficiente
la
sua
autorità,
il
suo
diabolico
stratagemma
continuato
a
rimanere
enorme
quella
ascendente:
massa
incredula
e
di
senza
persone
recalcitrante
qualche
avrebbe
alle
sue
raccomandazioni.
Quell’uomo misero non è colpevole perché ha fatto qualcosa
che meriti una pubblica condanna, ma è colpevole per essere
nemico degli dei, per essere un demone dalle parvenze umane e,
quindi,
tanto
più
pericoloso
quanto
meno
facilmente
riconoscibile. E, infatti, la loro riluttanza non si spiega
se non con la riuscita del travestimento, trasformazione
che inganna i comuni mortali, ma non chi ha la capacità come
lui di andare al di là delle apparenze. Con la demonizzazione
della povera vittima Apollonio cerca astutamente di scrollare
di dosso dagli Efesi quella naturale e comprensibile ritrosia a
compiere un atto che avrebbe suscitato in loro disgusto e
ripugnanza. Una volta introdotto il disimpegno affettivo verso
la vittima c’è solo da attendere che qualcuno faccia il primo
passo
per
innescare,
per
contagio
mimetico,
la
violenza
collettiva. Gesù, invece, ponendosi a difesa della vittima,
tiene vivo negli uomini il disgusto per l’azione violenta che
si accingono a compiere con una semplice frase di grande
effetto.
Infatti,
ognuno
trovandosi
nell’intimo
non
senza
peccati viene come spinto inconsapevolmente a subire una sorta
di
identificazione
con
la
vittima
e
a
provare
orrore
e
repulsione al solo pensiero che qualcuno possa fare a lui ciò
che poco prima era disposto a fare in modo così determinato e
risoluto a quella.
Abbiamo visto come in questi due episodi non ci fosse
comunque possibilità di salvezza per le vittime designate.
Qualsiasi comportamento da esse adottato non le avrebbe evitato
una fine certa. Come si vede la nonviolenza può non essere
efficace
qualora
compattano
le
rivalità
determinando
nel
mimetiche
gruppo
o
degli
nella
uomini
società
si
una
sovreccitazione suscettibile di venire scaricata su una vittima
designata. Gli stessi maestri della nonviolenza, pur nutrendo
una profonda fede nella nonviolenza, non la ritenevano, però,
miracolosa.
Come abbiamo visto in precedenza il ruolo dei Terzi può
essere
fondamentale
nell’orientare
il
conflitto
in
una
particolare direzione. Nell’episodio dell’adultera non è la
donna a chiedere l’aiuto di Gesù ma sono gli scribi e i Farisei
a
condurla
Apollonio,
al
non
suo
gode
cospetto.
agli
Il
occhi
Terzo,
di
a
questi
differenza
uomini
di
di
una
particolare venerazione, tanto è vero che si sono avvicinati a
lui non tanto con l’atteggiamento di chi vuole rimettersi alla
decisione del Maestro quanto con l’intenzione di tendergli una
trappola ed accusarlo. Gesù, però, pur esponendosi a non pochi
rischi prendendo le difese della donna, riesce a mettere in
grande difficoltà quegli uomini assetati di giustizia e a
risolvere il conflitto in favore di quella.
Chi si appresta a mettere in atto un’azione nonviolenta
deve preoccuparsi come prima cosa di informare l’opinione
pubblica delle ragioni della lotta cercando di destare in essa
un sentimento di solidarietà attiva in modo che si produca una
pressione verso la controparte. Qualsiasi potere, per quanto
autoritario possa essere, è sensibile agli umori dell’opinione
pubblica; nessun governo dispotico può ragionevolmente pensare
di restare al potere per troppo tempo senza un certo consenso.
Se
certi
regimi
si
sono,
nel
passato
recente,
caratterizzati per una estrema crudeltà ciò è dovuto al fatto
che la maggior parte della popolazione si è riconosciuta nella
politica espressa da questi e non, come sostiene, purtroppo,
una
diffusa
credenza,
alla
mancanza
di
spazio
per
potere
esprimere disapprovazione senza incorrere in gravi pericoli.
Come dice Etienne de la Boétie: “basta che il tiranno non lo
sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e
andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il
basamento”7
Certo, le misure repressive messe in piedi da Hitler erano
tali da scoraggiare qualsiasi dissenso, ma se c’era davvero una
maggioranza silenziosa contraria al regime questa prima o poi
avrebbe trovato il modo per farsi sentire.
Ora, però, ci interessa parlare di questa maggioranza
silenziosa
che
può
essere,
se
opportunamente
mobilitata,
trasformata in una straordinaria forza di pressione. Questo è
un momento cruciale di tutte le lotte nonviolente. Quando il
conflitto vede coinvolti il potere dello stato e dei cittadini,
l’azione nonviolenta deve mirare a rendere pubbliche le ragioni
del
conflitto,
le
difficoltà
e
le
sofferenze
che
le
disposizioni del governo producono.
Il Terzo, l’opinione pubblica, viene chiamato in causa
perché
veda
da
vicino
le
conseguenze
che
l’azione
del
persecutore provoca sulle vittime.
Sottraendosi consapevolmente alle provocazioni del potere
forte, che astutamente cerca di innescare una rivalità mimetica
generatrice
di
violenza,
l’azione
nonviolenta
riporta
continuamente l’attenzione sulle ragioni concrete del conflitto
costringendo l’avversario a confrontarsi su un terreno a lui
poco congeniale. Questo è un aspetto fondamentale della lotta
nonviolenta, perché il potere, cercando di continuo di spostare
7
E. de La Boétie, dal Discorso sulla servitù volontaria , a cura di
L. Geninazzi, Jaca Book, Milano, 1979, p.73 in J. Semelin, P e r
uscire..., op.cit., p. 11
il conflitto sul terreno dello scontro, rivela la propria
fragilità nella capacità di dialogo e di mediazione.
La lotta nonviolenta non mira ad umiliare l’avversario
mettendolo alle corde e privandolo di qualsiasi possibilità di
onorevole fuga; l’obiettivo è di costringere l’avversario al
dialogo, perché si trovi un dignitoso compromesso che soddisfi
entrambe le parti.
Questo è un aspetto importante della lotta nonviolenta, in
quanto
si
assicura
distruzione,
che
l’avversario
non
si
hanno
che
non
si
intenzioni
vuole
ostili
la
nei
sua
suoi
confronti, ma che si intende semplicemente raggiungere degli
obiettivi ritenuti importanti per chi lotta e che l’avversario
può ragionevolmente concedere perché non di profilo troppo
elevato.
Qualora l’avversario sia chiuso e ostinatamente fermo
nelle proprie posizioni, ostacolando in tal modo qualsiasi
possibilità
di
ragionevole
compromesso,
lo
si
metterà
al
corrente della propria determinazione nel portare avanti la
lotta e delle diverse azioni che si metteranno in campo.
