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i monologhi della vagina
• Eve Ensler I MONOLOGHI DELLA VAGINA I MONOLOGHI DELLA VAGINA Ad Ariel, che culla la mia vagina e mi fa esplodere il cuore Titolo originale: The Vagina Monologues Prefazione Appartengo alla generazione delle “parti basse”. Quelle erano le parole — pronunciate raramente e sottovoce - che usavano le donne della mia famiglia per indicare tutti i genitali femminili, interni o esterni. Non è che ignorassero termini come vagina, grandi labbra, vulva o clitoride. Al contrario, avevano studiato per diventare insegnanti e probabilmente potevano accedere a fonti di informazione più facilmente di molte altre donne. E non erano nemmeno bacchettone o santarelline, come avrebbero detto loro. Una delle mie nonne veniva pagata dalla sua austera chiesa protestante per scrivere sermoni, dei quali non credeva una parola, e guadagnò ancora di più scommettendo sulle corse dei cavalli. L‟altra fu suffragetta. educatrice, e addirittura una delle prime donne a candidarsi in politica, con grande preoccupazione di molti membri della sua comunità ebraica. Quanto a mia madre, fu una delle prime reporter di giornale, anni prima che io nascessi, ed è sempre stata orgogliosa di allevare le sue figlie in un modo più illuminato di quello in cui era stata educata lei. In mia presenza, non usò mai quelle parole gergali che fanno sembrare sporco o turpe il corpo femminile, e di questo le sono grata. Come vedrete in queste pagine, molte figlie sono cresciute con un fardello ben più pesante. Eppure, mentre crescevo non sentii descrivere il corpo con termini appropriati, e men che meno pronunciati con orgoglio. Per esempio, non venne mai fatto accenno alla parola “clitoride”. Mi ci vollero anni prima di apprendere che le donne posseggono l‟unico organo del corpo umano che non ha altra funzione se non quella di provare piacere. (Se un simile organo fosse un‟esclusiva del corpo maschile, chissà quanto parlare se ne farebbe, e cosa non servirebbe a giustificare!) Quindi, che imparassi a parlare, a scrivere o a prendermi cura del mio corpo, mi veniva insegnato il nome di ognuna delle sue incredibili parti, a eccezione di un‟unica zona innominabile. Mi ritrovai perciò totalmente indifesa davanti alle parole che ti fanno arrossire e alle barzellette oscene .a scuola e, più tardi, alla convinzione generale che gli uomini, sia come amanti sia come medici, ne sanno di più sul corpo delle donne che non le donne stesse. Sperimentai, per la prima volta, quello spirito di conoscenza di sé e di libertà che troverete in queste pagine in India, dove vissi per un paio di anni dopo l‟università. Nei templi e nei santuari indù vidi il lingam, un simbolo astratto dei genitali maschili, ma per la prima volta vidi anche la yoni, un simbolo genitale femminile: una forma simile a un fiore, triangolare oppure ovale a due punte. In seguito venni a sapere che migliaia di anni prima questo simbolo era venerato e considerato più potente del suo equivalente maschile; una credenza che si è conservata nel tantrismo, il cui assioma centrale è l‟incapacità dell‟uomo di raggiungere la pienezza spirituale se non tramite l‟unione sessuale ed emotiva con la superiore energia spirituale della donna. Era una credenza talmente radicata e diffusa che persino alcune delle successive religioni monoteistiche, che escludevano le donne, la conservarono nelle loro tradizioni; comunque, le credenze di questo tipo furono (e sono tuttora) emarginate o ripudiate come eretiche dai capi religiosi delle confessioni dominanti. Per esempio: gli gnostici cristiani veneravano in Sophia lo Spirito Santo femminile e consideravano Maria Maddalena la più saggia tra tutti i discepoli di Cristo; il buddhismo tantrico insegna ancora che la “buddhità” risiede nella vulva; i mistici Sufi dell‟Islam credono che il fana, o rapimento estatico, si possa raggiungere solo attraverso Fravashi, lo spirito femminile; la Shekina del misticismo ebraico è una versione di Shakti, l‟anima femminile di Dio; e persino la Chiesa cattolica comprendeva forme di culto mariano focalizzate più sulla Madre che sul Figlio. In molti paesi dell‟Asia, dell‟Africa e in altre parti del mondo dove le divinità sono ancora rappresentate in forme femminili oltre che maschili, gli altari raffigurano il Gioiello nel Loto e altre rappresentazioni del “Lingam nella Yoni”. In India, le dee indù Durga e Kalì sono incarnazioni dei poteri yonici della nascita e della morte, della creazione e della distruzione. Eppure, quando tornai a casa, l‟India e il culto della yoni mi parvero lontanissimi dagli atteggiamenti degli americani nei confronti del corpo femminile. La stessa rivoluzione sessuale degli anni sessanta ha solo fatto sì che un numero maggiore di donne fosse sessualmente disponibile a un maggior numero di uomini. Il “no” degli anni cinquanta fu semplicemente sostituito da un costante, zelante “si . Solo con l‟attivismo femminista degli anni settanta incominciarono a emergere alternative a tutto ciò che andava dalle religioni patriarcali a Freud (la distanza da A a Z): la doppia morale in materia di comportamento sessuale e il principio, non doppio ma unico, del controllo patriarcale/politico/religioso sul corpo della donna come mezzo di riproduzione. Per me, quei primi anni di scoperte sono simboleggiati da ricordi di certe sensazioni, come per esempio quelle provate nella Casa delle Donne di Judy Chicago a Los Angeles, dove ogni stanza era stata creata da un un‟artista diversa, e dove ho scoperto per la prima volta che il simbolismo femminile era presente anche nella mia cultura. (Per esempio, la forma che chiamiamo “cuore” — la cui simmetria fa pensare molto più alla vulva che non a quell‟organo asimmetrico che ne condivide il nome — è probabilmente il residuo del genitale femminile, declassato da simbolo di potere a quello di amore romantico da secoli di dominio maschile.) Oppure la sensazione provata in un caffè di New York, con Betty Dodson (la incontrerete in queste pagine), quando cercavo di fare la disinvolta mentre lei elettrizzava i vicini di tavolo dalle orecchie lunghe con la sua allegra lode alla masturbazione come forza liberatrice. Oppure quando ritornavo alla rivista Ms. e scoprivo, tra i biglietti sempre spiritosi affissi in bacheca: SONO LE DIECI DI SERA - HAI IDEA DI DOV‟È LA TUA CLITORIDE? Quando le femministe incominciarono a indossare spille e magliette con la scritta CUNT POWER!, (Potere alla Fica!), al fine di riabilitare quella parola svalutata, io riconoscevo in quella lotta la restauraziòne di un antico potere. Dopotutto, il termine indoeuropeo cunt deriva dall‟appellativo di “Kunda” o “Cunti” della dea Kalì, e ha la stessa radice di kin (parentela) e country (patria). Questi ultimi tre decenni di femminismo sono stati anche contrassegnati da una profonda rabbia di fronte alla violenza esercitata contro il corpo femminile, sotto forma di stupro, abuso infantile, violenza antilesbica, molestie sessuali, terrorismo contro la libertà riproduttiva, o quei crimine internazionale che è la mutilazione genitale femminile. La salute mentale delle donne è stata preservata portando alla luce del sole queste esperienze segrete, chiamandole con il loro nome e trasformando la nostra rabbia in azione concreta per ridurre la violenza e curare le ferite. Parte dell‟ondata di creatività prodotta dall‟energia racchiusa nel raccontare, svelare la verità, è rappresentata da questa pièce, da questo libro. La prima volta che ho visto Eve Ensler recitare i testi di queste pagine — tratti da più di duecento interviste e poi trasformati in poesia per il teatro — ho pensato: Questo lo conosco già: è il viaggio della verità che abbiamo iniziato una trentina d‟anni orsono. E lo èdavvero. Le intervistate le hanno affidato le loro esperienze più intime, da quelle sessuali al parto, dalla guerra non dichiarata contro il sesso femminile alla nuova libertà dell‟amore tra donne. In ogni pagina emerge il potere insito nell‟esprimere l‟indicibile — che fa capolino anche nella storia dietro le quinte del libro stesso. Un editore aveva infatti pagato un anticipo per assicurarselo, poi, ripensandoci a mente fredda, disse a Eve Ensler che poteva tenersi i soldi purché portasse il libro e la sua V da qualche altra parte. (Ringraziamo Villard per aver pubblicato tutte le parole delle donne, persino nel titolo.) Ma il valore dei Monologhi della vagina va ben oltre l‟espiazione di un passato pieno di atteggiamenti negativi perché propone un modo personale, fondato sul corpo, di avviarsi verso il futuro. Penso che i lettori, sia uomini sia donne, possano riemergere da questa lettura non solo con la sensazione di una maggiore libertà interiore, e anche reciproca, ma con alcune alternative al vecchio dualismo patriarcale di femminile/maschile, corpo/mente e sessuale/spirituale, dualismo radicato nella divisione delle nostre identità fisiche in “la parte di cui si parla” e “la parte di cui non si parla”. Se un libro con “vagina” nel titolo vi sembra ancora lontanissimo da simili questioni filosofiche e politiche, vi racconto un‟altra delle mie tardive scoperte. Negli anni settanta, mentre facevo ricerche alla Biblioteca del Congresso, mi imbattei in un‟oscura storia dell‟architettura religiosa che dava per scontato un fatto: il disegno tradizionale della maggior parte degli edifici patriarcali di culto imita il corpo femminile. Perciò, ci sono un‟entrata più esterna e una più interna, grandi labbra e piccole labbra, una navata centrale vaginale che porta all‟altare, due strutture ovariche da ambo i lati e poi, nel sacro centro, l‟altare o utero, dove avviene il miracolo, dove i maschi procreano. Anche se questo paragone mi era nuovo, colpiva nel segno. Ma certo, ho pensato. La cerimonia principale delle religioni patriarcali è quella in cui degli uomini fanno proprio il potere yonico della creazione generando simbolicamente. Non c‟è da meravigliarsi se i capi religiosi maschi ripetono così spesso che gli esseri umani sono nati nel peccato, perché siamo stati generati da creature di sesso femminile. Solo obbedendo alle regole del patriarcato possiamo rinascere attraverso gli uomini. Non c‟è da meravigliarsi che preti e pastori in sottana spruzzino sulle nostre teste un surrogato del fluido natale, ci diano nuovi nomi e cipromettano la rinascita alla vita eterna. Non c‟è da‟ meravigliarsi che il clero tenti di tenere le donne lontane, dall‟altare, esattamente come le donne sono tenute lontane dal controllo del proprio potere riproduttivo. Vuoi sul piano simbolico vuoi nella realtà, tutto mira a dominare il potere che risiede nel corpo femminile. Da allora, non ho più provato lo stesso senso di estraniazione, entrando in una struttura religiosa patriarcale. Anzi, percorro la navata vaginale progettando di riportare all‟altare sacerdoti — femmine oltre che maschi — che non disprezzino la sessualità femminile, di universalizzare i miti per soli uomini della Creazione, di moltiplicare le parole e i simboli spirituali e di restituire lo spirito di Dio a tutte le creature viventi. Se il ribaltamento di qualcosa come cinquemila anni di patriarcato sembra un‟impresa ardua, limitiamoci a riconoscere e festeggiare ogni progresso del rispetto di sé che si compia lungo il percorso. A questo pensavo osservando alcune bambine che disegnavano cuori sui loro quaderni, mettendo persino i cuoricini sulle i al posto dei puntini, e mi domandavo: Saranno attratte da questa forma primordiale perché è così simile al loro corpo? Ci ho pensato di nuovo mentre ascoltavo un gruppo di una ventina di ragazzine dai nove ai sedici anni che avevano deciso di trovare una parola collettiva comprendente tutto: vagina, labbra, clitoride. Dopo molte discussioni, la scelta cadde su “fascio di potere”. Ma la cosa più importante è che la discussione si era svol-. ta tra urla e risate. Ho pensato: Quanta strada è stata fatta, per fortuna, da quel “parti basse “pronunciato sottovoce. Vorrei che le mie antenate avessero saputo che il loro corpo era sacro. Con l‟aiuto di voci straordinarie‟ e di parole sincere come quelle di questo libro, credo che le nonne, le mamme e le figlie del futuro guariranno se stesse. E miglioreranno il mondo. Introduzione “Vagina.” Ecco, l‟ho detto. “Vagina.” L‟ho ripetuto. Sono tre anni che pronuncio questa parola. L‟ho detta in teatri, università, salotti, caffè, cene mondane, programmi radiofonici in tutto il paese. La direi in televisione se qualcuno me lo permettesse. La pronuncio centoventotto volte ogni sera quando rappresento il mio spettacolo, I monologhi della vagina, che si basa su interviste a un gruppo eterogeneo di più di duecento donne. L‟argomento è la vagina. La pronuncio nel sonno. La dico perché non è previsto che la dica. La dico perché è una parola invisibile — una parola che suscita ansia, imbarazzo, disprezzo e disgusto. La dico perché credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti. La dico perché un giorno o l‟altro vorrei sentirmi a mio agio pronunciandola, e non vergognarmi o sentirmi in colpa. La dico perché non sono riuscita a trovare una parola che sia più completa, che descriva veramente l‟intera zona e tutte le sue parti. “Passera” potrebbe funzionare, ma si porta appresso troppe associazioni. E poi, non credo che per la maggior parte di noi sia ben chiaro di cosa parliamo quando diciamo “passera”. “Vulva~~ e un termine valido, più specifico, ma non credo che la maggior parte di noi abbia le idee chiare su ciò che comprende la vulva. Dico “vagina” perché quando ho cominciato a pronunciare quella parola ho scoperto quanto fossi frammentata, e come risultasse scollegato il mio corpo dalla mia mente. La mia vagina era una cosa che stava laggiù, lontana. Di rado la vivevo, o la prendevo in considerazione. Ero occupatissima a lavorare, a scrivere; a fare la mamma, l‟amica. Non vedevo la mia vagina come una risorsa primaria, un luogo di nutrimento, umorismo e creatività. La collegavo con una gran tensione, una gran paura. Da ragazzina sono stata stuprata, e pur essendo cresciuta e avendo sperimentato tutto quello che le donne adulte fanno con la propria vagina, non ero mai rientrata veramenté in quella parte del corpo dopo la violenza subìta. In pratica, avevo vissuto la maggior parte della mia vita senza il mio motore, il mio centro, il mio secondo cuore. Dico “vagina” perché voglio che la gente reagisca, e così è stato. Hanno cercato di censurare quella parola ovunque siano arrivati I monologhi della vagina: negli annunei sui principali quotidiani, sui biglietti venduti ai grandi magazzini, sugli striscioni appesi davanti ai teatri, nella segreteria telefonica dei botteghini dove la voce registrata diceva soltanto “Monologhi” o “Monologhi della V.”