Comments
Description
Transcript
Gennaio 2014 - I MUSEI DI MU6
A R T E | C U L T U R A | I M P R E S A | P A E S A G G I O | T E R R I I MUSEI DI MU6 A CURA DI MASSIMILIANO SCUDERI CLAIRE BISHOP, CRISTIANA COLLU, MARK DION, XAVIER DOUROUX, FRANÇOIS HERS, RAFFAELLA MORSELLI, DAN PERJOVSCHI, PIERLUIGI SACCO E MOLTI ALTRI… Editore Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo | S.S. 5 bis n. 5, 67100 L’Aquila Tribunale dell’Aquila n°553 del Registro Giornali 18.03.2006 Periodico Trimestrale Gratuito - Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale - 70% - Pescara Anno IX / I Trimestre n° 30 - 2014 T O R I O F I D A M i MUSEi Di MU6 MU6 n.30 Periodico Trimestrale ideato da Germana Galli Numero a cura di Massimiliano Scuderi Editore Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo S.S. 5bis n.5, 67100 L’Aquila [email protected] www.rivistamu6.it Direttore Responsabile Walter Capezzali Coordinamento editoriale Germana Galli Redazione Nicla Cassino, Angela Ciano, Giovanni Di Bartolomeo, Paola Mulas, Antonella Muzi, Massimiliano Scuderi, Filippo Tronca. Si Ringraziano: Daniela Bigi, Antonio Brizioli, Antonella Bruzzese, Claire Bishop, Cristiana Collu, Andrea Crismani, Mark Dion, Giacinto Di Pietrantonio, Domenico D’Orsogna, Xavier Douroux, Francesco Garofalo, François Hers, Cesare Manzo, Raffaella Morselli, Francesco Nucci, Dan Perjovschi, Alfredo Pirri, Pierluigi Sacco. Si Ringraziano inoltre: Atelier Le Balto; Manuela Blasi; Jean-Jacques Boutaud; Renee Coppola, Emily Ruotolo, Annie Rochfort - Tanya Bonakdar Gallery, NY; Eugenio Coccia; Laïla Farah - Insitu Gallery, Parigi; Flavia Fossamargutti; Friends of the High Line, NY; Franck Gautherot, Irene Bony - Le Consortium, Digione; Silvano Manganaro; Claude Patriat; Lia Perjovschi; Mariette Schiltz e Bert Theis; Dana Sherwood; Antonella Varaschin. Progetto grafico Ad.Venture / Compagnia di comunicazione impaginazione a cura di Franco Mancinelli Traduzioni Nicla Cassino, pag 6 Paola Mulas, pagg 8, 9, 10, 11 Massimiliano Scuderi, pagg 5, 7 Foto Iwan Baan, pag 27 Christopher Burke Studio, pag 5 Giulia Caira, pag 9 Riccardo Carabelli, pag 24 Amanda Dandeneau, pag 5 Art Evans, copertina Carlo Furgeri Gilbert, pag 21 Fernando Guerra, pag 21 Antonello Idini, pag 13 Ela Bialkowska e Attilio Maranzano, pagg 8, 19, 29 André Morin, pagg 10, 11 Salvatore Prestifilippo, pag 16 Bert Theis, pag 28 Lia Perjovschi, pag 6 Ufficio Comunicazione INFN, pag 31 Zarko Vijatovic, pag 11 -Maria Zanchi, pag 20 Stefania Zocco, pag 15 Stampa Poligrafica Mancini - Sambuceto / Chieti Distribuzione Spedizione postale © MU6 / 2014 stampato in Italia Ritengo importante aver potuto curare questo numero di MU6 perché credo sia giunto il momento di approfondire la riflessione sull’arte in relazione ad acuni aspetti importanti della quali quelli relativi al suo rapporto con le strutture sociali, con le problematiche del progetto o con tutti quei processi che regolano, ad esempio, le qualità dello spazio pubblico contemporaneo. il progetto propone quindi un approccio metodologico che permette di considerare la rivista per uno scambio informale, un luogo aperto dove accogliere idee e delineare possibili modelli che tengano conto delle urgenze che la contemporaneità stessa ci pone e che possiedano un valore intrinseco progettuale, mettendo in relazione il passato con ciò che è immanente. Per questo motivo mi sono chiesto ad esempio quale fosse la , oggi, di inaugurare così tanti musei, tenendo conto quanti siano gli spazi in totale abbandono o in disfunzione e quali forti difficoltà economiche affliggano ad esempio l’Europa e, quindi, come fare ad affermare un principio che, a mio parere, si colloca diametralmente all’opposto. Questo principio nasce dalla mia personale esperienza di Fuori Uso e dall’aver condiviso progetti, professionali e di vita, con molti artisti che sono stati per me le ‘bussole’ per comprendere la realtà e talvolta per risignificarla. Quello che ho capito, infatti, è che l’arte si presenta al giorno d’oggi come qualcosa di completamente sublimato, in una forma che potremmo facilmente assimilare al concetto del servizio, qualcosa che potrà trovare luogo ovunque e che nel futuro costituirà uno strumento importante per ognuno di noi come . Per comprendere meglio questo, ho fatto ciò che mi sembrava più ovvio ovvero quello di mettere insieme alcune persone (una comunità riunita intorno ad un focus tematico centrale, ma anche o di specifiche competenze) alle quali chiedere di spiegare le caratteristiche di un museo ‘veramente’ contemporaneo, intendendo con questo un’entità complessa, anche contraddittoria, in cui il processo di costruzione sia più importante del contenitore e di cui noi, e contemporaneità una piattaforma necessità soggetto collettivo al di là di un ruolo solo noi, possiamo es- sere il vero edificio. Peter Sloterdijk parla di un postumanesimo e di una costituzione ontologica, ovvero dell’idea di superamento della frontalità dei limiti e delle frontiere. Penso che questi saggi parlino anche di questo, oltre la loro specificità, ovvero di una rivoluzione democratica, di una svolta che unisce i linguaggi, le discipline e gli individui nell’ottica di una condivisibile prospettiva culturale. Voglio infine ringraziare tutti coloro che hanno voluto contribuire a questo progetto, oltre a Germana Galli, Walter Capezzali, la redazione e Franco Mancinelli perché questo numero rappresenta oltretutto il mio personale riconoscimento al loro impegno e alla loro onestà culturale. Massimiliano Scuderi in modo trans- disciplinare MU6: Padiglione Editoria - Centro Servizi Per ricevere a casa la rivista è sufficiente un contributo annuo di Euro 10,00 per la spedizione postale. Per sostenere l’attività di MU6 invia Euro 30,00. Il pagamento può essere effettuato sul sito della rivista www.rivistamu6.it/abbonamenti.html o con bonifico bancario IBAN IT39T0604003797000000131713 intestato Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo MU2 D O V E T R O VA R E M U 6 : W W W. R I V I S TA M U 6 . I T | M U S E I D E L L A R E G I O N E A B R U Z Z O | A L B A A D R I AT I C A : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( L U N G O M A R E M A R C O N I , 2 7 0 - A L B A A D R I AT I C A ) | AS C O L I P I C E N O : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( P I A Z Z A D E L P O P O LO , 2 6 - AS C O L I P I C E N O ) | AV E Z Z A N O : L I B R E R I A M O N D A D O R I ( V I A M O N S I G N O R B A G N O L I , 8 6 - AV E Z Z A N O ) | L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O D E L L A L I B E R T À , 1 1 0 - AV E Z Z A N O ) | B O L O G N A : L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( P I A Z Z A R AV E G N A N A . 