L’obiettivo, graduando l’intensità della forza che le diverse
azioni messe in campo possono esprimere, è sempre quello di
costringere
l’avversario
al
negoziato
perché
si
trovi
un
soddisfacente compromesso tra le parti.
Il dialogo, come dice Jacques Semelin, è consustanziale
alla nonviolenza.
I conflitti risolti con l’umiliazione di una delle parti
prima o poi riesploderanno, perché l’odio e la vendetta covati
nell’intimo troveranno sempre, prima o poi, l’occasione per
esplodere in forme di incontrollata violenza.
La storia è zeppa di trattati di pace firmati da paesi
vincitori
che
hanno
ridisegnato
gli
stati
con
una
totale
insensibilità verso le minoranze presenti in determinate aree o
che hanno imposto condizioni di pace ai perdenti tali da creare
nel popolo sconfitto sentimenti di profonda ostilità. La pace
per essere vera va costruita tenendo conto delle esigenze di
tutti e non imposta dall’alto per difendere gli interessi e i
privilegi di pochi. È proprio in ragione di questo che la lotta
nonviolenta non ha lo scopo di umiliare o, peggio, distruggere
l’avversario, ma quello di trovare attraverso il dialogo un
compromesso che le parti possono liberamente sottoscrivere.
Abbiamo visto come in un conflitto sia vitale per l’azione
nonviolenta coinvolgere il Terzo, per evitare il rischio sempre
presente di cadere in una crisi mimetica da cui chi lotta
rischia di avere la peggio avendo a che fare con un potere reso
ancora
più
forte
per
l’appoggio,
ora
esplicito,
della
maggioranza silenziosa.
I sostenitori della nonviolenza non si stancano mai di
sottolineare l’importanza del Terzo che da spettatore, o peggio
da sostenitore attivo del potere, può, invece, trasformarsi in
un convinto sostenitore della causa nonviolenta creando così le
condizioni
che
incoraggino
il
dialogo
in
direzione
di
un
compromesso tra le parti che sia reciprocamente soddisfacente.
Gesù, nell’episodio dell’adultera, si schiera decisamente
dalla parte della vittima, vista, invece, come colpevole e,
quindi, meritevole di morte, da coloro che si limitavano a
seguire alla lettera la Legge.
Le scritture non ne parlano, ma possiamo immaginare la
donna
in
preda
alla
vergogna
per
un
atto
che
aveva
la
riprovazione della comunità; la vediamo con il capo abbassato,
silenziosa,
triste,
rassegnata
ad
una
fine
che
tutti
ritenevano, vista l’autorità delle scritture, necessaria.
Nella povera donna non c’è odio, non c’è ribellione, non
il
più
piccolo
tentativo
di
giustificazione
per
il
suo
comportamento; essa appare a Gesù innocente, una vera e propria
vittima sacrificale. Quando l’adultera, dopo le parole di Gesù,
sente che nessuno l’accusa e vede che quella folla assetata di
giustizia se ne va alla spicciolata, resta come ammutolita e
senza parole. E, infatti, quando Gesù, rimasto solo con lei, le
dice: “Nessuno ti ha condannato?” e lei risponde:”Nessuno,
Signore” possiamo cogliere in quella asciutta espressione un
misto di incredulità, stupore e riconoscenza.
Il Terzo si schiera dalla parte di coloro che lottano a
condizione che questi si comportino in modo tale da apparire
come vittime innocenti. È difficile anche per chi detiene il
potere
giustificare
violenza
agli
indiscriminata
occhi
verso
dell’opinione
chi
non
ha
pubblica
fatto
nulla
una
per
provocarla. Quando questo accade il potere rivela la propria
profonda natura violenta e persecutoria. Ed è proprio questo
smascheramento che la nonviolenza vuole procurare con la sua
azione
tendente
a
mostrare
all’opinione
pubblica
come
la
sofferenza subita dalle vittime innocenti risponda al perverso
meccanismo
di
colpevolizzare
le
vittime
per
poterle
perseguitare
Il potere giocherà tutte le sue carte pur di trasformare
quelli che sono avvertiti come nemici in vittime sacrificali e
rendere giustificata e, quindi credibile, la sua risposta
violenta. Ma se chi lotta riesce a non cadere nelle trappole
tese furbescamente dal potere, evitando, così, la rivalità
mimetica, il Terzo, l’opinione pubblica, finirà per schierarsi
dal1a parte di coloro che, pur subendo violenza, non rispondono
con gli stessi mezzi. E, infatti, chi riuscirà ad essere più
credibile
agli
giustificare
le
occhi
dell’opinione
sofferenze
pubblica
inflitte
su
chi
chi
cerca
di
non
reagisce,
adducendo a sostegno della propria azione una violenta campagna
diffamatoria, o coloro che, mostrando a tutti i segni del1a
violenza subita, mantengono un comportamento nonviolento?
In questa prospettiva il paradosso è eclatante, in quanto
a non fare uso di violenza sono proprio coloro che ne subiscono
gli effetti. Ebbene, tutto questo verrà colto dalla opinione
pubb1ica che finirà per mobilitarsi a fianco dei perseguitati
e, allora, quella violenza che il potere aveva giustificato
sotto la spinta di una rozza colpevolizzazione, finirà per
ritorcerglisi contro.
L’opinione
qualcuno,
per
pubblica
tende
difendere
la
a
sentirsi
propria
minacciata
causa,
se
sceglie
deliberatamente la violenza. Proprio per questo chi detiene il
potere cerca di snaturare le ragioni di chi gli si oppone
presentando la controparte come sobillatrice dell’autorità
costituita mettendo in atto una campagna persecutoria tesa ad
innescare una rivalità mimetica che giustifichi la violenza
persecutoria. Questa strategia che può apparire a prima vista
sottile è, in realtà grossolana e rozza e può, addirittura,
essere controproducente per il potere se chi gli si oppone non
risponde alle provocazioni e si dimostra fermo nel ricondurre
il contrasto sul piano del contenzioso.
La scelta della nonviolenza allora paga, perchè finisce,
paradossalmente, per essere vantaggiosa anche per coloro che
ciecamente le si oppongono, in quanto da un negoziato da cui le
parti in causa ne escano entrambe soddisfatte, si potranno
avere maggiori possibilità di stabilità e di pace rispetto ad
un conflitto risolto in modo repressivo che costringerà il
potere, con danno per tutti, a mantenere alto il controllo
repressivo.
Se il discorso fin qui fatto ha una sua fondatezza allora
appare chiara la debolezza teorica di coloro che teorizzano la
necessità del terrorismo come risposta ad una politica di
aggressione e di sfruttamento. Il terrorismo non potrà mai
vedere
soddisfatti
vittima
di
una
gli
obiettivi
profonda
che
persegue,
contraddizione.
Non
si
in
quanto
capisce,
infatti, come si possa sostenere di lottare, con probabilità di
successo, per la libertà del proprio popolo con il mettere in
atto un comportamento violento che mira a colpire in modo
indifferenziato il popolo nemico.