. «E perché poi?» chiedo. «Vagina non è una parola pornografica; anzi, è un termine medico, una parola che serve a indicare una parte del corpo, come “gomito~~, “mano~~ o “costola”.)> «Non sarà pornografica» rispondono «ma è sporca. E se la sentono le nostre bambine, che cosa diciamo loro?» «Potreste dire che hanno una vagina» ribatto. «Se non lo sanno già. Forse potreste festeggiare la scoperta. » «Ma noi non chiamiamo “vagina” la loro vagina» protestano. «E come la chiamate?» domando. E loro mi dicono: “patatina”, “cosina”, “topina”... e l‟elenco non finisce più. Dico “vagina” perché ho letto le statistiche e ovunque succedono cose terribili alle vagine: ogni anno negli Stati Uniti vengono stuprate 500 mila donne; 100 milioni hanno subìto mutilazioni genitali in tutto il mondo; e la lista continua. Dico “vagina” perché voglio che queste violenze cessino, e so che non cesseranno finché non riconosciamo che succedono; l‟unico modo per raggiungere questo scopo è permettere alle donne di parlarne senza timore di punizioni o castighi. Fa paura pronunciare questa parola. “Vagina.” All‟inizio hai l‟impressione di sfondare un muro invisibile. “Vagina.” Ti senti in colpa, a disagio, come se qualcuno stesse per colpirti. Poi, dopo che l‟hai detta per la centesima o la millesima volta, ti viene in mente che è la tua parola, il tuo corpo, la tua parte più essenziale. All‟improvviso ti rendi conto che la vergogna e l‟imbarazzo che provavi pronunciando-la miravano a mettere a tacere il tuo desiderio, a erodere la tua ambizione. Poi cominci a usarla sempre più spesso. La dici con una sorta di passione, di premura, perché senti che, se smetti di pronunciarla, sarai di nuovo sopraffatta dalla paura e ricadrai in un mormorio imbarazzato. Così la ripeti tutte le volte che ti capita, la fai emergere in ogni conversazione. La tua vagina ti emoziona: vuoi studiarla, espIorana, conoscerla, scoprire come ascoltarla, darle piacere, e conservarla sana e saggia e forte. Impari a soddisfare te stessa e a insegnare al tuo amante a soddisfarti. Sei consapevole della tua vagina tutto il giorno, ovunque ti trovi — in macchina, al supermercato, in palestra, in ufficio. Sei consapevole di questa parte di te così preziosa, meravigliosa generatrice di vita che hai fra le gambe, e‟perciò sorridi, piena d‟orgoglio. E quanto più le donne pronunciano la parola vagina, minore è l‟effetto che fa; diventa parte del nostro linguaggio, parte della nostra vita. La nostra vagina diventa integrata, rispettata, sacra. Diventa parte del nostro corpo, collegata alla nostra mente, e carburante per il nostro spirito. La vergogna se ne va e la violenza cessa, perché la vagina è qualcosa di visibile e di reale, ed è associata a donne potenti e sagge che parlano di vagina. Ci aspetta un lungo viaggio. Questo è l‟inizio. Qui possiamo pensare alla nostra vagina, conoscere quella di altre donne, ascoltare storie e interviste, rispondere a domande e farne. Qui abbandoniamo i miti, la vergogna e la paura. Qui possiamo esercitarci a pronunciare la parola, perché, come sappiamo, è la parola che ci spinge avanti e ci rende libere. “VAGINA.” Scommetto che siete preoccupate. Io ero preoccupata. E per questo che ho cominciato questa pièce. Ero pneoccupata per le vagine. Ero preoccupata per quello che pensiamo delle vagine, e ancor più per quello che non pensiamo. Ero preoccupata per la mia vagina. Mi serviva un contesto di altre vagine — una comunità, una cultura di vagine. Sono circondate da tanta oscurità e segretezza... come il triangolo delle Bermude. Nessuno torna mai da laggiù a raccontarci com‟è. Per prima cosa, non è nemmeno tanto facile trovare la propria vagina. Molte donne passano settimane, mesi, a volte anni, senza guardarla. Una potente donna d‟affari che ho intervistato mi ha detto èhe era troppo impegnata; non aveva tempo. Guardarsi la vagina, ha detto, richiede un‟intera giornata. Ti devi sistemare davanti a uno specchio, meglio se a figura intera. Devi trovarti nella posizione perfetta, con la luce perfetta, che poi è sempre un po‟ oscurata dallo specchio e dalla posizione in cui sei. Devi contorcerti, marcare il collo per tirar su la testa, spezzandoti la schiena. Alla fine sei stanca morta... Ha detto che non aveva tempo per farlo. Era troppo impegnata. Così ho deciso di parlare alle donne della loro vagina, di fare delle interviste sulla vagina, che sono diventate i monologhi della vagina. Ho parlato con più di duecento donne, giovani, vecchie, sposate, single, lesbiche: docenti, attrici, manager, professioniste del sesso; donne afroamericane, ispaniche, asiatiche, native americane, caucasiche, ebree. All‟inizio erano riluttanti, un po‟ timide. Ma una volta partite, non riuscivi più a fermarle. Sotto sotto le donne adorano parlare della loro vagina. Le eccita molto, forse perché nessuno gliel‟ha mai chiesto prima. Cominciamo dalla parola “vagina”. Nel migliore dei casi fa venire in mente un‟infezione, forse uno strumento chirurgico: «Presto, infermiera, mi porti la vagina». «Vagina. » «Vagina. » Puoi dirla quante volte ti pare, ma non suona mai come una parola che hai voglia di pronunciare. E una parola assolutamente ridicola, non ha niente di sexy Se la usi durante un rapporto, cercando di esprimerti in modo politicamente corretto — «Tesoro, mi potresti carezzare la vagina?» — distruggi l‟atmosfera all‟istante. Sono preoccupata per la vagina, per come la chiamiamo e come non la chiamiamo. C‟è chi la chiama “cosina”. Una donna di lì mi ha raccontato che sua madre le diceva sempre: «Non portare le mutandine sotto il pigiama, cara; devi far prendere aria alla cosina». La chiamano anche “figa” o “fica”, “fessa~~, ~ E ancora: “topa~~, “sorca ,, “~ “bernarda‟~, “tana~~, “farf~a , mortaio” e “cespuglio”, “natura”, e poi “brugna”, “fregna”, “salvadanaio”, “cinsfornia”, “pertugio”, “gnocca~~, “caverna”, “passera”, “mussa”, “boschetto”, “patata”, “patacca”, “patonza”, “meri. Sono preoccupata per le vagine. Alcuni monologhi ricalcano parola per parola le interviste, altri sono collage di interviste, e in qualche caso ho solo cominciato con il seme di un‟intervista e mi sono divertita a continuare. Questo monologo è piuttosto simile a come l‟ho sentito. L‟argomento, comunque, è emerso in ogni intervista, e spesso imbarazzava. Perché l‟argomento era... Peli Non puoi amare la vagina, se non ami i peli. Molta gente non ama i peli. Il mio primo e unico marito li odiava. Diceva che erano arruffati e sporchi. Mi faceva rasare la vagina. Così aveva un‟aria turgida ed esposta, da bambina. Lo eccitava. Quando facevamo l‟amore, la mia vagina provava le stesse sensazioni che deve provare una barba. Lo sfregamento era piacevole e doloroso. Come grattare una puntura di zanzara. Mi sembrava che andasse a fuoco, c‟erano pomfi rossi fiammanti. Mi sono rifiutata di rasarmela di nuovo. Poi mio marito ha avuto una relazione. Quando siamo andati a una seduta di terapia di coppia, lui ha detto che scopava con altre perché io non lo accontentavo sessualmente. Non volevo rasarmi la vagina. La terapeuta aveva un forte accento tedesco e sospirava tra una frase e l‟altra per mostrare la sua comprensione. Mi ha chiesto perché non volevo accontentare mio marito. Io ho risposto che mi sembrava strano. Mi ero sentita piccina quando i peli laggiù se n‟erano andati, mi era uscita una voce da bambina, e la pelle si era irritata tanto che neanche la lozione alla calamina era servita. Lei mi ha detto che il matrimonio era un compromesso. Io le ho chiesto se rasandomi la vagina gli avrei fatto smettere di scopare in giro, le ho chiesto se aveva avuto molti casi come il mio. Lei ha risposto che le domande servivano solo a diluire il processo. Dovevo lanciarmi. Era sicura che fosse un buon inizio. Quando siamo tornati a casa, s‟è messo lui a radermi la vagina. Era come un premio per la seduta di terapia. L‟ha tosata qua e là, e c‟era un po‟ sangue nella vasca da bagno ma non se ne è neanche accorto, felice com‟era di radermi. Poi, più tardi, quando mio marito stava spingendo contro di me, ho sentito la sua punta acuminata conficcàrsi dentro il mio corpo, dentro la mia tumida vagina spoglia. Non c‟era nessuna protezione. Non c‟era nessun cuscinetto. Mi sono resa conto allora che i peli sono lì per una buona ragione — sono la foglia attorno al fiore, il prato attorno alla casa. Devi amare i peli per poter amare la vagina. Non puoi scegliere le parti che preferisci. Comunque, mio marito non ha mai smesso di andare in giro a scopare con chi gli pareva. Ho fatto le stesse domande a tutte le donne che ho intervistato, e poi ho scelto le risposte che preferivo. Anche se, devo ammetterlo, non ho mai sentito una risposta che non mi sia piaciuta. F Se la tua vagina si vestisse, che cosa indosserebbe? Una giacca di pelle. Calze di seta. Una pelliccia di visone. Un boa rosa. Uno smoking da uomo. I jeans. Qualcosa di aderente. Smeraldi. Un abito da sera. Lustrini. Solo Armam. Un tutù. Biancheria nera trasparente. Un abito da ballo di taffetà. Qualcosa che si possa lavare in lavatrice. Una maschera di carnevale. Un pigiama di velluto viola. Angora. Un fiocco rosso. Ermellino e perle. Un grande cappello pieno di fiòri. Un cappello di leopardo. Un kimono di seta. Un basco. Pantaloni di felpa. Un tatuaggio. Un congegno che dà la scossa per tener lontani gli sconosciuti inopportuni. Tacchi alti. Pizzi e anfibi.. Piume porpora, rametti e conchiglie. Cotone. Uno scàmiciato. Un bikini. Un impermeabile di gomma. Se la tua vagina potesse parlare, che cosa direbbe, in due parole? Va‟ più piano. Sei tu? Nutrimi. Ho voglia. Mmm, buono. Oh, sì. Ricomincia. No, lì. Leccami. Resta a casa. Scelta coraggiosa. Ripensaci. Ancora, per favore. Abbracciami. Giochiamo. Non smettere. Ancora, ancora. Ti ricordi di me? Vieni dentro. Non ancora. Wow! Sì, sì. Cullami. Entra a tuo rischio e pericolo. Oh, Dio! Grazie a Dio. Sono qui. Andiamo. Trovami. Grazie. Bonjour. Troppo duro. Non mollare. Dov‟è Brian? Così va meglio. SI, lì. Lì. L‟inondazione (Ebrea, accento del Queens) Ho intervistato un gruppo di donne tra i sessanta-cinque e i settantacinque anni. Queste interviste sono state le più intense di tutte, forse perché a molte di queste donne non era mai capitato prima di parlare della vagina. Purtroppo, la maggior parte delle donne di questo gruppo aveva una scarsissima consapevolezza della propria vagina. Mi sono sentita incredibilmente fortunata a essere cresciuta nell‟era femminista. Una donna di settantadue anni non aveva mai visto la sua vagina. Si era solo toccata lavandosi sotto la doccia, ma mai con intenzione consapevole. Non aveva mai avuto un orgasmo. A settantadue anni incominciò una psicoterapia. Un pomeriggio incoraggiata dalla sua terapeuta, se ne andò a casa, accese alcune candele, si fece un bagno, mise su il disco preferito, e scoprì la propria vagina. Disse che le ci volle più di un‟ora perché ormai aveva l‟artrite, ma poi, quando finalmente trovò la clitoride, scoppiò a piangere. Questo monologo è dedicato lei. “Là sotto?” È dal ‘53 che non vado là sotto. No, non ha niente a che vedere con Eisenhower. No, no, è una cantina, là sotto. E molto umida, viscida. Non viene mica voglia di andarci, là sotto. Dia retta a me. C‟è da sentirsi male. Soffocante. Nauseante. L‟odore di umidità e la muffa, eccetera. Pff ! Ha una puzza insopportabile. Ti impregna i vestiti. No, non c‟è stato nessun incidente, là sotto. Non è saltato tutto in aria o ha preso fuoco o roba del genere. Non è stato così drammatico. Voglio dire... be‟, fa niente. No. Fa niente. Non posso parlare di questo con lei. Per che motivo una ragazza in gamba come lei va in giro a parlare con le vecchie signore della loro... “là sotto”? Non si facevano cose del genere quando ero ragazza io. Cosa? Oh, Signore, d‟accordo. C‟era un tipo, Andy Leftkov. Era carino... be‟, io lo trovavo carino. E poi era alto, come me, e mi piaceva veramente. Mi ha invitato a uscire con lui per fare un giro in macchina... Non posso dirglielo. Non posso farlo, non riesco parlare di “là sotto”. Si sa che c‟è e basta. Come la cantina. Certe volte c‟è un brontolio là sotto. Si sente il rumore delle tubature, e gli animaletti, o affari piccoli ci restano impigliati ed è bagnata, e ogni tanto devono venire a tappare le perdite. Per il resto, la porta resta chiusa. Te ne dimentichi. Volevo spiegargli che il suo bacio mi aveva preso alla sprovvista, che normalmente non ero cosi. Ho cercato di pulire quel lago col mio vestito. Era un vestito nuovo, giallo pallido, e diventò orribile macchiato a quel modo. Andy mi ha riaccompagnato a casa e non ha più detto una parola, non una, e quando sono uscita e ho chiuso la portiera della