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Piccole e grandi battaglie, memorabili

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Piccole e grandi battaglie, memorabili
IN QUESTO NUMERO
Piccole e grandi battaglie, memorabili
F
al Museo Regionale capodistriano.
Era invece chiamata “La Bella” la
galera traurina comandata da Alvise Cippico, che dalla battaglia tornò con uu trofeo di guerra, un gallo
di legno preso dal rostro di una galea turca, che fece murare nel cortile del palazzo, in cui accolse molti artisti e uomini di cultura provenienti da tutt’Europa. Le città e le
isole del Quarnero e della Dalmazia veneziana diedero otto galee,
provenienti da Lesina, Cherso, Veglia, Arbe, Zara, Sebenico, Traù e
Cattaro. Quella di Lesina, Cherso
e Sebenico furono ingaggiate per
rompere lo schieramento centrale della flotta turca; ma il sacrifico
maggiore fu sostenuto da quelle di
Cattaro e Perasto, nonché dagli uomini di Traù. La galea traurina, infatti, piazzata nella parte meridionale, fu attaccata da sei galee ottomane: perirono ben 153 dei 163
uomini a bordo, traurini ma anche
spalatini e provenienti da Salona,
gli altri riportarono ferite.
Battaglia memorabile, considerata punto di svolta, fu studiata
il 6 ottobre di dieci anni fa nel corso di un convegno scientifico promosso alla Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” dall’allora
costituenda Società di Studi storici e geografici di Pirano. I saggi e gli interventi dei vari relatori – Kristjan Knez, Diego Redivo, Fulvio Salimbeni, Darko Darovec, Antonio Miculian, Denis
Visintin, Salvator Žitko, Franco
Viezzoli – furono poi raccolti nel
primo volume della collana “Acta
Adriatica”. Insomma, a proposito
di Lepanto scendeva in campo –
storiografico – una nuova realtà
associativa con l’obiettivo di scoprire e riscoprire, conservare e valorizzare, diffondere e promuovere l’importante patrimonio storico-culturale-artistico dell’Adriatico orientale, scongiurando i forti
rischi di omissioni, deformazioni,
strumentalizzazioni, oblii, degrado. Su Lepanto, dunque, la Società piranese vinceva la sua prima,
importante battaglia.
A Lepanto, nell’ottobre di 440
anni fa, si disputò la più grande
battaglia tra galee che la storia abbia conosciuto, ossia “la più grande giornata che videro i secoli”,
come ebbe a dire Miguel de Cervantes Saavedra, ferito in quella battaglia. Dipinta erroneamente
come l’ultima “crociata”, non fu,
come molta retorica l’aveva definita, uno scontro tra civiltà bensì in primo luogo una corsa – benchè armata – al raggiungimento di
un obiettivo geostrategico ed economico nel Mediterraneo, con cui
l’Europa (cristiana) voleva mettersi al sicuro da un pericoloso rivale (musulmano), l’Impero ottomano. Fu indubbiamente il più grande
confronto che le acque del “Mare
Nostrum” avessero mai visto: non
era mai capitato, prima di quel fatidico 7 ottobre 1571, che si concentrasse, in un golfo di modeste proprorzioni come quello di Patrasso, un numero così imponente
di navi da guerra, cannoni,
uomini, schierati dall’una e
dall’altra parte. Un teatro
di guerra lontano eppur
così vicino alle nostre
terre, alla Dalmazia
e all’Istria, tanto da
coinvolgerle direttamente per certi aspetti. Innanzitutto, arruolati
nelle armate cristiane, alias veneziane, istriani e
dalmati si distinsero “sul campo
di battaglia”; in
secondo luogo, la
vittoria di consentì alla Serenissima
di scongiurare un
possibile attacco da
parte della Sublime
Porta nella laguna veneta nonché in Dalmazia, dove il pericolo ottomano continuava a persistere e lo farà ancora per
tutto il XVII secolo.
Segue a pagina 2
Capodistria, la Colonna
di Santa Giustina, eretta
a commemorazione della battaglia di Lepanto
del 1571 e del contributo
istriano, nella fattispecie
del galeone capodistriano, sul quale si trovavano un centinaio di uomini d’equipaggio agli
ordini di Gian Domenico Tacco (che all’indomani dello scontro
si fermò a Corfù, dove
morì). Il monumento fu
eretto nel 1572 ai tempi
del podestà Andrea Giustinian, grazie ai sindaci
Pietro Vergerio Favonio
e Giuseppe Verona
LA VOCE
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a da introduzione a questo
numero dell’inserto “Storia & Ricerca” il ricordo
dell’anniversario di un evento, la
Battaglia di Lepanto, in cui prevalse la logica del confronto armato
tra Oriente e Occidente, che pure
ai nostri giorni trova sostenitori tra
più potenti interessati a conservare
il dominio sulle fonti energetiche
e sulla loro distribuzione. Ripercorriamo invece quell’antico fatto d’armi, abbracciando le ragioni
della comprensione reciproca tra i
diversi popoli e sostenendo la necessità della valorizzazione piena
dei vari tasselli delle civiltà che si
affacciano al “mare della vicinanza” per eccellenza, e che appartengono alla koiné mediterranea.
E l’Istria e la Dalmazia quali ruoli ebbero? La penisola istriana, passata a dominio di San Marco tra il XIII secolo e il 1420, partecipò a tutti gli scontri militari –
sia quelli di conquista territoriale
sia quelli tesi a tutelare il proprio
suolo – che Venezia aveva sostenuto nella sua lunga storia, anche
in quest’occasione diedero il loro
obolo (anche se non tutti i “richiamati” alle armi risposero all’arruolamento, scegliendo di scappare piuttosto che avventurarsi in
quelle acque lontane e insidiose).
Il 31 marzo 1570, nell’ambito dei
preparativi per la battaglia, il Senato veneziano aveva avvisato tutti i
rettori di Levante, della Dalmazia
e dell’Istria affinché contribuissero con un determinato numero di
uomini per l’armamento delle galee grosse. A Isola si chiesero 20
uomini, 30 a Pirano, 10 a Umago
e altrettanti a Parenzo, 15 a Cittanova, 50 a Rovigno e la stessa cifra a Pola, 80 a Montona, 30 a San
Lorenzo, 60 ad Albona e Fianona,
30 a Raspo (Pinguente), 6 a Grisignana, 24 a Dignano e 15 a Valle.
I capodistriani si obbligarono, volontariamente, ad armare una galea
speciale, di cui fu nominato sopracomito Gian Domenico del Tacco. Si chiamava “Liona con mazza” e la sua bandiera è conservata
DEL POPOLO
storia
e ricerca
An
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VII
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011
57 • Sabato, 1 ottobre 2
2 storia e ricerca
Dalla prima pagina
Come si arrivò allo scontro?
Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città
di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d’Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio
universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l’Ungheria ed erano
arrivati fino alle porte di Vienna. In
Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l’isola di Chio ai genovesi, Rodi
ai cavalieri che la possedevano e la
stessa isola di Malta, nuova sede dei
cavalieri,sarebbe caduta nelle mani
turche se Jean de La Valette, Gran
Maestro dell’Ordine non l’avesse
difesa e salvata con eroico valore.
Nel febbraio 1570 era giunto a
Venezia un ambasciatore turco con
un ultimatum della Sublime Porta:
o la cessione al sultano dell’isola di
Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici
mesi di assedio il 1.mo agosto 1571,
nell’isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti,
ma quando il comandante turco era
penetrato a Famagosta aveva fatto
scorticare vivo il comandante della
piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la
pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua
uniforme e trascinata per la città. Il
terrore regnava nel Mediterraneo.
Sul soglio di Pietro sedeva un
teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all’inizio
del 1566 con il nome di Pio V. Egli
valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente,
per cui esortò le potenze cristiane a
unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l’asse
del suo breve pontificato. Non tutti, però, risposero all’appello. Grazie alle preghiere e alle insistenze
del pontefice, il 25 luglio del 1570,
la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l’alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana,
i duchi di Mantova, Parma, Urbino,
Ferrara, l’Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione
dell’unità italiana su basi cristiane,
la prima coalizione politica e militare italiana nella storia. Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e
dunque fratellastro del re di Spagna
Filippo II. La flotta pontificia, con
l’aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano,
a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficial-
Sabato, 1 ottobre 2011
CONTRIBUTI Pagine recuperate di im
Per una rilettu
lontana dai clic
di Kristjan Knez
T
mente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro.
Lasciata Messina, dove si era
concentrata alla fine di agosto, dopo
venti giorni di navigazione con rotta
verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di
quella domenica 7 ottobre dell’anno
1571. All’alba, una gigantesca flotta
ottomana avanzava lentamente con
il vento di scirocco in poppa. Circa
270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un
semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna, che occupava tutte
le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle
secche della Morea, a sud. Al centro, sulla nave ammiraglia chiamata
la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che
recava ricamato in oro per 28.900
volte il nome di Allah. Di fronte, in
formazione a croce, era schierata la
flotta cristiana, sulla cui ammiraglia,
comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo
blu con la raffigurazione del Cristo
in Croce. La battaglia durò cinque
ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si
speronarono l’un l’altra formando
un campo di battaglia galleggiante
in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finché il reggimento scelto
degli archibugieri di Sardegna riuscì
a sferrare l’attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e
issato il vessillo cristiano. Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800
veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi,
contarono tra 25-30.000 perdite e
3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano. Ma anche quello di
Venezia.
Tornando invece alle nostre piccole “battaglie”, Kristjan Knez propone una rilettura del pensiero degli
intellettuali dell’Adriatico orientale,
indicandone lo spiccato “europeismo”. Arletta Fonio Grubiša conclude invece la sua panoramica sulla
nascita della città dell’Arena, come
pure Rodolfo (Rudi) Decleva termina il dossier sulla terribile odissea
dei fiumani in Russia, Siberia, Galizia, durante la Prima guerra mondiale. Alessandro Marzo Magno ha letto per noi un’opera di Prezzolini sulla Dalmazia, riedita solo di recente,
mentre Roberto Palisca riporta alla
luce e analizza le vecchie cartoline.
Ilaria Rocchi
La vittoria di Lepanto vista da Andrea Vicentino
ra le opere recentemente
uscite in regione segnaliamo il volume “L’Europeismo nella cultura giuliana.
