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Piccole e grandi battaglie, memorabili
IN QUESTO NUMERO Piccole e grandi battaglie, memorabili F al Museo Regionale capodistriano. Era invece chiamata “La Bella” la galera traurina comandata da Alvise Cippico, che dalla battaglia tornò con uu trofeo di guerra, un gallo di legno preso dal rostro di una galea turca, che fece murare nel cortile del palazzo, in cui accolse molti artisti e uomini di cultura provenienti da tutt’Europa. Le città e le isole del Quarnero e della Dalmazia veneziana diedero otto galee, provenienti da Lesina, Cherso, Veglia, Arbe, Zara, Sebenico, Traù e Cattaro. Quella di Lesina, Cherso e Sebenico furono ingaggiate per rompere lo schieramento centrale della flotta turca; ma il sacrifico maggiore fu sostenuto da quelle di Cattaro e Perasto, nonché dagli uomini di Traù. La galea traurina, infatti, piazzata nella parte meridionale, fu attaccata da sei galee ottomane: perirono ben 153 dei 163 uomini a bordo, traurini ma anche spalatini e provenienti da Salona, gli altri riportarono ferite. Battaglia memorabile, considerata punto di svolta, fu studiata il 6 ottobre di dieci anni fa nel corso di un convegno scientifico promosso alla Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” dall’allora costituenda Società di Studi storici e geografici di Pirano. I saggi e gli interventi dei vari relatori – Kristjan Knez, Diego Redivo, Fulvio Salimbeni, Darko Darovec, Antonio Miculian, Denis Visintin, Salvator Žitko, Franco Viezzoli – furono poi raccolti nel primo volume della collana “Acta Adriatica”. Insomma, a proposito di Lepanto scendeva in campo – storiografico – una nuova realtà associativa con l’obiettivo di scoprire e riscoprire, conservare e valorizzare, diffondere e promuovere l’importante patrimonio storico-culturale-artistico dell’Adriatico orientale, scongiurando i forti rischi di omissioni, deformazioni, strumentalizzazioni, oblii, degrado. Su Lepanto, dunque, la Società piranese vinceva la sua prima, importante battaglia. A Lepanto, nell’ottobre di 440 anni fa, si disputò la più grande battaglia tra galee che la storia abbia conosciuto, ossia “la più grande giornata che videro i secoli”, come ebbe a dire Miguel de Cervantes Saavedra, ferito in quella battaglia. Dipinta erroneamente come l’ultima “crociata”, non fu, come molta retorica l’aveva definita, uno scontro tra civiltà bensì in primo luogo una corsa – benchè armata – al raggiungimento di un obiettivo geostrategico ed economico nel Mediterraneo, con cui l’Europa (cristiana) voleva mettersi al sicuro da un pericoloso rivale (musulmano), l’Impero ottomano. Fu indubbiamente il più grande confronto che le acque del “Mare Nostrum” avessero mai visto: non era mai capitato, prima di quel fatidico 7 ottobre 1571, che si concentrasse, in un golfo di modeste proprorzioni come quello di Patrasso, un numero così imponente di navi da guerra, cannoni, uomini, schierati dall’una e dall’altra parte. Un teatro di guerra lontano eppur così vicino alle nostre terre, alla Dalmazia e all’Istria, tanto da coinvolgerle direttamente per certi aspetti. Innanzitutto, arruolati nelle armate cristiane, alias veneziane, istriani e dalmati si distinsero “sul campo di battaglia”; in secondo luogo, la vittoria di consentì alla Serenissima di scongiurare un possibile attacco da parte della Sublime Porta nella laguna veneta nonché in Dalmazia, dove il pericolo ottomano continuava a persistere e lo farà ancora per tutto il XVII secolo. Segue a pagina 2 Capodistria, la Colonna di Santa Giustina, eretta a commemorazione della battaglia di Lepanto del 1571 e del contributo istriano, nella fattispecie del galeone capodistriano, sul quale si trovavano un centinaio di uomini d’equipaggio agli ordini di Gian Domenico Tacco (che all’indomani dello scontro si fermò a Corfù, dove morì). Il monumento fu eretto nel 1572 ai tempi del podestà Andrea Giustinian, grazie ai sindaci Pietro Vergerio Favonio e Giuseppe Verona LA VOCE ce vo /la .hr dit w.e ww a da introduzione a questo numero dell’inserto “Storia & Ricerca” il ricordo dell’anniversario di un evento, la Battaglia di Lepanto, in cui prevalse la logica del confronto armato tra Oriente e Occidente, che pure ai nostri giorni trova sostenitori tra più potenti interessati a conservare il dominio sulle fonti energetiche e sulla loro distribuzione. Ripercorriamo invece quell’antico fatto d’armi, abbracciando le ragioni della comprensione reciproca tra i diversi popoli e sostenendo la necessità della valorizzazione piena dei vari tasselli delle civiltà che si affacciano al “mare della vicinanza” per eccellenza, e che appartengono alla koiné mediterranea. E l’Istria e la Dalmazia quali ruoli ebbero? La penisola istriana, passata a dominio di San Marco tra il XIII secolo e il 1420, partecipò a tutti gli scontri militari – sia quelli di conquista territoriale sia quelli tesi a tutelare il proprio suolo – che Venezia aveva sostenuto nella sua lunga storia, anche in quest’occasione diedero il loro obolo (anche se non tutti i “richiamati” alle armi risposero all’arruolamento, scegliendo di scappare piuttosto che avventurarsi in quelle acque lontane e insidiose). Il 31 marzo 1570, nell’ambito dei preparativi per la battaglia, il Senato veneziano aveva avvisato tutti i rettori di Levante, della Dalmazia e dell’Istria affinché contribuissero con un determinato numero di uomini per l’armamento delle galee grosse. A Isola si chiesero 20 uomini, 30 a Pirano, 10 a Umago e altrettanti a Parenzo, 15 a Cittanova, 50 a Rovigno e la stessa cifra a Pola, 80 a Montona, 30 a San Lorenzo, 60 ad Albona e Fianona, 30 a Raspo (Pinguente), 6 a Grisignana, 24 a Dignano e 15 a Valle. I capodistriani si obbligarono, volontariamente, ad armare una galea speciale, di cui fu nominato sopracomito Gian Domenico del Tacco. Si chiamava “Liona con mazza” e la sua bandiera è conservata DEL POPOLO storia e ricerca An no VII • n. 011 57 • Sabato, 1 ottobre 2 2 storia e ricerca Dalla prima pagina Come si arrivò allo scontro? Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d’Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l’Ungheria ed erano arrivati fino alle porte di Vienna. In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l’isola di Chio ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri,sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell’Ordine non l’avesse difesa e salvata con eroico valore. Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell’isola di Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1.mo agosto 1571, nell’isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città. Il terrore regnava nel Mediterraneo. Sul soglio di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all’inizio del 1566 con il nome di Pio V. Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente, per cui esortò le potenze cristiane a unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l’asse del suo breve pontificato. Non tutti, però, risposero all’appello. Grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l’alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l’Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell’unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia. Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, con l’aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficial- Sabato, 1 ottobre 2011 CONTRIBUTI Pagine recuperate di im Per una rilettu lontana dai clic di Kristjan Knez T mente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell’anno 1571. All’alba, una gigantesca flotta ottomana avanzava lentamente con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna, che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud. Al centro, sulla nave ammiraglia chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah. Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l’un l’altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finché il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l’attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano. Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono tra 25-30.