sua macchina, ho chiuso bottega definitivamente. Chiusa a chiave. Non l‟ho mai più riaperta. Voglio dire, fa parte della casa, ma non la vedi, né ci pensi. Deve esserci, però, perché ogni casa ha bisogno di una cantina. Altrimenti la camera da letto sarebbe nel seminterrato. Sono uscita con qualche ragazzo dopo quella volta, ma l‟idea dell‟inondazione mi rendeva troppo nervosa. Non ci sono neanche più arrivata vicino. Ah già, Andy. Andy Leftkov. Giusto. Andy era bellissimo. E pure un buon partito. È così che si diceva ai miei tempi.. Una volta facevo sogni, sogni assurdi. Perché? Non so perché. Burt Reynolds ed io. Eravamo nella sua automobile, stupidi, una Chevy Bel Air bianca, nuova fiammante. Ricordo di aver pensato che le mie gambe erano troppo lunghe per quel sedile. Io ho le gambe lunghe e riandavano a sbattere contro il cruscotto. Ero lì a guardare le mie grandi rotule quando lui mi ha baciato in quel modo sorprendente, sul genere “Prendimi con la forza come nei film”. E io mi sono eccitata, tanto eccitata, e... be‟, c‟è stata un‟inondazione “là sotto”. Non riuscivo a frenarla. Era come se quella forza della passione, quel fiume della vita, sgorgasse impetuoso dal mio corpo per inondare, attraverso le mutandine, proprio il sedile della sua nuova Chevy Bel Air bianca. Non ha mai fatto molto per me nella vita, ma nei sogni... Era sempre più o meno lo stesso sogno. Eravamo fuori a cena. Io e Burt. In uno di quei ristoranti che si vedono ad Atlantic City, grandissimo con i candelieri e roba del genere e migliaia di camerieri col panciotto. Burt mi offriva un mazzolino di orchidee. Io me l‟appuntavo sulla giacca. Ridevamo. Mangiavamo cocktail di gamberetti. Gamberetti enormi, favolosi. Ridevamo ancora di più. Eravamo molto felici insieme. Poi lui mi guardava gli occhi e mi tirava a sé in mezzo al ristorante — e proprio mentre stava per baciarmi, la sala incominciava a tremare, i piccioni volavano fuori da sotto il tavolo - non so che ci facessero lì i piccioni - e tutto il ristorante si riempiva d‟acqua, c‟erano pesci e barchette e la fiumana veniva dritta da “là sotto”, dal mio corpo. Sgorgava e non smetteva più. Sgorgava fuori come Andy ha detto che puzzava come latte rancido e gli macchiava il sedile della macchina. Non era pipì e aveva un cattivo odore, be‟, francamente, io non ho sentito proprio nessun odore, niente, ma lui ha aggiunto che ero “una ragazza strana e puzzolente”, e Burt era immerso fino al ginocchio nella mia inondazione, e gli leggevo in faccia che era terribilmente seccato perché l‟avevo rifatto, e fissava inorridito i suoi amici, Dean Martin e simili, che ci passavano accanto nuotando in smoking e abito da sera. Ora non faccio più quei sogni. Non da quando mi hanno portato via quasi tutto quello che c‟è “là sotto”. Hanno tolto l‟utero, le tube, tutto il marchingegno. Il dottore pensava di essere spiritoso. Mi ha detto: se non si usa, si perde. Ma ho scoperto che era cancro. Tutto quel che c‟era intorno è stato tolto. Chi ne ha bisogno, comunque? Giusto? E sopravvalutato. Io ho fatto altre cose. Adoro le mostre canine. Vendo oggetti d‟antiquariato. Nel 1593, nel corso di un processo per stregoneria, l‟avvocato che conduceva le indagini (un uomo sposato) scoprì, a quanto pare per la prima volta, la clitoride; l‟identificò come un capezzolo del diavolo, prova certa della colpevolezza della strega. È un piccolo pezzetto di carne, protuberante a guisa di capezzolo, della lunghezza di un centimetro e mezzoche il carceriere “percepitolo al primo sguardo, non intendeva svelare, perché esso era adiacente a un luogo talmente segreto che non era convenevole a vedersi. Tuttavia, alla fine, non volèndo nascondere una particolarità così strana”, la mostrò ad alcuni degli astanti. I presenti non avevano mai visto niente del genere. La strega fu condannata. Che cosa indosserebbe? Che razza di domanda è questa? Si metterebbe addosso un grande cartello con scritto: “Chiuso per inondazione”. Cosa direbbe? Gliel‟ho già detto. Non è così. Non è come una persona che parla. Ha smesso di essere un qualcosa che parla molto tempo fa. Era “un posto. Un posto dove non si va. È chiuso per sempre, sotto la casa. È “là sotto”. Contenta, adesso? Mi ha fatto parlare — me le ha tirate fuori. Ha costretto una vecchia signora a parlare di “là sotto”. Si sente meglio ora? [Si allontana; torna indietro.] Sa una cosa? In realtà, lei è la prima persona con cui ho parlato di questo argomento, e mi sento un po‟ meglio. The Woman‟s Encyclopedia of Myths and Secrets (L‟Enciclopedia dei miti e dei segreti della donna) Ho intervistato molte donne sulle mestruazioni. A un certo punto si è verificato un evento corale, una specie di selvaggia canzone collettiva. Le donne si davano la voce fra di loro. Ho lasciato che le voci sanguinassero una dentro l‟altra. Mi sono persa in tutto quel sangue. Avevo dodici anni. Mia madre mi ha dato uno schiaffo. Classe seconda, sette anni, mio fratello stava parlando di quelle “cose”. Non mi piaceva il modo in cui rideva. Sono andata da mia madre. «Cos‟è un ciclo?» ho chiesto. «E‟ una cosa che succede con scadenza regolare» mi ha risposto. «Come il ciclo solare.» Mio Papà mi diede un biglietto di auguri: “Alla mia piccolina che non è più tanto piccola”. Ero terrorizzata. Mia madre mi mostrò quegli spessi assorbenti igienici. Dovevo mettere quelli usati nella spazzatura sotto il lavandino della cucina. Ricordo che sono stata una delle ultime.. Avevo tredici anni.Non vedevamo l‟ora che ci venissero. Avevo tanta paura. Ho cominciato a mettere gli assorbenti usati in sacchetti di carta marrone nei ripostigli bui sotto il tetto. Ottava classe. Mia madre ha detto: «Oh, che bello». Mi ha mostrato come mettere un assorbente interno. È entrato solo a metà. Alle medie — goccine marroni prima che arrivassero. Sono coincise con un po‟ di peluria sotto le braccia, che era cresciuta irregolarmente: un asce1la aveva i peli, l‟altra niente. Ho associato le mestruazioni a fenomeni inspiegabili. Avevo sedici anni, ero un pò spaventata. Mia madre ha detto che dovevo usare una pezzuola. Niente Tampax. Non si poteva mica infilare qualsiasi cosa lì dentro. La mamma mi ha dato la codeina. Avevamo i letti a castello. Io sono andata in quello di sotto e mi sono sdraiata li. Mia madre stava così scomoda. Mi sono messa un po‟ di cotone idrofilo. L‟ho detto a mia madre. Lei mi ha regalato delle bambole di carta con la faccia di Elisabeth Taylor. Una notte, sono arrivata a casa tardi e mi sono infilata nel letto senza accendere nessuna luce. La mamma aveva trovato i tamponi di cotone usati e li aveva messi tra le lenzuola del mio letto. Quindici anni. Mia [Augurio/congratulazione in dato uno schiaffo. Non buona madre ebraico] sapevo o ha detto: poi fosse e se «Mazeltov» mi ha una cosa cattiva. Avevo dodici anni, ero ancora in mutande. Non mi ero vestita. Ho guardato giù sulle scale Eccolo lì. Ho guardato giù e ho visto il sangue. Le mie mestruazioni sembravano la miscela della torta prima che sia cotta. Settima classe; la mamma se n‟è accorta „dalle mie mutande. Allora mi ha dato dei pannolini di plastica. Ho saputo che le indiane stavano sedute sul muschio per cinque giorni. Avrei voluto essere una nativa americana. Mia madre è stata molto affettuosa: «Vado a prenderti un assorbente». Avevo quindici anni e non vedevo l‟ora che mi venissero. Ero alta e continuavo a crescere. Quando la mia amica Marcia le ha avute, ha festeggiato. La sua famiglia ha preparato una cena. Quando ho visto in palestra alcune ragazze bianche con gli assorbenti interni, ho pensato che fossero delle poco di buono. Tutte „volevamo le „mestruazioni. Le volevamo‟ subito. Ho visto quelle gocce rosse sulle piastrelle rosa e ho detto: «Sììì». Tredici anni. Era prima che mettessero in commercio gli assorbenti igienici. Mia madre era contenta per me. ”Devi fare attenzione al vestito. Io ero nera e povera. Sangue sul dietro del mio vestito in chiesa.‟Non si vedeva, ma mi sentivo in colpa. Ho pensato che era tremendo. Usavo gli OB e mi piaceva infilare le dita lì dentro. Undici anni, portavo un paio di pantaloni bianchi. Il sangue ha cominciato a uscire. Avevo dieci anni e: mezzo.‟ Nessuna preparazione - Non sono pronta. Roba appiccicosa e marrone sulle mutande. Mi è venuto mal di schiena. Mi sentivo arrapata. Avevo paura che la gente sentisse l‟odore. Paura che dicesse che puzzavo di pesce. Vomitavo, non riuscivo a mangiare. Terrorizzata. Dodici anni. Ero felice. La mia amica aveva un tavolino per le sedute spiritiche, ha chiesto quando ci sarebbero venute le mestruazioni, ho guardato giù, e ho visto il sangue. Ho guardato giù ed eccolo lì. Mi piacciono. Sembrano vernice. Sono una donna. A volte sono molto rosse le gocce che cadono nel gabinetto. Certe volte sono marroni e mi preoccupo. Mi è venuta fame. Non credevo che mi sarebbero venute. Avevo dodici anni. Mia madre mi ha dato uno schiaffo e mi ha portato una camicia di cotone rosso. Mio padre è uscito comprare una bottiglia sangria. Hanno cambiato completamente il mio modo di sentire me stessa. Sono diventata molto silenziosa e matura. Una brava donna vietnamita — una tran- quilla lavoratrice, virtuosa, che non parla mai. Nove anni e mezzo. Ero sicura che sarei morta dissanguata, ho appallottolato le mutande e le ho buttate in un angolo. Non volevo preoccupare i miei genitori. Mia madre mi ha dato acqua calda e vino e mi sono addormentata. Ero in camera, a casa di mia madre. Avevo una raccolta di fumetti. Mia madre ha detto: «Non sollevare la scatola dei giornalini». Le mie amiche mi hanno detto che si ha un‟emorragia ogni mese. Mia madre entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici. Non poteva sopportare che diventassi grande. «Cara signorina Carling, la prego di dispensare mia figlia dalla pallacanestro. Si è appena sviluppata». Al campo mi hanno detto di non fare il bagno con le mestruazioni. Mi hanno spennellata di anti settico. Nel corso delle mie interviste ho conosciuto nove donne che avevano avuto il loro primo orgasmo nello stesso identico posto. Erano vicine alla quarantina o l‟avevano passata da poco. Tutte avevano partecipato, in momenti diversi, alle sedute dirette da una donna coraggiosa e straordinaria, Betty Dodson. Da venticinque anni Betty aiuta le donne a localizzare, amare e masturbare la propria vagina. Ha diretto sedute di gruppo e private. Ha aiutato centinaia di donne a recuperare il proprio centro. Questo brano è dedicato a lei. Il laboratorio sulla vagina (Leggero accento inglese) La mia vagina è una conchiglia, una tenera conchiglia rosa rotonda, che si apre e si chiude. La mia vagina è un fiore, un tulipano eccentrico, dal centro acuto e profondo, il profumo tenue, i petali delicati ma robusti. Questo non lo sapevo prima. L‟ho imparato al laboratorio sulla vagina. L‟ho imparato da una donna che dirige il laboratorio sulla vagina, una donna che crede nelle vagine, che vede veramente le vagine, che aiuta le donne a vedere la propria vagina vedendo le vagine altrui. Nella prima seduta la donna che dirige il laboratorio sulla vagina ci ha chiesto di fare un disegno della nostra “unica, bellissima, favolosa vagina”. E così che l‟ha definita. Voleva sapere che cosa ci ricordava la nostra unica, bellissima, favolosa vagina. Una donna incinta tracciò una grande bocca rossa urlante da cui usciva un fiotto di monete. Un‟altra donna magrissima disegnò un grande piatto da portata decorato con un disegno tipo Devonshire. Io ho disegnato un enorme palla nera con attorno ghirigori svolazzanti. La palla nera equivaleva a un buco nero nello spazio. Le linee svolazzanti erano persone o cose o semplicemente atomi che si erano smarriti laggiù. Avevo sempre pensato alla mia vagina come a un vuoto anatomico che risucchia dall‟ambiente circostante particelle e oggetti a caso. Avevo sempre percepito la mia vagina come un‟entità indipendente, che roteava come una stella nella sua galassia, e che avrebbe finito per esaurire la propria energia gassosa oppure esplodere e dividersi in migliaia di altre vagine più piccole, ognuna roteante nella sua galassia. Non pensavo alla mia vagina in termini pratici o biologici. Non la vedevo, per esempio, come una parte del mio corpo, qualcosa che ho tra le gambe, attaccata a me. Al laboratorio ci è stato chiesto di guardare la nostra vagina con uno specchietto in mano. Poi, dopo un attento esame, dovevamo raccontare al gruppo quello che avevamo visto. Devo confessare che fino a quel momento tutto ciò che sapevo sulla mia vagina era basato sul sentito dire o sull‟invenzione. Non l‟avevo mai vista veramente. Non mi era mai venuto in mente di guardarla. La mia vagina esisteva su un piano astratto. Sembrava co&ì riduttivo e goffo guardarla, distese sui lucidi tappetini azzurri, con i nostri specchietti in mano. Mi ha fatto pensare ai primi astronomi coi loro telescopi primitivi. Sulle prime l‟ho trovata piuttosto inquietante, la mia vagina. Come la prima volta che vedi un pesce sventrato e scopri quell‟altro mondo complesso e sanguinolento all‟interno, proprio sotto la pelle. Era così cruda, così rossa, così fresca. E quello che mi sorprendeva di più era la quantità di strati. Strati dentro strati, che si aprono su altri strati. La mia vagina era come un evento mistico che continua a dispiegare un altro aspetto di sé, il che è in realtà un evento in sé, ma lo capisci solo dopo. La mia Vagina mi ha lasciato stupefatta. Non riuscivo a parlare quando è venuto il mio turno. Ero ammutolita. Avevo aperto gli occhi su ciò che la coordinatrice del laboratorio chiamava “stupore vaginale”. Volevo solo starmene lì distesa sul mio tappetino, con le gambe aperte, a esaminare la mia vagina per sempre. Era meglio del Grand