Un’antologia 1905-1959” a cura
di Lorenzo Nuovo e Stelio Spadaro (Libreria Editrice Goriziana con il patrocinio dell’Associazione Volontari della Libertà di Trieste, Gorizia 2010, pp.
230). Si tratta di un lavoro che
riunisce in una sede unica quindici testi di varia natura dai quali
emerge la dose civile e culturale che contraddistinse il pensiero
europeista di importanti intellettuali della costa orientale adriatica dagli albori del Novecento al
secondo dopoguerra.
Dopo due precedenti antologie, ossia “L’altra questione di
Trieste: voci italiane della cultura civile giuliana 1943-1955”
(volume curato assieme a Patrick Karlsen, Gorizia 2006) e
“La cultura civile della Venezia
Giulia: un’antologia 1905-2005.
Voci di intellettuali al Paese”
(Gorizia 2008), Spadaro continua il suo impegno intellettuale
volto a rileggere il passato adriatico abbandonando determinati cliché ancora saldi in alcuni
ambienti politici nonché in parte dell’opinione pubblica. Attraverso i suoi interventi, proposti
sia in sede politica sia in quella squisitamente culturale, Stelio Spadaro affronta un percorso
di revisione, considerato nel suo
significato più genuino. Il nostro
presta particolare attenzione ai
nazionalismi (al plurale, come
ama evidenziare) che nel corso
del secolo appena trascorso sferzarono la loro carica, con effetti
deleteri sulle popolazioni di questi territori plurali che si estendono dalla Val Canale alle Bocche di Cattaro.
Sulle orme
della presenza italiana
autoctona
Un altro suo campo d’indagine è quello relativo alla presenza
italiana autoctona lungo l’Adriatico orientale e al contributo dato
dalla medesima nel corso della storia. Italiani che sono tuttora spesso e volentieri dimenticati nel Belpaese, mentre furono
cancellati o quasi dalla Jugoslavia; rimozione che continua ancora nelle repubbliche di Croazia e Slovenia, le quali mal volentieri riconoscono l’italianità
dei territori acquisiti al termine
del secondo conflitto mondiale.
Italianità, lo rammentiamo
anche in questa occasione, che
non ha alcun nesso con il regime del fascio, bensì è l’espressione di quella componente integrante dello spazio geografico che si estende a oriente di
Trieste, senza la quale è impossibile cogliere la storia, la cultura, l’arte e l’ambiente modellato da chi in queste contrade è
nato, vissuto e si è spento, e che
taluni, ancora all’alba del terzo
millennio, anche davanti all’evidenza più palese, si ostinano a
non riconoscere e al contempo
si impegnano a mistificare i tempi andati: alterando, storpiando,
omettendo.
Il desiderio
di conoscere l’«altro»
Fabio Todero, nella prefazione, ricorda che “Gli uomini della
“Favilla”, che tra gli anni Trenta
e Quaranta dell’Ottocento anticiparono nel Litorale stati d’animo
e atteggiamenti che sarebbero più
tardi confluiti in quanti, in queste
terre, intesero farsi eredi dei valori del Risorgimento, aprirono essi
stessi all’Europa, manifestando
soprattutto sensibilità e interesse
per il mondo slavo; fu uno degli
animatori della rivista, il friulano
Pacifico Valussi, a vagheggiare
un’intesa tra italiani e slavi meridionali nel comune intento di liberarsi dal giogo austriaco. Questo è solo un tassello di un passato ricco di sfaccettature e di intese tra le anime romanza e slava.
Sovente considerazioni troppo
sbrigative tendono a presentare i
rapporti tra le stesse quasi esclusivamente in chiave conflittuale,
e certi parlano addirittura di odi
atavici tra Italiani e Slavi del sud.
Nulla di più falso!
I due autori rammentano proprio l’interessante stagione de
“La Favilla”, una rivista che tra
gli anni 1836-1846 raccolse innumerevoli intellettuali di ampie vedute, pronti alla collaborazione,
promuovendo, tra l’altro, come
una sorta di ponte, la cultura della
Slavia in Italia. Quell’esperienza,
caldeggiata ed appoggiata agli albori anche dal capodistriano Antonio Madonizza, è una testimonianza manifesta di come si lavorasse a Trieste, “fuori dalle secche del localismo”.
Laboratorio
di riformismo
Nell’introduzione leggiamo
che con questo volume si desidera “evidenziare la continuità di
un pensiero, il retroterra culturale e civile sul quale si è innestato
l’esplicito europeismo che ha caratterizzato alcuni dei principali
intellettuali giuliani, soprattutto a
partire dagli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Si è voluto
mettere la lente sulla permanenza
nel tempo di un tessuto diffuso, di
tratti di una cultura insieme italiana e europea, che non sono propri solo di due o tre eccellenze,
intuizioni di isolati autori di rilevanza nazionale (Scipio Slataper
e Giani Stuparich, per fermarsi ai
più noti), ma che, nei territori della Venezia Giulia, hanno costituito tradizione diffusa, hanno dato
corpo ad un vero e proprio laboratorio di riformismo” (p. 15).
Gli intellettuali presi in considerazione erano caratterizzati da
larghezza mentale ed i loro ampi
orizzonti avevano contribuito al
desiderio di conoscere l’“altro”.
Per molti esponenti della cultura
più alta il primo conflitto mondiale fu uno shock. Fabio Todero
evidenzia che: “Il bagno di sangue della Grande guerra stroncò
tale percorso; essa non soltanto
non riuscì a sopire i nazionalismi
ma, tacitati gli spiriti di apertura,
scatenò terribili derive, dal fascismo italiano, dilagato poi in altri contesti, al nazismo tedesco;
intanto nel dissolto Impero degli
Zar, una rivoluzione che aveva
suscitato grandi speranze in tan-
storia e ricerca 3
Sabato, 1 ottobre 2011
mportanti intellettuali dagli albori del Novecento al secondo dopoguerra
ura del passato adriatico
ché: il pensiero europeista
ta parte dell’umanità, si trasformava ben presto in un terribile sistema totalitario, negatore dei più
elementari diritti dell’uomo”.
Amarezza per la stagione delle dittature
Per molti pensatori, dunque, la
stagione delle dittature e dei totalitarismi, nonché la loro tendenza a semplificare un contesto ricco ed eterogeneo, fu vissuta con amarezza. All’indomani
del “suicidio dell’Europa civile”,
per usare le parole di papa Benedetto XV pronunciate in pieno conflitto mondiale, tramontava il mondo delle “buone maniere” e l’esplosione dei contrasti
non avrebbe tardato a manifestarsi in un continente che veniva a
trovarsi sotto le macerie provocate dalla cruenta stagione bellica nonché scardinato in quanto
i grandi imperi avevano cessato
d’esistere e schiusero una nuova
epoca, per molti aspetti insidiosa
e complessa.
Venne meno il confronto
più o meno legalitario presente
nell’Austria-Ungheria e l’imbarbarimento della vita politica negli anni successivi alla guerra fu
aspramente attaccato anche da
coloro che nella monarchia dualista avevano difeso veemente
l’italianità; quegli stessi non potevano tollerare l’ondata di terrore che ormai colpiva crudelmente i conterranei di lingua diversa.
Era un modo di agire che non apparteneva a chi era abituato a difendere le proprie ragioni con il
confronto, con la cultura e con le
azioni concrete.
stra storia, la vita, la cultura; unita a nessuno e separata da tutto il
mondo: – perché, essendo noi per
l’Ungheria l’unica città che abbia
delle scuole italiane, non fu possibile e non deve essere, e dobbiamo anzi lottare per tener lontano
il pericolo sempre più incalzante,
di una unione d’interessi scolastici collo Stato, acui politicamente
siamo uniti e linguisticamente separati” (p. 37).
Enrico Burich l’anno successivo, in quella stessa sede, affrontava
la realtà in cui si trovavano gli studenti universitari fiumani nella capitale magiara (“Italiani all’estero.
Studenti italiani a Budapest), ossia immersi in un ambiente a loro
estraneo, che non forniva alcuno
stimolo, anzi determinava “un continuo deperimento, una lenta castrazione intellettuale, una infiltrazione di indifferenza che deriva dal
vuoto reale” (p. 39). Quei giovani
avevano un solo grande entusiasmo ed era rappresentato dall’Italia
ma nella pianura pannonica giungeva tutt’al più “un’eco leggera e
riflessa attraverso il “Corriere della
Sera” e l’IllustrazioneItaliana” (p.
40) che contribuiva alla creazione
di un’immagine ideale di un’Italia
che conoscevano sì nella storia ma
che desideravano coglierla anche
nella realtà.