1 B O LO G N A ) | L I B R E R I A P I C K W I C K ( G A L L E R I A 2 A G O S T O 1 9 8 0 , 3 / 2 - B O LO G N A ) | C H I E T I : L I B R E R I A D E L U C A ( V I A C . D E LO L L I S , 1 2 / 1 4 - C H I E T I ) | F I R E N Z E : L I B R E R I A L A F E LT R I N E L L I ( V I A D E ’ C E R R E TA N I , 3 0 / 3 2 R - F I R E N Z E ) | L ’ A Q U I L A : C A F F È P O L A R ( V I A S A N TA G I U S TA , 1 7 / 2 1 - L ’ A Q U I L A ) | L I B R E R I A C O L A C C H I ( V I A A N D R E A B A F I L E , 1 7 - L ’ A Q U I L A ) | L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O F E D E R I C O I I , 2 8 - L ’ A Q U I L A ) | M I L A N O : L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( V I A A L E S S A N D R O M A N Z O N I , 1 2 - M I L A N O ) | P E S C AR A : L I B E R N AU TA ( V I A T E R A M O , 2 7 - P E S C A R A ) | L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( V I A M I L A N O , A N G O LO V I A T R E N T O - P E S C A R A ) | R I E T I : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( V I A R O M A , 3 5 - R I E T I ) | R O S E T O D E G L I A B R U Z Z I : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( V I A N A Z I O N A L E , 2 1 2 - R O S E T O D E G L I A B R U Z Z I ) | R O M A : L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( V I A D E L C O R S O , 5 0 6 - R O M A ) | L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( V I A G I U L I O C E S A R E , 8 8 - R O M A ) | S A L E R N O : L I B R E R I A F E LT R I N E L L I ( V I A T O R R E T TA , 1 - S A L E R N O ) | S U L M O N A : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O O V I D I O , 1 9 0 - S U L M O N A ) | T E R A M O : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O S A N G I O R G I O , 8 1 - T E R A M O ) | L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( V I A P. TA C C O N E , 1 2 - T E R A M O ) | VAS T O : N U O VA L I B R E R I A ( P I A Z Z A B A R B A C A N I , 9 - VAS T O ) | W W W. R I V I S TA M U 6 . I T I MUSEI DI MU6 COVER PAGINA 2 PAGINA 5 I MUSEI DI MU6 MARK DION Massimiliano Scuderi iNTERViSTA a cura di Massimiliano Scuderi in copertina: Mark Dion, 2012 Phantoms of the Clark Expedition, The Explorers Club, New York Photo: Art Evans © 2012 Sterling and Francine Clark Art institute, Williamstown, Massachusetts and Mark Dion Courtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York PAGINA 6 PAGINA 7 PAGINA 8 PAGINA 10 DAN PERJOVSKY CLAIRE BISHOP intervista a cura di Massimiliano Scuderi intervista a cura di Massimiliano Scuderi ARTE E SOGGETTO DEMOCRATICO: FRANÇOIS HERS E I NOUVEAUX COMMANDITAIRES L’ARCHITECTURE C’EST TOI, YOU ARE THE BUILDING! intervista a cura di Paola Mulas Una conversazione tra Massimiliano Scuderi e Xavier Douroux PAGINA 13 PAGINA 14 PAGINA 16 PAGINA 17 ALFREDO PIRRI - PASSI IL MUSEO E IL TERRITORIO (A SUD) Alfredo Pirri Daniela Bigi I POLITICI NON SI FIDANO DELL’ARTE PERCHÉ L’ARTE NON SI FIDA DI LORO Una conversazione tra Massimiliano Scuderi e Cesare Manzo PARCO NOMADE intervista a Francesco Nucci a cura di Massimiliano Scuderi PAGINA 19 PAGINA 20 PAGINA 21 PAGINA 22 LA CULTURA COME MOTORE D’INNOVAZIONE PER IL TERRITORIO DiRETTORi A CONFRONTO: DiRETTORi A CONFRONTO: GIACINTO DI PIETRANTONIO CRISTIANA COLLU IL MUSEO E I SUOI PUBBLICI: ESPRIMERSI PER IMPARARE Pierluigi Sacco intervista a cura di Massimiliano Scuderi intervista a cura di Massimiliano Scuderi Antonella Muzi PAGINA 23 PAGINA 24 PAGINA 25 PAGINA 26 CONDIVIDERE IL PATRIMONIO DEL MUSEO: LE SPERIMENTAZIONI DEL RIJKSMUSEUM DI AMSTERDAM BEING FOR SOMEBODY ARCHITETTI E COMMITTENTI Francesco Garofalo BIODROID NAViGARE NELLA RETE DELLA ViTA Raffaella Morselli iL MUSEO COME LUOGO Di PRATiCHE QUOTiDiANE E COiNVOLGiMENTO Antonella Bruzzese PAGINA 27 PAGINA 28 PAGINA 29 PAGINA 31 IL VERDE NON È UN COLORE ISOLA ART CENTER E I VANTAGGI DEL CENTRO DISPERSO MUSEI: PROBLEMI GIURIDICI DAL GRAN SASSO SCIENCE INSTITUTE PARTE LA SFIDA DELLA CONOSCENZA GiARDiNi ‘Più O MENO’ SPONTANEi NELLO SPAZiO PUBBLiCO CONTEMPORANEO Nicla Cassino e Giovanni Di Bartolomeo Antonio Brizioli Filippo Tronca Domenico D’Orsogna e Andrea Crismani Angela Ciano MU3 Mark Dion, The Octagon Room, 2008, installazione, cm 254 x 838.2 x 838.2. Photo: Christopher Burke Studio. Courtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York MARk DiON iNTERViSTA Massimiliano Scuderi: Collezionare e classificare è un modo per rappresentare il mondo o cos’altro? Qual è il tuo modus operandi? Mark Dion: Collezionare e classificare è un modo per iniziare una conversazione sul mondo. È parte della costruzione di un vocabolario, una costellazione condivisa di termini attraverso i quali indagare un discorso. Le cose sono strumenti sorprendenti per raccontare storie, narrare costruzioni, contrasti e comparazioni. inutile dire, ci sono molti differenti tipi di cose da collezionare e ragioni per riunirle. Ci sono numerosi modi per acquisire materiale, dalle più importanti forme etiche di scambio a quelle più avide e preziose. Quello a cui sono particolarmente interessato è la storia delle collezioni: nel tentativo di comprendere quale siano gli impeti filosofici, politici e pratici che sottengono alla costruzione e all’organizzazione di una collezione. Quali siano le storie ufficiali, e anche quali siano le agende segrete e i motivi reconditi per raccogliere oggetti, queste sono le mie domande. Molto del mio lavoro tenta di esaminare i metodi e le strategie delle collezioni del passato in qualche modo per delucidare la loro logica e il loro ordine e per connettere questo con l’ideologia e la storia sociale. in qualche modo, faccio enciclopedie di metodi per collezionare e di spiegazioni razionali. Oltre vent’anni fa o giù di lì, ho lavorato con una varietà di organizzazioni che mantengono delle collezioni. Questo insieme di istituzioni ufficiali come musei, zoo, archivi, giardini botanici i quali hanno collezioni molto formali per organizzazioni che non riconoscono neanche se stesse come istituzioni sul collezionismo come università e anche città. il cuore di queste indagini non rappresentano tanto ciò che queste collezioni dicono del mondo, quanto ciò che dicono di noi. MS: Nel libro Collezione di Sabbia Italo Calvino scriveva che: questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa di importante: una descrizione del mondo? Un diario segreto del collezionista? O un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Qual è la relazione tra ‘soggetto’ e ‘oggetto’ nel tuo lavoro? MD: il mio lavoro è fortemente contestuale. Gli obiettivi, le metodologie, le condizioni di ciascun progetto sono completamente dipendenti dal sito, il che include