Canyon, antica e piena di grazia. Aveva l‟innocenza e la freschezza di un vero giardino all‟inglese. Era buffa, molto buffa. Mi ha fatto ridere. Poteva giocare a nascondino, aprirsi e chiudersi. Era una bocca. Era il mattino. E poi, per un istante, mi è venuto in mente che era me, la mia vagina: era chi ero io. Non era un‟entità a sé. Era dentro di me. Poi la coordinatrice del laboratorio ha chiesto quante avevano avuto degli orgasmi. Due hanno alzato la mano titubanti. Io non ho alzato la mano, ma di orgasmi ne avevo avuti. Non ho alzato la mano. perché erano orgasmi accidentali. Succedeva51 no. Succedevano nei sogni, e mi svegliavo raggiante. Succedevano spessissimo in acqua, soprattutto nel bagno. Una volta a Cape Cod. Succedevano a cavallo, in bicicletta, in palestra. Non ho alzato la mano perché anche se avevo avuto parecchi orgasmi, non sapevo come provocarli. Non avevo mai cercato di provocarne uno. Pensavo che fosse una faccenda mistica, magica. Non volevo interferire. Mi sembrava sbagliato immischiarmi, una forzatura, una forma di manipolazione. Faceva molto Hollywood. Orgasmi a comando. La sorpresa se ne sarebbe andata, e così il mistero. Il problema, naturalmente, era che la sorpresa se n‟era andata da due anni. Non avevo un casuale, magico orgasmo da molto tempo, e fremevo dalla voglia di provarlo. Ecco perché ero al laboratorio. E poi è arrivato il momento che temevo e insieme, segretamente, anelavo. La coordinatrice del laboratorio ci ha chiesto di tirar fuori di nuovo i nostri specchietti e di vedere se riuscivamo a localizzare la nostra clitoride. Eravamo lì, tutto il gruppo di donne, sdraiate sulla schiena, sui nostri mate-. rassini, a trovare il nostro punto, il nostro luogo, la nostra ragione, e io non so perché, ma ho cominciato a piangere. Forse era puro e semplice imbarazzo. Forse era la convinzione di aver rinunciato alla fantasia, l‟enorme illusione, divoratrice di vita, che qualcuno o qualcosa avrebbe fatto questo per me — l‟idea che qualcuno sarebbe arrivato a dirigere la mia vita, a sceglierne la direzione, a regalarmi orgasmi. Ero abituata a vivere in sordina, in modo magico, superstizioso. Quella ricerca della clitori de, quel pazzesco laboratorio sui tappetini blu, stava rendendo tutta la faccenda reale, troppo reale. Sentivo arrivare il panico. Il terrore e la contemporanea presa di coscienza... Avevo evitato di trovare la clitoride, e mi ero rifugiata nella razionalizzazione che era solo una moda, una forma di consumismo perché, in realtà, ero terrorizzata dalla possibilità di non avere la clitoride, di essere una di quelle donne costituzionalmente incapaci, una di quelle frigide, morte, chiuse definitivamente, secche, che sanno di albicocca, amare — oh, mio Dio. Ero sdraiata lì col mio specchietto che cercavo il punto, che allungavo le dita, e tutto ciò che riuscivo a pensare era a quella volta che avevo dieci anni e avevo perso il mio anello d‟oro con gli smeraldi in un lago. Mi ero tuffata e rituffata continuamente tastando sassi e pesci e tappi di bottiglia e roba viscida, ma mai il mio anello. Il panico che ho provato. Sapevo che sarei stata punita. Non avrei dovuto portarlo in acqua. La coordinatrice del laboratorio ha notato che mi agitavo come una pazza, sudavo e respiravo pesantemente. Mi si è avvicinata. Io le ho detto: «Ho perso la clitoride. È sparita. Non avrei dovuto portarla mentre nuotavo». La donna si è messa a ridere e mi ha accarezzato con calma la fronte. Mi ha detto che la clitoride non era qualcosa che potevo perdere. Era me, l‟éssenza di me. Era sia il campanello della porta di casa sia la casa stessa. Non dovevo trovarla. Dovevo essere. Essere la clitoride. Essere la mia vagina. Mi sono sdraiata e ho chiuso gli occhi. Ho messo giù lo specchio. Mi sono guardata galleggia53 re al di sopra di me stessa. Mi osservavo avvicinarmi lentamente al mio io e a rientrarvi. Mi sentivo come un astronauta che rientra nell‟atmosfera terrestre. E stato molto calmo il rientro: calmo e dolce. Rimbalzavo e atterravo. Atterravo e rimbalzavo. Entravo nei miei muscoli, nel cuore e nelle cellule e poi, ecco, scivolavo dentro la vagina. Improvvisamente era tutto così facile e io ci stavo comoda. Ero calda, pulsante, pronta, giovane e viva. E poi, senza guardare, con gli occhi ancora chiusi, ho messo il dito su ciò che tutt‟a un tratto era diventato me. Ho sentito un piccolo tremito dapprima, che mi ha convinto a restare. Poi il tremito è diventato un terremoto, un‟eruzione, con gli strati che si dividevano e si suddividevano. Il terremoto si disperdeva in un antico orizzonte di luce e silenzio, che si apriva su una piana di musica e colori e innocenza e nostalgia, e io mi sentivo collegata, unita mentre mi dimenavo sul mio tappetino blu. La mia vagina è una conchiglia, un tulipano e un destino. Arrivo mentre incomincio già a partire. La mia vagina, la mia vagina, io. La vagina: alcuni fatti La clitoride ha uno scopo puro. È l‟unico organo del corpo umano designato esclusivamente al piacere. E solo un fascio di nervi, per la precisione 8000 fibre nervose: la più alta concentrazione di fibre nervose di tutto il corpo, compresi i polpastrelli, le labbra e la lingua, e due volte.., due volte superiore a quella presente nel pene. Chi ha bisogno di una rivoltella, quando ha a disposizione una semiautomatica? NATHALIE ANGIER, Woman Perché gli piaceva guardarla Questa è la storia di come cominciò a piacermi la mia vagina. È imbarazzante perché non è politically correct. Voglio dire, so che sarebbe dovuto succedere in una vasca con sali da bagno del Mar Morto, con un disco di Enya. E io felice di essere donna. Conosco la storia. Le vagine sono meravigliose. L‟odio che nutriamo per noi stesse è solo la repressione interiorizzata e l‟odio nei confronti della cultura patriarcale, ma non corrisponde alla realtà. So tutto questo. Se fossimo cresciute in una cultura in cui ci avessero detto che le cosce grasse sono bellissime, ingolleremmo tutte frappé e biscotti, mollemente sdraiate, le cosce che si espandono... Ma non siamo cresciute in una cultura del genere: io odiavo le mie cosce, e odiavo ancora di più la mia vagina. Pensavo che fosse estremamente brutta. Ero una di quelle donne che l‟aveva guardata, e che se n era pentita. Mi faceva star male; compativo chiunque dovesse andare lì dentro. Per sopravvivere, cominciai a far finta che tra le mie gambe ci fosse qualcos‟altro. Immaginavo mobili — accoglienti futon con trapunte di cotone leggero, piccoli divani di velluto, tappeti di leopardo —oggetti graziosi — fazzoletti di seta, portavasi traforati —, oppure scenari e paesaggi in miniatura — laghi trasparenti o umide paludi irlandesi. Mi abituai talmente alle mie fantasie, che mi dimenticai del tutto di avere una vagina. Ogni volta che facevo sesso con un uomo, lo immaginavo dentro un guanto foderato di visone, una rosa rossa, o una tazza cinese. Poi incontrai Bob, l‟uomo più comune che avessi mai conosciuto. Era alto e magro, anonimo, e indossava abiti color kaki. Non gli piacevano i cibi speziati né ascoltare i Prodigy. Non nutriva alcun interesse per la biancheria intima sexy D‟estate stava all‟ombra. Non parlava dei suoi sentimenti intimi. Non aveva nessun problema o grana, e non era nemmeno alcolizzato. Non era particolarmente divertente, loquace o misterioso. Non era tirchio .o poco disponibile. Non era egocentrico o carismati-. co. Non amava la guida veloce. Bob non mi attraeva in modo particolare. Non l‟avrei notato in nessun modo, se non avesse raccolto il resto che mi era caduto sul pavimento della rosticceria. Quando, porgendomi le monete, la sua mano sfiorò casualmente la mia, qualcosa accadde. Andai a letto con lui... e fu allora che avvenne il miracolo. Venne fuori che a Bob piacevano le vagine. Era un intenditore. Gli piaceva il loro odore, il loro sapore, ma soprattutto il loro aspetto. Aveva bisogno di guardarle. La prima volta che abbiamo fatto sesso insieme, mi disse che doveva guardarmi. «Sono qui» dissi. «No, te...» replicò. «Devo vedere te.» «Accendi la luce» risposi. Pensavo che fosse uno svitato e cominciai ad agitarmi nell‟oscurità. Accese la luce. Allora disse: «Ok, sono pronto, pronto per vederti». «Sono qui» agitai la mano «proprio qui.» Cominciò a spogliarmi. «Che cosa stai facendo, Bòb?» gli chiesi. «Ho bisogno di vederti»» rispose. «Non ce n‟è bisogno» dissi. «Tuffati dentro! »«Devo vedere come sei fatta» rispose. «Ti sarà già capitato di vedere un divano di cuoio rosso... » Bob continuò. Non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Io volevo vomitare e morire. «È una cosa molto intima» dissi. «Non puoi semplicemente entrare dentro di me?» «No» mi rispose. «E la tua essenza. Devo guardare. » Trattenni il respiro. Lui guardò e guardò. Ansimò e sorrise, fissò e gemette. Cominciò a respirare affannosamente e la sua faccia cambiò. Non sembrava più un uomo comune, sembrava una meravigliosa bestia famelica. «Sei bellissima» disse. «Sei elegante e profonda,. innocente e ribelle.» «Hai visto tutto questo, là?» chiesi. Era come se mi stesse leggendo il pa1mo della mano. «Ho visto questo» rispose «e altro, altro ancora.» Rimase a guardare per circa un‟ora, come se stesse studiando una mappa, osservando la luna, fissandomi negli occhi, ma era la mia vagina. Nella luce lo osservavo mentre mi guardava, ed era così autenticamente eccitato, così pacifico ed euforico, che cominciai a bagnarmi e a eccitarmi. Cominciai a vedermi come lui mi vedeva. Cominciai a sentirmi splendida e deliziosa, come un bel quadro o una cascata. Bob non era intimorito, non era disgustato. Cominciai a gonfiarmi, cominciai a sentirmi orgogliosa. Cominciai ad amare la mia vagina. Bob vi si perse e io ero lì con lui, nella mia vagina, e tutti e due ci smarrimmo insieme. Nel 1993, camminavo per una strada di Manhattan quando passai accanto a un‟edicola e all‟improvviso fui colpita da una fotografia sulla prima pagina di Newsday, di quelle che ti turbano nel profondo. Era la foto di sei giovani donne che erano appena tornate da un «campo di stupro” in Bosnia. I loro visi rivelavano choc e disperazione, ma la cosa più sconvolgente era la sensazione che qualcosa di dolce, qualcosa di puro, fosse stato distrutto per sempre nella vita di ognuna di loro. Continuai a leggere. C‟era un „altra fotografia delle giovani, insieme alle loro madri, disposte a semicerchio in una palestra. Era un gruppo piuttosto numeroso e non una di loro, madre o figlia, riusciva a guardare verso l‟obiettivo. Càpii che dovevo andare là. Dovevo incontrare quelle donne. Nel 1994, grazie all‟aiuto di un angelo, Lauren Lloyd, passai due mesi in Croazia e in Pakistan a intervistare profughe bosniache. Ho intervistato quelle donne e le ho frequentate nei campi, nei caffè e nei centri per i rifugiati. Sono stata in Bosnia altre due volte da allora. Quando tornai a New York dopo il mio primo viaggio, ero in uno stato di furibonda indignazione. Mi sconvolgeva il fatto che da 20 mila a 70 mila donne fossero state stuprate in Europa nel 1993, come tattica sistematica di guerra, e nessuno avesse alzato un dito per impedirlo. Non riuscivo a capirlo. Un „amica mi chiese perché mi stupivo. Disse che più di 500 mila donne venivano stuprate ogni anno nel nostro paese, e in teoria noi non eravamo in guerra. Il monologo che segue è basato sulla storia di una di queste donne. Voglio ringraziarla per averla condivisa con me. Sono piena di reverenziale sgomento di fronte al suo spirito e alla sua forza, come lo sono davanti a ogni donna che è sopravvissuta alle terribili atrocità commesse nell‟ex Jugoslavia. Questo brano è dedicato alle donne bosniache. La mia vagina era il mio villaggio La mia vagina era verde, campi d‟acqua rosa tenero, mucca che muggisce sole che si posa dolce ragazzo che tocca leggero con un morbido filo di paglia bionda. C‟è qualcosa tra le mie gambe. Non so cos‟è. Non so dov‟è. Io non tocco. Non ora. Non più. Non più da allora. La mia vagina era chiacchierona, non vede l‟ora, tante, tante cose da dire, parole parlate, non posso smettere di provare, non posso smettere di dire oh sì. Oh sì. Non da quando sogno che c‟è un animale morto cucito là sotto con grossa lenza nera. E il cattivo odore dell‟animale morto non si riesce a togliere. E ha la gola tagliata e il suo sangue inzuppa tutti i miei vestiti estivi. La mia vagina che canta tutte le canzoni da ragazze, campanacci delle capre che suonano canzoni, selvagge canzoni dei campi d‟autunno, canzoni della vagina, canzoni del paese della vagina. Non da quando i soldati mi infilarono dentro un lungo e grosso fucile. Così freddo, con quella canna d‟acciaio che annienta il mio cuore. Non so se faranno fuoco o se lo spingeranno su attraverso il mio cervello impazzito. Sei uomini, mostruosi dottori con maschere nere che mi ficcano dentro anche bottiglie, bastoni, e un manico di scopa. La mia vagina che nuota acqua di fiume, acqua pulita che si rovescia su pietre cotte al sole sopra clitoride di pietra, pietre-clitoride mille volte. Non da qaàndo ho sentito la pelle strapparsi e fare rumori striduli da limone strizzato, non da quando un pezzo della mia vagina si è staccato e mi è rimasto in mano, una parte delle labbra, ora da un lato un labbro è completamente andato. La mia vagina. Un umido villaggio vivente di acqua. La mia vagina, la mia città natale. Non da quando hanno fatto a turno per sette giorni con quella puzza di escrementi e carne affumicata, e hanno lasciato il loro lurido sperma dentro di me. Sono diventata un fiume di veleno e di pus e tutti i raccolti sono morti, e anche i pesci. La mia vagina umido villaggio vivente di acqua. Loro l‟hanno invaso. L‟hanno massacrato e bruciato. Io non tocco adesso. Non ci vado mai. Io