«Voci» singolari
Sulle pagine di quell’importante periodico che usciva lungo l’Arno gli intellettuali italiani
dell’impero di Francesco Giuseppe riflettevano proprio su quella
compagine e sulle condizioni in
cui si trovavano le varie nazionalità che la componevano. Gia-
Il Regime fascista avviò una
politica tesa a cancellare
l’identità culturale, linguistica
e nazionale degli Sloveni e
dei Croati entro i confini del
Regno. Gli spettri di quegli
sbagli affiorarono con gran
evidenza nel momento in cui
le formazioni militari jugoslave
dalla Dalmazia stavano
avanzando e premendo in
direzione della Venezia Giulia
I diritti degli Slavi
Un altro punto fondamentale
era riconoscere agli Slavi inglobati nella nuova realtà statuale
una perfetta uguaglianza dei diritti, proprio come accadeva con
gli altri cittadini italiani, e permettere ai medesimi l’uso della lingua nazionale nei rapporti con l’autorità centrale. Quella componente costituiva la stragrande maggioranza nell’interno
dell’Istria e sulla costa orientale, mentre nelle porzioni della
Carniola amministrate da Roma
gli Sloveni formavano la totalità della popolazione, quindi era
inammissibile considerare quella
presenza alla stregua di un “corpo estraneo”. “Occorre che insegni loro – ancora Oberdorfer – ad
amare il nuovo Stato, del cui nesso sono entrati a far parte, come
un simbolo di giustizia e di equità (…)” (p. 70). I suggerimen-
Un altro suo campo d’indagine è quello relativo agli italiani e al loro
contributo a queste terre nel corso della storia. Una realtà tuttora
spesso e volentieri dimenticata nel Belpaese, cancellata o quasi
dalla Jugoslavia; soggetta a una rimozione che continua ancora
nelle repubbliche di Croazia e Slovenia, le quali mal volentieri
riconoscono l’italianità dei territori acquisiti al termine del secondo
conflitto mondiale. Italianità, lo rammentiamo anche in questa
occasione, che non ha alcun nesso con il regime del fascio
Gemma Harasim
ed Enrico Burich
Dai testi proposti nell’antologia emergono gli stretti rapporti
con la dimensione culturale italiana, si pensi alla collaborazione
di numerosi autori con “La Voce”
di Firenze, ma anche la centralità
della formazione e dell’Università nel processo di modernizzazione e di europeizzazione di quelle
che erano definite le province meridionali dell’Impero austro-ungarico. Affiorano altresì i ragionamenti sul futuro della duplice
monarchia e si proponevano soluzioni per una “completa autonomia nazionale in un’Austria federalizzata” (p. 18). Gemma Harasim nelle “Lettere da Fiume”,
pubblicate proprio sulla rivista
fiorentina nel 1909, presentava
ad un pubblico più vasto la situazione particolare in cui si trovava
la città quarnerina e l’isolamento
delle scuole, che costituiva indubbiamente un pericolo, poiché: “La
scuola da noi, per forza di cose, è
rimasta proprio così, come la no-
ni Stuparich, nel 1913, si soffermava, ad esempio, sugli “Czechi”
e sul risorgimento di quel popolo,
mentre Angelo Vivante sull’“Unità” del 6 dicembre 1912 scriveva in merito all’“Imperialismo
della paura”, alle spinte centrifughe e alle manifestazioni nazionalistiche che ormai interessavano sia la monarchia danubiana sia
l’area balcanica. Crollata l’Austria-Ungheria ed entrato il Regno
d’Italia nelle regioni affacciate
sull’Adriatico orientale, su quello
stesso foglio, il 14 giugno 1919,
nello scritto “I problemi della Venezia Giulia”, Aldo Oberdorfer
sottolineava fosse opportuno “badare a non distruggere quanto di
buono, nei vari campi, l’Austria
ci ha lasciato: a non permettere le
invadenze della nostra burocrazia,
che già vien tentando, e per qualche piccola parte c’è riuscita, di
attrarre verso il gran centro unico
anche le nuove estreme province
d’Italia; a soddisfare quel desiderio d’autonomia amministrativa
che i redenti sentono profondissimo (…)” (p. 69).
ti avanzati non furono presi in
considerazione né dallo Stato liberale né tantomeno dal Regime
fascista che, anzi, avviò una politica tesa a cancellare l’identità
culturale, linguistica e nazionale
degli Sloveni e dei Croati entro i
confini del Regno.
Gli spettri di quegli sbagli affiorarono con gran evidenza nel
momento in cui le formazioni
militari jugoslave dalla Dalmazia
stavano avanzando e premendo in
direzione della Venezia Giulia.
Dalla negazione
al revanscismo
Ormai era chiaro che il revanscismo e una forte dose vendicativa non avrebbero risparmiato i persecutori di ieri e nemmeno la popolazione inerme. Bruno
Pincherle su “L’Italia libera” del
10 novembre 1944, nell’articolo
“Noi e gli Slavi”, scrive: “Il popolo slavo non si rese conto che
queste violenze venivano commesse non dal popolo italiano,
ma da quelli che del popolo ita-
liano erano i peggiori nemici. Chi
soffre non può fare sempre distinzioni sottili. L’Italia ha a sua volta troppo sofferto dell’oppressione fascista e nazista per non comprendere l’animosità che gli slavi
della Venezia Giulia nutrono oggi
contro di noi e la diffidenza che li
anima anche nei riguardi dell’Italia democratica”.
L’autore evidenzia ancora che
il giovane popolo jugoslavo doveva necessariamente lottare anche contro il proprio nazionalismo, “diciamo questo perché alcune voci si levano oggi tra gli
jugoslavi per chiedere il distacco dall’Italia, non solo di terre
abitate da popolazione slovena e
croata, ma anche di terre abitate
da popolazione italiana. Noi, italiani antifascisti, sentiamo che in
quest’ora difficile, possiamo dire
la nostra parola agli jugoslavi. Ne
abbiamo diritto” (p. 140).
Alcune riflessioni
L’edizione contiene, tra gli altri scritti, anche le riflessioni di
Giovanni Paladin su “La questione dalmatica vista da Nicolò Tommaseo e da Antonio Baiamonti” pubblicate sulla “Rassegna storica del Risorgimento”
nel 1951 e in appendice l’ultimo
paragrafo del capitolo “Le conclusioni federalistiche dei primi
sostenitori della Mitteleuropa” di
Arduino Agnelli, tratto dalla sua
nota opera “La genesi dell’idea di
Mitteleuropa”. Il volume si conclude con una nota di Fabio Forti,
presidente dell’Associazione Volontari della Libertà di Trieste, in
cui si sofferma sulla “Resistenza
patriottica giuliana nello spirito
risorgimentale ed europeistico”.
La Resistenza fu riscatto e liberazione dopo un periodo plumbeo,
contraddistinto dalla violenza e
dalla sopraffazione. Tra i patrioti giuliani vi erano taluni che si
distinsero in quel frangente storico e che con particolare coraggio
e determinazione si impegnarono nella difesa del nesso italiano
delle terre del confine orientale.
Il futuro secondo
Giovanni Paladin
Per raccontare quella pagina
di storia, l’autore presenta il pensiero e l’opera di Giovanni Paladin (1896-1959), di Visignano, e
del triestino Gabriele Foschiatti
(1889-1944). Il primo era di chiara estrazione mazziniana, criticò
l’operato dello Stato italiano nelle
province di recente acquisizione,
in quanto agì applicando dei mo-
delli troppo rigidi e degli schemi
politici che non andavano assolutamente bene in un contesto così
particolare come quello della Venezia Giulia. Siccome quell’esperienza aveva mostrato tutti i suoi
limiti e fu pertanto fallimentare,
guardava al domani (nel 1944)
proponendo una soluzione cantonale per la Giulia uscita dal conflitto cioè sul modello elvetico
che avrebbe compreso Trieste,
Gorizia, Pola e Fiume. La regione
avrebbe dovuto comunque continuare ad essere legata all’Italia
in quanto vi erano vincoli culturali, linguistici, economici nonché legami storici e geografici. Il
suo sogno non poté concretizzarsi in quanto da est le armate jugoslave premevano verso il capoluogo giuliano con il chiaro intento di
occuparlo e di annetterlo al nuovo Stato creato da Tito, e così la
Venezia Giulia si ridusse alle sole
Trieste e Gorizia.
E nell’ottica
di Gabriele Foschiatti
Gabriele Foschiatti, invece,
non riuscì a vedere quegli avvenimenti in quanto morì nel campo di concentramento di Dachau.
Con la caduta del fascismo si incluse nel Fronte Democratico
Nazionale che successivamente
sarebbe confluito nel Comitato di
Liberazione Nazionale (CLN). I
membri che lo formavano si trovarono in una situazione delicata,
specie dopo l’8 settembre. Dovettero affrontare non solo l’agguerrita resistenza slovena i cui obiettivi erano chiari già da tempo ma
anche l’intransigenza comunista
e la dura repressione nazista e fascista. L’isolamento politico dal
resto d’Italia, poi, non giovava a
quegli uomini. Quel primo CLN
ebbe vita breve, nel dicembre del
1943 tutti i suoi rappresentanti furono arrestati dai Tedeschi e
deportati in Germania.
Anche Foschiatti si era soffermato sul futuro della Venezia Giulia, riteneva fondamentale un riordino amministrativo
su basi autonomistiche e la creazione dei presupposti indispensabili alla salvaguardia dei diritti
dell’Italia sui territori plurilingui
(pp. 226-227). Un altro problema
che andava affrontato era quello
dell’insorgenza molto forte del
nazionalismo slavo. Era dell’avviso che nell’Italia nascente “dal
sangue di un popolo martire”
contro i nazisti ed i fascisti essa
compiva “il suo secondo Risorgimento” (p. 227).
4
storia e
Sabato, 1 ottobre 2011
PATRIMONIO Un tuffo nel passato di Pola «visto» attraverso i reperti archeologici recuper
Un libro di storia in grado di inqu
di Arletta Fonio Grubiša
tiere di San Teodoro. I tasselli recuperati dagli archeologi sono stati presenroseguiamo il viaggio indietro tati nell’ambito della mostra “Pola, la
nel tempo attraverso il sito di nascita della città”. Una mole impresvia Kandler o meglio dal Quar- sionante di oggetti risalenti a epoche
P
diverse raccontano il passato della città dell’Arena, partendo dalla preistoria
fino a raggiungere i giorni nostri, rivelando notizie, curiosità e ricche pagine
di vita della quotidianità. Gli scavi fu-
rono effettuati nel periodo compreso tra
il 2005 ed il 2009 dal Museo archeologico di Pola. Alka Starac, che ha coordinato le indagini negli anni, guidato
il team di esperti che ha studiato pez-
zo per pezzo il materiale estratto – ossia
Lara Orlić, Silvana Petešić, Vendi Jukić
Buča, Tatjana Bradara, Ondina Krnjak,
Petra Rajić Šikanjić e Zirnka Premužić
–, ha pure curato l’allestimento della
Una domus per soli... patrizi
Sito archeologico di via Kandler inesauribile. Non bastavano il
Tempio di Ercole, le terme, il deposito di anfore, a impreziosirlo
c’è la domus, una vasta e lussuosa casa urbana di cui è stata esplorata una superficie di 25x30 metri.
Risale nel penultimo quarto del
I sec. a. C. assieme all’adiacente
edificio termale, e fu abbandonata dopo l’incendio alla fine del V
sec. Si rende noto al pubblico che
la fetta di terreno esplorata comprende la parte orientale del peristilio (perystilium) con gli ambienti
circostanti. Qui si distinguono fior
di vani sfoggianti tutti i privilegi
e le comodità dell’aristocrazia romana: l’atrio per ricevere gli ospiti (oecus), la sala da pranzo (triclinium), la dispensa, la cucina (culina), la sala da bagno di cui si sono
conservate due stufe (praefurnia),
il locale riscaldato (calidarium),
quello per la sauna riscaldato con
aria calda (laconicum) e il sistema
di condutture per rifornire d’acqua i bagni e per lo scarico dell’acqua eccedente e del vapore. Veri
specialisti in idraulica si dirà.