Il terrorismo attirerà alla propria causa sempre un numero
limitato di persone ed è improbabile che con questo consenso si
possa
distruggere
un
avversario
che
si
ritroverà,
nel
frattempo, più compattato e più forte.
Chi
imbocca
questa
strada
pericolosa
non
comprende
l’importanza del Terzo che, anzi, viene colpito, in quanto
nemico. In questo, il terrorismo dimostra una imperdonabile
cecità politica per un fanatismo che, reso cieco da odio e sete
di vendetta, colpisce nel mucchio con l’intento di arrecare
all’avversario quanta più distruzione possibile.
Il
popolo
percepire
più
aggressore
la
tenderà,
sofferenza
e
le
in
questo
modo,
limitazioni
del
a
non
popolo
aggredito, ma sarà condotto ad identificarsi con quelle vittime
innocenti
casi
brutalmente
colpite
da
una
cieca
e
incomprensibile violenza. Ogni persona si identificherà nelle
povere vittime innocenti che solo il caso ha voluto fossero
quelle e non altre. Ognuno sentendosi una vittima potenziale
del terrorismo sarà condotto, a sua insaputa, a considerare
nemico anche quel popolo da cui i terroristi provengono e ciò
contribuirà a scavare ulteriormente quel fossato che prima li
divideva.
Quel Terzo, l’opinione pubblica del popolo oppressore, di
cui il terrorismo non solo non ritiene svolgere un ruolo
importante per la propria causa, ma che, addirittura, considera
nemico, in quanto comunque parte di quel popolo che deve essere
distrutto, alla fine si riprende tutta quell’importanza che
abbiamo
visto
ricoprire
nella
riflessione
precedente
e
contribuisce, in modo determinante, alla sconfitta di quello.
Il terrorista, al pari della vittima innocente, accetta la
propria morte ma, implicando la sua azione la morte dell’altro,
non fa altro che rafforzare la risposta repressiva dello stato.
Paradossalmente, lo stato si serve del terrorismo, ne
ingigantisce la portata per rafforzare le misure repressive
verso il popolo considerato nemico e rendere il controllo più
soffocante.
Quello del terrorismo è un esempio chiaro di come la
violenza non solo non sia efficace per risolvere una situazione
di forte ingiustizia, ma sia addirittura controproducente,
perché, come dice Semelin, “molto di più lo stato si serve del
terrorismo, esagerandone anche i pericoli, di quanto esso non
lo minacci”.8
L’episodio di Apollonio di Tiana ci offre la possibilità
di parlare di un altro aspetto importante della nonviolenza: la
disubbidienza civile. Gli Efesi alle reiterate sollecitazioni
8
J. Semelin, Per
uscire..., op. cit., p. 80
di Apollonio perché lanciassero pietre contro il mendicante
rispondono con un atteggiamento di incredulità e sbigottimento;
non
comprendono
come
un
povero
straniero
possa
essere
responsabile dell’epidemia che regna in città.
Abbiamo
visto
demonizzato
il
come
in
poveraccio
modo
con
astuto
lo
Apollonio
scopo
di
abbia
distogliere
l’attenzione su ciò che gli Efesi erano chiamati a fare.
Apollonio sapeva che il primo cittadino che avrebbe ubbidito ai
suoi ordini avrebbe innescato un effetto a catena tale da
coinvolgere
tutta
la
comunità.
Nessuno
se
l’è
sentita
di
disubbidire al maestro, dimostrando in questo di fidarsi di più
delle sue parole che della realtà percepita dai sensi.
Nell’uomo
c’è
la
tendenza
a
conformare
il
proprio
comportamento a quello del gruppo di cui si fa parte e questo
in ragione di una semplice considerazione di ordine energetico;
è,
infatti,
proprio
molto
difficile
comportamento
e
rischioso
all’interno
di
differenziare
un
gruppo
che
il
abbia
nell’uniformità del modo di pensare il segno distintivo della
propria caratterizzazione.
È
noto
che
l’educazione
che
si
riceve
nelle
agenzie
educative, il peso dei condizionamenti determinato da una
presenza
istintivo
sempre
di
più
massiccia
stabilità
e
dei
mass
sicurezza
media,
portano
il
bisogno
l’individuo
a
seguire le idee correnti e a modellare acriticamente il proprio
comportamento su quello della maggioranza.
Quando si subisce il fascino di persone autorevoli per
fama e prestigio si tenderà a vedere in queste dei veri e
propri modelli da seguire e da imitare. Chi lavora nel campo
della pubblicità dà prova di conoscere molto bene le tecniche
di manipolazione di massa quando, sfruttando la tendenza della
mente alla omologazione, costruisce modelli di comportamenti
così autorevoli per sicurezza, prestigio e bellezza da indurre
surrettiziamente
gli
individui,
vittime
inconsce
di
un
istintivo bisogno identificatorio, a conseguire falsi bisogni
di successo e di potenza.
In
un
mondo
sempre
più
globalizzato,
dove
le
grandi
centrali del potere economico tenderanno con sempre più sottili
strumenti di diabolica raffinatezza, di creare un mondo sempre
meno differenziato, i bambini, gli adolescenti, ma anche gli
adulti vanno incontro ad una vera e propria spersonalizzazione
sia per l’incapacità di porsi criticamente verso certi messaggi
e certi modelli che, anzi, imitano e fanno propri, sia per
l’impossibilità
di
riconoscere
quelle
forme
sottili
di
persuasione che, agendo a livello subliminale, sfuggono al
controllo della coscienza.
La
pubblicità
si
appropria
indebitamente
dei
bisogni
interiori dell’uomo, come il bisogno del senso di appartenenza,
il bisogno di sicurezza, ma anche di quelli di natura opposta,
come il desiderio di distinguersi, di differenziarsi dagli
altri
e
proponendo
per
tutti
differenti
modelli
in
cui
identificarsi offre dei surrogati che inducono chi li adotta a
trovare un’illusoria forma di appagamento.
L’ipotesi
riguardante
la
tendenza
della
mente
ad
uniformarsi alle aspettative e alle richieste dell’autorità ha
trovato conferma in ambito scientifico. La ricerca si proponeva
di scoprire fino a che punto potesse arrivare il grado di
ubbidienza
all’autorità
da
parte
di
soggetti
spinti
ad
infliggere delle sofferenze a degli attori che fingevano di
ricevere effettivamente una carica elettrica.
Non c’è dubbio che di fronte alle sofferenze inflitte
questi soggetti provassero un certo disagio che si trasformava
in un vero e proprio conflitto: se il crescere della sofferenza
degli allievi determinava un certo senso di nausea che li
spingeva ad interrompere l’esperimento, le ingiunzioni decise
dell’autorità (lo sperimentatore) li spingevano a continuare
con il ricordare loro che si erano moralmente impegnati in un
esperimento di alto valore scientifico.