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano. Ma anche quello di Venezia. Tornando invece alle nostre piccole “battaglie”, Kristjan Knez propone una rilettura del pensiero degli intellettuali dell’Adriatico orientale, indicandone lo spiccato “europeismo”. Arletta Fonio Grubiša conclude invece la sua panoramica sulla nascita della città dell’Arena, come pure Rodolfo (Rudi) Decleva termina il dossier sulla terribile odissea dei fiumani in Russia, Siberia, Galizia, durante la Prima guerra mondiale. Alessandro Marzo Magno ha letto per noi un’opera di Prezzolini sulla Dalmazia, riedita solo di recente, mentre Roberto Palisca riporta alla luce e analizza le vecchie cartoline. Ilaria Rocchi La vittoria di Lepanto vista da Andrea Vicentino ra le opere recentemente uscite in regione segnaliamo il volume “L’Europeismo nella cultura giuliana. Un’antologia 1905-1959” a cura di Lorenzo Nuovo e Stelio Spadaro (Libreria Editrice Goriziana con il patrocinio dell’Associazione Volontari della Libertà di Trieste, Gorizia 2010, pp. 230). Si tratta di un lavoro che riunisce in una sede unica quindici testi di varia natura dai quali emerge la dose civile e culturale che contraddistinse il pensiero europeista di importanti intellettuali della costa orientale adriatica dagli albori del Novecento al secondo dopoguerra. Dopo due precedenti antologie, ossia “L’altra questione di Trieste: voci italiane della cultura civile giuliana 1943-1955” (volume curato assieme a Patrick Karlsen, Gorizia 2006) e “La cultura civile della Venezia Giulia: un’antologia 1905-2005. Voci di intellettuali al Paese” (Gorizia 2008), Spadaro continua il suo impegno intellettuale volto a rileggere il passato adriatico abbandonando determinati cliché ancora saldi in alcuni ambienti politici nonché in parte dell’opinione pubblica. Attraverso i suoi interventi, proposti sia in sede politica sia in quella squisitamente culturale, Stelio Spadaro affronta un percorso di revisione, considerato nel suo significato più genuino. Il nostro presta particolare attenzione ai nazionalismi (al plurale, come ama evidenziare) che nel corso del secolo appena trascorso sferzarono la loro carica, con effetti deleteri sulle popolazioni di questi territori plurali che si estendono dalla Val Canale alle Bocche di Cattaro. Sulle orme della presenza italiana autoctona Un altro suo campo d’indagine è quello relativo alla presenza italiana autoctona lungo l’Adriatico orientale e al contributo dato dalla medesima nel corso della storia. Italiani che sono tuttora spesso e volentieri dimenticati nel Belpaese, mentre furono cancellati o quasi dalla Jugoslavia; rimozione che continua ancora nelle repubbliche di Croazia e Slovenia, le quali mal volentieri riconoscono l’italianità dei territori acquisiti al termine del secondo conflitto mondiale. Italianità, lo rammentiamo anche in questa occasione, che non ha alcun nesso con il regime del fascio, bensì è l’espressione di quella componente integrante dello spazio geografico che si estende a oriente di Trieste, senza la quale è impossibile cogliere la storia, la cultura, l’arte e l’ambiente modellato da chi in queste contrade è nato, vissuto e si è spento, e che taluni, ancora all’alba del terzo millennio, anche davanti all’evidenza più palese, si ostinano a non riconoscere e al contempo si impegnano a mistificare i tempi andati: alterando, storpiando, omettendo. Il desiderio di conoscere l’«altro» Fabio Todero, nella prefazione, ricorda che “Gli uomini della “Favilla”, che tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento anticiparono nel Litorale stati d’animo e atteggiamenti che sarebbero più tardi confluiti in quanti, in queste terre, intesero farsi eredi dei valori del Risorgimento, aprirono essi stessi all’Europa, manifestando soprattutto sensibilità e interesse per il mondo slavo; fu uno degli animatori della rivista, il friulano Pacifico Valussi, a vagheggiare un’intesa tra italiani e slavi meridionali nel comune intento di liberarsi dal giogo austriaco. Questo è solo un tassello di un passato ricco di sfaccettature e di intese tra le anime romanza e slava. Sovente considerazioni troppo sbrigative tendono a presentare i rapporti tra le stesse quasi esclusivamente in chiave conflittuale, e certi parlano addirittura di odi atavici tra Italiani e Slavi del sud. Nulla di più falso! I due autori rammentano proprio l’interessante stagione de “La Favilla”, una rivista che tra gli anni 1836-1846 raccolse innumerevoli intellettuali di ampie vedute, pronti alla collaborazione, promuovendo, tra l’altro, come una sorta di ponte, la cultura della Slavia in Italia. Quell’esperienza, caldeggiata ed appoggiata agli albori anche dal capodistriano Antonio Madonizza, è una testimonianza manifesta di come si lavorasse a Trieste, “fuori dalle secche del localismo”. Laboratorio di riformismo Nell’introduzione leggiamo che con questo volume si desidera “evidenziare la continuità di un pensiero, il retroterra culturale e civile sul quale si è innestato l’esplicito europeismo che ha caratterizzato alcuni dei principali intellettuali giuliani, soprattutto a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Si è voluto mettere la lente sulla permanenza nel tempo di un tessuto diffuso, di tratti di una cultura insieme italiana e europea, che non sono propri solo di due o tre eccellenze, intuizioni di isolati autori di rilevanza nazionale (Scipio Slataper e Giani Stuparich, per fermarsi ai più noti), ma che, nei territori della Venezia Giulia, hanno costituito tradizione diffusa, hanno dato corpo ad un vero e proprio laboratorio di riformismo” (p. 15). Gli intellettuali presi in considerazione erano caratterizzati da larghezza mentale ed i loro ampi orizzonti avevano contribuito al desiderio di conoscere l’“altro”. Per molti esponenti della cultura più alta il primo conflitto mondiale fu uno shock. Fabio Todero evidenzia che: “Il bagno di sangue della Grande guerra stroncò tale percorso; essa non soltanto non riuscì a sopire i nazionalismi ma, tacitati gli spiriti di apertura, scatenò terribili derive, dal fascismo italiano, dilagato poi in altri contesti, al nazismo tedesco; intanto nel dissolto Impero degli Zar, una rivoluzione che aveva suscitato grandi speranze in tan- storia e ricerca 3 Sabato, 1 ottobre 2011 mportanti intellettuali dagli albori del Novecento al secondo dopoguerra ura del passato adriatico ché: il pensiero europeista ta parte dell’umanità, si trasformava ben presto in un terribile sistema totalitario, negatore dei più elementari diritti dell’uomo”. Amarezza per la stagione delle dittature Per molti pensatori, dunque, la stagione delle dittature e dei totalitarismi, nonché la loro tendenza a semplificare un contesto ricco ed eterogeneo, fu vissuta con amarezza. All’indomani del “suicidio dell’Europa civile”, per usare le parole di papa Benedetto XV pronunciate in pieno conflitto mondiale, tramontava il mondo delle “buone maniere” e l’esplosione dei contrasti non avrebbe tardato a manifestarsi in un continente che veniva a trovarsi sotto le macerie provocate dalla cruenta stagione bellica nonché scardinato in quanto i grandi imperi avevano cessato d’esistere e schiusero una nuova epoca, per molti aspetti insidiosa e complessa. Venne meno il confronto più o meno legalitario presente nell’Austria-Ungheria e l’imbarbarimento della vita politica negli anni successivi alla guerra fu aspramente attaccato anche da coloro che nella monarchia dualista avevano difeso veemente l’italianità; quegli stessi non potevano tollerare l’ondata di terrore che ormai colpiva crudelmente i conterranei di lingua diversa. Era un modo di agire che non apparteneva a chi era abituato a difendere le proprie ragioni con il confronto, con la cultura e con le azioni concrete. stra storia, la vita, la cultura; unita a nessuno e separata da tutto il mondo: – perché, essendo noi per l’Ungheria l’unica città che abbia delle scuole italiane, non fu possibile e non deve essere, e dobbiamo anzi lottare per tener lontano il pericolo sempre più incalzante, di una unione d’interessi scolastici collo Stato, acui politicamente siamo uniti e linguisticamente separati” (p. 37). Enrico Burich l’anno successivo, in quella stessa sede, affrontava la realtà in cui si trovavano gli studenti universitari fiumani nella capitale magiara (“Italiani all’estero. Studenti italiani a Budapest), ossia immersi in un ambiente a loro estraneo, che non forniva alcuno stimolo, anzi determinava “un continuo deperimento, una lenta castrazione intellettuale, una infiltrazione di indifferenza che deriva dal vuoto reale” (p. 39). Quei giovani avevano un solo grande entusiasmo ed era rappresentato dall’Italia ma nella pianura pannonica giungeva tutt’al più “un’eco leggera e riflessa attraverso il “Corriere della Sera” e l’IllustrazioneItaliana” (p. 40) che contribuiva alla creazione di un’immagine ideale di un’Italia che conoscevano sì nella storia ma che desideravano coglierla anche nella realtà. «Voci» singolari Sulle pagine di quell’importante periodico che usciva lungo l’Arno gli intellettuali italiani dell’impero di Francesco Giuseppe riflettevano proprio su quella compagine e sulle condizioni in cui si trovavano le varie nazionalità che la componevano. Gia- Il Regime fascista avviò una politica tesa a cancellare l’identità culturale, linguistica e nazionale degli Sloveni e dei Croati entro i confini del Regno. Gli spettri di quegli sbagli affiorarono con gran evidenza nel momento in cui le formazioni militari jugoslave dalla Dalmazia stavano avanzando e premendo in direzione della Venezia Giulia I diritti degli Slavi Un altro punto fondamentale era riconoscere agli Slavi inglobati nella nuova realtà statuale una perfetta uguaglianza dei diritti, proprio come accadeva con gli altri cittadini italiani, e permettere ai medesimi l’uso della lingua nazionale nei rapporti con l’autorità centrale. Quella componente costituiva la stragrande maggioranza nell’interno dell’Istria e sulla costa orientale, mentre nelle porzioni della Carniola amministrate da Roma gli Sloveni formavano la totalità della popolazione, quindi era inammissibile considerare quella presenza alla stregua di un “corpo estraneo”. “Occorre che insegni loro – ancora Oberdorfer – ad amare il nuovo Stato, del cui nesso sono entrati a far parte, come un simbolo di giustizia e di equità (…)” (p. 70). I suggerimen- Un altro suo campo d’indagine è quello relativo agli italiani e al loro contributo a queste terre nel corso della storia. Una realtà tuttora spesso e volentieri dimenticata nel Belpaese, cancellata o quasi dalla Jugoslavia; soggetta a una rimozione che continua ancora nelle repubbliche di Croazia e Slovenia, le quali mal volentieri riconoscono l’italianità dei territori acquisiti al termine del secondo conflitto mondiale. Italianità, lo rammentiamo anche in questa