“L’entrata alla casa era posta sul lato nord - come spiegato
da Alka Starac - accanto a quella
delle terme. Una scalinata conduceva dal peristilio al piano superiore, che occupava la zona orientale della casa. Gli ambienti di
soggiorno erano pavimentati a cemento con o senza bordi musivi,
mentre le pareti erano dipinte secondo il terzo stile pompeiano.”
“La zona nord-orientale della
casa era dotata di un piccolo cortile interno, che serviva per dare
luce agli ambienti e per raccogliere l’acqua piovana. Nella parete di
uno dei locali di questa zona appartata c’è una nicchia trapezoidale, rivestita di mosaico bianco e
nero, che raffigura una conchiglia
e riporta una scritta con il nome
della dea della salute Salus.” La
ricercatrice Starac è riuscita pure
ad appurare che “verso l’anno
120 la casa subì gravi danni in un
incendio, dopo il quale ne vennero
rinnovati i pavimenti e gli affreschi parietali. Semplici pavimenti
musivi bianco-neri ricoprirono i
corridoi, i bagni e alcuni ambienti
Mosaico nella sala di ricevimento
Affreschi romani
Resti della domus
di soggiorno. In una piccola cameretta per il riposo (cubiculum) il
mosaico crea una complessa figura geometrica, mentre nel locale
di ricevimento degli ospiti (oecus)
sono combinati campi bianco-neri con altri a motivi geometrici policromi. I nuovi affreschi furono
eseguiti in uno stile diverso, con
motivi floreali stilizzati che si ripetono monotonamente nel reticolo
parietale. Gli elementi decorativi
architettonici confermano lo sfarzo: ricchezza di stucchi, di cornici,
piastrelle e capitelli di marmi variopinti. Il tetto della domus era
ricoperto da laterizi dai bordi rialzati (tegulae) e da embrici (imbrices), poggianti su una struttura
di legno.”
Altrettanto ricco l’inventario
degli oggetti appartenuto alla domus. Lo testimoniano frammenti
di anfore istriane per l’olio d’oliva,
di boccali, di cocci di piatti di terra
sigillata nord-italiana e di lucerne
a tre beccucci. “Nelle macerie – da
come specificato – in tutta l’area
della domus, si sono riscontrati resti di recipienti, lampade, accessori da toeletta (spilloni per capelli) e abbigliamento del periodo
compreso fra il II sec. e la seconda metà del V sec. allorché l’edificio venne definitivamente abbandonato. L’inventario rivela importazioni particolarmente intense
di stoviglie da mensa e da cucina,
specie dall’Africa settentrionale e
dal Mediterraneo orientale, invece
le anfore giungevano qui da tutto
il bacino mediterraneo, da Gibilterra fino alle rive del Mar Nero.”
Tra il vasellame da mensa spiccano i bicchieri di Corinto, quelli nord-italici, piatti, boccali altoadriatici, piatti e ciotole di origine
africana, vasellame da mensa di
L’arte delle medagliette devoz
Il convento delle benedettine
Gli scavi nell’area archeologica
di via Kandler hanno comprovato
la plurisecolare presenza delle suore benedettine nel Quartiere di San
Teodoro, allogate in detta parte della città dopo aver abbandonato il
loro primo convento situato fuori le
mura cittadine su ordine dei Veneziani. Nel loro monastero di clausura, praticando il sacro principio
del proprio ordine, Ora et labora,
rimasero e operarono fino al 1789,
salvo il periodo di trasferimento
dovuto all’incendio del 1671. Le
monache abbandonarono chiesa e
convento per trasferirsi al monastero di S. Giovanni Laterano a Venezia. Gli edifici sacri, compreso l’orto, vennero ceduti alla municipalità polese, che si impegnò a versare
una tassa annua e a riservare l’usufrutto ad ammalati ed infermi o comunque a scopi di beneficenza.
La studiosa Ondina Krnjak rivela che “le fonti storiche attestano la presenza all’interno del convento, accanto a quella delle varie priore, monache, abbadesse e
converse, anche della loro servitù
e di salariati, fissi o saltuari. Inol-
tre, vi si ritiravano e vi morivano
delle ricche borghesi, che lasciavano in eredità all’istituto determinati
averi in cambio dell’assistenza loro
prestata dalle suore finché erano in
vita. “
“Dai dati, che risultano dai registri anagrafici della parrocchia capitolina polese (oggi custoditi presso l’Archivio di stato di Pisino), si
può concludere che all’interno del
monastero venivano sepolti tutti coloro che vi avevano abitato in
vita.”
“Nella Pola del medio evo e
dell’evo moderno era consuetudine seppellire i defunti ad sanctos
o martyribus sociatus, ovverosia
il più possibile accosto alle tombe
dei santi o alle loro reliquie, affinché la via della resurrezione delle loro anime ne fosse spianata. Si
propendeva quindi per inumazioni
nell’area consacrata, che comprendeva la chiesa, l’atrio e tutto quanto appartenesse alla chiesa (ad es. il
chiostro).”
“Dagli scavi archeologici effettuati in questo complesso è emerso
che solamente le sepolture all’in-
Maiolica ispano-moresca. Regione di Valencia, XV
secolo, appartenuta al convento
Una benedittina
terno dell’edificio sacro erano dotate di corredi funebri.”
“Sono state scoperte undici
cripte mortuarie, ognuna delle quali contenente un notevole numero
di inumazioni dotate di corredi funebri, comprendenti pochi oggetti
decorativi – ornamento floreali in
filo metallico, anellini – parecchi
grani di rosario di vario tipo, due
piccoli crocifissi e 51 medagliette
devozionali.
Ceramiche romagnole, I metà del XV secolo
Si merita tutto un capitolo a parte
la collezione delle medagliette delle
benedettine rinvenuta rovistando nel
sottosuolo del vecchio Quartiere di
San Teodoro. L’averne rinvenute ben
cinquantuno in pochi metri di terreno
risulta essere una cosa fuori dall’ordinario e tanto di materiale per uno
studio a parte compiuto dall’esperta museale Ondina Krnjak. “Le medagliette sacre – spiega quest’ultima
– appartengono al gruppo dei cosiddetti devozionali, attestanti la professione di fede nella vita quotidiana. Si
tratta di oggetti, per lo più molto piccoli, di forma rotonda, ovale, poligonale o cordiformi. Presentavano su
ambo le facce raffigurazioni in rilievo, di solito con le immagini di Cristo, della Madonna, di santi, di apparizioni (miracolose), di oggetti miracolosi (immagini) o statue sacre) e
di santuari di pellegrinaggio. Molto
spesso erano corredate da epigrafi in
tema. Ed erano in prevalenza ricavate da metalli non nobili, poco costosi
(bronzo, rame, alluminio e simili), raramente d’argento o d’oro.”
“Le medagliette si acquistavano
in tante maniere. Le distribuivano i
vescovi, i missionari o i parroci, ma
potevano venir anche comperate nelle località in cui ci si recava in pellegrinaggio, durante i giorni di fiera nei
pressi delle chiese o in altre occasioni
religiose.”
“Di preferenza i fedeli appendevano le medagliette ai rosari, ma venivano portate anche al collo o in altri modi. In quanto espressione di devozione profonda, neanche dopo la
morte venivano separate dal corpo
del defunto. Per questo, durante le
ricerche archeologiche effettuate in
strati risalenti all’evo moderno, specie in aree cimiteriali, ecclesiastiche e
simili, si incontrano anche oggetti di
questo tipo.”
Peculiarità delle medagliette rinvenute delle cripte di San Teodoro.
La maggior parte – come chiarito
da Ondina Krnjak – presenta sul di-
Un rosario
con medagliette
ricerca
Sabato, 1 ottobre 2011
5
rati dal sito di via Kandler
uadrare la città fin dalle sue origini
mostra allestita alla Chiesa dei Sacri
cuori. Obiettivo finale: far conoscere
i reperti e le nuove informazioni sulla
storia di Pola, ricostruite al massimo livello dell’interpretazione scientifica.
Nicchia con dedica a Salus
provenienza microasiatica usato
nell’ultimo periodo in cui la casa
fu abitata. Vedi ancora le lucerne
di produzione nord-italica, gettoni per giochi da tavola che servivano per passatempo quotidiano ed altro. È indubbio che detto inventario della domus rivela
“un alto livello qualitativo delle
merci e dei viveri, che giungevano per mare da tutti gli angoli del
Meditetrraneo e un arredamento lussuoso comprendente pavimentazioni in marmi policromi
(opus sectile) e arredi decorativi
in marmi preziosi.
Santa Lucia
Scheletri e malattie medievali
Una chiesa dentro la chiesa. Tutto è possibile quando gli strati culturali si sovrappongono e crescono
uno dopo l’altro nei secoli. Ed è capitato così che le ricerche archeologiche ipogee alla chiesa di San Teodoro hanno permesso di constatare
nello stesso sito una chiesa più antica e più piccola, forse consacrata
a S.Lucia, il cui livello pavimentale
era inferiore di due metri. Le dimensioni dell’edificio sacro? Larghezza
7 metri, mentre in lunghezza le ricerche archeologiche sono arrivate
fino a 13 metri. All’entrata, posta ad
ovest, conduceva un corridoio scoperto largo cinque metri e lungo 26.
Il presbiterio era rialzato e un gradino lo separava dallo spazio riservato
ai fedeli.
Da detta chiesa, risalente alla fine
del V sec. o al VI sec., provengono i
frammenti di arredo litico ecclesiastico, di calcare e di marmo, di epoca paleocristiana e preromanica. A
ovest dell’entrata c’erano degli ossari senza corredo funebre. “Pezzi di ornati scolpiti furono inseriti –
come da descrizione – nei pavimenti
e nelle pareti dei fabbricati ecclesiastici successivi. I solchi sulla malta
all’interno della chiesa paleocristiana, provocati dall’azione del vento
marino salato, testimoniano un certo
periodo di decadenza precedente alla
costruzione della nuova grande chiesa di S.Teodoro. Le cause di quella
L’analisi del rebus
di resti umani scoperti nel sito di San Teodoro è stata affidata alle studiose Petra
Rajić Šikanjić e Zrinka Premužić. Interessanti i risultati e le
deduzioni scaturite.