Sui soggetti veniva esercitata una notevole pressione
psicologica con ordini a continuare l’esperimento sempre più
decisi e drastici
L’esperimento ha largamente confermato l’ipotesi iniziale,
in quanto il sessanta per cento ha condotto fino in fondo la
prova. Costoro per interrompere l’esperimento avrebbero dovuto
ribellarsi espressamente all’autorità (lo scienziato), ma non
hanno trovato la forza per farlo e così per risolvere un
conflitto che sarebbe presto diventato per loro insostenibile
questi soggetti sono venuti via via diminuendo l’attenzione
verso
la
vittima
per
orientarla
verso
le
richieste
dello
sperimentatore.
Una volta superato il picco dello stato di tensione questi
soggetti divengono completamente insensibili alle sofferenze da
loro causate alla vittima preoccupandosi di eseguire al meglio
gli ordini impartiti dall’autorità. Si viene in questo modo a
creare
quel
disimpegno
quell’identificazione
affettivo
verso
verso
l’autorità
che
le
vittime
abbiamo
e
visto
determinarsi nei fenomeni persecutori.
Quel sessanta per cento che ha condotto fino in fondo
l’esperimento,
dice
Milgram,
era
costituito
da
persone
assolutamente normali, per niente aggressive, persone che non
hanno, però, trovato il coraggio di opporsi all’autorità dello
scienziato e di sottrarsi così agli obblighi che ritenevano di
essersi assunti partecipando all’esperimento. E, così, scrive
Milgram,
“persone
assolutamente
normali,
affatto
prive
di
ostilità, possono diventare gli agenti di un atroce processo
distruttivo, attenendosi semplicemente ai compiti che sono
stati loro affidati”9
Questi studi hanno largamente dimostrato la tendenza della
natura
umana
a
conformarsi
alle
disposizioni
ingiunte
da
un’autorità.
Riteniamo che la percentuale, già di per sé elevata, di
coloro che hanno avvalorato l’ipotesi di Milgram sarebbe stata
sicuramente più consistente se, ad esempio, i soggetti che si
sono sottoposti individualmente all’esperimento avessero potuto
disporre di un modello che, d’accordo con lo sperimentatore,
9
S. Milgram, Obbedienza all’autorità , Bompiani, Milano 1975, in J.
Semelin, Per uscire..., op. cit., p. 56
avesse
inflitto
fin
dall’inizio
scariche
elettriche
sulla
vittima senza mostrare il più piccolo segno di disagio o se
avessero condotto la prova assieme ad altri soggetti. Abbiamo
visto in precedenza l’alto valore simbolico del gesto del primo
individuo verso il gruppo allorchè, rompendo gli indugi, esegue
l’ordine impartito dalla autorità.
In tali situazioni si viene ad innescare un contagio
mimetico
che
finisce
per
coinvolgere
tutti,
portando
gli
individui a compiere con determinazione e accanimento ciò che
solo poco prima suscitava in loro un forte senso di ripugnanza
e di orrore.
Quando la disubbidienza è una virtù
Proprio in ragione della tendenza della natura umana al
conformismo e all’ubbidienza all’autorità che l’educazione
acquista
un
ruolo
insostituibile
nel
formare
cittadini
responsabili e consapevoli.
Occorre certamente educare i giovani al rispetto delle
regole, al senso civico, ma si dovrà anche insegnare loro, come
dice
don
Milani,
che
il
senso
dello
stato
può
essere
testimoniato in certe occasioni, dal disobbedire ad una legge
ingiusta più che da una sua rigorosa osservanza.
I grandi maestri della nonviolenza hanno tutti ribadito
l’alto valore educativo e di testimonianza della disubbidienza
qualora le leggi dello Stato, che si è tenuti ad osservare
quando
sono
giuste,
sono
palesemente
ingiuste.
Ma
la
nonviolenza esprime tutto il suo amore costruttivo per la legge
quando alla disubbidienza verso le leggi ritenute ingiuste si
accompagna la disponibilità ad accettare le conseguenze che la
loro violazione comporta.
Il nonviolento dà prova di senso civico e di amore per le
leggi sia, come dice Gandhi, quando ubbidisce in modo spontaneo
e convinto a leggi ritenute giuste, sia quando, ponendosi in
modo civile al di fuori della legge, si rende disponibile ad
accogliere le sanzioni che l’infrazione della legge comporta.
Ed
è
nell’accettare
di
buon
grado
la
punizione
che
la
violazione della legge presuppone che il nonviolento da prova
di coraggio e forza interiore.
La disubbidienza civile diviene un dovere morale laddove
si viva sotto un governo dispotico, perché, dice Gandhi, “il
seguace della resistenza civile è pericoloso per uno stato
autocratico, poiché attira l’attenzione dell’opinione pubblica
sulle questioni per le quali oppone la sua resistenza contro lo
stato”.10
Abbiamo visto come sia molto più facile stare nel gruppo,
comportarsi
come
i
più,
come
quella
grande
maggioranza
silenziosa dove ognuno, stando diligentemente al proprio posto,
rende possibili immani tragedie. Troppo spesso si tacita la
propria coscienza con il dirsi che la situazione non consentiva
spazi reali di espressione democratica e che la responsabilità
per certi atti di barbarie debba andare ricercata ai massimi
gradi di responsabilità politica. Ma certi delitti, dice don
Milani,
hanno
richiesto
la
partecipazione
di
un
numero
imprecisato di corresponsabili. Il disastro di Hiroshima non
sarebbe mai accaduto se politici, scienziati, tecnici, operai
ed aviatori avessero disobbedito.
Credo che non ci siano parole più belle di quelle scritte
da don Milani a conclusione di questa breve riflessione sulla
disubbidienza civile: “... Avere il coraggio di dire ai giovani
che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai
più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non
credano di potersene fare scudo ne davanti agli uomini ne
davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno responsabili
di tutto”.11
10
M. K.Gandhi, Teoria e pratica..., op., cit., p. 185
Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana , a cura di Michele
Gesualdi, Mondadori, Mi]ano 1968, p. 260
11
Lotte e campagne nonviolente
La capacità di soffrire è essenzialmente un atto d’amore,
un amore che non conosce limiti, ostacoli, un amore che può
giungere fino al supremo sacrificio se questo è richiesto.
Ci possono essere situazioni così difficili che possono
richiedere
il
sacrificio
Gandhi,
ma
queste
andare,
saranno
di
morti
gran
di
migliaia
di
vite
umane,
volontariamente
assunte,
lunga
a
inferiori
a
quelle
dice
lungo
che
si
potrebbero avere con il fare ricorso alla violenza o restando
passivi. Il mondo sarà, inoltre, moralmente arricchito da tali
nobili gesti.