il contesto temporale o zeitgeist e il mio carattere. Così ogni progetto è terribilmente diverso anche se vincolato ad un’indagine impegnata sulla storia della cultura naturalistica e sulle questioni legate a come e cosa apprendiamo. il mio rapporto con il soggetto e con l’oggetto del mio lavoro è un setacciare quindi. Sento che a rivelare di più sarebbe un po‘ come se Houdini avesse dato via il segreto del funzionamento di un trucco. Ritratto di Mark Dion. Photo Amanda Dandeneau, 2010. Courtesy l’artista MS: Neukom Vivarium è un lavoro ibrido che rappresenta un complesso sistema di cicli e processi. Quanto è importante il processo nel tuo lavoro ? MD: il processo è uno dei cardini del mio lavoro. il lavoro è attivo e spesso raggruppa lo spazio espositivo, lo studio e il laboratorio. in numerosi progetti sono presente come una sorta di performer per almeno parte del progetto. Si tratta di un rapporto complesso con l’attività performativa, dato che non ho mai finto o non mi sono mai comportato come qualcun altro (un biologo marino o un archeologo per esempio), ma chiaramente non sono neanche me stesso. Anche nei progetti in cui il processo in atto non sia visibile, vi è spesso una rappresentazione teatrale che incarna il processo. Mi sento abbastanza avido circa l’inclusione del processo, dal momento che sono spesso privilegiato nel condividerne la ricchezza avendo accesso a studi di artisti e a laboratori di scienziati. C’è una profondità e complessità circa quegli spazi che possono essere produttivi nel condividere. Non ho mai incontrato un dipinto che fosse più interessante nella galleria di quanto non lo fosse nello studio. il processo di esporre aiuta anche a contrastare l’autorità di un lavoro in modo produttivo. Ciò permette allo spettatore di capire la contingenza della produzione; per vedere che c’erano strade non percorse, decisioni che non erano inevitabili o naturali e spazio per errori. Ciò taglia dal basso l’autorità di un lavoro in senso partecipativo per gli spettatori. Mark Dion, Providence Cabinet, 2001, Tecnica mista, cm 254 x 187 x 48. Courtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York MU5 DAN PERJOVSCHI Dan Perjovschi. Tate Modern, 2006. Photo Lia Perjovschi Massimiliano Scuderi: All’inizio del tuo lavoro di artista, hai iniziato a ricoprire di carta l’appartamento e a disegnare sulle pareti come per la frustrazione dovuta alla mancanza di possibilità e alla censura (tratto da una recente intervista su Arterritory). Quando e dove hai iniziato? Dan Perjovschi: in realtà era più destinata a essere una sorpresa per mia moglie Lia, che aveva la sua prima vacanza dall’accademia d’arte di Bucarest. Ed è stata una sorpresa! Vivevamo a undici ore dalla capitale sul confine occidentale. Lia ha lottato per entrare a scuola per anni… centinaia di candidati per sei posti (per non parlare del nepotismo e del rapporto con il partito). Dico questo perché al tempo in cui ho fatto ciò, non avevamo alcuna conoscenza di “installazione”, “performance” o altri mezzi contemporanei. Le nostre educazioni nella storia dell’arte si fermavano a prima di Picasso… Beh, la censura era un problema. Non si poteva fare nulla ufficialmente, senza passare attraverso tre commissioni di censura. È stato più umiliante che tragico. Ma abbiamo trovato modi (fuori sui campi e dentro le nostre case) per esercitare un po’ di libertà. Era più un istinto di sopravvivenza che una tattica dissidente. Volevo fare qualcosa di diverso e volevo creare qualcosa di speciale per Lia. E questo è come ho cominciato. Ho realizzato il primo disegno in una stanza privata nel 1988 e di nuovo in pubblico nel 1991 in occasione della prima “libera” mostra nazionale per giovani artisti dopo la caduta del comunismo. Ma, come pratica artistica, inizierò a utilizzare costantemente il “wall drawing” solo intorno al 2000. Studio arte da quando avevo dieci anni. Ho frequentato la scuola d’arte, il liceo artistico e l’ac- MU6 cademia d’arte. Dopo dodici anni sono uscito dal sistema educativo come “artista” senza pormi nessun interrogativo. Mi sono laureato nel 1985. Ma onestamente mi sono sentito un artista molto più tardi… Facciamo un riassunto: mi laureo nel 1985, prima mostra personale nel 1987, primo “drawing action” nel 1991, la prima mostra personale che ho amato è stata nel 1995 presso il Franklin Furnace di New York, il primo interesse internazionale nel 1988 a Manifesta in Lussemburgo, grande attenzione internazionale alla Biennale di Venezia del 1999, primi grandi disegni in stanze multiple nel 2003 a kokerei Zollverein (un’ex miniera di Essen) e un dibattito costante indirizzato al disegno dalla personale del 2005 del Ludwing Museum di Colonia, nello stesso anno la Biennale di istanbul… Da qui Tate, Moma, Pompidou e il resto… MS: Di solito lavori disegnando scene umoristiche e politiche sulle pareti di musei e gallerie. Qual è il tuo rapporto con il pubblico? DP: il mio stile e il mio modo di disegnare sono stati influenzati lavorando per un settimanale politico, il primo settimanale indipendente nel mio paese dopo la caduta del comunismo… Dovevo disegnare con l’idea del pubblico nella mente. i giornali devono vendere e la gente deve leggerli… i miei disegni si aprono all’attualità e a cosa le persone sperimentano ogni giorno. Ho disegnato del mio paese e della sua transizione ogni settimana fin dal 1990. Quando la mia carriera è decollata, ho iniziato a disegnare sul resto del mondo e sui suoi problemi… Dal 2000 quest’approccio localeglobale mi da una profonda visione della società di oggi. Sono diventato popolare sia per il portiere che per il direttore del museo d’arte. Le persone possono relazionarsi con ciò che disegno, perché parla delle loro vite… Utilizzo l’umorismo, ma con grande serietà. E non considero i miei disegni degli schizzi. Sono disegni. Per alcuni di essi ho necessitato di anni per definirli. Non c’è linea o punto che possa essere eliminato o modificato. Si tratta di un disegno in una forma pura stabile e definitiva. L’essenza dell’essenza… MS: Il tuo lavoro è focalizzato su questioni globali e locali come una sorta di visione politica ed io ritengo molto interessante quando sostieni di essere più “time specific” che “site specific”. Qual è la tua opinione sul ruolo dell’artista nella contemporaneità? DP: Dico “time specific” perché costruisco le mie mostre sugli eventi di quel momento… per quanto possano essere notizie di carattere internazionale e locale. La struttura concettuale della mostra è data dalla predominanza della narrativa. Naturalmente riutilizzo i disegni e alcuni temi rimangono fissi e stabili per decenni, ma ci sono eventi nuovi e particolari che possono