“Sui resti degli scheletri sono state effettuate analisi dettagliate onde raccogliere
possibili notizie sullo
stato di salute e sulle
malattie degli abitanti
della Pola dell’epoca.
L’analisi ha riguardato l’accertamento del
sesso e dell’età dei
defunti e il censimento dei mutamenti patologici subentrati nel
corso della loro esistenza.”
Nonostante il fatto
che l’analisi era stata
limitata dal fatto che
la maggior parte dei
sepolcri c’erano resti
incompleti e sparpagliati di più individui,
si è potuto accertare
che i campioni esaminati corrispondono a
un minimo di 71 indi-
zionali
Pluteo paleocristiano, VI sec.
Lastricato e sepolcri sotto
l’entrata della chiesa
decadenza risiedono nei tumultuosi
eventi storici: tutto il Trecento fu segnato dagli scontri armati fra Venezia e Genova, che per Pola comportarono ripetuti saccheggi. Nella loro
ultima spedizione del 1379 i Genovesi la incendiarono arrecando gravi
distruzioni, ed è quindi possibile che
i danni subiti dalla chiesa di S. Lucia
si possano collegare a quell’avvenimento storico.” “A ovest della chiesa esistette dal VII al XIV sec. un cimitero che, quando venne costruita
quella di San Teodoro, fu in parte distrutto e in parte coperto dalle lastre
di pietra del nuovo pavimento ecclesiastico.”
Piccola curiosità sui pezzi di arredo litico di S. Lucia ritrovati: sono
tutti differenti. Da quanto dedotto
dalla studiosa Vendi Jukić Buča, non
esistono due colonnette o due capitelli uguali, come non vi sono due
identici plutei o pilastri. È altresì presumibile che alla fine dell’VIII sec.
o all’inizio del IX, gli arredi della
chiesa paleocristiana di S. Lucia siano stati completamente sostituiti, in
conseguenza del nuovo ordinamento politico subentrato con la conquista dell’Istria da parte di Carlo Magno. La chiesa venne rasa al suolo
al più tardi nel Quattrocento, allorché al suo posto fu eretta quella di
S. Teodoro.
Sepolcri a ovest della chiesa di S. Teodoro
vidui, di cui 57 adulti e 14 bambini. Dei
32 adulti di cui è stato possibile stabilire il
sesso, 28 sono risultati
femmine e solo 4 maschi. La maggior parte delle donne era deceduta a un’età compresa fra i 20 e 34 anni
mentre tutti gli uomini avevano più di 35
anni al momento del
trapasso.
“La grande percentuale di donne risultante dai campioni esaminati conferma, come
si supponeva, che in
questi sepolcri venne-
Una cripta del “buio” Medioevo
ro sepolte le abitatrici
del convento. Sempre
in base alle fonti storiche, accanto alla suore nel monastero vivevano, morivano e venivano sepolte anche
ricche borghesi, che
gli lasciavano in eredità i propri beni. Il
numero più esiguo di
uomini corrisponderebbe ai servitori e ai
lavoratori fissi o saltuari assunti dal convento. I bambini, di
cui la maggioranza
in età adolescenziale,
erano forse delle novizie.”
Come da esamina
“nei campioni ossei
sono stati isolati alcuni
casi di malattie di diversa eziologia, come
lo scorbuto e la tubercolosi, nonché fratture
e iperostosi idiopatica diffusa. Alcuni casi
di mutamenti degenerativi alle articolazione delle ossa lunghe e
delle vertebre testimoniano una modica attività fisica.
Chiesa di San Teodoro
Medagliette in esposizione
ritto e sul rovescio motivi riconoscibili e decifrabili. Dal loro contenuto
si può dire che ad essere soprattutto
onorati e invocati erano Gesù Cristo,
la Vergine, il Santissimo Sacramento e molti santi: S. Francesco d’Assisi, S.Carlo Borromeo, S. Antonio
da Padova, S.Bnedetto, S.Domenico,
S.Maria Maddalena, S.Rosa da Lima,
S.Francesco di Sales, S.Francesca
Romana, S.Andrea, S.Veronica, S.
Giuseppe col Bambino, S.Venanzio,
il patriarca Giacomo, ma anche mete
di pellegrinaggio, in cui si venerano oggetti sacri miracolosi: Loreto
(la statua lignea della Vergine con il
bambino), Sirolo (il crocifisso di legno), Passau Chlumek, Mondovì (dipinti della Madonna con il bambino),
Fiume-chiesa di S.Vito (il miracoloso crocifisso di legno), Einsiedeln (la
statua della Madonna Nera). Presenti
anche i tanti temi iconografici (l’Annunciazione, la Natività, la Fuga in
Egitto, Gesù e Maria, il Sacro Cuore, la Traslazione della Casa Santa di
Nazareth…)
Dopo Santa Lucia, San
Teodoro. Difatti “al posto
della vecchia chiesa cadente e abbandonata, nel 1458 –
spiega Alka Starac – ne venne costruita una nuova, più
grande, dedicata a San Teodoro, con annesso un convento femminile benedettino. La
chiesa tardogotica di San Teodoro, larga 11,6 metri e lunga 20, aveva l’accesso orientato a est, al contrario di quella più antica. La sua parte
orientale, entrata compresa,
è andata completamente distrutta alla fine del XIX sec.
in seguito alla costruzione
di una caserma di granatieri
della fanteria austroungarica. Sul lato meridionale della chiesa si innalzava un alto
campanile squadrato, profondamente interrato, in cui
erano state interpolate molte
vestigia.”
“Fonti storiche attestano l’esistenza della chiesa e del convento femminile presso la fonte nel XII
sec., all’esterno delle mura
cittadine. Nel 1358, dopo
la pace conclusa tra Venezia e il re ungaro, alle monache fu assegnata per il
loro convento una nuova
ubicazione, all’interno delle
mura polesi, presso la chiesa di San Giovanni (Porta
S.Giovanni). Ivi all’interno
della città, trovò posto anche
il nuovo titolare S.Teodoro.
La sua chiesa, assieme al
convento, fu l’unico edificio
di quell’area urbana che durante i secoli XVII e XVIII
venisse sottoposto a costante
manutenzione.”
“Il convento venne allogato in alcuni semplici fabbricati nei pressi dell’odierna via Kandler, a sud della
chiesa, fabbricati più volte ricostruiti e ristrutturati e
definitivamente abbandonati
alla fine del XVIII sec. Dopo
il grande incendio del 1671,
in attesa che il monastero
venisse rimesso a nuovo,
le monache si trasferirono
temporaneamente nel palazzo vescovile. Nel monastero
operava anche un ricovero
per bambini poveri. Nel XV
Panoramica con i resti di S. Teodoro
sec. allorché il monastero fu
ampliato, l’esistente pozzo
romano venne abbandonato
e riempito di detriti e tre metri più a ovest ne venne scavato uno nuovo, che rimase
in uso fino al XX secolo. La
maggior parte della superficie circostante la chiesa era
coltivata a orto e nascondeva nelle sue profondità le
rovine degli edifici più antichi.”
Cripta funebre della chiesa di S. Teodoro
Gli scavi tra i resti della
chiesa e del convento hanno
riportato alla luce un cimitero conventuale con 18 ossari
privi di segnacoli architettonici funebri e di corredi nonché cripte sepolcrali all’interno di San Teodoro,ospitanti
un centinaio di inumazioni.
La maggior parte delle persone era stata sepolta in vesti ricamate assieme a ornamenti
floreali, anellini e rosari mu-
niti di piccole medagliette di
metallo o crocifissi.
Notevole pure la quantità di vasellame ceramico da
tavola e da cucina con rivestimento appartenuta la convento. Si premette e informa
il pubblico che nella mostra
su “Pola, la nascita della città” viene esposto solo un piccolo contingente di recipienti da tavola tipici del periodo
fra il XIV e il XVI sec.
6 storia e ricerca
Sabato, 1 ottobre 2011
DOSSIER La terribile odissea dei fiumani, prigionieri in Russia (2.a e ultima parte)
Ombre e luci sui campi di battaglia
della Prima guerra mondiale
di Rodolfo (Rudi) Decleva
F
urono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e
colera, mentre nacquero 17 bambini
e ci furono pure due matrimoni. Nel
1996 una Delegazione della Società
di Studi Fiumani – guidata da Amleto Ballarini, con interprete il fiumano-ungherese-genovese Alessandro
Imro – si è recata sul posto erigendo un cippo ricordo grazie anche ad
un tangibile sostegno del Libero Comune di Fiume in Esilio. Questa la
dicitura apposta: “Qui furono sepolti
149 italiani di Fiume. La Società di
Studi Fiumanidi Roma li affida alla
pietà della nobile Nazione ungherese
a perenne ricordo di una città che le
appartenne e perché nulla piu’ divida
la fratellanza consacrata nel comune
Risorgimento”. Benkò Istvàn, sindaco di Sulysàp – non richiesto – disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno
subito”.
E mentre gli uomini venivano
mandati in Galizia a combattere per
l’Imperatore, quest’ultimo, subito
dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel
1915 – internava nel Campo di Internamento di Tapiosuly (ora Sülysáp),
a 36 chilometri da Budapest, intere
famiglie fiumane che erano ritenute compromesse con l’irredentismo
per l’Italia. Furono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e
ci furono pure due matrimoni. Nel
1996 una Delegazione della Società
di Studi Fiumani – guidata da Amleto Ballarini con interprete il fiumano-ungherese-genovese Alessandro
Imro – si è recata sul posto erigendo
un cippo ricordo grazie anche ad un
tangibile sostegno del Libero Comune di Fiume in Esilio. Questa la dicitura apposta: “Qui furono sepolti 149
italiani di Fiume. La Società di Studi
Fiumani di Roma li affida alla pietà
della nobile Nazione ungherese a perenne ricordo di una città che le appartenne e perché nulla più divida la
fratellanza consacrata nel comune
Risorgimento”. Benkò Istvàn, Sindaco di Sulysàp – non richiesto – disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno
subito”.