occasione, che non ha alcun nesso con il regime del fascio Gemma Harasim ed Enrico Burich Dai testi proposti nell’antologia emergono gli stretti rapporti con la dimensione culturale italiana, si pensi alla collaborazione di numerosi autori con “La Voce” di Firenze, ma anche la centralità della formazione e dell’Università nel processo di modernizzazione e di europeizzazione di quelle che erano definite le province meridionali dell’Impero austro-ungarico. Affiorano altresì i ragionamenti sul futuro della duplice monarchia e si proponevano soluzioni per una “completa autonomia nazionale in un’Austria federalizzata” (p. 18). Gemma Harasim nelle “Lettere da Fiume”, pubblicate proprio sulla rivista fiorentina nel 1909, presentava ad un pubblico più vasto la situazione particolare in cui si trovava la città quarnerina e l’isolamento delle scuole, che costituiva indubbiamente un pericolo, poiché: “La scuola da noi, per forza di cose, è rimasta proprio così, come la no- ni Stuparich, nel 1913, si soffermava, ad esempio, sugli “Czechi” e sul risorgimento di quel popolo, mentre Angelo Vivante sull’“Unità” del 6 dicembre 1912 scriveva in merito all’“Imperialismo della paura”, alle spinte centrifughe e alle manifestazioni nazionalistiche che ormai interessavano sia la monarchia danubiana sia l’area balcanica. Crollata l’Austria-Ungheria ed entrato il Regno d’Italia nelle regioni affacciate sull’Adriatico orientale, su quello stesso foglio, il 14 giugno 1919, nello scritto “I problemi della Venezia Giulia”, Aldo Oberdorfer sottolineava fosse opportuno “badare a non distruggere quanto di buono, nei vari campi, l’Austria ci ha lasciato: a non permettere le invadenze della nostra burocrazia, che già vien tentando, e per qualche piccola parte c’è riuscita, di attrarre verso il gran centro unico anche le nuove estreme province d’Italia; a soddisfare quel desiderio d’autonomia amministrativa che i redenti sentono profondissimo (…)” (p. 69). ti avanzati non furono presi in considerazione né dallo Stato liberale né tantomeno dal Regime fascista che, anzi, avviò una politica tesa a cancellare l’identità culturale, linguistica e nazionale degli Sloveni e dei Croati entro i confini del Regno. Gli spettri di quegli sbagli affiorarono con gran evidenza nel momento in cui le formazioni militari jugoslave dalla Dalmazia stavano avanzando e premendo in direzione della Venezia Giulia. Dalla negazione al revanscismo Ormai era chiaro che il revanscismo e una forte dose vendicativa non avrebbero risparmiato i persecutori di ieri e nemmeno la popolazione inerme. Bruno Pincherle su “L’Italia libera” del 10 novembre 1944, nell’articolo “Noi e gli Slavi”, scrive: “Il popolo slavo non si rese conto che queste violenze venivano commesse non dal popolo italiano, ma da quelli che del popolo ita- liano erano i peggiori nemici. Chi soffre non può fare sempre distinzioni sottili. L’Italia ha a sua volta troppo sofferto dell’oppressione fascista e nazista per non comprendere l’animosità che gli slavi della Venezia Giulia nutrono oggi contro di noi e la diffidenza che li anima anche nei riguardi dell’Italia democratica”. L’autore evidenzia ancora che il giovane popolo jugoslavo doveva necessariamente lottare anche contro il proprio nazionalismo, “diciamo questo perché alcune voci si levano oggi tra gli jugoslavi per chiedere il distacco dall’Italia, non solo di terre abitate da popolazione slovena e croata, ma anche di terre abitate da popolazione italiana. Noi, italiani antifascisti, sentiamo che in quest’ora difficile, possiamo dire la nostra parola agli jugoslavi. Ne abbiamo diritto” (p. 140). Alcune riflessioni L’edizione contiene, tra gli altri scritti, anche le riflessioni di Giovanni Paladin su “La questione dalmatica vista da Nicolò Tommaseo e da Antonio Baiamonti” pubblicate sulla “Rassegna storica del Risorgimento” nel 1951 e in appendice l’ultimo paragrafo del capitolo “Le conclusioni federalistiche dei primi sostenitori della Mitteleuropa” di Arduino Agnelli, tratto dalla sua nota opera “La genesi dell’idea di Mitteleuropa”. Il volume si conclude con una nota di Fabio Forti, presidente dell’Associazione Volontari della Libertà di Trieste, in cui si sofferma sulla “Resistenza patriottica giuliana nello spirito risorgimentale ed europeistico”. La Resistenza fu riscatto e liberazione dopo un periodo plumbeo, contraddistinto dalla violenza e dalla sopraffazione. Tra i patrioti giuliani vi erano taluni che si distinsero in quel frangente storico e che con particolare coraggio e determinazione si impegnarono nella difesa del nesso italiano delle terre del confine orientale. Il futuro secondo Giovanni Paladin Per raccontare quella pagina di storia, l’autore presenta il pensiero e l’opera di Giovanni Paladin (1896-1959), di Visignano, e del triestino Gabriele Foschiatti (1889-1944). Il primo era di chiara estrazione mazziniana, criticò l’operato dello Stato italiano nelle province di recente acquisizione, in quanto agì applicando dei mo- delli troppo rigidi e degli schemi politici che non andavano assolutamente bene in un contesto così particolare come quello della Venezia Giulia. Siccome quell’esperienza aveva mostrato tutti i suoi limiti e fu pertanto fallimentare, guardava al domani (nel 1944) proponendo una soluzione cantonale per la Giulia uscita dal conflitto cioè sul modello elvetico che avrebbe compreso Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. La regione avrebbe dovuto comunque continuare ad essere legata all’Italia in quanto vi erano vincoli culturali, linguistici, economici nonché legami storici e geografici. Il suo sogno non poté concretizzarsi in quanto da est le armate jugoslave premevano verso il capoluogo giuliano con il chiaro intento di occuparlo e di annetterlo al nuovo Stato creato da Tito, e così la Venezia Giulia si ridusse alle sole Trieste e Gorizia. E nell’ottica di Gabriele Foschiatti Gabriele Foschiatti, invece, non riuscì a vedere quegli avvenimenti in quanto morì nel campo di concentramento di Dachau. Con la caduta del fascismo si incluse nel Fronte Democratico Nazionale che successivamente sarebbe confluito nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). I membri che lo formavano si trovarono in una situazione delicata, specie dopo l’8 settembre. Dovettero affrontare non solo l’agguerrita resistenza slovena i cui obiettivi erano chiari già da tempo ma anche l’intransigenza comunista e la dura repressione nazista e fascista. L’isolamento politico dal resto d’Italia, poi, non giovava a quegli uomini. Quel primo CLN ebbe vita breve, nel dicembre del 1943 tutti i suoi rappresentanti furono arrestati dai Tedeschi e deportati in Germania. Anche Foschiatti si era soffermato sul futuro della Venezia Giulia, riteneva fondamentale un riordino amministrativo su basi autonomistiche e la creazione dei presupposti indispensabili alla salvaguardia dei diritti dell’Italia sui territori plurilingui (pp. 226-227). Un altro problema che andava affrontato era quello dell’insorgenza molto forte del nazionalismo slavo. Era dell’avviso che nell’Italia nascente “dal sangue di un popolo martire” contro i nazisti ed i fascisti essa compiva “il suo secondo Risorgimento” (p. 227). 4 storia e Sabato, 1 ottobre 2011 PATRIMONIO Un tuffo nel passato di Pola «visto» attraverso i reperti archeologici recuper Un libro di storia in grado di inqu di Arletta Fonio Grubiša tiere di San Teodoro. I tasselli recuperati dagli archeologi sono stati presenroseguiamo il viaggio indietro tati nell’ambito della mostra “Pola, la nel tempo attraverso il sito di nascita della città”. Una mole impresvia Kandler o meglio dal Quar- sionante di oggetti risalenti a epoche P diverse raccontano il passato della città dell’Arena, partendo dalla preistoria fino a raggiungere i giorni nostri, rivelando notizie, curiosità e ricche pagine di vita della quotidianità. Gli scavi fu- rono effettuati nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2009 dal Museo archeologico di Pola. Alka Starac, che ha coordinato le indagini negli anni, guidato il team di esperti che ha studiato pez- zo per pezzo il materiale estratto – ossia Lara Orlić, Silvana Petešić, Vendi Jukić Buča, Tatjana Bradara, Ondina Krnjak, Petra Rajić Šikanjić e Zirnka Premužić –, ha pure curato l’allestimento della Una domus per soli... patrizi Sito archeologico di via Kandler inesauribile. Non bastavano il Tempio di Ercole, le terme, il deposito di anfore, a impreziosirlo c’è la domus, una vasta e lussuosa casa urbana di cui è stata esplorata una superficie di 25x30 metri. Risale nel penultimo quarto del I sec. a. C. assieme all’adiacente edificio termale, e fu abbandonata dopo l’incendio alla fine del V sec. Si rende noto al pubblico che la fetta di terreno esplorata comprende la parte orientale del peristilio (perystilium) con gli ambienti circostanti. Qui si distinguono fior di vani sfoggianti tutti i privilegi e le comodità dell’aristocrazia romana: l’atrio per ricevere gli ospiti (oecus), la sala da pranzo (triclinium), la dispensa, la cucina (culina), la sala da bagno di cui si sono conservate due stufe (praefurnia), il locale riscaldato (calidarium), quello per la sauna riscaldato con aria calda (laconicum) e il sistema di condutture per rifornire d’acqua i bagni e per lo scarico dell’acqua eccedente e del vapore. Veri specialisti in idraulica si dirà. “L’entrata alla casa era posta sul lato nord - come spiegato da Alka Starac - accanto a quella delle terme. Una scalinata conduceva