vivo in un altro posto, adesso. Io non so dov‟è, adesso. La vagina: alcuni fatti Nell‟Ottocento, le ragazze che imparavano a raggiungere l‟orgasmo con la masturbazione erano considerate casi clinici. Spesso venivano “curate o “corrette” con l‟amputazione o con la cauterizzazione della clitoride o con “cinture di castità in miniatura”, ottenute cucendo insieme le labbra vulva-ri per rendere inaccessibile la clitoride, e persino con la castrazione, che avveniva rimuovendo chirurgicamente le ovaie. Ma nella letteratura medica non c‟è alcun riferimento all‟asportazione dei testi-coli o all‟amputazione del pene per impedire ai ragazzi di masturbarsi. Negli Stati Uniti, l‟ultima clitoridectomia per “curare” la masturbazione di cui si ha testimonianza è stata eseguita nel 1948, su una bambina di cmque anni. The Woman‟s Encyclopedia of Myths and Secrets (L‟Enciclopedia dei miti e dei segreti della donna) La vagina: alcuni fatti Tra gli ottanta e i cento milioni di bambine e di giovani donne hanno subito mutilazione genitale. Nei paesi dove è praticata, soprattutto africani, circa due milioni di giovanissime ogni anno, si aspettano che il coltello — o il rasoio o un frammento di vetro — tagli loro la clitoride o la asporti completamente, (e) di avere le labbra completamente o in parte... cucite insieme con filo per suture o spine. Spesso si cerca di edulcorare l‟operazione chiamandola “circoncisione”. Lo specialista africano •Nahid Toubia chiarisce il concetto: in un uomo equivale dall‟amputazione della maggior parte del pene fino all”asportazione intègrale del pene, delle sue radici di tessuto molle e di parte della pelle scrotale”. Le conseguenze a breve termine di queste mutilazioni includono tetano, setticemia, emorragie, tagli nell‟uretra, nella vescica, nelle pareti vaginali e nello sfintere anale. Quelle a lungo termine: infezione uterina cronica, estese cicatrici che possono La mia vagina arrabbiata ostacolare a vita la deambulazione, formazione di fistole, aumento del dolore e dei rischi durante il parto, morte prematura. The New York Jimes, 12 aprile 1996 La mia vagina è arrabbiata. Davvero,. È incazzata. La mia vagina è furiosa e ha bisogno di parlare. Ha bisogno di parlare di tutta questa merda. Ha bisogno di parlarvi. Allora, cos‟è questa faccenda... C‟è in giro un esercito di persone, che escogitano modi per torturare la mia povera, gentile e amorevole vagina... Che passano i giorni a fabbricare psicoprodotti e idee orrende per minare la mia passera. Rompicoglioni della vagina! Tutta questa merda che cercano senza sosta di spingerci dentro, per pulirci, per imbottirci, la faranno scomparire. Bene, la mia vagina non se ne andrà. È incazzata e se ne starà qui. Prendi i tamponi... che diavolo è „sta roba? Un fottuto tampone di cotone asciutto, infilato dentro. Perché non trovano un modo per lùbrificare leggermente il tampone? Appena la mia vagina lo vede, ha uno choc. Dice: “Lascia perdere”. Si chiude. Dovete sapercifare con la vagina, prepararla alle cose. E tutta una faccenda di preliminari. Dovete convincere la mia vagina, sedurre la mia vagina, suscitare la fiducia della mia vagina. Non potete riuscirci con un fottuto tampone di cotone asciutto. Smettete di spingere cose dentro di me. Smettete di spingere e smettete di pulire. La mia vagina non ha bisogno di essere pulita, sa già di buono. Non come i petali di rosa. Non cercate di abbellire la realtà. Non credete loro, quando vi dicono che profuma come petali di rosa: è fatta per odorare come una passera. Ecco cosa stanno facendo: cercano di pulirla, di farla odorare come uno spray da bagno o un giardino. Tutti quegli spray profumati, fiori, bacche, pioggia. Non voglio che la mia passera profumi di bacche odi pioggia. Tutta pulita, come lavare un pesce dopo averlo cucinato. Voglio sentire il sapore del pesce, è per questo che l‟ho ordinato. Così è la donna, così sono io. I miei umori tutti in collIsione e che sanno di pesce. E poi ci sono quegli esami. Chi li ha escogitati? Ci deve essere un modo migliore di fare quegli esami. Perché quello spaventoso abito di carta: ti graffia i capezzoli e, quando ti sdrai, fruscia e ti fa sentire come un pezzo di carta che qualcuno ha gettato via? Perché i guanti di gomma? Perché la pila puntata lì come se la giovane investigatrice Nancy Drew stesse lavorando contro la gravità; perché le staffe d‟acciaio in stile nazi, le orrende e fredde labbra d‟anatra che spingono dentro di te? Che cos‟è questa faccenda? La mia vagina è arrabbiata per queste visite. Si mette sulla difensiva settimane prima. Si chiude, non si rilassa. Non vi fa innervo70 sire? “Rilassi la vagina, rilassi la vagina.” Perché? La mia vagina è intelligente — sa cosa sta succedendo —, si deve rilassare così tu puoi infilarle quelle fredde labbra d‟anitra dentro. Esame vaginale? Non penso proprio. Sembra più un‟esecuzione vaginale. Perché non trovano uno splendido, delizioso velluto rosso e non me lo avvolgono attorno, non mi fanno sdraiare su una soffice coperta di cotone, non si infilano attraenti guanti rosa o azzurri, e appoggiano i miei piedi su staffe ricoperte di pelliccia? E perché non riscaldano le labbra d‟anatra? Lavorano con la mia vaginà! No, invece, sempre torture: fottuti tamponi di cotone asciutto, fredde labbra d‟anitra e biancheria intima di cuoio. Non c e niente di peggio della biancheria di cuoio. Chi l‟ha inventata? Si muove tutto il tempo, si incastra, davvero una merdata. La vagina è fatta per stare libera e àperta, non per essere tenuta imprigionata. È per questo motivo che le guaine sono una pessima idea. Abbiamo bisogno di muoverci e aprirci, parlare e parlare. Le vagine hanno bisogno di comodità. Fate qualcosa per dar loro piacere. No, naturalmente non lo fanno. Odiano vedere una donna che prova piacere, soprattutto piacere sessuale. Quello che intendo èun grazioso paio di mutande di morbido cotone con un vibratore incorporato. Le donne verrebbero tutto il giorno: verrebbero nei supermercati, in metropolitana, felici vagine orgasmiche. Loro non lo sopporterebbero. Non tollererebbero di vedere tut71 te quelle calde vagine felici, energizzate, che non sùbiscono umiliazioni. Se la mia vagina potesse parlare, parlerebbe di se stessa come faccio io, parlarebbe di altre vagine, farebbe imitazioni di vagine. Porterebbe diamanti Harry Winston. Nessun vestito, ornata solo di diamanti. La mia vagina ha aiutato a mettere alla luce un bambino enorme. Pensava che avrebbe fatto qualcosa di più, ma non è stato così. Ora vuole viaggiare, non desidera molta compagnia. Vuole leggere e conoscere cose nuove, e uscire più spesso. Vuole sesso, le piace il sesso. Vuole andare più in profondità, è affamata di profondità. Desidera gentilezza, vuole un cambiamento. Vuole silenzio, libertà, baci gentili, liquidi caldi e contatto profondo. Vuole cioccolato fiducia e bellezza. Vuole urlare. Non vuole più essere arrabbiata. Vuole venire. Vuole volere. Vuole. La mia vagina, la mia vagina. Be‟... vuole tutto. Negli ultimi dieci anni mi sono occupata attivamente di donne che non hanno casa, donne che definiamo “senzatetto” così possiamo con finarle in una categoria e dimenticarcene. Ho fatto un sacco di cose con queste donne, che sono diventate mie amiche. Coordino gruppi di terapia per donne che sono state violentate o hanno subito un incesto, e gruppi per tossicodipendenti e alcoliste. Vado al cinema con queste donne, mangio con loro, esco con loro. Nel corso degli ultimi dieci anni ho intervistato centinaia di donne. In tutto questo tempo ne ho incontrate solo due che non fossero state vittime di incesto da ragazzine o di violenza carnale da ragazze. Ho sviluppato una teoria secondo cui, per la maggior parte di queste donne, la casa e un posto che incute una gran paura, un luogo da cui sono fuggite; i centri dove le incontro sono i primi luoghi dove molte di loro hanno trovato sicurezza, protezione o conforto, nella comunanza con altre donne. Questo monologo è la storia di una donna così come lei me l‟ha raccontata. L‟ho incontrata circa cinque anni fa, in uno di questi centri. Vorrei potervi dire che è una storia insolita, brutale, estrema. Ma non lo è. Per quanto sconvolgente, in realtà, non è neppure paragonabile a molte delle storie che ho sentito negli anni seguenti. Le donne povere subiscono terribili violenze sessuali che non vengono denunciate. Non possono permettersi una psicoterapia o altri metodi di cura. Il reiterato abuso di cui sono oggetto intacca e infine distrugge la loro autostima, conducendole alla droga, alla prostituzione, all‟aids e, in molti casi, alla morte. Fortunatamente questa particolare storia ha avuto finale diverso. Questa donna ha conosciuto un „altra donna in quel centro, e si sono innamorate. Grazie al loro amore, sono uscite dal sistema assistenziale degli istituti e oggi hanno una bellissima vita insieme. Ho scritto questo brano per loro, per la loro forza stupe facente, per le donne che non vediamo, che soffrono e hanno bisogno di noi. La cosina liberata (Donna di colore del Sud) Ricordo: dicembre 1965, cinque anni Mia madre mi dice, con una voce terribile, forte, minacciosa, di piantarla di grattarmi la cosina. Mi viene il terrore di averla staccata via a furia di grattare. Non mi tocco più, nemmeno nel bagno. Ho paura che l‟acqua mi entri dentro e mi riempia tutta finché non esplodo. Mi metto dei cerotti sulla cosina per coprire il buco, ma si staccano nell‟acqua. Mi immagino un turacciolo, un tappo della vasca da bagno, messo lì dentro per impedire che ci entri qualcosa. Dormo con tre paia di mutande di cotone stampate a cuoricini sotto il pigiamone. Ho ancora voglia di toccarmi, ma non lo faccio. Ricordo: sette anni Edgar Montane, che ha dieci anni, si arrabbia con me e mi tira un pugno trà le gambe con tutta la sua forza. Ho l‟impressione che mi abbia fatto a pezzi. Torno a casa zoppicando. Non riesco a fare pipì. La mamma mi chiede che cos‟ho alla cosina e quando le dico cosa mi ha fatto Edgar, si mette a gridare e dice di non permettere mai più che qualcuno mi tocchi là sotto. Ho cercato di spiegare... non l‟ha toccata, mamma, ci ha tirato un pugno. Ricordo: nove anni Gioco sul letto, saltando su e giù, a un certo punto m‟infilzo la cosina sulla colonna del letto. Lancio versi striduli e urla che vengono direttamente dalla bocca della mia cosina. Vengo portata all‟ospedale.e mi ricuciono là sotto dove si è strappata. Ricordo: dieci anni Sono a casa di mio padre e lui dà una festa al piano di sopra. Tutti bevono. Io gioco da sola nel seminterrato e mi provo il nuovo completo, reggiseno e mutandine di cotone bianco, che mi ha regalato la ragazza di mio padre. Improvvisamente il miglior amico di mio padre, un omone di nome Alfred, si avvicina da dietro e mi lira giù le mutandine e infila il suo grosso pene duro nella mia cosina. Io urlo. Scalcio. Mi dibatto e cerco di allontanarlo, ma lui me l‟ha già messo dentro. Poi arriva mio padre e ha una pistola e c‟è un orribile rumore forte e poi sangue dappertutto su Alfred e su di me, un sacco di sangue. Sono sicura che la mia cosina sta definitivamente cadendo a pezzi. Alfred resta paralizzato a vita e mia madre non mi lascia vedere mio padre per sette anni. Ricordo: dodici anni La mia cosina è veramente un brutto posto, un luodi dolore, cattiveria, botte, invasione e sangue. E un luogo di disgrazie. È una zona di sfortuna. Immagino un‟autostrada tra le mie gambe e io la percorro, me ne vado lontano, lontano da qui. Ricordo: tredici anni C‟è questa bellissima donna di ventiquattro anni nel mio quartiere e io la guardo sempre. Un giorno mi invita nella sua macchina. Mi chiede se mi piace baciare i ragazzi e io rispondo di no. Allora lei dice che vuole mostrarmi qualcosa, e si sporge in avanti e mi bacia così dolcemente sulle labbra e poi mi infila la lingua in bocca. Wow! Mi chiede se voglio fare un salto a casa sua e poi mi bacia di nuovo e mi dicè di rilassarmi, di sentire e basta, di lasciare che le nostre lingue si sentano. Poi chiede a mia madre se posso restare lì a dormire e mia madre è felicissima che una donna così bella e di successo si interessi a me. Ho paura e contemporaneamente non vedo l‟ora. Il suo appartamento è fantastico. Arredato benissimo. Sono gli anni settanta: perline, cu77 scini soffici, luci soffuse. Decido immediatamente che quando sarò grande farò la segretaria, come lei. Lei si prepara una vodka e poi mi chiede che cosa voglio bere. Io rispondo quello che beve lei e lei dice che non pensa che a mia madre farebbe piacere. Io dico che probabilmente non le farebbe neanche piacere che baciassi le ragazze, e la bella donna mi serve la vodka. Poi si cambia e si mette un pagliaccetto di raso color cioccolata. È così bella. Ho sempre pensato che le lesbicone fossero brutte. Dico: «Sei bellissima» e lei: «Anche tu». Poi dico: «Ma ho solo questo reggiseno e mutandine di cotone bianco». Allora lei mi aiuta a indossare, lentamente, un altro pagliaccetto di raso. È color lavanda, come i primi, dolci giorni di primavera. L‟alcol mi è andato alla testa e mi sento rilassata e pronta. C‟è un quadro, sopra il suo letto, di una donna nuda con un‟enorme capigliatura afro. Lei mi distende sul letto delicatamente, lentamente, e il solo strofinarsi dei nostri corpi mi fa venire. Poi mi fa di tutto, a me e alla mia cosina che prima avevo sempre pensato fosse orrenda, e wow! Sono così calda, così eccitata. Lei mi dice: «La tua vagina, mai toccata da un uomo, ha un odore così buono, così fresco, che vorrei poterla conservare così per sempre». Io divento una furia scatenata e poi suona il telefono e naturalmente è la mamma. Sono sicura che lo sa; qualsiasi cosa faccia, lei mi becca. Ho il respiro pesante ma cerco di