Fatte queste premesse con ombre
e luci fiumane sul campo di battaglia,
esaminiamo cosa successe per i “fortunati” che caddero prigionieri nelle
mani dei russi. Si calcola che almeno 25.000 soldati trentini, triestini,
istriani,fiumani e dalmati di lingua
italiana e facenti parte dell’esercito
austro-ungarico vennero fatti prigionieri dai russi. Per tale motivo, dopo
l’entrata in guerra nel 1915, l’Italia
decise di inviare una Commissione
in Russia, ormai alleata, con lo scopo di convincere questi poveri soldati ad arruolarsi nella appena costituita “Missione Militare Italiana”, raggiungere il fronte italiano e combattere per liberare le terre italiane ancora
sotto il giogo austriaco. La vita nei
campi di prigionia russi era pura lotta per la sopravvivenza caratterizzata da fame, freddo, neve che copriva
i tetti, pidocchi, malattie, nessun futuro e perciò non fu difficile trovare
le adesioni di questi derelitti che, con
l’opzione per la nazionalità italiana, accettarono di cambiare la divisa austriaca col grigioverde italiano.
Ciò malgrado, circa 10.000 di loro
non accettarono il ricatto di tornare
a casa, vuoi per fedeltà all’Imperato-
re o perché non volevano più sentir
parlare di guerre, dopo la tremenda
esperienza vissuta in Galizia.
La «Legione Redenta
in Siberia»
I Redenti vennero concentrati a
Kirsanoff e da qui fu organizzato il
loro rientro in Italia via porto di Arcangelo, passando per i porti della Francia e dell’Inghilterra, ma si
poterono effettuare solo due viaggi
per un totale di circa 4.000 persone.
L’operazione si interruppe sia per il
ghiaccio che bloccava la navigazione nei mesi invernali che perché nel
frattempo era scoppiata la Rivoluzione russa del 1917. Sotto il comando
del Col. dei Carabinieri Costa Manera, si formò così tra i rimasti la “Legione Redenta in Siberia” che – non
potendo più rientrare in Italia – si
spostò a Vladivostok e nella Siberia Orientale in appoggio all’esercito antirivoluzionario, presidiando la
ferrovia Transiberiana. Da qui poi
passò in Cina dove a Tientsin c’era
la Concessione Italiana, protetta e
garantita dal Governo cinese dopo la
rivolta dei Boxers del 1900. Si potè
così procedere al rimpatrio dei Legionari via San Francisco mentre un
piccolo contingente dei redenti rimase di stanza a Tientsin, quale presidio
di quel lontano lembo di terra italiana: era l’anno 1920, che pose fine a
sette anni di indicibili sofferenze.
Alcuni dei protagonisti
Qualche mese fa, rovistando tra
carte vecchie di famiglia, ho trovato
la foto di 87 fiumani che fecero parte della Sezione Fiumana dei “Redenti in Siberia” e non so spiegarmi
come la stessa abbia potuto sfuggire
alla mia attenzione per tanto tempo.
Sessant’anni fa era stato mio padre
che la aveva ritenuta degna di essere portata fuori da Fiume al momento dell’esodo e – dopo essere passata
per Udine, Barletta, Tirrenia, Calambrone, Livorno e Genova – è saltata
fuori per darmi l’opportunità di scrivere il ricordo di tante sofferenze e
riportare alcune notizie di alcuni protagonisti fiumani:
Resaz Francesco (classe 1888),
a Fiume proto (assistente edile), fu
arruolato nell’esercito ungherese,
e in Galizia si coprì di gloria combattendo nel IV Battaglione fiumano
del 19° Reggimento Honvéd, con il
grado di Zugfuehrer. Servì il suo Paese con quattro anni di servizio militare e tre di guerra cioè dal 1914
sino al ritiro della Russia dal conflitto a seguito della rivoluzione d’Ottobre del 1917. Due volte ferito, guadagnò quattro medaglie di bronzo e
due d’argento, venendo proposto per
la medaglia d’oro con diritto al titolo di Eroe nazionale. Resaz Amedeo
(classe 1894), di professione pittore, fu arruolato negli Honvéd e nelle battaglie della Galizia fu fatto prigioniero dei russi. Finita la guerra e
cessata la prigionia, tornò a Fiume a
piedi.
Smoquina Albino (nato 1893),
pompiere, non fu mandato in Galizia, ma nel fronte sud e nel corso di
un attacco contro gli italiani sul Monte Santo ebbe la gamba sinistra ferita da una granata. Sotto l’Italia gli fu
riconosciuta generosamente la qualifica di invalido di guerra e quando
morì la vedova continuò a riscuotere
la pensione perché “morto in seguito
alle ferite riportate in guerra”.
Pola
Zustovich Guerrino, faceva
parte del 97° e all’indomani della Rivoluzione russa fu visitato nel suo
campo di prigionia dai Capi della rivolta Lenin e Trotsky, che dissero ai
prigionieri: “Aderite alla rivoluzione
del proletariato; non avete da perdere che solo le catene”. Zustovich si
fece fotografare con Lenin e Trotsky
e quella foto abbellì in seguito la sua
casa a Fiume. Iniziò così la sua nuova
attività bellica al servizio della Rivoluzione spostandosi a Vladivostok e
in Cina dove fu fatto prigioniero. Fu
salvato dalla fucilazione da un Ufficiale francese che lo prelevò insieme
ad altri “italiani” consegnandolo alla
Legazione Italiana di Tientsin, e da
qui entrò a far parte della Legione
dei Redenti del Col. Manera.
Francesco (Nicio) Malle (nato
1891), di professione commerciante in stoffe in Piazza Santa Barbara
(Piazza del Latte), fu arruolato negli Honvéd e inviato in Galizia. Trovatosi in un corpo a corpo contro i
russi infilzò un soldato nemico con
la baionetta e per tutta la vita fu inseguito da incubi e dal rimorso. Sul
fronte si ammalò di tubercolosi polmonare e per vari anni fu ricoverato
negli ospedali ungheresi. Spedito a
Fiume senza speranze di guarigione,
tanta era la paura di prendere il contagio che nessun parente lo andava a
trovare. Il figlio Biagio ne conserva
i bottoni della divisa e la Medaglia
che ricevette.
Mario Cich si presentò volontario nella cavalleria degli Ussari ungheresi e partecipò al vittorioso sfondamento di Caporetto, ma in una
successiva carica a Vittorio Veneto fu ferito e inviato dagli italiani in
prigionia ad Ascoli Piceno; Nando
Pravdacich, puntuale pescatore domenicale di scombri sul sottomarino
austriaco affondato davanti alla Lanterna del porto; usava spesso raccontare gli attacchi all’arma bianca del
suo reparto di cavalleria contro i russi, dai quali fu ferito e vistosamente ne riportò le conseguenze con una
marcata zoppìa della gamba destra.
Rodolfo Decleva (classe 1885),
mio padre, fu arruolato nel 97° che
aveva 29 anni ed era appena tornato dall’America con la sua Medaglia
d’argento per merito sul lavoro guadagnata in tre anni sul Mississippi.
Ebbe la fortuna di non essere inviato
in Galizia né sul fronte italiano, restando di stanza a Trieste e spostato
successivamente al Distretto di Pola.
M. Blasich, che potrebbe essere
Mario Blasich (classe 1878), il Mar-
La vita nei campi di prigionia russi era pura
lotta per la sopravvivenza caratterizzata
da fame, freddo, neve che copriva i tetti,
pidocchi, malattie, nessun futuro e perciò
non fu difficile trovare le adesioni di
questi derelitti che con l’opzione per la
nazionalità italiana accettarono di cambiare
la divisa austriaca col grigioverde italiano.
Ciò malgrado, circa 10.000 di loro non
accettarono il ricatto di tornare a casa,
vuoi per fedeltà all’Imperatore o perché
non volevano più sentir parlare di guerre
dopo la tremenda esperienza vissuta
tire zanelliano, che fu assassinato il
3 maggio dall’OZNA. Blasich, medico, fu richiamato nel 1914 e inviato in Galizia, si consegnò ai russi dichiarando la sua fede irredentista.
Italo Nascimbeni (classe 1878),
allo scoppio della Prima guerra mondiale, membro di famiglia irredentista, disertò dall’esercito austriaco e
riparò in Italia, dove sistemò a Pesaro presso i parenti la moglie con i
figli. Fu poi promosso Capitano del
Regio Esercito Italiano con il compito di interrogare i prigionieri austriaci; conosceva 5 lingue.
Come sempre succede, sui libri di
storia che parlano della Grande Guerra si legge solo delle grandi battaglie
di Verdun, della Marna, di Caporetto e del Piave mentre poco si parla
dell’asprezza delle battaglie sul fronte russo. Arrivata l’annessione di Fiume e della Venezia Giulia all’Italia, le
vistose perdite giuliane e fiumane in
Galizia, gli internati di Tapiosuly, la
gloria del 19° Honved e la tragedia
del 97° furono ignorati per lasciare
il posto solo ai Caduti regnicoli che
avevano combattuto contro l’Austria,
al ricordo dei quali vennero eretti targhe, lapidi e monumenti celebrativi.
Per le vedove e gli orfani fiumani non ci furono monumenti o lapidi ove piangere i loro cari dispersi e
abbandonati per sempre in Galizia
mentre per i nostri sopravissuti doveva bastare la gioia di aver riportato la
pelle a casa dall’inferno russo e così
cantare: “Cavai, cavai, cavai porta i
soldai/Soldai, soldai, soldai porta i
cavai./Chi vive se la passa/Chi more
va in casson./La Banda la vien, la
Banda la vien,/La Banda la vien, la
Banda la vien/La Banda Militar”. E
con essi svanirono nel dimenticatoio
anche i fortunati superstiti della “Legione Redenta in Siberia”, ai quali
tuttavia il Regime li autorizzò a fregiarsi di un Distintivo speciale denominatoironicamente “Distintivo per
le Fatiche di Guerra” come da Regio
Decreto 21.05.1916 n. 641. (fine)
storia e ricerca 7
Sabato, 1 ottobre 2011
LETTI PER VOI «La Dalmazia» di Giuseppe Prezzolini (ristampa Biblion edizioni)
Una randellata a quelli che blaterano
di italianità, venezianità, romanità
di Alessandro Marzo Magno
P
er forza non l’avevano più ristampata dal 1915, “La
Dalmazia” di Giuseppe Prezzolini (Biblion edizioni,
Venezia, 2010, pp. 141, 15 euro), con saggio introduttivo di Giovanni Brancaccio Biblion. È un pugno nello stomaco, una randellata a tutti quelli che blaterano di italianità,
venezianità, romanità. E come tutto quello che va contro la
vulgata, gli interessi precostituiti, e la voglia di certezze di
un un’opionione pubblica pigra, Dalmazia è finito in un angolo, ostracizzato e dimenticato. Che dice di tanto scandaloso Giuseppe Prezzolini? Sostanzialmente che la Dalmazia,
con la sola eccezione di Zara, non è italiana, bensì un territorio misto dove gli italiani erano una minoranza significativa
dal punto di vista culturale, economico e politico, ma davvero infima dal punto di vista numerico.