influenzare i miei disegni. il pubblico avrà i riferimenti e sarà esso stesso a essere collocato nell’“ora” e nel “qui”. Beh, io penso che gli artisti contemporanei devono contribuire, non alla propria carriera personale, ma ad una profonda comprensione dei tempi e della politica che stiamo vivendo. Noi siamo un supporto qualificato e competente per assistervi in una visione più profonda e più ampia… io ho la mia interpretazione personale dei fatti. Lo faccio con umorismo, tenerezza e vuoto, ma senza pietà. il mio humour è pungente. Posso svegliarti. Devo fare questo! Penso che istituzioni d’arte, musei, fiere, gallerie, sono in generale piattaforme molto artificiali… Se avete guardato le immagini di “Occupy Gezi” di istanbul e le confrontate con le immagini della Biennale di Venezia, l’evento artistico era cosi noioso e falso. Come artisti dobbiamo avere indietro il nostro ruolo nella società e uscire dalle nostre lussuose prigioni. Ciò diminuisce il mercato, ma incrementa l’arte… MS: Michael Foucault ha sostenuto che non c’è una sola cultura al mondo dove sia permesso fare di tutto. Qual è il tuo rapporto con le istituzioni? È possibile oggi una libera espressione? DP: Si, ma sostengo una libera espressione con responsabilità. Oggi è facile far arrabbiare la gente per umiliare o creare scandalo. È facile innescare una guerra. Ma è più complicato creare comprensione e dialogo. Evito di rendere aspri i miei disegni. Voglio che le persone che io critico lo facciano. Quando disegno un banchiere in una schiera di vampiri e una maschera di “scary movie” per Halloween, il messaggio può essere compreso dal banchiere stesso… Quando scrivo “il nuovo angelo custode” sotto un drone, il messaggio può essere capito da una persona che usa un drone… Ma noi dobbiamo (e con “noi” intendo tu, il pub- blico, gli artisti, le persone che lavorano nelle istituzioni) combattere e resistere per preservare la libera espressione. Dobbiamo essere innovativi, intelligenti, onesti e determinati… MS: Tramite questo tema, vogliamo capire quale potrebbe essere il museo del futuro e che tipo di forma potrebbe avere. In un certo senso tu hai appena dichiarato in una recente intervista che le migliori istituzioni sono i modelli tedeschi di Kunstverein e Kunstahalle perché: “Sono spazi pubblico-privati, dove puoi realizzare qualsiasi cosa tu voglia”. Infine, potresti darci un suggerimento per un museo del futuro? DP: Beh, come si legge nel libro di Claire Bishop “Radical Museology” ci sono musei interessanti in tutto il mondo. Lei ne menziona proprio alcuni: Van Abbemuseum di Eindhoven, Moderna Galerija di Lubiana, il Macba di Barcellona, etc. Probabilmente tu hai i tuoi preferiti. Ci sono posti e persone che stanno riformando il “museo”. Ho ammirato il modello “kunstverein” perché sono riusciti a sopravvivere alle crisi economiche, essendo allo stesso tempo di interesse per il paese, la regione, la città e la comunità. Sono più per la sperimentazione che per la conservazione dell’arte. Anche la pressione del mercato non è applicabile in misura cosi grande come in una situazione di galleria… Ma probabilmente ci sono altri modelli. Penso che i musei del futuro debbano essere più aperti, più coraggiosi. Dovrebbero bilanciare progetti e sperimentazione di attualità con chiari riferimenti provenienti dalla storia dell’arte. Devono riconfermare la loro autonomia, ma allo stesso tempo incrementare il loro rapporto con le comunità. Devono ridefinire il rapporto con il pubblico. Più accessibilità, più significato. Consentiamo di aggiungere qualche cantina ai ristoranti di lusso. Apriamoci al resto della “cultura”. Ci sono modi innovativi di visualizzare, mostrare e comunicare. Possono imparare dagli artisti e formare nuove persone. i musei e le piattaforme di arte indipendente sono molto importanti in un mondo di profitto… Ci sono territori in cui le idee prendono forma, crescono, e si mostrano. incredibile! Dobbiamo tutti sostenere, aiutare, criticare e contribuire. CLAIRE BISHOP Massimiliano Scuderi: Il tuo nuovo libro è intitolato Radical Museology. In che cosa consiste la tua riflessione? Claire Bishop: il mio nuovo libro è una risposta a diversi problemi. in primo luogo, risponde alle misure di austerità che sono attualmente imposte in tutta Europa, che stanno avendo un effetto negativo sui finanziamenti pubblici e sui musei. La maggior parte dei musei stanno rispondendo attraverso blockbuster populisti e sponsorizzazioni. Tuttavia, tre dei più interessanti musei in Europa non stanno prendendo questa strada, ma hanno usato i tagli ai finanziamenti per la produzione di innovativi, programmi politicizzati: il Reina Sofia (Madrid), il Van Abbemuseum (Eindhoven) e la MSUM (Lubiana). Tutti e tre hanno i direttori di sinistra, e questo im- pegno politico ha generato allestimenti estremamente creativi della collezione permanente. in secondo luogo, il libro risponde ai recenti dibattiti sul ‘contemporaneo’ (come categoria distinta dal moderno e dal postmoderno). il mio libro propone quindi una lettura della contemporaneità non come una periodizzazione (diciamo ‘arte dal 1960’ o ‘arte dopo il 1989’), ma come metodo dialettico: un modo di guardare indietro e pensare storicamente che è informato dalle urgenze dell’oggi. Queste urgenze (che potrebbero includere questioni sociali e politiche) determinano quali narrazioni storiche diciamo nel presente, che a loro volta influenzano il modo in cui guardiamo al passato. Radical Museology, Edizioni Walther koenig, iSBN 9783863353643 MS: Molti artisti hanno concentrato le loro ricerche su aspetti specifici della contemporaneità, andando oltre i limiti imposti dalle aree di riferimento in modo interdisciplinare. Pensi che questo atteggiamento influenzerà i musei nel futuro? CB: Penso che questo stia già interessando alcuni dei più avventurosi, i musei impegnati che ho citato sopra. Tuttavia, per la maggior parte dei musei, questo tipo di lavoro interdisciplinare è principalmente da ricercare negli spazi per i progetti temporanei, più che nelle collezioni permanenti. La maggior parte delle collezioni museali sono ancora sposate ad oggetti portatili nei media tradizionali che formano una chiara continuità con il lavoro già fatto nella collezione esistente. MS: Jacques Rancière parla del rapporto tra estetica e strutture sociali. Per te, qual è il ruolo dell’estetica nella società? CB: Questa è una grande domanda! il ruolo dell’estetica è sempre stata in ultima analisi, per me, un contrappunto di alienazione. Una buona opera d’arte (con qualsiasi mezzo o genere) ti fa sentire più vivo e rassicura che non siete soli nel mondo. Oggi, l’esperienza estetica assume molte