comportarmi normalmente quando vado al telefono e lei mi chiede: «Che cosa ti succede, hai fatto una corsa?». Io rispondo: «No, mamma, ho fatto ginnastica». Poi lei dice alla bella segretaria di badare che io non stia intorno ai ragazzi e la donna le dice: «Si fidi di me, non ci sono ragazzi qui intorno». Dopo la splendida donna mi insegna tutto sulla mia cosina. Mi fa toccare davanti a lei e mi insegna tutti i diversi modi per darmi piacere da sola. E molto precisa. Mi dice che devo sapere come darmi piacere da sola così non avrò mai bisogno di un uomo. Il mattino dopo ho paura di essere diventata un maschiaccio, perché sono così innamorata di lei. Lei ride, ma non la rivedrò mai più. Ora la gente dice che è stato una specié di stupro. Io avevo solo tredici anni e lei ventiquattro. Capii più tardi che lei fu la mia salvezza a sorpresa, inaspettata e politically incorrect. Lei aveva trasformato la mia triste cosina e l‟aveva innalzata in una specie di paradiso. Di che cosa sa la vagina? Terra. Spazzatura bagnata. Dio. Acqua. Un mattino nuovo di zecca. Profondità. Zenzero dolce. Sudore. Dipende. Muschio. Me. Non ha odore, mi hanno detto. Ananas. Paloma Picasso. Carne terrosa e muschio. Cannella e chiodi di garofano. Rose. Foresta di muschio, gelsomino e spezie, profonda, profondissima foresta. Muschio umido. Caramelle squisite. Il Sud Pacifico. Una via di mezzo tra il pesce e i lillà. Pesche. I boschi. Frutta matura. Tisana alla fragola e kiwi. Pesce. Paradiso. Aceto e acqua. Liquore dolce e leggero. Formaggio. Oceano. Sexy. Una spugna. L‟inizio. Come presidente onoraria del Club della vulva, sarei oltremodo onorata di averla come membro. Tuttavia, quando Harriet Lerner ha fondato questo club più di venti anni fa, l‟appartenenza era condizionata alla comprensione e all‟uso corretto della parola vulva e alla capacità di comunicarlo a quante più persone possibile, soprattutto donne. Cordiali saluti, Jane Hirschman Il club della vulva Sono sempre stata ossessionata dall‟idea di dare un nome alle cose. Se potevo dare loro un nome, potevo conoscerle. Se potevo dar loro un nome, potevo dominarle. Potevano essere mie amiche. Quando ero bambina, per esempio, avevo un e-norme collezione di rane. Rane imbottite, di ceramica, di plastica, rane al neon, rane a batteria. Ognuna di esse aveva un nome. Mi prendevo il tempo di conoscerle un po‟, prima di dar loro un nome. Le posavo sul mio letto e le guardavo alla luce del giorno, le mettevo nella tasca del mio cappotto, le tenevo nella mia piccola mano sudata. Arrivavo a conoscerle per la loro consistenza, per l‟odore, la forma e la dimensione. E per il loro senso dell‟umorismo. Solo allora davo loro un nome, generalmente durante una splendida cerimonia. Circondate dalle loro amiche, le rivestivo di abiti sontuosi, le coprivo di lustrini o stelle dorate, le mettevo davanti al tempio delle rane e davo loro un nome. Prima sussurravo all‟orecchio il nome ambito. (Sussurro) “Tu sei la mia Ranocchia Pastrocchia.” Mi assicuravo che la rana gradisse il nome. Poi lo ripetevo a voce alta davanti alle altre rane eccitate, alcune delle quali stavano aspettando il proprio nome. “Ranocchia Pastrocchia.” Seguivano i canti: di solito, il nome ripetuto in continuazione, all‟unisono con le altre rane. (Canzone) “Ranocchia Pastrocchia. Ranocchia Pastrocchia!” Il canto era accompagnato da danze. Mettevo le rane in fila e danzavo in mezzo a loro, saltando come una rana e facendo versi da rana, tenendo la neobattezzata nelle mani o tra le braccia, a seconda della sua dimènsione. Era una cerimonia spossante ma fondamentale. Sarebbe stato anche accettabile, se la cosa si fosse limitata alle rane, ma presto sentii il bisogno di dare un nome a tutto. Davo un nome a tappeti e porte, a sedie e gradini. Ben, per esempio, era la mia torcia, dal nome del maestro d‟asilo, sempre presente nelle mie storie. Alla fine diedi un nome a tutte le parti del mio corpo. Le mie mani... Gladys: sembravano funzionali ed essenziali, come Gladys. Chiamai le mie spalle Shorty: forti e un po‟ battagliere. I miei seni erano Betty. Non erano Veronica, ma non erano nemmeno brutti. Scegliere un nome per “là sotto” non era facile. Non era come trovare un nome per le mani, no, era complicato. “Là sotto” era un posto vivo, non facile da designare. Rimase senza nome e, proprio per questo, era non domato, sconosciuto. A quel tempo avevamo una baby-sitter, Sara Stanley. Parlava con una voce acutissima, insop86 portabile. Una sera che stavo facendo il bagno, mi disse di lavare bene il mio “bottoncino”. Non posso dire che il nome mi piacesse. Mi ci volle un po‟ persino per capire di che cosa si trattasse. Ma c‟era qualcosa nella sua voce.., e il nome rimase. Ebbene, sì, il mio Bottoncino. Sfortunatamente il nome mi seguì nell‟età adulta. Nella nostra prima notte insieme dissi all‟uomo, che poi avrei sposato, che Bottoncino era timida ma volenterosa, e sicuramente avrebbe svelato tutti i suoi misteri se solo lui fosse stato paziente. Penso che rimase un po‟ interdetto ma, come è nella sua natura, stette al gioco, e dopo prese addirittura a chiamarla per nome. «Bottoncino è lì? È pronta?» Non sono mai stata convinta del suo nome, e quanto accadde in seguito non fu una vera sorpresa. Una notte, durante un rapporto sessuale tra me e mio marito, lui la chiamò: «Vieni, mia piccola Bottoncino», ma lei non rispose, come se fosse improvvisamente scomparsa. «Bottoncino, sono io, il tuo divertimento preferito. » Nessuna risposta, nessun movimento. Allora la chiamai io. «Bottoncino, dài, vieni fuori, non puoi farmi questo.» Nessuna risposta, nessun suono. Bottoncino era morta, muta, sparita. «Bottoncino! » Non comparve per giorni, poi settimane, poi mesi. Mi avvilii. Riluttante, raccontai la cosa alla mia amica Teresa, che trascorreva tutto il suo tempo in un nuovo gruppo di donne. «Bottoncino non mi parla, Teresa. Non risponde ai miei richiami.» «Chi è Bottoncino?» «La mia Bottoncino» risposi. «La mia Bottoncino! » «Di che cosa stai parlando?» chiese, con una voce che d‟improvviso suonò molto più profonda della mia. «Ragazza, intendi dire la vulva?» «Vulva?» dissi a Teresa. «Che cos‟è?» «È tutto» rispose. «È l‟intera faccenda.» Vulva. Vulva. Potevo sentire qualcosa che si schiudeva. Bottoncino non andava bene, l‟avevo sempre saputo. Noù potevo vedere Bottoncino. Non avevo mai saputo chi o che cosa fosse, e non evocava l‟idea di un‟apertura odi un paio di labbra. Quella notte, le abbiamo dato un nome, mio marito Randy e io. Proprio come con le rane. Vestita di abiti sexy e lustrini, messa di fronte al tempio del corpo, le candele accese. Dapprima abbiamo sussurrato: «Vulva, vulva». Piano, per vedere se sentiva. «Vulva, vulva, sei lì?» Era dolce e sicuramente qualcosa si agitò. «Vulva, vulva, sei vera?» E cantammo la canzone della vulva, che non significava gracidare, ma baciare, e danzammo la danza della vulva, che non comportava salti ma sfioramenti con le labbra, e tutte le altre parti del corpo erano schierate — Betty e Gladys e Shorty —; di sicuro stavano in ascolto. La vagina: alcuni fatti In alcune zone sembra che gli africani stiano mettendo pacificamente fine alla pratica dell‟escissione dei genitali. In Guinea, per esempio, Aja Tounkara Diallo Fatimata, la capo “tagliatrice” di Conakry, la capitale, subiva contInui insulti da parte di gruppi occidentali, in difesa dei diritti umani. Poi, alcuni anni fa, ha confessato che in realtà non aveva mai escisso nessuno. «Mi limitavo a pizzicare la loro clitoride per farle strillare» ha detto «e le bendavo strettamente, in modo che camminassero come se fossero molto sofferenti. » Dal Center for Reproductive Law and Policy (Centro per la legge e la politica di riproduzione) Da più di tre anni viaggio con questo spettacolo per tutta l‟America (e ora per il mondo). Sto minacciando di creare una mappa filo-vagina di tutte le città filo-vagina che ho visitato. Ce ne sono parecchie adesso. Ci sono state molte sorprese; Oklahoma City mi ha sorpreso. Andavano pazzi per le vagine a Oklahoma City. Pittsburgh mi ha sorpreso. Adorano le vagine a Pittsburgh. Ci sono già stata tre volte. Ovunque vada, le donne vengono da me dopo lo spettacolo per raccontarmi le loro storie, per dàrmi suggerimenti, per comunicarmi le loro risposte. Questa è la parte che preferisco della tournée. Vengo a sapere le storie più incredibili, raccontate in modo così semplice, così concreto. Mi viene sempre ricordato come sono straordinarie le vite delle donne, e quanto profonde. E mi viene ricordato come sono isolate, le donne, e quanto spesso si sentano oppresse nel loro isolamento. Quanto rare sono le persone a cui hanno parlato della loro sofferenza, della loro confusione. Quanta vergogna circonda tutto questo. Com‟è vitale per le donne raccontare le loro storie, condividerle con altre persone, e come la nostra sopravvivenza in quanto donne dipenda da questo dialogo. Fu dopo aver rappresentato la pièce una sera a New York che sentii la storia di una giovane donna vietnamita: quando aveva cinque anni — era arrivata da poco in America e non sapeva parlare inglese —cadde su un idrante antincendio mentre giocava con la sua migliore amica e si tagliò la vagina. Non riuscendo a comunicare quello che era successo, si limitò a nascondere le mutandine insanguinate sotto il letto. Sua madre le trovò e immaginò che l‟avessero violentata. Dato che la bambina non conosceva il termine per indicare l‟idrante, non poté spiegare ai suoi genitori che cosa fosse realmente successo. I suoi genitori accusarono il fratello della sua migliore amica di averla violentata. Portarono di corsa la bambina all‟ospedale, e lei si ritrovò intorno al letto un gruppo di uomini che fissava la sua vagina aperta, esposta. Poi, tornata a casa, si rese conto che suo padre non la guardava più. Ai suoi occhi lei era diventata una donna usata, finita. Non la guardò mai più veramente. Oppure, ancora, la storia di una stupenda ragazza dell‟Oklahoma che mi avvicinò dopo lo spettacolo, assieme alla matrigna, per raccontarmi che era nata senza vagina e se ne era accorta soltanto all‟età di quattordici anni. Stava giocando con la sua amica. Confrontarono i genitali e lei si rese conto che i suoi erano diversi, che c‟era qualcosa che non andava. Andò dal ginecologo con suo padre, il genitore a cui era più legata, e il medico scoprì che effettivamente non aveva né vagina né utero. Suo padre aveva il cuore a pezzi, ma cercò di reprimere le lacrime e la tristezza perché sua figlia non soffrisse ulteriormente. Mentre tornavano a casa, nel nobile tentativo di consolarla, lui le disse: «Non preoccuparti, tesoro. Andrà tutto benissimo. Anzi, sarà fantastico. Ti faremo costruire la migliore passerina d‟America. E quando incontrerai tuo marito, saprà che l‟abbiamo fatta fare apposta per lui». E davvero le avevano fatto fare una passerina, e ora lei era rilassata e felice, e quando due sere dopo ritornò con suo padre, io mi sciolsi vedendo l‟amore che c‟era fra loro. Poi ci fu la serata a Pittsburgh, in cui una donna passionale si precipitò da me per dirmi che doveva parlarmi al più presto. La sua intensità mi convinse e la chiamai appena tornata a New York. Disse che era una massoterapista e che doveva parlarmi a proposito della consistenza della vagina. La consistenza era fondamentale. Io non avevo afferrato la consistenza, disse. E me ne parlò per un‟ora con tali particolari, con una tale chiarezza e sensualità che quando ebbe finito, dovetti sdraiarmi. Durante quella conversazione mi parlò anche della parola “fica”. Avevo espresso qualcosa di negativo in proposito nella mia performance, e lei disse che quella parola non la capivo per niente. Sentiva il bisogno di aiutarmi a comprenderla. Mi parlò per un‟altra mezz‟ora della parola “fica” e quando terminò, io mi ero cònvertita. Ho scritto questo per lei. Riabilitare la fica Io la chiamo fica. L‟ho riabilitata: “fica”. Mi piace davvero. “Fica.” Ascoltate. “Fica.” E immaginate. F F, Fi Fi. Femmina, fianchi, fallo, fare, figlio. Felicità e Futuro. E anche: i come io, inizio, identità, immensità, isola, irta e iridata. F i, f i, fifl, fischio lungo acuto, un treno che sfreccia in aperta campagna. Ed ecco la C: ecco il fico, il dolce frutto, e insieme la foglia di fico. Infine Ca, Ca. Con la a ampia e rotonda. Di caverna, cantare, capezzolo, cara, carne, casa, cammina — c chiusa — chiusa dentro, dentro la casa al calduccio... Fica. Dimmi, dimmi: “Fica”. Dillo, dimmi: “Fica”4 “Fica.” Ho chiesto a una bambina di sei anni Se la tua vagina si vestisse, che cosa indosserebbe? Scarpe alte rosse e un berretto da baseball al contrario. Se potesse parlare, che cosa direbbe? Direbbe parole che cominciano con V e con T, “tartaruga” e “violino”, per esempio. Che cosa ti ricorda la tua vagina? Una bella pesca scura. O un diamante che ho trovato in un tesoro e che è mio. Che cos‟ha di speciale la tua vagina? La donna che amava far felici Da qualche parte dentro di lei so che ha un cervello molto intelligente. le vagine. Di che cosa pro fuma la tua vagina? Fiocchi di neve. Io amo le vagine. Amo le donne. Non le vedo come cose separate. Le donne mi pagano per dominarle, eccitarle, farle venire. Non ho cominciato così. Anzi. Ero avvocato. Ma, avvicinandomi alla quarantina, mi è venuta l‟ossessione di far felici le donne. C‟erano tantissime donne non realizzate. Tantissime donne che non avevano accesso alla felicità sessuale. Era cominciata come una specie di missione, ma poi mi sono fatta coinvolgere. Sono diventata molto brava, direi geniale. Era la mia arte. Ho incominciato a essere pagata per questo. Era come se avessi scoperto la mia vocazione. A quel punto il diritto tributario mi sembrava spaventosamente