Un discorso, questo, che oggi non scandalizzerebbe nessuno, perché più o meno così stavano le cose, ma fatto nel
1915, be’, immaginatevi voi lo starnazzare scandalizzato degli ultrà nazionalisti. Scandalo e indignazione accresciute poi
dal fatto che lo scrittore proveniva dalle loro fila. Prezzolini
non può andare di persona lungo le coste dell’Adriatico orientale: l’Italia è in guerra con l’Austria-Ungheria, a cui quelle
coste appartenevano, è non è cosa. Allora decide di fare un
viaggio letterario per cercare di capire come stessero le cose
di là del mare. Si impegna a fondo, almeno a giudicare dalla
vastità della bibliografia, e alla fine ne emerge con alcuni convincimenti nettamente in controtendenza con il can can nazionalista dell’epoca. Intanto se la prende con Venezia.
Il “saggio governo veneto” non avrebbe di un ette contribuito al progresso sociale della Dalmazia. Al di là di un
profondo antivenezianismo di tradizione fiorentina (Guicciardini, Machiavelli) che emerge dalle sue righe, Prezzolini ha sostanzialmente ragione: per Venezia la Dalmazia era
luogo dove far legna e arruolare rematori. Le condizioni
di vita erano talmente arretrate (soprattutto dopo l’acquisizione del controllo del retroterra – Knin, Imotski – e del
passaggio di popolazioni morlacche sotto il dominio veneto) che Venezia tenta di varare delle iniziative di rilancio
(il “Viaggio in Dalmazia” dell’abate Alberto Fortis va letto
in tale senso), ma ormai la Serenissima non è che l’ombra
di se stessa e anche questotentativo riformatore, così come
tutti gli altri tentati in quegli anni, non andrà a buon fine.
Prezzolini sottolinea che Venezia non ha promosso
l’italianità di quelle terre, facile replicare che non poteva essere che così, visto che il concetto di italianità non
era ancora stato inventato e che l’Italia era ancora e solo
un’espressione geografica. Se si gira la prospettiva e non
la si guarda dall’Adriatico, ma dalle pianure danubiane, la
Dalmazia non appare più come la costa orientale del Golfo
di Venezia (come veniva chiamato l’Adriatico prima della
caduta della Repubblica), ma l’estrema propaggine occi-
L'autore poi va anche oltre:
afferma che la costa dell'Adriatico
orientale costituisce il naturale
sbocco al mare dell'entroterra serbo
(al tempo la Croazia faceva ancora
parte dell'impero austroungarico,
di cui nessuno poteva prevedere
la dissoluzione) e che l'Italia ha
tutto l'interesse a mantenere buoni
rapporti con Belgrado affinché
l'Adriatico resti un lago di pace
dentale del mondo slavo. E qui lo scrittore entra in un dibattito annoso, acceso e senza soluzione: se non si accetta
che la Dalmazia sia entrambe le cose, non si va da nessuna parte. Prezzolini poi va anche oltre: afferma che la costa dell’Adriatico orientale costituisce il naturale sbocco al
mare dell’entroterra serbo (al tempo la Croazia faceva ancora parte dell’impero austroungarico di cui nessuno poteva prevedere la dissoluzione) e che l’Italia ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con Belgrado affinché
l’Adriatico resti un lago di pace. Tutto giusto, in teoria. In
pratica le cose sarebbero andate diversamente, ma anche
questo nel 1915 non era prevedibile e così Roma e il neonato regno SHS, poi jugoslavo, si sarebbero trovati da subito divisi da rivalità e incomprensioni.
Al di là di un profondo antivenezianismo di tradizione fiorentina
(Guicciardini, Machiavelli) che emerge dalle sue righe, Prezzolini
ha sostanzialmente ragione: per la Serenissima la Dalmazia era luogo
dove far legna e arruolare rematori. E sottolinea che non ha promosso
l'italianità di quelle terre. Del resto, non poteva essere che così, visto
che il concetto di italianità non era ancora stato inventato e che l'Italia
era ancora e solo un’espressione geografica
Naturalmente una visione tanto extravagante, che
andava ferocemente contro il nazionalismo imperante
all’epoca (e per di più da parte di un nazionalista come
Prezzolini, quasi un eretico rinnegato), non poteva che
incontrare pesanti avversioni. E se c’era chi si rendeva
conto che alla fin fine l’unica città italiana della Dalmazia era Zara (diversa la situazione sulle isole), c’era an-
che chi, come Attilio Tamaro, sosteneva che l’intera costa
fosse italiana e che quella croata fosse una presenza un
po’ abusiva. Giuseppe Prezzolini è sempre stato un intellettuale indigesto che a un certo punto abbandonerà l’Italia per andare in esilio volontario in Svizzera. Anche questo libro potrebbe a qualcuno apparire indigesto, proprio
per questo va letto.
Convegno scientifico internazionale con studiosi croati, italiani e sloveni
Panopticon sul travagliato Novecento fiumano e istriano
L’idea alla base del Panopticon
(“che fa vedere tutto”) è quella che
– grazie alla forma radiocentrica
dell’edificio e ad opportuni accorgimenti architettonici e tecnologici
– un unico guardiano potesse osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento. Il termine,
in un’accezione ovviamente del tutto diversa, compare oggi nel titolo
di un convegno scientifico internazionale che si terrà venerdì prossimo, 7 ottobre, al Campus universitario di Tersatto. Organizzato dal
Dipartimento di Storia della Facoltà
di Filosofia di Fiume, vedrà la partecipazione di una dozzina di studiosi
provenienti dalla Croazia, dall’Italia e dalla Slovenia, tutti impegnati a dare un apporto nuovo per una
“visione” a raggio quanto più ampio del passato di Fiume, dell’Istria
e, in generale delle terre bagnate
dall’Adriatico settentrionale.
Titolo della giornata di studi è “Panopticon storico dell’Alto
Adriatico”, con sottotitolo “Relazioni storiche dal 1921 al 2011”; si
svolgerà in due sessioni nella Sala
numero 6 dell’Ateneo in via Slavko Krautzek sn. L’evento è stato
concepito come un momento d’in-
contro tra le storiografie croata-italiana-slovena con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su alcuni dei
momenti topici nello sviluppo storico dell’Alto Adriatico nel corso
di quello che Eric Hobsbawn definì “secolo breve”, vale a dire il
Novecento. Per quanto riguarda
la Venezia Giulia, fu un periodo
di grandi, anche drammatici, mutamenti politici, sociali, economici
nella struttura complessiva di questi territori. Gli esperti cercheranno di avviare una riflessione sulle varie prospettive e i diversi approcci che hanno contraddistinto
le varie storiografie finora; ma si
parlerà anche di prospettive future e risultati di ricerche condotte in
tempi più recenti.
Il convegno si aprirà alle ore
9.30 con le allocuzioni del preside
della Facoltà di Filosofia, Predrag
Šustar, e del capodipartimento di
Storia, Darko Dukovski. Quindi
lo storico polese inaugurerà anche
i lavori della prima parte, soffermendosi sui processi sociali, economici e politici che hanno interessato il primo biennio del secondo dopoguerra in Istria, come pure
delle possibilità di convivenza fra
le tre etnie (croata, italiana e slovena) della regione. Seguirà l’intervento di Jože Pirjevec (Università
del Litorale, Capodistria ), impostato sul caso delle foibe e sul ruolo della storia nel pensiero politico
italiano odierno. Raoul Pupo (Università degli Studi di Trieste) esporra “Alcuni problemi di storia comparata: l’Alto Adriatico dopo le due
guerre mondiali”, mentre Marta
Verginella (Università di Lubiana) presenterà il tema “Storicizzazione dello spazio altoadriatico:
da storie nazionali a storie incrociate?”. Prendendo come esempio
la produzione storiografica croata
sull’esodo degli italiani dell’Istria e
di Fiume, Franko Dota (Università di Zagabria) analizzerà invece il
passaggio che intercorre dai giudizi
storici espressi nel passato alla cristalizzazione di alcuni errori “fatali”. Al termine della sessione mattutina, Guido Franzinetti (Università del Piemonte Orientale, Alessandria) parlerà di “prospettive” sul
passato e il futuro della storiografia
adriatica. Seguirà, come si compete, il dibattito, che vedrà nel ruolo
di moderatore Mila Orlić, dell’Università di Fiume.
“Londra, Washington e le foibe:
come valutare i documenti britannici e americani relativi agli arresti,
alle deportazioni e alle esecuzioni nella Venezia Giulia dopo il primo maggio 1945” è il tema scelto
da Gorazd Bajc (Università del Litorale, Capodistria, mentre Nevenka Troha (Istituto per la storia contemporanea, Lubiana) si soffermerà sulla questione della “fratellanza
italo-slovena” e la Resistenza. Andrea Roknić Bežanić (Università
di Fiume) illustrerà l’insediamento
e l’organizzazione del nuovo potere
civile e militare nella Fiume del dopoguerra. Ci tocca da vicino l’argomento di Gloria Nemec (Università degli Studi di Trieste), che si è
occupata dei processi di formazione della minoranza nazionale italiana, con riferimento alle memorie
e alle interpretazioni sul tema delle opzioni. Al centro della relazione di Milan Radoševič (Sezione di
Pola dell’Istituto per le scienze storiche e sociali dell’HAZU) sono invece le condizioni igieniche e sanitarie nella Croazia occidentale tra le
due guerre, con particolare riguardo
all’Istria. Infine, Vjekoslav Perica
(Università di Fiume) farà il punto
sulla missione di pace nella marina
USA nell’Adriatico tra il 1921 e il
1921. Le discussioni saranno moderate da Vanni D’Alessio (Università di Fiume/Università di Napoli). ir
8 storia e ricerca
Sabato, 1 ottobre 2011
PILLOLE Sulle orme della passione per la cartofilia, oggi oggetto di particolari studi
Immagini d’epoca della nostra regione
che catturano anche il grande pubblico
di Roberto Palisca
L
a diffusione della cartolina
segnò, in Italia e all’estero,
l’inizio di un modo più rapido ed agile di comunicare, annullando le distanze dei luoghi più o
meno lontani. Insieme al successo della cartolina si diffuse rapidamente l’abitudine di conservare
quelle ricevute da parenti e amici ed in breve aumentò considerevolmente il numero di coloro
che corrispondevano al solo scopo di scambiarsi cartoline. A partire dai primi anni del 1900, grazie alla nascita e al rapido affinamento delle tecniche fotografiche,
la cartolina illustrata divenne uno
dei principali veicoli d’informazione ed una delle più capillari testimonianze della trasformazione
del paesaggio. Crebbe così anche
il fenomeno del collezionismo.