forme. La mia preferenza è per un lavoro che si impegna con le contraddizioni e le difficoltà del nostro tempo, e che crea un nuovo vocabolario che ci permette di percepirlo. Claire Bishop è docente di Contemporary Art, Theory and Exhibition History presso il Graduate Center di New York. I suoi interessi si focalizzano sui pubblici e sul rapporto tra arte e politica. Scrive regolarmente su Artforum ed altre riviste. MU7 Ettore Spalletti, Salle des départs, 1996, Garches, hôpital Raymond Poincaré. Photo Attilio Maranzano Programma Nouveaux Commanditaires promosso da Hôpital Raymond Poincaré e Fondation de France ARTE E SOGGETTO DEMOCRATiCO: FRANÇOIS HERS E I NOUVEAUX COMMANDITAIRES Osservando la relazione tra società e arte contemporanea, l’impressione che si riceve è quella di traiettorie che non si intersecano se non saltuariamente. Nonostante i meritevoli sforzi di tanti artisti e professionisti del settore, nella realtà dei fatti avviene che il pubblico, ambito interlocutore, resti invece solamente il fruitore di un evento culturale e si muova solo in occasione di circostanze di grande richiamo o di approcci ludici all’arte, risultato di un’idea vaga di politica culturale. Non che in questo vi sia qualcosa di catastrofico: l’intrecciarsi di istituzioni blasonate, artisti e professionisti di grido e grandi capitali economici offre contributi di alto livello permettendo a chi ne abbia gli strumenti, come diceva Bourdieu, di appropriarsi dell’opera d’arte in quanto bene simbolico1. Ma com’è possibile che oggi, in un mondo che si confronta con l’urgenza di una nuova rappresentazione di sé, l’arte debba dimostrarsi così elitaria e limitarsi al punto di esaurire il proprio contributo critico e simbolico nel susseguirsi di una serie di episodi di grido, incomprensibili ai più? Con questo non si deve intendere che sia necessario trovare per l’arte una dimensione sociale, come tante volte è già avvenuto nella storia passata e recente. Piuttosto che sia necessario non confinare a visioni utopistiche una riflessione su quale contributo l’arte possa offrire e ricevere dal grande numero di soggetti che, vivendo dei privilegi di uno stato di diritto, stanno costruendo oggi una versione del mondo, e della società, di domani. Questo profondo legame tra arte e soggetto democratico sta al cuore di Nouveaux commanditaires, che François Hers propose ormai più di vent’anni fa alla Fondation de France come artista e che si è evoluto in un Protocollo declinato, ad oggi, in oltre duecento opere e sei paesi. il Protocollo dei Nuovi committenti2 prevede che chiunque possa commissionare un’opera d’arte contemporanea: la scelta del mezzo espressivo (arti visive, musica, danza, architettura… ), dell’artista che meglio può dar seguito alla committenza, il coinvolgimento di mediatori, fondazioni e della comunità che risiede e governa laddove il progetto viene realizzato sono tutte variabili, così come la forma finale dell’opera che viene discussa da tutti i partecipanti al processo. Questa qualità in divenire (“Non cerco la definizione. io tendo verso l’infinizione”3, scriveva Georges Braque) e l’indagine continua non solo dello statuto dell’arte ma anche delle soluzioni alle tensioni inerenti ad una ricerca tanto libera, rappresentano la grande forza di questo progetto: da un lato, esso si apre a chiunque e a qualunque tema, esigenza, luogo anche periferico rispetto al sistema dell’arte, coinvolgendo comunque i maggiori artisti contemporanei; dall’altro, fa del processo e non solo dell’opera un valore che può essere “acquisito”, stavolta dall’intera comunità che vi partecipa e verosimilmente lo tramanderà. in questo modo, il susseguirsi di speculazioni teoriche e atti pratici manifesta la vita di ciò che un giorno sarà storia, facendo della cultura un percorso sia soggettivo sia comunitario MU8 e non soltanto un oggetto patrimoniale. L’esperienza dei Nouveaux commanditaires è divenuta oggi un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia confrontarsi con la relazione tra arte e società o con una certa idea di sviluppo del territorio; per questo, rivolgersi a François Hers e sollecitare un suo intervento in merito ai temi qui introdotti è sembrata la cosa più naturale. A seguire, pubblicato integralmente, il suo contributo. L’ARTE AL TEMPO DELLA DEMOCRAZIA LA RiVOLUZiONE DEi NUOVi COMMiTTENTi Poche generazioni hanno il privilegio di assistere ad una di quelle grandi svolte della storia dell’arte che vedono un’epoca compiersi ed una nuova emergere, sulla base di paradigmi inediti. Una situazione che non è facile capire quando tutte le forme di relazione con il mondo subiscono dei cambiamenti fondamentali e la funzione stessa dell’arte è senza precedenti. Mai, nella storia, la creazione artistica è stata così slegata dalla dimensione collettiva. Vi si è sempre trovata legata, che fosse per via di pratiche rituali , convinzioni religiose o poteri politici. Le ambizioni rivoluzionarie d’arte nel periodo moderno si iscrivevano entro un desiderio collettivo di progresso. La conquista dell’autonomia dell’arte era anche quella della persona. A partire dal Rinascimento, gli artisti hanno svolto un ruolo cruciale: nessuno, meglio di loro, ha saputo rendere così visibile e tangibile la possibilità per l’individuo di emanciparsi e di essere libero. Ma questa conquista è ora acquisita, l’individuo è diventato sovrano, se non di fatto, almeno nel diritto. È stata decisiva, ma è necessario ormai superarla perché ne ha determinato un’altra. È stato negli anni Ottanta che la constatazione secondo la quale l’arte non si iscriveva più entro un racconto collettivo si è veramente imposta. Era diventata privatizzata. Da qui, senza opposizione fondamentale, seguì che la finanza, il commercio, l’industria, le città, gli stati, hanno investito molto nell’arte a proprio uso e consumo. indubbiamente, l’arte contemporanea ha così acquisito un valore economico e un’audience eccezionale, ma le espressioni dello spirito, della libertà e dell’etica si sono ridotte ad essere uno spettacolo tra gli altri. Tra le manifestazioni di ogni genere che non cessano di moltiplicarsi4, trascinando folle di spettatori sempre più numerose, la contemplazione di un’opera contemporanea riporta ormai ciascuno solo a sé stesso. in questa strutturazione completamente individualistica della produzione e dell’uso di questo bene culturale, gli artisti non perdono di certo la loro capacità di invenzione. Tuttavia, una delle capacità essenziali dell’opera si affievolisce: quella di dare corpo ad una presa di coscienza che possa servire come punto di riferimento nella marea di trasposizioni simboliche che ci vengono offerte per percepire la