noioso e insignificante. Indossavo mises pazzesche quando dominavo le donne — pizzo e seta e pelle — e usavo tutti gli accessori di scena: fruste, manette, corde, peni artificiali. Non c‟era niente del genere nel diritto tributario. Non c‟era nessuno strumento e nessuna eccitazione, e io odiavo quei tailleur blu, anche se adesso li porto di tanto in tanto per il mio nuovo lavoro e vanno benone. Il contesto è tutto. Non c‟erano accessori né travestimenti nel diritto societario. Non c‟era niente di bagnato. Non c‟era nessun oscuro e misterioso preliminare. Non c‟erano capezzoli eretti. Non c‟erano bocche deliziose, ma soprattutto non c‟era nessun gemito. Non del tipo di cui sto parlando, in ogni caso. Questa è stata la chiave, ora lo capisco; in ultima analisi i gemiti sono stati l‟elemento che mi ha sedotto e mi ha indotto, come una dipendenza, a far felici le donne. Quando ero una bambina e vedevo nei film quelle donne che facevano l‟amore emettendo strani, lamentosi versi orgasmici, mi veniva da ridere. Diventavo stranamente isterica. Non potevo credere che versacci belluini, sfrenati, come quelli, uscissero dalle donne. Morivo dalla voglia di gemere. Mi esercitavo davanti allo specchio, col registratore, gemendo in vari toni, varie note, talvolta con un‟espressione melodrammatica, talvolta più riservata, quasi trattenuta. Ma sempre, quando riascoltavo, suonava falso. Era falso. Non era radicato in nulla di sessuale, in realtà, ma solo nel mio desiderio di essere sessuale. Ma poi una volta, avevo dieci anni, mi scappò da morire la pipì. Durante un viaggio in macchina. La trattenni per quasi un‟ora e quando finalmente riuscii a far pipì in quella piccola, sporca stazione di servizio, era così eccitante che mi venne da gemere. Gemevo mentre facevo la pipì. Non riuscivo a crederci, io che gemevo in una stazione di servizio della Texaco, sperduta nel bel mezzo della Louisiana. In quel momento mi resi conto che i gemiti sono collegati al fatto di non ottenere immediatamente quello che vuoi, al fatto di rimandare. Mi resi conto che i gemiti migliori erano quelli che ti coglievano di sorpresa; venivano fuori da quella misteriosa parte nascosta di te che parlava la sua lingua particolare. Mi resi conto che i gemiti erano, in realtà, quella lingua. Così sono diventata un‟urlatrice. A molti uomini metteva ansia. Anzi, per dirla tutta, li terrorizzava. Ero molto rumorosa e loro non riuscivano a concentrarsi su quello che stavano facendo. Perdevano la concentrazione. Poi perdevano tutto. Non potevamo fare l‟amore in casa di amici. Le pareti erano troppo sottili. Mi sono fatta una cattiva reputazione nel mio palazzo, e la genté mi guardava male in ascensore. Gli uomini pensavano che fossi troppo intensa; qualcuno mi ha dato della matta. Ho incominciato a sentirmi tremendamente a disagio sul fatto di gemere. Sono diventata silenziosa ed educata. Mi mettevo un cuscino davanti alla bocca. Ho imparato a soffocare i gemiti, a trattenerli come uno sternuto. Ho cominciato a soffrire di mal di testa e di disturbi da stress. Quando ero sull‟orlo della disperazione ho scoperto le donne. Ho scoperto che la maggior parte delle donne adora i miei gemiti — ma soprattutto ho scoperto quanto mi eccitasse sentire altre donne che gemevano, riuscire a far gemere le altre donne. Diventò una specie di passione. Scoprire la chiave, liberare la bocca della vagina, liberare quella voce, quella canzone selvaggia. Ho fatto l‟amore con donne silenziose e ho scoperto quel punto dentro di loro e loro sono rimaste sconvolte sentendo i propri gemiti. Ho fatto l‟amore con donne che gemevano e che hanno scoperto un gemito più profondo, più penetrante. Diventò un‟ossessione. Io morivo dalla voglia di far gemere le donne, di avere là responsabilità, come un direttore d‟orchestra, forse, o un capobanda. Era una sorta di intervento chirurgico, una sorta di scienza delicata, trovare il ritmo e l‟ubicazione esatta, ovvero la “casa” del gemito. È così che la chiamavo. A volte la trovavo sui jeans di una donna. A volte strisciavo fin lì facendo finta di niente, disinserivo pian piano gli allarmi circostanti ed entravo. A volte usavo la forza, ma non una forza violenta, oppressiva, era una forza dominatrice, come se dicessi: “Ora ti porto in un posto; tu non preoccuparti, sdraiati e goditi il viaggio”. A volte era una cosa più mondana. Trovavo il gemito prima ancora che incominciassero i preludi, mentre mangiavamo l‟insalata o il pollo, lo trovavo come per caso, proprio lì, con le dita, “Eccolo, hai visto”, semplicissimo, in cucina, tutto ben mescolato con l‟aceto balsamico. Altre volte usavo gli strumenti — adoravo quegli aggeggi — e altre ancora facevo in modo che fosse la donna a trovare da sola il suo gemito davanti a me. Io aspettavo, tenevo duro finché si apriva da sola. Non mi facevo ingannare da versolini minori, più banali. No, la costringevo ad andare avanti, avanti, fino a raggiungere tutta la potenza del suo gemito. C‟è il gemito clitorideo (un verso sommesso, che resta in bocca), quello vaginale (un suono profondo, gutturale) e il combinato clitovaginale. C‟è un pre-gemito (l‟accenno di un suono), il quasi gemito (un rumoretto volteggiante), il gemito “Sì, qui, qui (un suono più profondo, deciso), il gemito elegante (un suono sofisticato, simile a una risata), il gemito rock (un po‟ sguaiato), il gemito wasp (nessun suono), il gemito semireligioso (tipo cantilena musulmana), il gemito da vette montane (tipo yodel), il gemito da bebè (tipo gughi-gughi~gughigu) il gemito canino (un verso affannoso), il gemito da compleanno (un rumore di party sfrenato), il gemito disinibito da militante bisessuale (un suono profondo, aggressivo, martellante), il gemito da diva (un verso contorto, famelico), il gemito dell‟orgasmo ad alluce arricciato, e, infine, il gemito del triplice orgasmo a sorpresa. Dopo aver terminato questo brano, l‟ho letto alla donna sulle cui interviste l‟avevo basato. Non era affatto convinta che c‟entrasse qualcosa con lei. Il monologo le piaceva moltissimo, mi aveva spiegato, però non si riconosceva. Le sembrava che in un certo senso avessi evitato di parlare delle vagine, che in un certo senso le stessi ancora oggettivando. Persino i gemiti erano una maniera di oggettivare la vagina, staccandola completamente dal resto della vagina, dal resto della donna. C‟era una differenza sostanziale nel modo in cui le lesbiche vedevano le vagine. E io non l‟avevo colta. Perciò l‟ho intervistata di nuovo. «Come lesbica» disse «ho bisogno che cominci da un luogo lesbocentrico, non inquadrato in un contesto eterosessuale. Per esempio, non è che io desiderassi le donne perché non mi piacevano gli uomini. Gli uomini non facevano nemmeno parte dell‟equazione. »E continuò: «Devi parlare di “entrare” nelle vagine. Non puoi parlare di sesso lesbico senza questo». «Per esempio» disse. «Io sto facendo l‟amore con una donna. Lei è dentro di me, io sono dentro di me. Scopo me stessa insieme a lei. Ci sono quattro dita dentro di me; due sono sue, due mie. » Non so se ho voglia di parlare di sesso. Eppure, come posso parlare di vagine senza descriverle in azione? Sono preoccupata dal [attore curiosità morbosa, preoccupata che questa pièce possa venire sfruttata. Parlo di vagine per eccitare la gente? Ed è una cosa negativa? «In quanto lesbiche» disse «noi ci intendiamo di vagine. Le tocchiamo. Le lecchiamo. Ci giochiamo. Le stuzzichiamo. Notiamo quando la clitoride si gonfia. Notiamo la nostra. » Mi rendo conto di sentirmi imbarazzata, mentre la ascolto. C‟è una combinazione di motivi: eccitazione, paura, il suo amore per le vagine e il buon rapporto che ha con loro, e la mia presa di distanza che nasce dal terrore di dire tutto questo davanti a voi, davanti al pubblico. «Mi piace giocare con il bordo della vagina» disse «con le dita delle mani, le nocche, le dita dei piedi, la lingua. Mi piace entrarci piano piano, e poi ficcarci dentro tre dita. « Ci sono altre cavità, altre aperture; c „è la bocca. Mentre ho una mano libera, ci sono dita nella sua bocca, dita nella sua vagina, ed entrambe si muovono, tutte si muovono, insieme, la sua bocca che mi succhia le dita, la sua vagina che mi succhia le dita. Entrambe -che succhiano, entrambe bagnate. Mi rendo conto di non sapere che cosa è appropriato. Non so neppure che cosa significa questa parola. Chi decide. Imparo così tanto da quello che mi sta raccontando. Su di lei, su di me. «Poi io stessa mi bagno» disse. «Lei può entrare dentro di me. Sente il mio bagnato, lascio che infili le dita dentro di me, le sue dita dentro la mia bocca, la mia vagina, lo stesso. Jiro fuori la sua mano dalla mia fica. Stro fino il mio liquido contro il suo ginocchio perché sappia. Faccio scivolare il mio bagnato giù per la sua gamba finché il mio viso è in mezzo alle sue cosce. » Parlare delle vagine rovina [orse il mistero, o èsolo uno dei tanti miti che servono a mantenerle 108 • nell‟oscurità, a mantenerle inconsapevoli e insoddisfatte? «La mia lingua è sulla sua clitoride. La mia lingua rimpiazza le mie dita. La mia bocca entra nella sua vagina. » Dire queste parole ti dà l‟impressione di una cosa maliziosa, pericolosa, troppo diretta, troppo specifica, sbagliata, intensa, responsabile, viva. «La mia lingua è sulla sua clitoride. La mia lingua rimpiazza le mie dita. La mia bocca entra nella sua vagina. » Amare le donne, amare le vagine, conoscerle e toccarle ed avere familiarità con noi stesse, cioè sapere chi siamo e di cosa abbiamo bisogno. Soddisfarci da sole, insegnare ai nostri amanti a soddisfarci, essere presenti nelle nostre vagine, parlarne ad alta voce, parlare della loro fame e solitudine e del loro dolore e senso dell‟umorismo, per renderle visibili, in modo che non possano venire impunemente depredate nel buio, in modo che il nostro centro, il nostro punto, il nostro motore, il nostro sogno non sia più staccato, mutilato, paralizzato, rotto, reso invisibile o coperto di vergogna; «Devi parlare di “entrare” nelle vagine» ha detto lei. «Forza» dico io «entriamo.» Rappresentavo questa pièce da più di due anni quando a. un tratto mi è venuto in mente che non c „era nessun brano sulla nascita. Era un‟omissione ben strana. Anche se, quando l‟ho raccontato a un giornalista poco tempo fa, mi ha domandato: «Qual è il nesso?». Quasi vent‟anni fa ho adottato un figlio, Dylan, che aveva poco meno della mia d‟età. L‟anno scorso lui e sua moglie, Shiva, hanno avuto un bambino. Mi hanno chiesto di essere presente al parto. Nonostante tutte le ricerche che avevo fatto, non credo di avere mai capito le vagine fino a quel momento. Se prima della nascita di mia nipote Colette ne avevo soggezione, certamente ora provo una profonda venerazione per le vagine. Io ero lì nella stanza Per Shiva Io c‟ero quando la sua vagina si aprì. Eravamo tutti lì: sua madre, suo marito e io, e l‟infermiera ucraìna con la mano dentro la sua vagina, fino al polso, che tasta e gira col suo guanto di gomma parlando con noi disinvolta — come stesse aprendo un rubinetto difettoso. Ero lì nella stanza quando le contrazioni la costrinsero a trascinarsi carponi, e a emettere strani versi da tutti i pori. E ancora lì ore dopo, quando all‟improvviso cacciò un urlo orrendo, fendendo con le braccia l‟aria elettrica. Ero lì quando la sua vagina si trasformò, da timido buco sessuale a tunnel archeologico, vaso sacro, canale veneziano, pozzo profondo con un minuscolo bambino in fondo, che attende d‟essere salvato. Vidi i colori della sua vagina. Li vidi cambiare. Vidi l‟azzurro livido e rotto il rosso pomodoro che ribolle il rosa grigio, il bruno; vidi il sangue come sudore imperlare gli orli vidi il liquido bianco, giallo, la merda e i grum‟ spingere fuori da tutti i buchi, spingere forte e ancora più forte, vidi in fondo al buco, la testa del bambino striata di capelli neri, la vidi proprio lì vicino dietro l‟osso — un duro ricordo rotondo —‘mentre l‟infermiera ucraìna girava e rigirava la sua mano scivolosa. Ero li mentre noi, sua madre e io, tenendole una gamba per ciascuna e spingendo a più non posso contro lei che spingeva, l‟aprivamo tutta; mentre con voce asciutta il marito contava: “Uno, due, tre” e la spronava a concentrarsi, ancora di più. Allora guardammo dentro di lei. Non riuscivamo più a staccare gli occhi da quel punto. Dimentichiamo la vagina, tutti noi... Cos‟altro potrebbe spiegare quest‟assenza di timore reverente, di stupore? Ero lì quando il medico vi entrò con cucchiai da Alice nel Paese delle Meraviglie e sempre lì quando quella vagina diventò una grande bocca lirica che cantava con tutta la sua forza; prima la testa, poi il braccio grigio e penzolante, poi il veloce corpicino che nuota, nuota svelto verso le nostre braccia piangenti. Ero lì dopo, quando mi voltai e affrontai la sua vagina. Restai lì, permettendo a me stessa di vederla aperta, completamente esposta, mutilata, gonfia e lacera, sanguinare sulle mani del dottore che la ricuciva con calma. Restai lì e, davanti ai miei occhi, la sua vagina all‟improvviso diventò un grande cuore rosso pulsante. Il cuore è capace di sacrificio. E così la vagina. Il cuore è capace di perdonare e riparare. Può cambiare forma per farci entrare. Può allargarsi per farci uscire. E così la vagina. Può soffrire per noi e tendersi per noi, morire per noi e sanguinare e sanguinolenti immetterci in questo difficile mondo meraviglioso. E così la vagina. Io ero lì nella stanza. Io ricordo. Ringraziamenti Ci sono così tante persone incredibili che hanno contribuito a far nascere questo lavoro e poi ,a sostenerlo passo per passo. Desidero ringraziare quei coraggiosi che hanno portato, il mio lavoro e me, nelle loro città, nelle loro università e nei loro teatri: Pat