dal peristilio al piano superiore, che occupava la zona orientale della casa. Gli ambienti di soggiorno erano pavimentati a cemento con o senza bordi musivi, mentre le pareti erano dipinte secondo il terzo stile pompeiano.” “La zona nord-orientale della casa era dotata di un piccolo cortile interno, che serviva per dare luce agli ambienti e per raccogliere l’acqua piovana. Nella parete di uno dei locali di questa zona appartata c’è una nicchia trapezoidale, rivestita di mosaico bianco e nero, che raffigura una conchiglia e riporta una scritta con il nome della dea della salute Salus.” La ricercatrice Starac è riuscita pure ad appurare che “verso l’anno 120 la casa subì gravi danni in un incendio, dopo il quale ne vennero rinnovati i pavimenti e gli affreschi parietali. Semplici pavimenti musivi bianco-neri ricoprirono i corridoi, i bagni e alcuni ambienti Mosaico nella sala di ricevimento Affreschi romani Resti della domus di soggiorno. In una piccola cameretta per il riposo (cubiculum) il mosaico crea una complessa figura geometrica, mentre nel locale di ricevimento degli ospiti (oecus) sono combinati campi bianco-neri con altri a motivi geometrici policromi. I nuovi affreschi furono eseguiti in uno stile diverso, con motivi floreali stilizzati che si ripetono monotonamente nel reticolo parietale. Gli elementi decorativi architettonici confermano lo sfarzo: ricchezza di stucchi, di cornici, piastrelle e capitelli di marmi variopinti. Il tetto della domus era ricoperto da laterizi dai bordi rialzati (tegulae) e da embrici (imbrices), poggianti su una struttura di legno.” Altrettanto ricco l’inventario degli oggetti appartenuto alla domus. Lo testimoniano frammenti di anfore istriane per l’olio d’oliva, di boccali, di cocci di piatti di terra sigillata nord-italiana e di lucerne a tre beccucci. “Nelle macerie – da come specificato – in tutta l’area della domus, si sono riscontrati resti di recipienti, lampade, accessori da toeletta (spilloni per capelli) e abbigliamento del periodo compreso fra il II sec. e la seconda metà del V sec. allorché l’edificio venne definitivamente abbandonato. L’inventario rivela importazioni particolarmente intense di stoviglie da mensa e da cucina, specie dall’Africa settentrionale e dal Mediterraneo orientale, invece le anfore giungevano qui da tutto il bacino mediterraneo, da Gibilterra fino alle rive del Mar Nero.” Tra il vasellame da mensa spiccano i bicchieri di Corinto, quelli nord-italici, piatti, boccali altoadriatici, piatti e ciotole di origine africana, vasellame da mensa di L’arte delle medagliette devoz Il convento delle benedettine Gli scavi nell’area archeologica di via Kandler hanno comprovato la plurisecolare presenza delle suore benedettine nel Quartiere di San Teodoro, allogate in detta parte della città dopo aver abbandonato il loro primo convento situato fuori le mura cittadine su ordine dei Veneziani. Nel loro monastero di clausura, praticando il sacro principio del proprio ordine, Ora et labora, rimasero e operarono fino al 1789, salvo il periodo di trasferimento dovuto all’incendio del 1671. Le monache abbandonarono chiesa e convento per trasferirsi al monastero di S. Giovanni Laterano a Venezia. Gli edifici sacri, compreso l’orto, vennero ceduti alla municipalità polese, che si impegnò a versare una tassa annua e a riservare l’usufrutto ad ammalati ed infermi o comunque a scopi di beneficenza. La studiosa Ondina Krnjak rivela che “le fonti storiche attestano la presenza all’interno del convento, accanto a quella delle varie priore, monache, abbadesse e converse, anche della loro servitù e di salariati, fissi o saltuari. Inol- tre, vi si ritiravano e vi morivano delle ricche borghesi, che lasciavano in eredità all’istituto determinati averi in cambio dell’assistenza loro prestata dalle suore finché erano in vita. “ “Dai dati, che risultano dai registri anagrafici della parrocchia capitolina polese (oggi custoditi presso l’Archivio di stato di Pisino), si può concludere che all’interno del monastero venivano sepolti tutti coloro che vi avevano abitato in vita.” “Nella Pola del medio evo e dell’evo moderno era consuetudine seppellire i defunti ad sanctos o martyribus sociatus, ovverosia il più possibile accosto alle tombe dei santi o alle loro reliquie, affinché la via della resurrezione delle loro anime ne fosse spianata. Si propendeva quindi per inumazioni nell’area consacrata, che comprendeva la chiesa, l’atrio e tutto quanto appartenesse alla chiesa (ad es. il chiostro).” “Dagli scavi archeologici effettuati in questo complesso è emerso che solamente le sepolture all’in- Maiolica ispano-moresca. Regione di Valencia, XV secolo, appartenuta al convento Una benedittina terno dell’edificio sacro erano dotate di corredi funebri.” “Sono state scoperte undici cripte mortuarie, ognuna delle quali contenente un notevole numero di inumazioni dotate di corredi funebri, comprendenti pochi oggetti decorativi – ornamento floreali in filo metallico, anellini – parecchi grani di rosario di vario tipo, due piccoli crocifissi e 51 medagliette devozionali. Ceramiche romagnole, I metà del XV secolo Si merita tutto un capitolo a parte la collezione delle medagliette delle benedettine rinvenuta rovistando nel sottosuolo del vecchio Quartiere di San Teodoro. L’averne rinvenute ben cinquantuno in pochi metri di terreno risulta essere una cosa fuori dall’ordinario e tanto di materiale per uno studio a parte compiuto dall’esperta museale Ondina Krnjak. “Le medagliette sacre – spiega quest’ultima – appartengono al gruppo dei cosiddetti devozionali, attestanti la professione di fede nella vita quotidiana. Si tratta di oggetti, per lo più molto piccoli, di forma rotonda, ovale, poligonale o cordiformi. Presentavano su ambo le facce raffigurazioni in rilievo, di solito con le immagini di Cristo, della Madonna, di santi, di apparizioni (miracolose), di oggetti miracolosi (immagini) o statue sacre) e di santuari di pellegrinaggio. Molto spesso erano corredate da epigrafi in tema. Ed erano in prevalenza ricavate da metalli non nobili, poco costosi (bronzo, rame, alluminio e simili), raramente d’argento o d’oro.” “Le medagliette si acquistavano in tante maniere. Le distribuivano i vescovi, i missionari o i parroci, ma potevano venir anche comperate nelle località in cui ci si recava in pellegrinaggio, durante i giorni di fiera nei pressi delle chiese o in altre occasioni religiose.” “Di preferenza i fedeli appendevano le medagliette ai rosari, ma venivano portate anche al collo o in altri modi. In quanto espressione di devozione profonda, neanche dopo la morte venivano separate dal corpo del defunto. Per questo, durante le ricerche archeologiche effettuate in strati risalenti all’evo moderno, specie in aree cimiteriali, ecclesiastiche e simili, si incontrano anche oggetti di questo tipo.” Peculiarità delle medagliette rinvenute delle cripte di San Teodoro. La maggior parte – come chiarito da Ondina Krnjak – presenta sul di- Un rosario con medagliette ricerca Sabato, 1 ottobre 2011 5 rati dal sito di via Kandler uadrare la città fin dalle sue origini mostra allestita alla Chiesa dei Sacri cuori. Obiettivo finale: far conoscere i reperti e le nuove informazioni sulla storia di Pola, ricostruite al massimo livello dell’interpretazione scientifica. Nicchia con dedica a Salus provenienza microasiatica usato nell’ultimo periodo in cui la casa fu abitata. Vedi ancora le lucerne di produzione nord-italica, gettoni per giochi da tavola che servivano per passatempo quotidiano ed altro. È indubbio che detto inventario della domus rivela “un alto livello qualitativo delle merci e dei viveri, che giungevano per mare da tutti gli angoli del Meditetrraneo e un arredamento lussuoso comprendente pavimentazioni in marmi policromi (opus sectile) e arredi decorativi in marmi preziosi. Santa Lucia Scheletri e malattie medievali Una chiesa dentro la chiesa. Tutto è possibile quando gli strati culturali si sovrappongono e crescono uno dopo l’altro nei secoli. Ed è capitato così che le ricerche archeologiche ipogee alla chiesa di San Teodoro hanno permesso di constatare nello stesso sito una chiesa più antica e più piccola, forse consacrata a S.Lucia, il cui livello pavimentale era inferiore di due metri. Le dimensioni dell’edificio sacro? Larghezza 7 metri, mentre in lunghezza le ricerche archeologiche sono arrivate fino a 13 metri. All’entrata, posta ad ovest, conduceva un corridoio scoperto largo cinque metri e lungo 26. Il presbiterio era rialzato e un gradino lo separava dallo spazio riservato ai fedeli. Da detta chiesa, risalente alla fine del V sec. o al VI sec., provengono i frammenti di arredo litico ecclesiastico, di calcare e di marmo, di epoca paleocristiana e preromanica. A ovest dell’entrata c’erano degli ossari senza corredo funebre. “Pezzi di ornati scolpiti furono inseriti – come da descrizione – nei pavimenti e nelle pareti dei fabbricati ecclesiastici successivi. I solchi sulla malta all’interno della chiesa paleocristiana, provocati dall’azione del vento marino salato, testimoniano un certo periodo di decadenza precedente alla costruzione della nuova grande chiesa di S.Teodoro. Le cause di quella L’analisi del rebus di resti umani scoperti nel sito di San Teodoro è stata affidata alle studiose Petra Rajić Šikanjić e Zrinka Premužić. Interessanti i risultati e le deduzioni scaturite. “Sui resti degli scheletri sono state effettuate analisi dettagliate onde raccogliere possibili notizie sullo