Alla spada del tiranno Gandhi non contrappone una spada
più affilata, ma cerca di deludere la sua aspettativa di una
risposta violenta attraverso una resistenza morale che lo
disorienterà e che lo costringerà alla fine a riconoscere la
propria ingiustizia senza venire umiliato. La nonviolenza, come
dice A. Capitini, nobilita, eleva, unisce al contrario della
violenza che abbruttisce e separa gli uomini scavando enormi
fossati.12
Ma vediamo un po’ da vicino come Gandhi si preparava ad
una campagna di lotta. Non trattandosi di una lotta che doveva
colpire il nemico di sorpresa non vi erano strategie occulte,
ma le ragioni venivano rese pubbliche con accurato zelo. La
lotta doveva avvenire alla luce del sole e coinvolgere il
maggior
numero
di
persone.
Prima
di
avviare
qualsiasi
iniziativa di lotta era preoccupazione di Gandhi informare
l’avversario sulle ragioni della protesta; nella lettera Gandhi
elencava anche in modo chiaro gli obiettivi che intendeva
raggiungere, obiettivi che avevano una loro gradualità, perché
lo scopo non era quello di porre alle corde l’avversario,
umiliarlo e rendere la sua risposta rabbiosa, ma ottenere il
riconoscimento di alcune giuste rivendicazioni.
12
A. Capitini, Rivoluzione aperta, Parenti 1956, pp.1-4
Gandhi si accontentava di compiere dei passi in avanti,
d’altra parte se il popolo era stato adeguatamente preparato
alla campagna le lotte successive avrebbero consentito il
riconoscimento anche degli obiettivi più importanti. Ma Gandhi,
come dice Capitini, non voleva stravincere, ma convincere
l’avversario con il renderlo consapevole delle ingiustizie
commesse e offrirgli una resa onorevole.
Alla base del pensiero di Gandhi vi è un rifiuto totale
della violenza e della menzogna. Per Gandhi il fine sta nei
mezzi. Non è pensabile una società giusta costruita con l’odio
e la violenza. Certo, con il ricorso alla violenza, si possono
modificare situazioni di forte ingiustizia sociale, ma il costo
in termini di sofferenze, di vite umane, può essere molto
elevato e l’odio scatenatosi durante il conflitto può durare
intere
generazioni
rendendo
fragile
il
processo
di
pace.
Laddove le lotte sono state portate avanti in modo nonviolento
non si sono creati fossati tra le diverse componenti sociali,
politiche, religiose della nazione tali da rendere difficile
l’opera
di
riconciliazione.
Se
coloro
che
lottano
sono
opportunamente addestrati ad un comportamento nonviolento si
riusciranno a gestire anche situazioni di forte tensione e
conflittualità.
Coloro
che
hanno
aderito
nel
Kossovo
alla
lotta
nonviolenta partecipando alle azioni avviate da Ibrahim Rugova,
che si ispirava ai grandi maestri della nonviolenza quali
Gandhi e Martin Luther King, si impegnavano in modo consapevole
a mettere in atto tutta una serie di comportamenti che si
richiamano
ai
principi
della
nonviolenza.
E’
ragionevole
pensare che nel Kossovo le cose avrebbero potuto prendere una
piega ancor più disastrosa se coloro che hanno seguito Rugova
avessero imbracciato le armi.
E’ noto che chi detiene il potere non aspetta altro che
gli
si
offra
l’occasione
per
giustificare
l’uso
spesso
indiscriminato della violenza.
Quanto è successo a Genova, nel luglio del 2001, in
occasione
del
vertice
dei
potenti
della
terra,
deve
fare
riflettere tutti coloro che intendono davvero creare un mondo
più
giusto.
intervenuta
Ci
in
si
deve
chiedere
se
la
polizia
modo
cosi
violento
colpendo
anche
sarebbe
donne
e
bambini se la manifestazione fosse stata del tutto pacifica.
Purtroppo, una piccola minoranza ha offerto il pretesto alla
polizia di fare uso di una violenza brutale e indiscriminata.
Ebbene, si provi a pensare che cosa sarebbe successo in Italia
se quanto accaduto si fosse verificato in un contesto in cui
tutti i dimostranti si fossero attenuti scrupolosamente ad un
comportamento nonviolento.
La nonviolenza, laddove è stata praticata, ha prodotto
indiscutibili risultati e per di più senza causare né danni
materiali né considerevoli costi umani.
L’argomento
mi
consente
di
fare
alcune
semplici
considerazioni. Si è sempre sostenuto che in Germania sotto il
regime nazista non era pensabile alcuna forma di opposizione.
È, infatti, risaputo che il popolo tedesco non ha mai espresso
apertamente il proprio dissenso alla politica di Hitler. Ancora
oggi, a distanza di settanta anni, si ha difficoltà a credere a
quanto è successo a Berlino nei primi giorni del 1943. Quanto
accaduto
invita
tutti
noi
ad
una
onesta
e
disinteressata
riflessione. Anche il più sanguinario dei regimi poteva essere
sconfitto.
Un
centinaio
di
donne
ebree
e
ariane
(qualcuno
dice
qualche migliaio), hanno dato vita all’unica protesta pubblica
contro la deportazione degli ebrei. Queste donne coraggiose
scesero semplicemente in strada per protestare e chiedere la
liberazione dei propri cari. Non fu una protesta organizzata,
non si urlavano slogan precisi, non era stata preparata alcuna
tattica,
quelle
donne
semplicemente
camminavano
avanti
e
indietro sul marciapiede davanti all’edificio in cui erano
trattenuti i propri parenti. Si sa che altri passanti, venuti a
conoscenza del fatto, si unirono spontaneamente alla protesta;
la stessa azione fecero delle persone che si trovavano per caso
a passare per la Rosenstrasse.
Quelle persone, per la maggior parte donne, camminarono su
e giù di fronte all’edificio per una settimana, a volte urlando
la loro rabbia, più spesso standosene in silenzio. Dopo una
settimana di protesta accadde qualcosa che nessuno avrebbe mai
pensato che succedesse: gli ebrei arrestati furono rilasciati.
Il regime non poteva, ovviamente, dare motivo del rilascio
dei sequestrati senza ammettere una vera e propria sconfitta, e
gli eventi della Rosenstrasse si vennero a conoscere solamente
a
guerra
finita.
Poi,
chissà
perché,
di
quella
protesta
memorabile non se ne parlò più.
Anche gli storici non si interessarono del caso. Eppure,
quanto successo a Berlino nel ‘43 fu una vera lotta, un eroico
atto di resistenza al regime che vide coinvolte prevalentemente
donne. Gli storici dicono che quella della Rosenstrasse sia
stata
l’unica
manifestazione
pubblica
sotto
il
regime
hitleriano. Qualcuno avanza il sospetto che non si sia voluto
riconoscere
ciò
che
quelle
coraggiose
donne
con
la
loro
protesta avevano ottenuto: la liberazione di prigionieri da
parte di un regime ritenuto da tutti inattaccabile.