Cramer, Sarah Raskin, Gerald Blaise Labida, Howie Baggadonutz, Carole Isenberg, Catherine Gammon, Lynne Hardin, Suzanne Paddock, Robin Hirsh, Gali Gold. Un grazie speciale a Steve Tiller e a Clive Flowers per la strepitosa prima in Inghilterra, e a Rada Boric per averlo rappresentato con stile a Zagabria e per essere mia amica e sorella. E alle generose, potenti donne del Centro per le Donne Vittime della Guerra di Zagabria va la mia commossa gratitudine. Voglio ringraziare le persone straordinarie del teatro HERE di New York, fondamentali per il successo delle numerose rappresentazioni che si sono tenute lì: Randy Rollison e Barbara Busackino per la loro profonda dedizione e fiducia in questo lavoro; Wendy Evans Joseph per il suo magnifico allestimento e la sua grande generosità; David Kelly; Heather Carson per le sue luci audaci, sexy; Alex Avans e Kim Kefgen per la loro pazienza e perfezione e per aver danzato con me notte dopo notte il ballo del salvadanaio. Voglio ringraziare Stephen Pevner per il suo grande aiuto nel far decollare tutto ciò e a Robert Levithan per la sua fiducia. Grazie a Michele Steckler per essere stata presente più volte; a Don Summa per aver invogliato la stampa a parlarne; e ad Ali-sa Solomon, Alexis Greene, Rebecca Mead, Chris Smith, Wendy Weiner, Ms., The Village Voice, e Mira-bella per aver parlato della pièce con tanto amore e rispetto. Voglio ringraziare Gloria Steinem per le sue belle parole e per esserci stata prima di me, e Betty Dodson perché ama le vagine e ha dato inizio a tutto questo. Voglio ringraziare Charlotte Sheedy di avermi rispettato e di essersi battuta per me, e Marc Klein per il suo impegno quotidiano, la sua immensa pazienza e il suo prezioso sostegno. Voglio ringraziare Carol Bodie: la sua fiducia in me mi ha sostenuto negli anni difficili e il suo appoggio ha spinto il mio lavoro oltre le paure di altre persone e l‟ha resò possibile. Voglio ringraziare Willa Shalit per la sua grande fede in me e per il talento e il coraggio dimostrati nel portare nel mondo il mio lavoro. Voglio ringraziare David Phillips, il mio angelo sempre presente, e Lauren Lloyd per il grande dono della Bosnia. Grazie a Nancy Rose per la sua guida esperta e gentile; un grazie speciale a Marianne Schnall, a Sally Fisher, al Feminist.Com e al V-Day Committee. Grazie a Gary Sunshine per essere apparso al momento opportuno. Voglio ringraziare la mia straordinaria editor Mollie Doyle, per aver perorato la causa di questo libro presso numerose case editrici, e per essere la mia fantastica socia. Voglio ringraziare Marysue Rucci per aver capito al volo il progetto e per avermi aiutato a farlo diventare un libro. Voglio ringraziare Villard di non avere avuto paura. Poi ci sono i ringraziamenti agli amici: Paula Allen, per i suoi salti di gioia; Brenda Currmn perché ha cambiato il mio karma; Diana de Vegh, la cui generosità mi ha guarito; James Lecesne, perché mi vede e crede; Mark Matousek che mi ha costretta ad andare più a fondo; Paula Mazur per aver intrapreso il grande viaggio; Thea Stone, per essere rimasta con me; Sapphire perché ha forzato i miei limiti; Kim Rosen, che mi lascia respirare e morire. Voglio ringraziare alcune grandi donne: Michele McHugh, Debbie Schechter, Maxi Cohen, Judy Katz, Judy Corcoran, Joan Stein, Kathy Najimy, Ten Schwartz; e le ragazze di Betty per l‟amore e il sostegno costanti che mi hanno dato. Voglio ringraziare le mie guide e muse ispiratrici: Joanne Woodward, Shirley Knight, Lynn Austin e Tina Tumer. Voglio ringraziare mia madre Chris; mia sorella Laura; e mio fratello Curtis per aver trovato la strada inclinata che ci ha riportato insieme. Voglio esprimere la mia riconoscenza per le coraggiose, impavide donne del programma swi che si ritrovano in continuazione a dover affrontare il buio e ad attraversado, in particolare Maritza, Tarusa, Stacey, Ilysa, Belinda, Denise, Stephanie, Edwing, Joanne, Beverly e Tawana. Voglio ringraziare di cuore le centinaia di donne che mi hanno accolto nei loro luoghi privati, èhe mi hanno affidato le loro storie e i loro segreti. Possano queste storie preparare la strada a un mondo libero e sicuro per Hannah, Katie, Molly, Adisa, Lulu, Allyson, Olivia, Sammy, Isabella e altre. Voglio ringraziare mio figlio Dylan per avermi insegnato l‟amore, mia nuora Shiva e mia nipote Coco per la sua nascita. Infine, voglio ringraziare il mio compagno, Ariel Orr Jordan, che ha concepito questo lavoro insieme a me. La sua gentilezza e la sua tenerezza sono state un unguento prodigioso, sono state l‟inizio. Postfazione Non so perché sono stata scelta. Non ho certo avuto fantasie adolescenziali sognando di diventare “Lady vagina” (come spesso sono chiamata, anche a voce alta, da una parte all‟altra di un affollato negozio di scarpe). Mai avrei immaginato che un giorno avrei parlato di vagine in luoghi come Atene, che avrei cantato la parola vagina con quattro-mila donne scatenate a Baltimora o che avrei avuto trentadue orgasmi per notte in pubblico. Non avevo programmato queste cose. Per ciò penso di non aver molto a che fare con I monologhi della vagina: semplicemente, ne sono stata posseduta. Ora capisco che ero la candidata ideale. Ero una commediografa. Per anni ho scritto pezzi basati su interviste. Sono stata femminista. Sono stata molestata sessualmente e fisicamente da mio padre. Ho tendenze esibizioniste. Ho conosciuto l‟oltraggio, e ho desiderato con tutto il mio essere di trovare un modo per riconciliarmi con la mia vagina. In realtà non ricordo come è cominciato tutto. Una conversazione sulla vagina con una donna anziana. Il suo modo sprezzante di parlare dei propri genitali mi ha scioccato e mi ha fatto riflettere: in che termini le altre donne pensavano alla loro vagina? Ricordo che cominciai a chiedere alle amiche, che mi sorpresero per la loro franchezza e il loro desiderio di parlare. Un‟amica in particolare mi disse che se la sua vagina si fosse vestita avrebbe indossato un basco. Stava attraversando una fase francese. Non ricordo affatto di aver scritto la pièce. In parole povere, fui catturata, usata dalle Vagina Queens. Non ho mai consapevolmente abbozzato e dato una forma al lavoro. In realtà l‟intero processo si è svolto fuori dalle regole. Intervistavo le donne sulle loro vagine mentre in contemporanea scrivevo la piece vera . È stato il mio compagno, Ariel Jordan (ora sono convinta che fosse in qualche modo sul libro paga delle Vagina Queens), che mi ha spinto a prendere la cosa seriamente, mi ha aiutato a creare la pièce e a formulare un piano. Ma in un certo senso, anche così, I monologhi non sono mai stati una faccenda che mi riguardasse davvero. Mi faccio vedere. Faccio esercizio per rimanere in forma. Bevo un‟enorme quantità di cappuccini. Cerco, nonostante tutto, di rimanere ai margini. Non sono mai stata un‟attrice. In realtà non mi sono resa conto che stavo recitando I monologhi della vagina, se non dopo averlo fatto per tre anni. Prima di allora, raccontavo semplicemente queste storie molto personali che mi erano state confidate con generosità. Mi sentivo stranamente, e a tratti violentemente, protettiva nei confronti di queste donne e delle loro storie. Non riuscivo a muovermi quando le proclamavo, dovevo avere uno sgabello dallo schienale alto su cui sedermi e un posto dove appoggiare i piedi. Era come se ogni notte salpassi su un‟astronave. Dovevo parlare in un microfono, anche in locali in cui potevano sentirmi con facilità. A volte il microfono funzionava come una sorta di volante, e altre come acceleratore. Nei primi anni, sentivo il bisogno di indossare calze e pesanti scarpe maschili durante la recita. Successivamente, una volta che il mio regista Joe Mantello mi convinse a togliermi le scarpe, riuscii a farlo solo a piedi nudi. Ogni notte dovevo tenere tra le mani da cinque a otto fogli per tutta la durata della rappresentazione, anche se avevo memorizzato il pezzo. Era come se i fogli materializzassero le donne che avevo intervistato: avevo bisogno di averle lì con me. Le storie della vagina mi hanno trovato, come mi hanno trovato le persone che volevano produrre il lavoro o portarlo nella loro città. Ma ogni volta che ho cercato di scrivere un monologo per compiace-re un‟agenda politically correct, è sempre stato un fallimento. Avrete notato la mancanza di monologhi sulla menopausa o sui trans. Ci ho provato, ma I monologhi della vagina hanno a che fare con l‟attrazione, non con la promozione. Molte cose accadute nel corso della vita dei Monologhi sembrano completamente surreali e al tempo stesso totalmente logiche. Mentre viaggiavo con la pièce da una città all‟altra, da una nazione all‟altra, centinaia di donne mi aspettavano dopo lo spettacolo per parlarmi delle loro vite. In un qualche modo la rappresentazione aveva liberato i loro ricordi, sofferenze e desideri. Una notte dopo l‟altra ho sentito le stesse storie: donne violentate da adolescenti, nei college, da bambine, da vecchie, donne finalmente sfuggite ai loro mariti che le percuotevano a morte, donne terrorizzate di andarsene, donne che prima ancora di essere consapevoli del sesso erano state possedute sessualmente da patrigni, fratelli, cugini, zii, madri e padri. Cominciai a sentirmi folle, come se si fosse aperta una porta su un mondo sotterranéo e mi venissero dette cose che non dovevo sapere, e la conoscenza di queste cose fosse pericolosa. Lentamente compresi come nulla fosse più importante del porre fine alla violenza nei confronti delle donne, che in verità la dissacraziòne delle donne rivelava il fallimento degli esseri umani nell‟onorare e proteggere la vita; e questo fallimento, se non l‟avessimo rettificato, avrebbe significato la fine di tutti noi. Non penso di essere estremista. Quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l‟energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato. Nel 1997 io e alcune donne attiviste, molte delle quali provenienti da ùn gruppo chiamato Feminist.com, progettammo il V-Day. Come in tutti i misteriosi happening sulla vagina, noi facciamo la nostra apparizione, il lavoro di base, ci teniamo in forma, e le Vagina Queens fanno il resto. 1114 febbraio 1998, il giorno di San Valentino, nacque il nostro primo V-Day. Duemilacinquecento persone si misero in fila davanti all‟Hammerstein Ballroom di New York per il grandioso evento. Whoopi Goldberg, Su-san Sarandon, Glenn Close, Winona Ryder, Marisa Tomei, Shirley Knight, Lois Smith, Kahy Najimy, Calista Flockhart, Lily Tomlin, Hazelle Goodman, Margaret Cho, Hannah Ensler-Rivel, BETTY, Klezmer Women, Ulali, Phoebe Snow, Gloria Steinem, Soraya Mire e Rosie Perez si riunirono per recitare I monologhi della vagina e diedero vita a una performance che raccolse più di 100 000 dollari e lanciò il movimento del V-Day. Dal 1999 all‟Old Vic di Londra si sono ripetuti eventi simili con presenze di spicco, tra cui attrici come Cate Blanchett, Kate Winslet, Melanie Griffith, Meera Syal, Julia Sawalha, Joely Richardson, Ruby Wax, Eddi Reader, Katie Puckrik, Dani Behe, Natasha McElhone, Sophie Dahl, Jane Lapotaire, Thandie Newton e Gillian Anderson. Nel 2000 il V-Day è stato celebrato a Los Angeles, Santa Fe, Sarasota, Aspen e Chicago. In tre anni il V-Day ha avuto luogo in oltre 300 college con rappresentazioni dei Monologhi, la cui regia e recitazione era affidata alle studentesse e al corpo insegnanti. Tutti gli spettacoli hanno raccolto denaro e aumentato la consapevolezza nei gruppi locali, che lavorano per fermare la violenza nei confronti delle donne. Attualmente il V-Day Fund sta sostenendo in tutto il mondo gruppi rurali le cui donne, in molti casi, combattono rischiando la propria vita per proteggere le altre donne e porre fine alla violenza. In Afghanistan c‟è la RAWA, la Lega rivoluzionaria delle donne afgane, un gruppo consacrato alla liberazione delle donne dalla terribile oppressione del regime talebano. Là alle donne non è permesso lavorare, ricevere un‟istruzione, andare dal dottore o uscire di casa senza una scorta maschile. Là le donne vengono seppellite sotto i loro burka senza essere protette dallo stupro o dall‟assassinio. Il V-Day Fund sta aiutando la RAWA a istruire le donne in scuole clandestine, a documentare le esecuzioni illegali e a costruire un movimento delle donne. In Kenya stiamo sostenendo il Tasaru Ntomonok (Iniziativa per una maternità sicura), un progetto che vuole impedire che le ragazze subiscano mutilazioni genitali, introducendo un nuovo rituale di iniziazione all‟adolescenza. Recentemente abbiamo comprato loro una jeep rossa perché possano viaggiare con facilità da un villaggio all‟altro nel loro compito di istruzione e prevenzione. In Croazia stiamo lavorando con il Centro per le donne vittime della guerra, e grazie al nostro sostegno apriranno un First Rape Crisis Center nella ex Jugoslavia. Saranno anche in grado di preparare operatrici del Kosovo e della Cecenia nel lavoro con le donne di quei paesi, che durante la guerra sono state violentate e traumatizzate. V-Day sta operando in collaborazione con Planned Parenthood (Famiglia pianificata) per implementare, all‟interno di programmi già in via di sviluppo, una strategia volta a prevenire e porre fine alla violenza nei confronti delle donne. E la lista potrebbe continuare. Il miracolo del V-Day, come quello dei Monologhi della vagina, è questo: è successo perché doveva succedere. Un invito forse, un mandato inconscio. Forse. Mi arrendo alle Vagina Queens. Qualcosa si sta rivelando. Qualcosa di mistico e pratico al tempo stesso. Per la sopravvivenza della razza umana, le donne devono essere al sicuro e dotate di potere. È un‟idea ovvia ma, come una vagina, ha bisogno di grande attenzione e amore per essere rivelata.