stato di salute e sulle malattie degli abitanti della Pola dell’epoca. L’analisi ha riguardato l’accertamento del sesso e dell’età dei defunti e il censimento dei mutamenti patologici subentrati nel corso della loro esistenza.” Nonostante il fatto che l’analisi era stata limitata dal fatto che la maggior parte dei sepolcri c’erano resti incompleti e sparpagliati di più individui, si è potuto accertare che i campioni esaminati corrispondono a un minimo di 71 indi- zionali Pluteo paleocristiano, VI sec. Lastricato e sepolcri sotto l’entrata della chiesa decadenza risiedono nei tumultuosi eventi storici: tutto il Trecento fu segnato dagli scontri armati fra Venezia e Genova, che per Pola comportarono ripetuti saccheggi. Nella loro ultima spedizione del 1379 i Genovesi la incendiarono arrecando gravi distruzioni, ed è quindi possibile che i danni subiti dalla chiesa di S. Lucia si possano collegare a quell’avvenimento storico.” “A ovest della chiesa esistette dal VII al XIV sec. un cimitero che, quando venne costruita quella di San Teodoro, fu in parte distrutto e in parte coperto dalle lastre di pietra del nuovo pavimento ecclesiastico.” Piccola curiosità sui pezzi di arredo litico di S. Lucia ritrovati: sono tutti differenti. Da quanto dedotto dalla studiosa Vendi Jukić Buča, non esistono due colonnette o due capitelli uguali, come non vi sono due identici plutei o pilastri. È altresì presumibile che alla fine dell’VIII sec. o all’inizio del IX, gli arredi della chiesa paleocristiana di S. Lucia siano stati completamente sostituiti, in conseguenza del nuovo ordinamento politico subentrato con la conquista dell’Istria da parte di Carlo Magno. La chiesa venne rasa al suolo al più tardi nel Quattrocento, allorché al suo posto fu eretta quella di S. Teodoro. Sepolcri a ovest della chiesa di S. Teodoro vidui, di cui 57 adulti e 14 bambini. Dei 32 adulti di cui è stato possibile stabilire il sesso, 28 sono risultati femmine e solo 4 maschi. La maggior parte delle donne era deceduta a un’età compresa fra i 20 e 34 anni mentre tutti gli uomini avevano più di 35 anni al momento del trapasso. “La grande percentuale di donne risultante dai campioni esaminati conferma, come si supponeva, che in questi sepolcri venne- Una cripta del “buio” Medioevo ro sepolte le abitatrici del convento. Sempre in base alle fonti storiche, accanto alla suore nel monastero vivevano, morivano e venivano sepolte anche ricche borghesi, che gli lasciavano in eredità i propri beni. Il numero più esiguo di uomini corrisponderebbe ai servitori e ai lavoratori fissi o saltuari assunti dal convento. I bambini, di cui la maggioranza in età adolescenziale, erano forse delle novizie.” Come da esamina “nei campioni ossei sono stati isolati alcuni casi di malattie di diversa eziologia, come lo scorbuto e la tubercolosi, nonché fratture e iperostosi idiopatica diffusa. Alcuni casi di mutamenti degenerativi alle articolazione delle ossa lunghe e delle vertebre testimoniano una modica attività fisica. Chiesa di San Teodoro Medagliette in esposizione ritto e sul rovescio motivi riconoscibili e decifrabili. Dal loro contenuto si può dire che ad essere soprattutto onorati e invocati erano Gesù Cristo, la Vergine, il Santissimo Sacramento e molti santi: S. Francesco d’Assisi, S.Carlo Borromeo, S. Antonio da Padova, S.Bnedetto, S.Domenico, S.Maria Maddalena, S.Rosa da Lima, S.Francesco di Sales, S.Francesca Romana, S.Andrea, S.Veronica, S. Giuseppe col Bambino, S.Venanzio, il patriarca Giacomo, ma anche mete di pellegrinaggio, in cui si venerano oggetti sacri miracolosi: Loreto (la statua lignea della Vergine con il bambino), Sirolo (il crocifisso di legno), Passau Chlumek, Mondovì (dipinti della Madonna con il bambino), Fiume-chiesa di S.Vito (il miracoloso crocifisso di legno), Einsiedeln (la statua della Madonna Nera). Presenti anche i tanti temi iconografici (l’Annunciazione, la Natività, la Fuga in Egitto, Gesù e Maria, il Sacro Cuore, la Traslazione della Casa Santa di Nazareth…) Dopo Santa Lucia, San Teodoro. Difatti “al posto della vecchia chiesa cadente e abbandonata, nel 1458 – spiega Alka Starac – ne venne costruita una nuova, più grande, dedicata a San Teodoro, con annesso un convento femminile benedettino. La chiesa tardogotica di San Teodoro, larga 11,6 metri e lunga 20, aveva l’accesso orientato a est, al contrario di quella più antica. La sua parte orientale, entrata compresa, è andata completamente distrutta alla fine del XIX sec. in seguito alla costruzione di una caserma di granatieri della fanteria austroungarica. Sul lato meridionale della chiesa si innalzava un alto campanile squadrato, profondamente interrato, in cui erano state interpolate molte vestigia.” “Fonti storiche attestano l’esistenza della chiesa e del convento femminile presso la fonte nel XII sec., all’esterno delle mura cittadine. Nel 1358, dopo la pace conclusa tra Venezia e il re ungaro, alle monache fu assegnata per il loro convento una nuova ubicazione, all’interno delle mura polesi, presso la chiesa di San Giovanni (Porta S.Giovanni). Ivi all’interno della città, trovò posto anche il nuovo titolare S.Teodoro. La sua chiesa, assieme al convento, fu l’unico edificio di quell’area urbana che durante i secoli XVII e XVIII venisse sottoposto a costante manutenzione.” “Il convento venne allogato in alcuni semplici fabbricati nei pressi dell’odierna via Kandler, a sud della chiesa, fabbricati più volte ricostruiti e ristrutturati e definitivamente abbandonati alla fine del XVIII sec. Dopo il grande incendio del 1671, in attesa che il monastero venisse rimesso a nuovo, le monache si trasferirono temporaneamente nel palazzo vescovile. Nel monastero operava anche un ricovero per bambini poveri. Nel XV Panoramica con i resti di S. Teodoro sec. allorché il monastero fu ampliato, l’esistente pozzo romano venne abbandonato e riempito di detriti e tre metri più a ovest ne venne scavato uno nuovo, che rimase in uso fino al XX secolo. La maggior parte della superficie circostante la chiesa era coltivata a orto e nascondeva nelle sue profondità le rovine degli edifici più antichi.” Cripta funebre della chiesa di S. Teodoro Gli scavi tra i resti della chiesa e del convento hanno riportato alla luce un cimitero conventuale con 18 ossari privi di segnacoli architettonici funebri e di corredi nonché cripte sepolcrali all’interno di San Teodoro,ospitanti un centinaio di inumazioni. La maggior parte delle persone era stata sepolta in vesti ricamate assieme a ornamenti floreali, anellini e rosari mu- niti di piccole medagliette di metallo o crocifissi. Notevole pure la quantità di vasellame ceramico da tavola e da cucina con rivestimento appartenuta la convento. Si premette e informa il pubblico che nella mostra su “Pola, la nascita della città” viene esposto solo un piccolo contingente di recipienti da tavola tipici del periodo fra il XIV e il XVI sec. 6 storia e ricerca Sabato, 1 ottobre 2011 DOSSIER La terribile odissea dei fiumani, prigionieri in Russia (2.a e ultima parte) Ombre e luci sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale di Rodolfo (Rudi) Decleva F urono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e ci furono pure due matrimoni. Nel 1996 una Delegazione della Società di Studi Fiumani – guidata da Amleto Ballarini, con interprete il fiumano-ungherese-genovese Alessandro Imro – si è recata sul posto erigendo un cippo ricordo grazie anche ad un tangibile sostegno del Libero Comune di Fiume in Esilio. Questa la dicitura apposta: “Qui furono sepolti 149 italiani di Fiume. La Società di Studi Fiumanidi Roma li affida alla pietà della nobile Nazione ungherese a perenne ricordo di una città che le appartenne e perché nulla piu’ divida la fratellanza consacrata nel comune Risorgimento”. Benkò Istvàn, sindaco di Sulysàp – non richiesto – disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno subito”. E mentre gli uomini venivano mandati in Galizia a combattere per l’Imperatore, quest’ultimo, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 – internava nel Campo di Internamento di Tapiosuly (ora Sülysáp), a 36 chilometri da Budapest, intere famiglie fiumane che erano ritenute compromesse con l’irredentismo per l’Italia. Furono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e ci furono pure due matrimoni. Nel 1996 una Delegazione della Società di Studi Fiumani – guidata da Amleto Ballarini con interprete il fiumano-ungherese-genovese Alessandro Imro – si è recata sul posto erigendo un cippo ricordo grazie anche ad un tangibile sostegno del Libero Comune di Fiume in Esilio. Questa la dicitura apposta: “Qui furono sepolti 149 italiani di Fiume. La Società di Studi Fiumani di Roma li affida alla pietà della nobile Nazione ungherese a perenne ricordo di una città che le appartenne e perché nulla più divida la fratellanza consacrata nel comune Risorgimento”. Benkò Istvàn, Sindaco di Sulysàp – non richiesto – disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno subito”. Fatte queste premesse con ombre e luci fiumane sul campo di battaglia, esaminiamo cosa successe per i “fortunati” che caddero prigionieri nelle mani dei russi. Si calcola che almeno 25.000 soldati trentini, triestini, istriani,fiumani e dalmati di lingua italiana e facenti parte dell’esercito austro-ungarico vennero fatti prigionieri dai russi. Per tale motivo, dopo l’entrata in guerra nel 1915, l’Italia decise di inviare una Commissione in Russia, ormai alleata, con lo scopo di convincere questi