realtà. Quando l’arte non ha più un senso comune, il suo statuto, finora privilegiato, può essere rimesso in causa e diventa sempre più difficile, per una collettività, giustificare l’investimento importante richiesto dalla creazione, e oltre, l’acquisizione, la conservazione e la promozione delle opere. Senza dubbio, non vanno cercate oltre le ragioni di una diminuzione sempre più brutale delle risorse finanziarie devolute a questo. L’autonomia dell’arte non ha alcun valore intrinseco e non sono i dibattiti e processi fatti all’arte contemporanea, alle politiche, ai mercati o ad una cultura edonistica che le restituiranno un ruolo maggiore. Non si può ritardare ancora la presa di coscienza di tutte le conseguenze delle rivoluzioni politiche e artistiche che hanno portato alla situazione attuale. infatti, da due secoli a questa parte, nessuna politica culturale pubblica o privata ha saputo tener conto della rivoluzione copernicana imposta dalla democrazia: partire dal particolare per arrivare al generale e non l’inverso; partire dalla persona e dal luogo in cui vive per conoscere le esigenze culturali del tempo e trovare una risposta, piuttosto che partire da un’autorità superiore per arrivare al particolare, con la vana speranza di democratizzare l’arte per il tramite di una generosa offerta o di intenzioni benevole. Con questo genere di politiche culturali e la relazione con gli artisti che esse presuppongono, la nostra società si è condannata al silenzio; esse impediscono alle opere stesse di avere una vera vita sociale. Accontentandosi delle relazioni anonime stabilite dalle istituzioni e dai mercati, che cosa potevamo aspettarci se non di confinare le opere contemporanee in un ruolo patrimoniale e di dare un’importanza sclerotizzante alla nostra eredità artistica? Quanto agli artisti, non sono stati in grado di trovare la bicicletta che mancava alla ruota di Marcel Duchamp, per uscire dal museo e fare esperienza del mondo così da dare tutto il loro senso e la loro portata alle notevoli possibilità che offre alla creazione la totale emancipazione delle forme avviata dalla avanguardie storiche e in particolare dal movimento Dada. Dal XiX secolo fino ad oggi, i propositi degli artisti per mettere l’arte nella vita non hanno avuto successo e si sono trovati musealizzati qualunque fosse la loro rilevanza o la forza del desiderio di coinvolgere il pubblico. Per riuscire, occorreva senza alcun dubbio attendere che ci fossero le condizioni perché che il solo, vero interlocutore dell’artista in democrazia, ovvero ogni cittadino che incarna il pubblico, potesse prendere da solo l’iniziativa e non dipendere da quella dell’artista o di chi commissiona un’opera, per mettere l’arte nella vita. È paradossale che sia proprio l’accento messo sugli interessi privati, con l’estinzione delle originarie funzioni dell’arte che induce, ad aprire all’arte la possibilità di assumere, di nuovo, un ruolo sociale forse più importante di quanto non sia mai stato. Questo è ciò che rivela l’attuazione del Protocollo dei Nuovi committenti, che fa dei desideri della società stessa, con le tensioni e i conflitti inerenti ad ogni espressione libera, il principale motore dell’arte contemporanea. Per farlo, il Protocollo implica la condivisione paritaria, da parte di tutti gli attori sociali coinvolti, delle responsabilità legate all’emergere di un’opera d’arte. Offre a chiunque lo desideri la possibilità di affermare pubblicamente una ragion d’essere dell’arte e di un investimento nella creazione assumendo, quindi, la responsabilità della commissione di un’opera. Qualunque sia il medium in questione (arti visive, architettura, musica, … ), toccherà poi all’artista inventarne le forme, fuori dai contesti abituali e a partire dalle questioni sollevate da una coscienza divenuta comune; ai rappresentanti politici di assumere il proprio ruolo politico assicurando ogni mediazione necessaria relativamente agli interventi nella vita pubblica e diventare committenti alle stesse condizioni di ogni altro cittadino; ai mediatori artistici di arricchire il proprio ruolo sociale assicurando a tutti le competenze necessarie per rivolgersi agli artisti e produrre un’opera. infine, ai ricercatori è offerta l’occasione di sviluppare la conoscenza dei nostri problemi culturali e di mettere in prospettiva delle modalità di intervento appropriate. Sfidando i pregiudizi, da oltre vent’anni ormai questo protocollo viene messo in opera con successo da una rete di mediatori europei5. La loro azione, con quella dei Nuovi committenti, rivela che l’interazione tra arte e democrazia promossa dal Protocollo incoraggia un’emulazione reciproca rafforzata dal fatto che esse non hanno finalità prevedibili. Devono entrambe interrogarsi incessantemente sulla forma da trovare per adattarsi ai cambiamenti e inscrivervisi in modo soddisfacente. Questa azione ha messo in luce quanto l’arte possa diventare uno strumento privilegiato per aiutarci a raccogliere quella che è probabilmente la più grande sfida culturale che abbiamo di fronte; e questo, tanto più che essa si globalizza: come fare società con individui che hanno concezioni, credenze e interessi diversi, divenuti liberi e uguali? Assumendo un ruolo nella realizzazione di questo progetto politico, ancora giovane e di cui deve essere ricordata la straordinaria audacia, la creazione artistica partecipa così nuovamente alla scrittura di un grande capitolo nella storia degli uomini. Una storia animata dal desiderio ampiamente condiviso di segnare il mondo in cui vivono e ricrearlo, e da un desiderio altrettanto forte di pensare e agire con gli altri, entro una democrazia che governa le loro relazioni ma non li preserva dall’essere messi in disparte. È ai migliori artisti contemporanei che hanno diritto i committenti. Artisti che partecipano tanto più volentieri all’azione quanto più possono nutrire le loro opere delle problematiche del loro tempo e superare così una duplice difficoltà: l’isolamento e l’esaurimento. inoltre, in questa nuova fase storica, è lo stesso statuto dell’arte a cambiare, poiché essendo l’opera giudicata in funzione della pertinenza della risposta che da ai quesiti dell’epoca contemporanea, il suo valore e il suo riconoscimento come opera d’arte divengono potenzialmente appannaggio di ogni frazione della società e non più solamente delle istanze degli specialisti, delle istituzioni o del mercato. Ad ognuno degli individui che fanno parte di una democrazia, questa vicenda offre l’occasione di sperimentare ciò a cui può portare l’azione comune quanto si assoggetta alle esigenze di un’arte impermeabile alle ipocrisie. E ancora: entro questo sistema, l‘arte esorta