Questa
lotta,
che
merita
di
essere
studiata
più
attentamente, ha chiaramente dimostrato che non era del tutto
fondata l'idea corrente che qualsiasi tentativo di opposizione
fosse destinato all'insuccesso. La protesta continuò anche
quando per spaventare quelle donne fu posta, sull'altro lato
della strada, minacciosa, una mitragliatrice. Queste donne,
rispondendo ad un atavico istinto di lotta, erano disposte a
tutto pur di riabbracciare i propri figli, i propri mariti. Non
erano donne straordinarie, ma semplicemente donne normali, però
nell'occasione, disperate, per il sequestro da parte della
polizia dei propri cari.
Credo che sia legittimo e doveroso chiedersi che cosa
sarebbe potuto accadere nella Germania hitleriana se al posto
di qualche centinaia di donne a scendere in strada in quella e
in
altre
occasioni
fossero
state
migliaia
e
migliaia
di
persone. Anche i regimi più sanguinari hanno bisogno di un
certo
appoggio
da
parte
della
popolazione
e
il
regime
instaurato
avrebbero
da
Hitler
potuto
fare
non
era
fuoco
da
su
meno.
quelle
Certo,
donne
i
e
soldati
facilmente
disperderle, ma il potere non è così sciocco e cieco da non
ritenere questi gesti folli per il forte impatto emotivo che
questi potrebbero avere sulle masse. Che cosa avrebbe pensato e
fatto quel popolo tedesco portato all'obbedienza, poco disposto
alla protesta, e sicuro che in Germania non c'era spazio per
gesti di opposizione?
Quanto accaduto nella Rosenstrasse nei primi giorni del
marzo del 1943 deve fare riflettere tutti coloro che esprimono
scetticismo verso la lotta nonviolenta, ritenuta poco incisiva
o del tutto inefficace per modificare una struttura violenta.
Ma se una manciata di donne è riuscita, con una protesta
improvvisata,
e
quindi
organizzazione
tattica,
senza
ad
alcuna
avere
la
preparazione
meglio
su
un
e
potere
ritenuto inattaccabile, credo che sia onesto e ragionevole
domandarsi
se
una
lotta
nonviolenta,
condotta
da
persone
preparate, consapevoli della forza espressa da una protesta
pacifica non sarebbe stata in grado di far barcollare, e anche
cadere, il più brutale dei regimi.
Anche Hitler nel suo folle disegno di morte aveva bisogno
di un consenso. Penso che si debba riflettere più a fondo sulla
proposta della nonviolenza gandhiana per potere vedere in essa
tutto il potenziale di cambiamento che essa ha in sé.
Non dobbiamo scordarci che la caduta del muro di Berlino è
stata la conseguenza di una protesta del tutto nonviolenta. Se
a qualcuno fosse venuto in mente di abbattere quella barriera
solo
qualche
anno
prima,
magari
con
metodi
violenti,
non
occorre molta fantasia per immaginare gli esiti catastrofici a
cui il mondo sarebbe andato incontro.
Se Gandhi, rivolgendosi agli ebrei, li aveva esortati a
seguire
i
suoi
insegnamenti
chiamandoli
anche
al
supremo
sacrificio, se questo fosse stato necessario, era perché la sua
fede nel potere dell'ahimsa era incrollabile. D'altra parte per
tutta la vita Gandhi non si stancò mai di mettere alla prova i
suoi convincimenti per verificarne l'efficacia.
Forse ai tedeschi è mancato il coraggio di uscire allo
scoperto. Concordo con quanto scrisse Bruno Blau qualche anno
dopo la vicenda: "Se un gruppo ristretto di donne è riuscito a
dare una svolta positiva al destino dei propri mariti ebrei,
così anche i numerosi tedeschi che ora si professano in massa
avversari del nazismo, se solo lo avessero voluto, avrebbero
potuto evitare quelle efferatezze che ora dicono di non aver
condiviso e persino condannato".13
Un chiaro esempio di azione nonviolenta lo abbiamo con M.
Luther King. Quando il giovane pastore nero per protestare
contro
la
segregazione
razziale
incoraggiò
i
neri
al
boicottaggio degli autobus il successo della lotta fu enorme.
Quei famigerati autobus con i sedili anteriori riservati ai
bianchi e quelli posteriori ai neri finirono per circolare
quasi vuoti. Lo stupore dei bianchi fu enorme. Molte furono le
minacce
che
M.
Luther
King
ricevette
dai
bianchi
più
oltranzisti.
In quel clima di tensione ci fu anche chi fece esplodere
una bomba davanti alla sua casa. Di fronte ad una così palese
provocazione,
che
solo
il
caso
volle
che
non
ci
fossero
vittime, molti furono i neri che avrebbero voluto ricorrere ad
una risposta dura e violenta. È nella risposta del potere che
si
può
cogliere
appieno
il
senso
più
vero
dell'azione
nonviolenta.
Rivolgendosi pacatamente ai più esagitati M. L. King
ricordò loro che avrebbero vinto se fossero rimasti fedeli alla
lotta nonviolenta, che se avessero ucciso dei bianchi non
avrebbero
ottenuto
nulla
e
che
molti
erano
i
bianchi
che
appoggiavano apertamente le loro lotte.
Le autorità giudiziarie, il potere bianco, si trovarono
disorientati perché nessuna accusa poté essere avanzata contro
chi rifiutava apertamente la violenza. E così, dopo più di un
13
Bruno Blau, avvocato addetto alla preparazione delle statistiche
per l'Unione nazionale degli ebrei in Germania, commentò l'episodio
della Rosenstrasse in un articolo apparso tre anni dopo. Vedi: N.
Shroder, Le donne che sconfissero Hitler, il Saggiatore, Milano 2001,
p.34
anno di boicottaggio, il 10 novembre del 1956, la Corte Suprema
degli Stati Uniti considerò discriminante la segregazione dei
neri
negli
autobus,
ribadendo
l'uguaglianza
di
tutti
i
cittadini.
Anche dopo il successo della dura campagna di lotta M.
Luther King non si stancava mai di invitare i neri a non ferire
o ridicolizzare i bianchi, ma a rispettarli, perché solo così
avrebbero potuto avere il loro rispetto. È questo un chiaro
esempio di azione nonviolenta. L'aggressività dei neri è stata
risvegliata e canalizzata in forme di protesta organizzate,
rispettose
dell'avversario.
Se
quest'ultimo
non
viene
ridicolizzato o peggio demonizzato, ma viene visto come persona
è possibile mettere in atto comportamenti che non mirino alla
sua distruzione. Lo scopo di un'azione di lotta nonviolenta è
quello di far capire all'avversario che sta sbagliando e che non
si hanno intenzioni ostili nei suoi confronti.14
Un
altro
punto
cardine
dell'azione
nonviolenta
è
la
volontà di cercare forme di compromesso che possano essere
accettate da entrambe le parti in conflitto.
Quando le parti in causa hanno la sensazione di avere
trovato un accordo onorevole che procuri vantaggi a tutti è più
probabile che si creino condizioni di pace più solide rispetto
ad altri contesti conflittuali dove il processo di pace è la
conseguenza dell'umiliazione e della sconfitta di una delle due
parti attraverso l'uso della violenza. La storia insegna che
prima o poi le ostilità riaffiorano violentemente, perché il
rancore e l'odio sono energie che il trascorrere del tempo non
sempre affievolisce.