poveri soldati ad arruolarsi nella appena costituita “Missione Militare Italiana”, raggiungere il fronte italiano e combattere per liberare le terre italiane ancora sotto il giogo austriaco. La vita nei campi di prigionia russi era pura lotta per la sopravvivenza caratterizzata da fame, freddo, neve che copriva i tetti, pidocchi, malattie, nessun futuro e perciò non fu difficile trovare le adesioni di questi derelitti che, con l’opzione per la nazionalità italiana, accettarono di cambiare la divisa austriaca col grigioverde italiano. Ciò malgrado, circa 10.000 di loro non accettarono il ricatto di tornare a casa, vuoi per fedeltà all’Imperato- re o perché non volevano più sentir parlare di guerre, dopo la tremenda esperienza vissuta in Galizia. La «Legione Redenta in Siberia» I Redenti vennero concentrati a Kirsanoff e da qui fu organizzato il loro rientro in Italia via porto di Arcangelo, passando per i porti della Francia e dell’Inghilterra, ma si poterono effettuare solo due viaggi per un totale di circa 4.000 persone. L’operazione si interruppe sia per il ghiaccio che bloccava la navigazione nei mesi invernali che perché nel frattempo era scoppiata la Rivoluzione russa del 1917. Sotto il comando del Col. dei Carabinieri Costa Manera, si formò così tra i rimasti la “Legione Redenta in Siberia” che – non potendo più rientrare in Italia – si spostò a Vladivostok e nella Siberia Orientale in appoggio all’esercito antirivoluzionario, presidiando la ferrovia Transiberiana. Da qui poi passò in Cina dove a Tientsin c’era la Concessione Italiana, protetta e garantita dal Governo cinese dopo la rivolta dei Boxers del 1900. Si potè così procedere al rimpatrio dei Legionari via San Francisco mentre un piccolo contingente dei redenti rimase di stanza a Tientsin, quale presidio di quel lontano lembo di terra italiana: era l’anno 1920, che pose fine a sette anni di indicibili sofferenze. Alcuni dei protagonisti Qualche mese fa, rovistando tra carte vecchie di famiglia, ho trovato la foto di 87 fiumani che fecero parte della Sezione Fiumana dei “Redenti in Siberia” e non so spiegarmi come la stessa abbia potuto sfuggire alla mia attenzione per tanto tempo. Sessant’anni fa era stato mio padre che la aveva ritenuta degna di essere portata fuori da Fiume al momento dell’esodo e – dopo essere passata per Udine, Barletta, Tirrenia, Calambrone, Livorno e Genova – è saltata fuori per darmi l’opportunità di scrivere il ricordo di tante sofferenze e riportare alcune notizie di alcuni protagonisti fiumani: Resaz Francesco (classe 1888), a Fiume proto (assistente edile), fu arruolato nell’esercito ungherese, e in Galizia si coprì di gloria combattendo nel IV Battaglione fiumano del 19° Reggimento Honvéd, con il grado di Zugfuehrer. Servì il suo Paese con quattro anni di servizio militare e tre di guerra cioè dal 1914 sino al ritiro della Russia dal conflitto a seguito della rivoluzione d’Ottobre del 1917. Due volte ferito, guadagnò quattro medaglie di bronzo e due d’argento, venendo proposto per la medaglia d’oro con diritto al titolo di Eroe nazionale. Resaz Amedeo (classe 1894), di professione pittore, fu arruolato negli Honvéd e nelle battaglie della Galizia fu fatto prigioniero dei russi. Finita la guerra e cessata la prigionia, tornò a Fiume a piedi. Smoquina Albino (nato 1893), pompiere, non fu mandato in Galizia, ma nel fronte sud e nel corso di un attacco contro gli italiani sul Monte Santo ebbe la gamba sinistra ferita da una granata. Sotto l’Italia gli fu riconosciuta generosamente la qualifica di invalido di guerra e quando morì la vedova continuò a riscuotere la pensione perché “morto in seguito alle ferite riportate in guerra”. Pola Zustovich Guerrino, faceva parte del 97° e all’indomani della Rivoluzione russa fu visitato nel suo campo di prigionia dai Capi della rivolta Lenin e Trotsky, che dissero ai prigionieri: “Aderite alla rivoluzione del proletariato; non avete da perdere che solo le catene”. Zustovich si fece fotografare con Lenin e Trotsky e quella foto abbellì in seguito la sua casa a Fiume. Iniziò così la sua nuova attività bellica al servizio della Rivoluzione spostandosi a Vladivostok e in Cina dove fu fatto prigioniero. Fu salvato dalla fucilazione da un Ufficiale francese che lo prelevò insieme ad altri “italiani” consegnandolo alla Legazione Italiana di Tientsin, e da qui entrò a far parte della Legione dei Redenti del Col. Manera. Francesco (Nicio) Malle (nato 1891), di professione commerciante in stoffe in Piazza Santa Barbara (Piazza del Latte), fu arruolato negli Honvéd e inviato in Galizia. Trovatosi in un corpo a corpo contro i russi infilzò un soldato nemico con la baionetta e per tutta la vita fu inseguito da incubi e dal rimorso. Sul fronte si ammalò di tubercolosi polmonare e per vari anni fu ricoverato negli ospedali ungheresi. Spedito a Fiume senza speranze di guarigione, tanta era la paura di prendere il contagio che nessun parente lo andava a trovare. Il figlio Biagio ne conserva i bottoni della divisa e la Medaglia che ricevette. Mario Cich si presentò volontario nella cavalleria degli Ussari ungheresi e partecipò al vittorioso sfondamento di Caporetto, ma in una successiva carica a Vittorio Veneto fu ferito e inviato dagli italiani in prigionia ad Ascoli Piceno; Nando Pravdacich, puntuale pescatore domenicale di scombri sul sottomarino austriaco affondato davanti alla Lanterna del porto; usava spesso raccontare gli attacchi all’arma bianca del suo reparto di cavalleria contro i russi, dai quali fu ferito e vistosamente ne riportò le conseguenze con una marcata zoppìa della gamba destra. Rodolfo Decleva (classe 1885), mio padre, fu arruolato nel 97° che aveva 29 anni ed era appena tornato dall’America con la sua Medaglia d’argento per merito sul lavoro guadagnata in tre anni sul Mississippi. Ebbe la fortuna di non essere inviato in Galizia né sul fronte italiano, restando di stanza a Trieste e spostato successivamente al Distretto di Pola. M. Blasich, che potrebbe essere Mario Blasich (classe 1878), il Mar- La vita nei campi di prigionia russi era pura lotta per la sopravvivenza caratterizzata da fame, freddo, neve che copriva i tetti, pidocchi, malattie, nessun futuro e perciò non fu difficile trovare le adesioni di questi derelitti che con l’opzione per la nazionalità italiana accettarono di cambiare la divisa austriaca col grigioverde italiano. Ciò malgrado, circa 10.000 di loro non accettarono il ricatto di tornare a casa, vuoi per fedeltà all’Imperatore o perché non volevano più sentir parlare di guerre dopo la tremenda esperienza vissuta tire zanelliano, che fu assassinato il 3 maggio dall’OZNA. Blasich, medico, fu richiamato nel 1914 e inviato in Galizia, si consegnò ai russi dichiarando la sua fede irredentista. Italo Nascimbeni (classe 1878), allo scoppio della Prima guerra mondiale, membro di famiglia irredentista, disertò dall’esercito austriaco e riparò in Italia, dove sistemò a Pesaro presso i parenti la moglie con i figli. Fu poi promosso Capitano del Regio Esercito Italiano con il compito di interrogare i prigionieri austriaci; conosceva 5 lingue. Come sempre succede, sui libri di storia che parlano della Grande Guerra si legge solo delle grandi battaglie di Verdun, della Marna, di Caporetto e del Piave mentre poco si parla dell’asprezza delle battaglie sul fronte russo. Arrivata l’annessione di Fiume e della Venezia Giulia all’Italia, le vistose perdite giuliane e fiumane in Galizia, gli internati di Tapiosuly, la gloria del 19° Honved e la tragedia del 97° furono ignorati per lasciare il posto solo ai Caduti regnicoli che avevano combattuto contro l’Austria, al ricordo dei quali vennero eretti targhe, lapidi e monumenti celebrativi. Per le vedove e gli orfani fiumani non ci furono monumenti o lapidi ove piangere i loro cari dispersi e abbandonati per sempre in Galizia mentre per i nostri sopravissuti doveva bastare la gioia di aver riportato la pelle a casa dall’inferno russo e così cantare: “Cavai, cavai, cavai porta i soldai/Soldai, soldai, soldai porta i cavai./Chi vive se la passa/Chi more va in casson./La Banda la vien, la Banda la vien,/La Banda la vien, la Banda la vien/La Banda Militar”. E con essi svanirono nel dimenticatoio anche i fortunati superstiti della “Legione Redenta in Siberia”, ai quali tuttavia il Regime li autorizzò a fregiarsi di un Distintivo speciale denominatoironicamente “Distintivo per le Fatiche di Guerra” come da Regio Decreto 21.05.1916 n. 641. (fine) storia e ricerca 7 Sabato, 1 ottobre 2011 LETTI PER VOI «La Dalmazia» di Giuseppe Prezzolini (ristampa Biblion edizioni) Una randellata a quelli che blaterano di italianità, venezianità, romanità di Alessandro Marzo Magno P er forza non l’avevano più ristampata dal 1915, “La Dalmazia” di Giuseppe Prezzolini (Biblion edizioni, Venezia, 2010, pp. 141, 15 euro), con saggio introduttivo di Giovanni Brancaccio Biblion. È un pugno nello stomaco, una randellata a tutti quelli che blaterano di italianità, venezianità, romanità. E come tutto quello che va contro la vulgata, gli interessi precostituiti, e la voglia di certezze di un un’opionione pubblica pigra, Dalmazia è finito in un angolo, ostracizzato e dimenticato. Che dice di tanto scandaloso Giuseppe Prezzolini? Sostanzialmente che la Dalmazia, con la sola eccezione di Zara, non è italiana, bensì un territorio misto dove gli italiani erano una minoranza significativa dal punto di vista culturale, economico e politico, ma davvero infima dal punto