all’impegno, alla fiducia in se stessi e negli altri, a chiarire le proprie necessità, esorta all’immaginazione e ad assumere dei rischi senza i quali nessuno può sperare di creare un’opera che valga. Siamo ben lontani dalle situazioni ricreative che offre la “partecipazione” tanto sostenuta al giorno d’oggi. in una democrazia, per la quale anche la religione è diventata una questione privata, nessuno ha l’autorità di affermare cosa sia bene o cosa sia giusto. Sta ad ognuno di noi definirli, a meno di ridursi ad un’esistenza che sia retta solamente dal diritto o da regole e determinata dagli sviluppi tecnologici o dalle esigenze dell’economia. Dunque, per testare le proprie scelte, esiste un campo d’azione più appropriato di quello dell’arte, la cui ragion d’essere è quella di inventare le nostre forme di relazione allo spazio e al tempo, a noi stessi e agli altri? Esistono altri ambiti in cui la parola sia altrettanto libera, dove si può essere al- Massimo Bartolini, Laboratorio di Storia e Storie, 2002-2007, Cappella Anselmetti, quartiere Mirafiori Nord, Torino. Photo Giulia Caira Programma Nuovi Commmittenti promosso dalla Fondazione Adriano Olivetti, Roma. trettanto padroni delle proprie azioni e dove il pensiero debba condurre al fare e al realizzare un’opera? L’altro cambiamento di paradigma è che l’azione può svolgersi ovunque sul territorio e che non deve essere gestita o controllata da un’autorità politica o finanziaria ma dagli attori stessi del processo, con l’aiuto di mediatori indipendenti e competenti in materia d’arte. Quanto alla loro azione, essa si concretizza grazie al sostegno di corpi intermedi la cui utilità pubblica e indipendenza sono anch’esse riconosciute. istituzioni in grado di incaricarsi dell’iniziativa privata, di agire sul lungo termine e di assicurare una ridistribuzione delle risorse disponibili che sia sempre oltremodo vicina alla contingenza, al fine di non scoraggiare l’iniziativa e di tener conto dei vincoli specifici di ogni produzione. in questa economia del dono piuttosto che di mercato, le fondazioni e altri grandi mecenati sono chiamati a coprire un ruolo fondamentale, come spesso è stato nella storia. Di fatto, è proprio una grande fondazione, la Fondation de France, che ha assunto un ruolo pionieristico decidendo di attuare il Protocollo dei Nouveaux commanditaires che proponevo come artista. Quanto alle amministrazioni pubbliche, se anche sono poco adatte ad assumersi delle responsabilità del genere, esse possono nondimeno sostenere la missione di interesse generale condotta dai mediatori o contribuire in modo puntuale alla produzione di opere nella forma di un sostegno alla creazione. D’altronde, per mettere non solo nello spazio, ma nella vita pubblica, delle opere che abbiano un significato comune, questa azione offre prospettive nuove a quei luoghi di eccellenza dell’arte che sono i musei, per la nostra società. Molti di essi, aprendosi a tutti i modi della creazione, cominciano a sentire il bisogno di rafforzare la loro missione sociale offrendo al pubblico non più solamente la storia dei nostri grandi gesti, ma anche il servizio di una rete di mediatori che agiscono, sotto la sua egida, fuori dal museo. L’etica che guida le azioni di questi partecipanti è determinante anche per convincere il pubblico a prendere la parola e diventare, infine, attore a parte intera nell’elaborazione della cultura contemporanea; e oltre, un attore della vita pubblica per il bene comune. Emerge così una nuova età della storia dell’arte che potrebbe essere chiamata Arte della Democrazia. François Hers Intervista a cura di Paola Mulas 1. « L’œuvre d’art considérée en tant que bien symbolique n’existe comme telle que pour celui qui détient les moyens de se l’approprier, c’est-à-dire de la déchiffrer. » Bourdieu P., Darbel A. (avec Schnapper D.), L’amour de l’art. Les musées d’art européens et leur public, Paris, Éditions de Minuit, 1966, p. 71 2. L’italia è tra i paesi che lo applicano, con il contributo sinora della Fondazione Olivetti e del collettivo di curatrici a.titolo 3. « Je ne cherche pas la définition. Je tends vers l’infinition ». Braque G., Le Jour et la Nuit, Cahiers 1917-1952, Gallimard, Paris, 1952, p.30 4. Non si contano più i nuovi musei di arte contemporanea, le biennali, i festival, le fiere, etc. 5. www.nouveauxcommanditaires.eu François Hers è un artista concettuale. I suoi interventi hanno assunto varie forme fino a giungere nel 1990 alla definizione del protocollo dei Nouveaux commanditaires di cui è l’ideatore. MU9 Photo André Morin L’architecture c’est toi, you are the building! INTERVISTA A XAVIER DOUROUX Massimiliano Scuderi: Per questo numero di MU6 nomi nazionali e internazionali sono stati invitati a discutere su quale sia oggi la relazione tra contemporaneità e una nuova idea di museo. Relativamente a questo tema il suo lavoro, e quello del Consortium, rappresentano una best practice. Quindi vorremmo capire meglio: come fare un museo? Xavier Douroux: Come fare, questa è la domanda! Una sola domanda e potrei risponderti per dieci pagine… Noi non siamo un museo né abbiamo un’empatia forte con l’idea di museo, che è un’idea comunque in gran parte francese, venuta fuori dai Lumi del XViii secolo e dall’idea di bene comune. La storia del Consortium è una storia che ha una sua peculiarità e anche uno statuto particolare, perché siamo nati prima delle definizioni e delle decisioni istituzionali di creare dei centri d’arte o i FRAC. Esistevamo prima dunque alla base c’è essenzialmente un’avventura umana, e questa dimensione umana è davvero molto importante nel rapporto che ho con il museo. Sono convinto che dentro ci sia allo stesso tempo un’energia personale, individuale (che è molto importante) ma anche un’energia collettiva. Ecco, per me il museo oggi deve essere uno dei luoghi dell’energia collettiva. La nostra storia è fondata su questa dimensione di energia, sulla capacità di mettere insieme le persone, i savoir faire e le intelligenze. Abbiamo creato una sorta di ibrido che è insieme un luogo di produzione, di esposizione ma anche una sorta di piat- MU10 taforma dove avvengono altre attività e che viene ad addizionarsi allo spazio pubblico, allo spazio dell’economia, allo spazio sociale. Un luogo dove siamo in tanti a cooperare, siamo sei direttori, non uno! E già questa è una situazione particolare. MS: Avete molti collaboratori? XD: Non molti, siamo un piccolo team. Ci sono tanti direttori (ride) ma in tutto siamo in quattordici. Le Consortium è una sorta di piattaforma: c’è la casa editrice, les presses du réel, che è proprietà dell’associazione; c’è Anna Sanders Film, che abbiamo creato con Philippe