L'azione nonviolenta per essere incisiva, efficace non ha
bisogno, allora, di frasi ostili, di insulti o slogan offensivi
indirizzati alla controparte. Non è questa aperta aggressività
che
garantisce
il
successo
nella
lotta.
Anzi.
Queste
espressioni, seppure giustificate in certi contesti di forte
ingiustizia sociale e politica, possono nuocere, però, alla
14
Si veda, a questo proposito, il libretto di J. Semelin,
nonviolenza spiegata ai giovani, Archinto, Milano, 2001
La
forza dell'azione nonviolenta, in quanto offrono all' avversario
il pretesto per giustificare la propria risposta violenta. È
molto più difficile mantenere, in particolare in situazioni di
forte tensione, un comportamento di autocontrollo, piuttosto che
lasciarsi andare a reazioni istintive, verbali o fisiche che
siano.
Per
essere
in
grado
di
resistere
alla
tentazione
di
lasciarsi andare ad espressioni, o peggio ad atti violenti,
occorre una grande forza interiore, una profonda consapevolezza
di quello che si sta facendo. È per questo che si dice che la
nonviolenza non può essere improvvisata e che va, invece,
appresa
attraverso
un
lungo
ed
accurato
addestramento.
È
importante, per esempio, capire che una campagna di lotta deve
avere obiettivi precisi e concreti. M. Luther King con la sua
protesta non mirava ad una generica uguaglianza tra bianchi e
neri o a sradicare le istituzioni; più semplicemente aveva
l'obiettivo di porre fine all' odiata discriminazione dei neri.
L'azione nonviolenta ha bisogno di tutti, anche delle
donne, dei vecchi, dei bambini. Purtroppo sono poco conosciuti
quei casi in cui la lotta nonviolenta ha prodotto indiscutibili
risultati. In modo troppo semplicistico si scarta, a volte,
l'opzione nonviolenta, perché si ritiene che solo la violenza
sia il mezzo più idoneo per garantire una rapida giustizia.
Spetta, allora, ai nonviolenti convinti dimostrare agli
scettici che esiste un altro modo di affrontare i problemi e che
questa alternativa è più efficace della stessa violenza.
Coloro
che
credono
nella
lotta
nonviolenta
non
hanno
difficoltà ad individuare, anche nel recente passato, eventi
straordinari, classificabili come lotte nonviolente. Si pensi,
ad esempio, a quanto è accaduto in Polonia nel 1980, dove dei
lavoratori hanno osato opporsi al potere comunista scioperando
ad oltranza nei cantieri navali di Gdank.
Anche là dove le libertà civili sono fortemente limitate
da un governo autoritario ci può essere spazio per una efficace
lotta nonviolenta se, come in questo caso, chi protesta non sono
tre persone, ma gli operai di un intero cantiere navale.
Di fronte ad un dichiarato impegno degli operai che si
dicevano disposti ad evitare ogni forma di violenza il governo
si trovò disorientato, perché non trovava il modo di scaricare
sugli scioperanti il peso di una brutale e collaudata macchina
repressiva.
Come giustificare di fronte al mondo intero un'eventuale
brutale repressione verso gente del tutto aliena da qualsiasi
comportamento violento?
Quando si vengono a creare queste particolari situazioni
anche il potere più cieco non può fare a meno del negoziato. Fu
così che quei coraggiosi lavoratori videro riconosciuto il loro
sindacato che chiamarono Solidarnosc.
Quegli operai non avevano raccolto le provocazioni che a
loro venivano rivolte dagli apparati repressivi, sapevano che
avrebbero vinto solo se la protesta fosse rimasta pacifica e
tale da poter raccogliere l'appoggio del popolo polacco.
Creatività e conflitto
Abbiamo visto come la violenza sia l'espressione di un
approccio volgare al conflitto. Poiché non è ragionevolmente
pensabile un mondo senza conflitti si comprende quanto sia
importante
acquisire
un
approccio
alla
realtà
fronte
alle
aperto
e
rispettoso della diversità.
Tendenzialmente
problematiche
riduce
la
mente
di
le
possibilità
di
situazioni
lettura
a
schemi
interpretativi che, paradossalmente, si caratterizzano per una
crescente
questione.
rigidità
In
con
altre
l'aumentare
parole,
più
dell'insolubilità
una
risposta
si
della
dimostra
inadeguata a risolvere una situazione problematica più tendiamo
a riproporla in modo schematico e rigido non comprendendo come
possa, improvvisamente, rivelarsi efficace un approccio che ha
già
abbondantemente
operativa.
dimostrato
tutta
la
sua
debolezza
Non riusciamo a capire che è proprio la risposta tentata,
e riprodotta in modo stereotipato, a rendere insolubile il
problema più che la sua complessità.
Nelle gravi crisi che possono sorgere tra gli stati,
riveste un ruolo importantissimo l'attività di mediazione di un
Terzo che, godendo della fiducia di entrambe le parti, può
aiutare i contendenti ad uscire dalle sabbie mobili di una
rigida e pericolosa contrapposizione con il ristrutturare i
termini del contenzioso in modo da offrire alle parti una nuova
visione delle cose.
Se si diventa consapevoli che non si ha mai a che fare con
una
realtà
oggettiva,
ma
sempre
con
delle
immagini
della
realtà, e che queste possono modificarsi, allora, si è spinti a
ricercare creativamente delle soluzioni. Purtroppo, si tende,
piuttosto che moltiplicare i punti di vista, a ridurli finché
la mente si fissa su un'unica rappresentazione ritenuta la sola
possibile. L'unicità delle rappresentazioni comporta in genere
la
fissazione
su
un'unica
soluzione
ritenuta,
per
la
sua
ragionevolezza, la sola idonea alla risoluzione del problema e
davanti agli inevitabili insuccessi si è portati a riproporla
con più insistenza ed enfasi.
Di fronte ad una bottiglia riempita a metà c'è chi sarebbe
portato a vedervi una bottiglia mezza piena e chi, invece. una
bottiglia mezza vuota. Nell'esempio. largamente conosciuto per
la sua indubbia efficacia, non si ha difficoltà ad ammettere
che entrambe le prospettive sono corrette, ma se proviamo ad
immaginare
un
conflitto
determinato
dal
fatto
che
ognuno
considera la propria interpretazione la sola possibile potremmo
vedere i "contendenti" ostinatamente fermi sulle loro rigide
posizioni sordi ognuno al punto di vista dell'altro.
Di fronte a mille altre situazioni dimentichiamo, però,
quanto
ci
pare
così
chiaro
e
ovvio
nell'episodio
della
bottiglia e cadiamo nell'errore di ritenere oggettivo quanto da
noi percepito.