di vista numerico. Un discorso, questo, che oggi non scandalizzerebbe nessuno, perché più o meno così stavano le cose, ma fatto nel 1915, be’, immaginatevi voi lo starnazzare scandalizzato degli ultrà nazionalisti. Scandalo e indignazione accresciute poi dal fatto che lo scrittore proveniva dalle loro fila. Prezzolini non può andare di persona lungo le coste dell’Adriatico orientale: l’Italia è in guerra con l’Austria-Ungheria, a cui quelle coste appartenevano, è non è cosa. Allora decide di fare un viaggio letterario per cercare di capire come stessero le cose di là del mare. Si impegna a fondo, almeno a giudicare dalla vastità della bibliografia, e alla fine ne emerge con alcuni convincimenti nettamente in controtendenza con il can can nazionalista dell’epoca. Intanto se la prende con Venezia. Il “saggio governo veneto” non avrebbe di un ette contribuito al progresso sociale della Dalmazia. Al di là di un profondo antivenezianismo di tradizione fiorentina (Guicciardini, Machiavelli) che emerge dalle sue righe, Prezzolini ha sostanzialmente ragione: per Venezia la Dalmazia era luogo dove far legna e arruolare rematori. Le condizioni di vita erano talmente arretrate (soprattutto dopo l’acquisizione del controllo del retroterra – Knin, Imotski – e del passaggio di popolazioni morlacche sotto il dominio veneto) che Venezia tenta di varare delle iniziative di rilancio (il “Viaggio in Dalmazia” dell’abate Alberto Fortis va letto in tale senso), ma ormai la Serenissima non è che l’ombra di se stessa e anche questotentativo riformatore, così come tutti gli altri tentati in quegli anni, non andrà a buon fine. Prezzolini sottolinea che Venezia non ha promosso l’italianità di quelle terre, facile replicare che non poteva essere che così, visto che il concetto di italianità non era ancora stato inventato e che l’Italia era ancora e solo un’espressione geografica. Se si gira la prospettiva e non la si guarda dall’Adriatico, ma dalle pianure danubiane, la Dalmazia non appare più come la costa orientale del Golfo di Venezia (come veniva chiamato l’Adriatico prima della caduta della Repubblica), ma l’estrema propaggine occi- L'autore poi va anche oltre: afferma che la costa dell'Adriatico orientale costituisce il naturale sbocco al mare dell'entroterra serbo (al tempo la Croazia faceva ancora parte dell'impero austroungarico, di cui nessuno poteva prevedere la dissoluzione) e che l'Italia ha tutto l'interesse a mantenere buoni rapporti con Belgrado affinché l'Adriatico resti un lago di pace dentale del mondo slavo. E qui lo scrittore entra in un dibattito annoso, acceso e senza soluzione: se non si accetta che la Dalmazia sia entrambe le cose, non si va da nessuna parte. Prezzolini poi va anche oltre: afferma che la costa dell’Adriatico orientale costituisce il naturale sbocco al mare dell’entroterra serbo (al tempo la Croazia faceva ancora parte dell’impero austroungarico di cui nessuno poteva prevedere la dissoluzione) e che l’Italia ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con Belgrado affinché l’Adriatico resti un lago di pace. Tutto giusto, in teoria. In pratica le cose sarebbero andate diversamente, ma anche questo nel 1915 non era prevedibile e così Roma e il neonato regno SHS, poi jugoslavo, si sarebbero trovati da subito divisi da rivalità e incomprensioni. Al di là di un profondo antivenezianismo di tradizione fiorentina (Guicciardini, Machiavelli) che emerge dalle sue righe, Prezzolini ha sostanzialmente ragione: per la Serenissima la Dalmazia era luogo dove far legna e arruolare rematori. E sottolinea che non ha promosso l'italianità di quelle terre. Del resto, non poteva essere che così, visto che il concetto di italianità non era ancora stato inventato e che l'Italia era ancora e solo un’espressione geografica Naturalmente una visione tanto extravagante, che andava ferocemente contro il nazionalismo imperante all’epoca (e per di più da parte di un nazionalista come Prezzolini, quasi un eretico rinnegato), non poteva che incontrare pesanti avversioni. E se c’era chi si rendeva conto che alla fin fine l’unica città italiana della Dalmazia era Zara (diversa la situazione sulle isole), c’era an- che chi, come Attilio Tamaro, sosteneva che l’intera costa fosse italiana e che quella croata fosse una presenza un po’ abusiva. Giuseppe Prezzolini è sempre stato un intellettuale indigesto che a un certo punto abbandonerà l’Italia per andare in esilio volontario in Svizzera. Anche questo libro potrebbe a qualcuno apparire indigesto, proprio per questo va letto. Convegno scientifico internazionale con studiosi croati, italiani e sloveni Panopticon sul travagliato Novecento fiumano e istriano L’idea alla base del Panopticon (“che fa vedere tutto”) è quella che – grazie alla forma radiocentrica dell’edificio e ad opportuni accorgimenti architettonici e tecnologici – un unico guardiano potesse osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento. Il termine, in un’accezione ovviamente del tutto diversa, compare oggi nel titolo di un convegno scientifico internazionale che si terrà venerdì prossimo, 7 ottobre, al Campus universitario di Tersatto. Organizzato dal Dipartimento di Storia della Facoltà di Filosofia di Fiume, vedrà la partecipazione di una dozzina di studiosi provenienti dalla Croazia, dall’Italia e dalla Slovenia, tutti impegnati a dare un apporto nuovo per una “visione” a raggio quanto più ampio del passato di Fiume, dell’Istria e, in generale delle terre bagnate dall’Adriatico settentrionale. Titolo della giornata di studi è “Panopticon storico dell’Alto Adriatico”, con sottotitolo “Relazioni storiche dal 1921 al 2011”; si svolgerà in due sessioni nella Sala numero 6 dell’Ateneo in via Slavko Krautzek sn. L’evento è stato concepito come un momento d’in- contro tra le storiografie croata-italiana-slovena con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su alcuni dei momenti topici nello sviluppo storico dell’Alto Adriatico nel corso di quello che Eric Hobsbawn definì “secolo breve”, vale a dire il Novecento. Per quanto riguarda la Venezia Giulia, fu un periodo di grandi, anche drammatici, mutamenti politici, sociali, economici nella struttura complessiva di questi territori. Gli esperti cercheranno di avviare una riflessione sulle varie prospettive e i diversi approcci che hanno contraddistinto le varie storiografie finora; ma si parlerà anche di prospettive future e risultati di ricerche condotte in tempi più recenti. Il convegno si aprirà alle ore 9.30 con le allocuzioni del preside della Facoltà di Filosofia, Predrag Šustar, e del capodipartimento di Storia, Darko Dukovski. Quindi lo storico polese inaugurerà anche i lavori della prima parte, soffermendosi sui processi sociali, economici e politici che hanno interessato il primo biennio del secondo dopoguerra in Istria, come pure delle possibilità di convivenza fra le tre etnie (croata, italiana e slovena) della regione. Seguirà l’intervento di Jože Pirjevec (Università del Litorale, Capodistria ), impostato sul caso delle foibe e sul ruolo della storia nel pensiero politico italiano odierno. Raoul Pupo (Università degli Studi di Trieste) esporra “Alcuni problemi di storia comparata: l’Alto Adriatico dopo le due guerre mondiali”, mentre Marta Verginella (Università di Lubiana) presenterà il tema “Storicizzazione dello spazio altoadriatico: da storie nazionali a storie incrociate?”. Prendendo come esempio la produzione storiografica croata sull’esodo degli italiani dell’Istria e di Fiume, Franko Dota (Università di Zagabria) analizzerà invece il passaggio che intercorre dai giudizi storici espressi nel passato alla cristalizzazione di alcuni errori “fatali”. Al termine della sessione mattutina, Guido Franzinetti (Università del Piemonte Orientale, Alessandria) parlerà di “prospettive” sul passato e il futuro della storiografia adriatica. Seguirà, come si compete, il dibattito, che vedrà nel ruolo di moderatore Mila Orlić, dell’Università di Fiume. “Londra, Washington e le foibe: come valutare i documenti britannici e americani relativi agli arresti, alle deportazioni e alle esecuzioni nella Venezia Giulia dopo il primo maggio 1945” è il tema scelto da Gorazd Bajc (Università del Litorale, Capodistria, mentre Nevenka Troha (Istituto per la storia contemporanea, Lubiana) si soffermerà sulla questione della “fratellanza italo-slovena” e la Resistenza. Andrea Roknić Bežanić (Università di Fiume) illustrerà l’insediamento e l’organizzazione del nuovo potere civile e militare nella Fiume del dopoguerra. Ci tocca da vicino l’argomento di Gloria Nemec (Università degli Studi di Trieste), che si è occupata dei processi di formazione della minoranza nazionale italiana, con riferimento alle memorie e alle interpretazioni sul tema delle opzioni. Al centro della relazione di Milan Radoševič (Sezione di Pola dell’Istituto per le scienze storiche e sociali dell’HAZU) sono invece le condizioni igieniche e sanitarie nella Croazia occidentale tra le due guerre, con particolare riguardo all’Istria. Infine, Vjekoslav Perica (Università di Fiume) farà il punto sulla missione di pace nella marina USA nell’Adriatico tra il 1921 e il 1921. Le discussioni saranno moderate da Vanni D’Alessio (Università di Fiume/Università di Napoli). ir 8 storia e ricerca Sabato, 1 ottobre 2011 PILLOLE Sulle orme della passione per la cartofilia, oggi oggetto di particolari studi Immagini d’epoca della nostra regione che catturano anche il grande pubblico di Roberto Palisca