La cartolina, dunque, non rappresenta soltanto la testimonianza
di un viaggio. È al tempo stesso
una testimonianza storica. All’inizio del secolo passato, infatti, essa
non serviva semplicemente per inviare i saluti da un luogo di villeggiatura durante una vacanza o una
gita. Mirava anche a immortalare
la vita di tutti i giorni, dalle persone ai mezzi di trasporto, la progressiva evoluzione di un paese o
di una città, in continuo cambiamento.
La sempre pittoresca Rovigno
pero del quale: quello austro ungarico.
Due centri
economici e militari
Nel XIX secolo in Istria si formarono due principali centri economici e militari, che davano il tono
alla vita istriana, Trieste e Pola, e,
accanto ad esse anche Fiume. La
prima già dall’inizio del XVIII secolo andava rapidamente sviluppandosi e ampliando le sue influenze e necessità economiche sul vasto retroterra istriano. Tutta l’Istria
settentrionale era economicamente
rivolta verso Trieste. Pola diventò
un’importante città militare dopo il
le cartoline. Dopo quelli di Trieste,
nel 1901, a Pola compaiono i primi
editori locali. Lo Studio fotografico
di M. Clapis, ad esempio, firma una
delle prime cartoline del celebre monumento a Tegetthoff. Altri fotografi
che si dedicano intensamente all’ormai sempre più redditizia produzione di cartoline illustrate sono Guido
Costalunga, C. e G. Fano, A. Bonetti, F.W. Schrinner, Josip Krmpotić,
St. Valacchi e Stephan Vlach (forse
due varianti del nome e cognome di
una stessa persona) A. e G. Rude, M.
Fischer, tutti con Studi a Pola. Tante vedute di Pola, molte delle quali
a colori, portano impressi poi editori
di Dresda e Berlino (Stengel & Co.),
Praga (M. Schulz), Leipzig (Dr.
Pola
Valorizzazione solo
in tempi più recenti
Nonostante questo suo particolare valore intrinseco però, soltanto
in tempi recenti la cartolina ha cominciato ad essere davvero valorizzata come indizio dei mutamenti paesaggistici, artistici e culturali.
Tanto che oggi la cartofilia sta acquistando la meritata importanza in
quanto sta divenendo oggetto di studio dal punto di vista grafico, storico e tematico. Non solo cartoline, dunque, ma testimonianze quasi
documentaristiche, che se correttamente interpretate e inquadrate, non
possono che aiutarci a ricostruire il
clima del tempo.
Tornando alle cartoline d’epoca,
che è al centro della nostra attenzione, crediamo sia importante soffermarci per qualche istante sul ruolo
che ebbero, ai tempi in cui iniziò
a svilupparsi pure dalle nostre parti, l’industria della fotografia e delle
cartoline illustrate (come lo ebbero
del resto in tanti altri segmenti dello
sviluppo di Trieste, Fiume e Pola e
del territorio istriano), Vienna e Budapest, ovvero i centri del potere e
dello sviluppo economico dell’Im-
1853, quando fu scelta quale futuro porto militare della monarchia,
e dopo che nel 1856 vi fu fondato
l’Arsenale, ma specialmente dopo il
1864, quando vi trovò sede l’ammiragliato, trasferito a Pola da Trieste.
La sua giurisdizione si estendeva da
Salvore a Spiz e, dal 1869, fino al
confine istro-ungherese. La ferrovia, costruita nel 1876, collegava
Pola e la penisola istriana alla rete
ferroviaria europea. Sotto l’AustroUngheria la città superò i 50.000
abitanti. Dal 1868 in poi Fiume altresì ebbe un rapido sviluppo di tipo
economico e sociale e divenne il
principale centro economico e portuale ungherese della monarchia e
influenzò profondamente lo sviluppo della parte orientale della penisola istriana.
Il grande boom
Non stupisce dunque che le prime cartoline di Fiume e Pola, che
iniziano a circolate intorno agli anni
Settanta del XIX secolo, e in particolare quelle colorate, vengano
pubblicate da editori triestini o austriaci, e stampate a Dresda, Praga.
Amburgo, Leipzig o in altre città
austriache. Ma è tra il 1897 e il 1914
che si verifica il grande boom del-
Trenkler Co.) e Trieste (Modiano).
A Fiume le prime cartoline fanno la
loro comparsa nel 1877. All’inizio
sono litografie. Poi, man mano che si
sviluppano le nuove tecniche, diventano fotografie, dapprima in bianco e
nero, o nel classico color seppia, più
tardi a colori.
Anniversari
e grandi eventi
Le prime cartoline statali ufficiali stampate con impressa già l’impronta del francobollo sono commemorative di importanti avvenimenti.
Come quella edita nel 1898, in occasione del 50.esimo della Rivoluzione di Vienna che segnò la caduta del
cancelliere Metternich e la concessione della costituzione. L’annuncio
Abbazia, il “Bagno Italia”
della rivoluzione in Austria provocò in Italia le insurrezioni di Venezia e le Cinque giornate di Milano.
Per venire in aiuto degli insorti, il re
di Sardegna, Carlo Alberto, dichiarò
la I guerra d’indipendenza all’Austria. Ungheresi e boemi chiesero il
riconoscimento della loro individualità nazionale. L’ordine nell’Impero
fu poi ristabilito a Praga e a Vienna, dove il 27 ottobre del 1848 l’inflessibile principe di Schwarzenberg
assunse la guida del governo dieci
giorni prima dell’ascesa al trono imperiale di Francesco Giuseppe.
La Prima Esposizione
Industriale Fiumana
Nel 1899 esce dalle stampe della tipografia fiumana P. Battara, poi
divenuta Stabilimento tipografico
che pubblicava anche tantissimi libri
(manuali scolastici bilingui in italiano e ungherese, come “La flora di
Fiume e dei dintorni” e “Piccola storia naturale”, scritti da János Matisz,
“La verità sul progetto idraulico della Rečina ovvero il canale di Grohovo”, di Siffredo Làszló) ed altre edizioni (“L’assedio di Sziget del conte
Nikolo Zrinyi”, la Grammatica ungherese e il libro di lettura di Emerico Donàth, bozzetti come “Il giovane eroe”, di Maurizio Jókai, destinati alle Fiere di beneficenza che venivano organizzate a Fiume all’epoca
in favore degli asili infantili, programmi ed annuari per le scuole)
una cartolina d’occasione in ricordo
della Prima Esposizione Industriale
Fiumana svoltasi nel capoluogo del
Quarnero dal 30 aprile al 30 maggio
di quell’anno.
Seguì lo stesso esempio pure
l’editore Edoardo Schambik, che
aveva uno studio fotografico in via
del Corso al civico 13 e che all’epoca pubblicò molte altre belle cartoline di Fiume (alcune oggi in Internet
arrivano a essere vendite anche a 20
euro al pezzo) con vedute panoramiche da Tersatto (le più richieste), primi piani sull’allora hotel “Europa”
(oggi sede di uffici dell’anagrafe e
dell’amministrazione regionale e di
Stato), di Riva Adamich, detta allora
Via del Lido, del Teatro e di tante altre piazze e strade della città. Ciò che,
come nel caso di Pola pure in quello
di Fiume colpisce un attento osservatore, è che a firmare moltissime delle
cartoline in commercio a quei tempi in cartolibrerie e rivendite specializzate, erano compagnie con sede a
Dresda a Berlino (Stengel & Co), a
Monaco, oltre che a Vienna (C. Ledermann. Jr) e a Budapest (Edgard
Schmidt). Le tematiche sono molto
spesso vedute del porto e della Fiumara, del Corso e della Torre Civica
squarci delle principali piazze e vie
del centro città, con in primo piano
palazzi monumentali (il Teatro, Palazzo del Governo, Palazzo Modello), chiese e monumenti (alcuni ancora oggi esistenti molti altri scomparsi nei burrascosi anni in cui mutavano regimi e politiche), ma anche
strade ed edifici di secondaria importanza, stabilimenti industriali, locali
pubblici, scene di vita quotidiana.
Solo frammenti,
ma significativi
Piccoli ma significativi e importanti frammenti di un ricco passato
che sembra quasi voler evadere a
tutti i costi da quei cartoncini rettangolari sui quali è rimasto imprigionato dall’occhio di quei primi ancora
rudimentali obiettivi, per raccontare
di sé e della storia di una città. Così
è per Pola e Fiume, per le principali città della Dalmazia (Zara, Spalato, Sebenico e Ragusa), per le prime mete d’interesse turistico (Abbazia, Cherso e Lussinpiccolo, Rovigno, Parenzo, Umago) ma anche
per cittadine minori (a volte si resta
impressionati proprio dalla genialità dei fotografi dell’epoca, che sapevano scegliere con estrema maestria i temi giusti per immortalarli
in una cartolina, anche in luoghi in
cui apparentemente, all’occhio di un
comune passante potevano apparire
del tutto insignificanti. La stazione
ferroviaria di Canfanaro, un vigneto con in secondo piano il campanile della chiesa parrocchiale di Cerreto, le calli di Dignano, una veduta
dal mare di Fasana scattata da qualche piroscafo in viaggio verso l’arcipelago delle Brioni. E tante altre
immagini di Albona, Dignano, Gallesano, Pisino, Lindaro, che qui, di
volta in volta andremo ad analizzare insieme.
Anno VII / n. 57 del 1.mo ottobre 2011
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Rodolfo (Rudi) Decleva, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez,
Alessandro Marzo Magno, Roberto Palisca
Foto: Arletta Fonio Grubiša, archivio, Internet
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