Fortunatamente noi abbiamo sempre a che fare con delle
opinioni diverse della realtà piuttosto che con una realtà
oggettiva che, se fosse tale, dovrebbe condurre tutti alle
medesime conclusioni.
Andiamo
paradossale
incontro
quando,
ad
una
chiudendoci
vera
al
e
propria
dialogo,
situazione
opponiamo
con
sempre più rigidità la nostra verità a quella di un altro
altrettanto dogmatico nel proporre la sua; invece di domandarci
come possa essere possibile che l'altro, nonostante il nostro
crescente coinvolgimento nel definire certa una situazione, non
riconosca la validità della nostra soluzione, tendiamo a vedere
sempre più grettezza e ostilità nell'atteggiamento di chi si
rifiuta di prendere atto di come stanno effettivamente le cose.
L'inefficacia della soluzione tentata dovrebbe condurre
tutti a capire che non si ha a che fare con una realtà già data
ma con delle interpretazioni che si possono moltiplicare a
seconda della capacità creativa degli individui.
I conflitti spesso rischiano di assumere esiti devastanti
più che per la loro complessità per la povertà e fissità degli
approcci tentati. Se si riesce a capire che la difficoltà nel
risolvere un conflitto sta nella soluzione data più che nella
sua effettiva insolvibilità allora verrà compiuto ogni sforzo
in direzione di un accordo che possa pacificare le parti.
Un operare creativo ci pare essere quello di Alessandro
Magno, il quale tagliò con un colpo netto il nodo con il quale
Gordio, re della Frigia, aveva legato il giogo al timone del
suo carro. Costui, fattosi avanti per tentare un'impresa in cui
tutti prima di lui avevano fallito e che, pertanto veniva
considerata impossibile, sguainata la spada risolve con un
colpo deciso il famoso enigma che voleva dominatore di tutta la
terra chi fosse riuscito a scioglierlo.
Alessandro con la sua geniale soluzione dimostrò che la
solvibilità di un problema dipende dal modo in cui lo si vede.
Se coloro che, prima di lui, si preoccupavano di sciogliere un
nodo di fatto inestricabile, ponendo così a se stessi una
limitazione che Gordio non aveva posto, Alessandro muovendosi
nella prospettiva di separare il giogo dal carro, trova la
soluzione al famoso enigma.
Un altro famoso esempio che si presta efficacemente a
comprendere le difficoltà in cui si cade nella risoluzione dei
problemi è dato dal problema dei nove punti.15
.
.
.
.
.
.
.
.
.
A chi si rende disponibile per la risoluzione del caso si
chiede di collegare tutti i punti che si vedono tracciando
quattro linee rette senza mai staccare la penna dal foglio.
Quasi tutti coloro che tentano di risolvere il problema
falliscono,
perché
pensano
che
la
soluzione
debba
andare
ricercata all'interno del quadrato, figura che si è portati a
vedere ma che non viene data come condizione nella consegna.
Ricostruendo la rappresentazione a tutti nota del quadrato ci
si
autoimpone
problema.
una
Stando
limitazione
all'interno
che
rende
della
irrisolvibile
figura
del
il
quadrato
occorreranno sempre cinque linee rette per collegare tutti i
punti.
I
più;
però,
continuano
a
muoversi
ostinatamente
all'interno della figura nonostante i continui insuccessi, non
rendendosi
conto
che
è
la
soluzione
tentata
a
rendere
irrisolvibile il problema e non tanto la sua insolubilità. La
soluzione del problema potrà arrivare solo se.. abbandoniamo
l'ingannevole premessa della rappresentazione del quadrato per
muoverci liberamente sui punti.
15
Si veda, a questo proposito, il libro di P. Watzlawick, J. H.
Weakland, R. Fisch, Change, Astrolabio, Roma 1974, pp. 29-42
Un conto è considerare le premesse (l'idea del quadrato),
che arbitrariamente abbiamo inferito dalla disposizione dei
punti, come reali ed immodificabili, un'altra cosa è rendersi
conto che tali premesse, potendo essere vere solo nella misura
in
cui
le
abbiamo
accettate,
possono
essere
liberamente
modificate.
Essere consapevoli che non abbiamo mai a che fare con una
realtà immodificabile ma con delle idee della realtà e che
queste idee si possono, fortunatamente, trasformare ci porta a
superare
nelle
relazioni
con
gli
altri
pericolose
contrapposizioni che ostacolano una positiva risoluzione dei
problemi.
La
creatività
e
il
dialogo
sono
strettamente
connessi. Mantenere aperta la via del dialogo con l'avversario
vuol dire darsi del tempo perché si arrivi ad una felice
ridefinizione della situazione che consenta di sbloccare il
conflitto aprendolo a nuove prospettive di cambiamento.
Un caso di ridefinizione
Un mullah si stava dirigendo a dorso del suo cammello alla
Mecca quando, giunto nei pressi di un'oasi vide tre uomini che
piangevano.
Fermatosi
chiese
che
cosa
era
loro
successo.
Costoro dissero che, non molto tempo prima, era morto il loro
amato padre e che aveva lasciato dei cammelli da dividersi
secondo un criterio che loro non riuscivano a rispettare.
Infatti, il padre nel testamento aveva stabilito che metà dei
cammelli andasse al figlio maggiore, un terzo al secondo e un
nono al più giovane.
Il problema era che i cammelli da spartire erano 17 e non
c'era verso da fare ritornare i conti a meno che non avessero
diviso un cammello, cosa che si rifiutavano di fare amando
molto quegli animali. Non sapendo cosa fare se ne stavano lì
piangendo. Non c'è che dire, il buon padre li aveva messi
davvero in una bella situazione.
Il mullah seguiva, come assorbito dai suoi pensieri, le
espressioni lamentose dei tre uomini, quando, improvvisamente,
disse che avrebbe dato loro di buon grado il proprio cammello
perché, così, ne avrebbero avuti 18 e non ci sarebbero stati
più problemi nella divisione. Gli uomini increduli per tanta
bontà
rifiutarono
il
cammello,
ma,
dinanzi
alla
pacata
determinazione dell'uomo, finirono per accettarlo. E cosi,
dividendo 18 per 2, 9 cammelli andarono al figlio maggiore, 18
per tre, 6 al secondo, 18 per 9, 2 al terzo. Sommando i
cammelli di ognuno, i fratelli si accorsero che questi erano
17. Rimaneva il cammello del mullah.
Costui chiese ai tre fratelli se, ora, erano felici e se
poteva riprendersi il cammello dal momento che risultava di
troppo. I tre fratelli, pieni di riconoscenza e di stupore
perché non avevano capito che cosa davvero fosse successo, gli
consegnarono prontamente il cammello. Il mullah allora li
benedisse montò sul cammello e scomparve rapidamente nel sole
rosso del tramonto.16
A cura di Giuliano Segantini
16
L'episodio è raccontato da J. Galtung in La trasformazione
nonviolenta dei conflitti, EGA, Abele, Torino 2000, p.39
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