L a diffusione della cartolina segnò, in Italia e all’estero, l’inizio di un modo più rapido ed agile di comunicare, annullando le distanze dei luoghi più o meno lontani. Insieme al successo della cartolina si diffuse rapidamente l’abitudine di conservare quelle ricevute da parenti e amici ed in breve aumentò considerevolmente il numero di coloro che corrispondevano al solo scopo di scambiarsi cartoline. A partire dai primi anni del 1900, grazie alla nascita e al rapido affinamento delle tecniche fotografiche, la cartolina illustrata divenne uno dei principali veicoli d’informazione ed una delle più capillari testimonianze della trasformazione del paesaggio. Crebbe così anche il fenomeno del collezionismo. La cartolina, dunque, non rappresenta soltanto la testimonianza di un viaggio. È al tempo stesso una testimonianza storica. All’inizio del secolo passato, infatti, essa non serviva semplicemente per inviare i saluti da un luogo di villeggiatura durante una vacanza o una gita. Mirava anche a immortalare la vita di tutti i giorni, dalle persone ai mezzi di trasporto, la progressiva evoluzione di un paese o di una città, in continuo cambiamento. La sempre pittoresca Rovigno pero del quale: quello austro ungarico. Due centri economici e militari Nel XIX secolo in Istria si formarono due principali centri economici e militari, che davano il tono alla vita istriana, Trieste e Pola, e, accanto ad esse anche Fiume. La prima già dall’inizio del XVIII secolo andava rapidamente sviluppandosi e ampliando le sue influenze e necessità economiche sul vasto retroterra istriano. Tutta l’Istria settentrionale era economicamente rivolta verso Trieste. Pola diventò un’importante città militare dopo il le cartoline. Dopo quelli di Trieste, nel 1901, a Pola compaiono i primi editori locali. Lo Studio fotografico di M. Clapis, ad esempio, firma una delle prime cartoline del celebre monumento a Tegetthoff. Altri fotografi che si dedicano intensamente all’ormai sempre più redditizia produzione di cartoline illustrate sono Guido Costalunga, C. e G. Fano, A. Bonetti, F.W. Schrinner, Josip Krmpotić, St. Valacchi e Stephan Vlach (forse due varianti del nome e cognome di una stessa persona) A. e G. Rude, M. Fischer, tutti con Studi a Pola. Tante vedute di Pola, molte delle quali a colori, portano impressi poi editori di Dresda e Berlino (Stengel & Co.), Praga (M. Schulz), Leipzig (Dr. Pola Valorizzazione solo in tempi più recenti Nonostante questo suo particolare valore intrinseco però, soltanto in tempi recenti la cartolina ha cominciato ad essere davvero valorizzata come indizio dei mutamenti paesaggistici, artistici e culturali. Tanto che oggi la cartofilia sta acquistando la meritata importanza in quanto sta divenendo oggetto di studio dal punto di vista grafico, storico e tematico. Non solo cartoline, dunque, ma testimonianze quasi documentaristiche, che se correttamente interpretate e inquadrate, non possono che aiutarci a ricostruire il clima del tempo. Tornando alle cartoline d’epoca, che è al centro della nostra attenzione, crediamo sia importante soffermarci per qualche istante sul ruolo che ebbero, ai tempi in cui iniziò a svilupparsi pure dalle nostre parti, l’industria della fotografia e delle cartoline illustrate (come lo ebbero del resto in tanti altri segmenti dello sviluppo di Trieste, Fiume e Pola e del territorio istriano), Vienna e Budapest, ovvero i centri del potere e dello sviluppo economico dell’Im- 1853, quando fu scelta quale futuro porto militare della monarchia, e dopo che nel 1856 vi fu fondato l’Arsenale, ma specialmente dopo il 1864, quando vi trovò sede l’ammiragliato, trasferito a Pola da Trieste. La sua giurisdizione si estendeva da Salvore a Spiz e, dal 1869, fino al confine istro-ungherese. La ferrovia, costruita nel 1876, collegava Pola e la penisola istriana alla rete ferroviaria europea. Sotto l’AustroUngheria la città superò i 50.000 abitanti. Dal 1868 in poi Fiume altresì ebbe un rapido sviluppo di tipo economico e sociale e divenne il principale centro economico e portuale ungherese della monarchia e influenzò profondamente lo sviluppo della parte orientale della penisola istriana. Il grande boom Non stupisce dunque che le prime cartoline di Fiume e Pola, che iniziano a circolate intorno agli anni Settanta del XIX secolo, e in particolare quelle colorate, vengano pubblicate da editori triestini o austriaci, e stampate a Dresda, Praga. Amburgo, Leipzig o in altre città austriache. Ma è tra il 1897 e il 1914 che si verifica il grande boom del- Trenkler Co.) e Trieste (Modiano). A Fiume le prime cartoline fanno la loro comparsa nel 1877. All’inizio sono litografie. Poi, man mano che si sviluppano le nuove tecniche, diventano fotografie, dapprima in bianco e nero, o nel classico color seppia, più tardi a colori. Anniversari e grandi eventi Le prime cartoline statali ufficiali stampate con impressa già l’impronta del francobollo sono commemorative di importanti avvenimenti. Come quella edita nel 1898, in occasione del 50.esimo della Rivoluzione di Vienna che segnò la caduta del cancelliere Metternich e la concessione della costituzione. L’annuncio Abbazia, il “Bagno Italia” della rivoluzione in Austria provocò in Italia le insurrezioni di Venezia e le Cinque giornate di Milano. Per venire in aiuto degli insorti, il re di Sardegna, Carlo Alberto, dichiarò la I guerra d’indipendenza all’Austria. Ungheresi e boemi chiesero il riconoscimento della loro individualità nazionale. L’ordine nell’Impero fu poi ristabilito a Praga e a Vienna, dove il 27 ottobre del 1848 l’inflessibile principe di Schwarzenberg assunse la guida del governo dieci giorni prima dell’ascesa al trono imperiale di Francesco Giuseppe. La Prima Esposizione Industriale Fiumana Nel 1899 esce dalle stampe della tipografia fiumana P. Battara, poi divenuta Stabilimento tipografico che pubblicava anche tantissimi libri (manuali scolastici bilingui in italiano e ungherese, come “La flora di Fiume e dei dintorni” e “Piccola storia naturale”, scritti da János Matisz, “La verità sul progetto idraulico della Rečina ovvero il canale di Grohovo”, di Siffredo Làszló) ed altre edizioni (“L’assedio di Sziget del conte Nikolo Zrinyi”, la Grammatica ungherese e il libro di lettura di Emerico Donàth, bozzetti come “Il giovane eroe”, di Maurizio Jókai, destinati alle Fiere di beneficenza che venivano organizzate a Fiume all’epoca in favore degli asili infantili, programmi ed annuari per le scuole) una cartolina d’occasione in ricordo della Prima Esposizione Industriale Fiumana svoltasi nel capoluogo del Quarnero dal 30 aprile al 30 maggio di quell’anno. Seguì lo stesso esempio pure l’editore Edoardo Schambik, che aveva uno studio fotografico in via del Corso al civico 13 e che all’epoca pubblicò molte altre belle cartoline di Fiume (alcune oggi in Internet arrivano a essere vendite anche a 20 euro al pezzo) con vedute panoramiche da Tersatto (le più richieste), primi piani sull’allora hotel “Europa” (oggi sede di uffici dell’anagrafe e dell’amministrazione regionale e di Stato), di Riva Adamich, detta allora Via del Lido, del Teatro e di tante altre piazze e strade della città. Ciò che, come nel caso di Pola pure in quello di Fiume colpisce un attento osservatore, è che a firmare moltissime delle cartoline in commercio a quei tempi in cartolibrerie e rivendite specializzate, erano compagnie con sede a Dresda a Berlino (Stengel & Co), a Monaco, oltre che a Vienna (C. Ledermann. Jr) e a Budapest (Edgard Schmidt). Le tematiche sono molto spesso vedute del porto e della Fiumara, del Corso e della Torre Civica squarci delle principali piazze e vie del centro città, con in primo piano palazzi monumentali (il Teatro, Palazzo del Governo, Palazzo Modello), chiese e monumenti (alcuni ancora oggi esistenti molti altri scomparsi nei burrascosi anni in cui mutavano regimi e politiche), ma anche strade ed edifici di secondaria importanza, stabilimenti industriali, locali pubblici, scene di vita quotidiana. Solo frammenti, ma significativi Piccoli ma significativi e importanti frammenti di un ricco passato che sembra quasi voler evadere a tutti i costi da quei cartoncini rettangolari sui quali è rimasto imprigionato dall’occhio di quei primi ancora rudimentali obiettivi, per raccontare di sé e della storia di una città. Così è per Pola e Fiume, per le principali città della Dalmazia (Zara, Spalato, Sebenico e Ragusa), per le prime mete d’interesse turistico (Abbazia, Cherso e Lussinpiccolo, Rovigno, Parenzo, Umago) ma anche per cittadine minori (a volte si resta impressionati proprio dalla genialità dei fotografi dell’epoca, che sapevano scegliere con estrema maestria i temi giusti per immortalarli in una cartolina, anche in luoghi in cui apparentemente, all’occhio di un comune passante potevano apparire del tutto insignificanti. La stazione ferroviaria di Canfanaro, un vigneto con in secondo piano il campanile della chiesa parrocchiale di Cerreto, le calli di Dignano, una veduta dal mare di Fasana scattata da qualche piroscafo in viaggio verso l’arcipelago delle Brioni. E tante altre immagini di Albona, Dignano, Gallesano, Pisino, Lindaro, che qui, di volta in volta andremo ad analizzare insieme. Anno VII / n. 57 del 1.mo ottobre 2011 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić Collaboratori: Rodolfo (Rudi) Decleva, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez, Alessandro Marzo Magno, Roberto Palisca Foto: Arletta Fonio Grubiša, archivio, Internet