Parreno… e molto altro. Tutte sono situazioni che gravitano intorno all’idea di piattaforma. E dunque questa idea, che è molto deleuziana, è un po’ come un arcipelago, con l’isola principale e le altre piccole isole. MS: Mi interessa capire come è stato possibile realizzare questo progetto, questa piattaforma, a Digione. XD: Oggi lo si può fare ovunque, a Digione, a Pescara… poiché l’ossigeno viene anche da altrove. Ad esempio molte delle nostre attività sono in Corea, in Qatar, in Asia… attività remunerative che apportano denaro e costituiscono la metà del nostro budget, mentre l’altra metà viene da sovvenzioni pubbliche. Ad esempio, stiamo lavorando come consulenti strategici per un nuovo centro in Qatar. Franck (Gautherot, ndr) ad esempio, insieme ad una direttrice del no- stro gruppo, lavora come consulente museografico per un museo coreano. Dunque ci serviamo del nostro savoir faire e dell’esperienza fatta lavorando con numerosi artisti per offrire consulenze e servizi, e ci pagano per questo. L’esempio coreano è interessante per il forte investimento fatto nella creazione di musei che non funzionano, non dal punto di vista gestionale ma intellettualmente. Dunque non offriamo un servizio nel senso propriamente utilitaristico, ma un servizio di concetto, di riflessione. Magari si tratta di un progetto in cui le opere non sono state prese sufficientemente in considerazione. MS: Nouveaux commanditaires ha cambiato il concetto urbano di site specific. Cosa, e come, sta cambiando e cambierà? XD: Oggi il programma dei nuovi committenti è un programma di portata internazionale. Anche in italia ci sono alcune esperienze, con la Fondazione Olivetti e a.titolo, ma è difficile… in Germania il programma è preso in carica dal Goethe institut e svolto in Africa: ovvero il Goethe in Africa si serve del programma per cercare di trovare un legame tra l’arte contemporanea e la popolazione. Qui e là comincia anche negli Stati Uniti… noi sosteniamo queste azioni e cerchiamo di trovare i buoni interlocutori, i buoni dibattiti, cerchiamo di fare entrare questa cosa nella sfera intellettuale e dei pensatori. Ad esempio avremo una piattaforma di dibattito l’anno prossimo a New York, con la Co- lumbia e la New York University. Verrà Bruno Latour, che è un grande sostenitore del progetto, Boris Groys e tante altre persone che verranno per discutere. MS: Crede davvero sia possibile arrivare dappertutto? XD: La difficoltà in italia è che non ci sono strutture come questa, come Le Consortium, per accogliere ed essere la base del programma. in canada, questo è interessante, a Ottawa, il Museo Nazionale del Canada ha votato per diventare la base per i Nouveaux commanditaires nel paese. MS: Hanno istituzionalizzato la loro adesione… XD: Non è sempre facile. Le faccio l’esempio di Torino. Conoscevo molto bene ida Giannelli, poi Andrea Bellini… tuttavia, era impossibile che Rivoli diventasse una base del programma Nouveaux commanditaires, per il contenuto della struttura, lo spirito dell’istituzione etc. Dunque è stato un bene che sia stato un piccolo gruppo di curatrici indipendenti, a.titolo, a proporsi. MS: Per me questo è un discorso molto interessante. A Pescara per vent’anni abbiamo fatto Fuori Uso… XD: Si ne ho sentito parlare. MS: … ma i nostri committenti non hanno mai compreso l’importanza del trasformare la mostra in un processo, un modus operandi. Per questo Nouveaux commanditaires è importante: rappresenta ciò che un museo potrebbe essere oggi: non un contenitore, ma un processo. XD: Esatto. in Francia abbiamo un problema, peculiare ma interessante: quello dei “corpi intermediari”. Prima erano le chiese, i sindacati, le corporazioni… Oggi i sindacati sono culturalmente finiti, le chiese … (ride) e dunque non abbiamo più corpi intermediari. Penso che oggi un museo, che ha la responsabilità di essere un attore che partecipa alla costruzione del bene comune, potrebbe proporsi in nome della cultura e dell’arte nel ruolo di corpo intermediario. Dunque essere utile. Amo molto questa idea dell’essere utile. MS: In Italia, durante gli ultimi dieci anni, la politica ha tagliato i nastri di molti musei, uno per tutti il MAXXI, una white box fatta da Zaha Hadid che poco sembra aver a che fare con l’arte, se non quella frutto del suo disegno. Nello stesso museo e sulla stessa linea la Presidentessa del MAXXI, che appartiene al mondo della politica e non dell’arte. Sembra che la cultura sia, se mi passi il gioco di parole, un ‘problema culturale’ e noi, con questa free press, stiamo cercando di capire come si può intendere. XD: in italia la politica è una presenza ubiquitaria. Così è anche in Francia, anche se forse meno. Negli Stati Uniti ci sono i board of trustees. Sono dei poteri che rispetto, non ho niente contro ma penso che non debbano stare dentro i musei. il museo deve essere un legame tra gli eletti, ad esempio (la democrazia rappresentativa è molto importante); gli agenti economici (che hanno i mezzi ma non possono determinare la politica di un museo perché il museo deve essere un mediatore); il museo ha anche un ruolo importante da giocare in relazione alla comunità (questa parola mi fa un po’ paura) degli artisti, del mondo dell’arte. Ma dobbiamo fare in modo che, con strumenti quali ad esempio Nouveaux commanditaires, siano gli attori della società i primi a parla- re. il che può voler dire che a volte il primo a parlare sia l’artista, oppure il sindaco di un piccolo villaggio, altre volte gli operai di una fabbrica, o i notabili di una città… chi parla per primo? Chi parla di cosa? Comunque, il nostro ruolo è far sì che la conversazione continui, che una conversazione abbia luogo. Questo è il ruolo del museo e alla fine il museo troverà così anche la legittimità di conservare delle opere nella propria collezione: perché quello che rende un museo tale è in fin dei conti la sua collezione. Accanto ad una visione innovativa, c’è anche un lato molto classico che bisogna mantenere: cioè che un museo è anche una collezione che conta delle opere d’arte che dobbiamo proteggere e trasmettere, anche se magari accade che le opere non siano dentro il museo ma in un paesino. Si tratta di questioni importanti anche sul piano filosofico; un amico, Didier Debaise, lavora su questo, ovvero sull’idea che il possesso non sia unicamente la proprietà. MS: Le questioni giuridiche ed economiche sono fondamentali quando parliamo di arte. XD: il background e l’evoluzione giuridica sono fondamentali. Anna Sanders Film, ad esempio, è una società di produzione nel mondo dell’arte (produce i film di Philippe Parreno e Pierre Huyghe) ma ha prodotto anche il film di Apichatpong Weerasethakul, Palma d’Oro a Cannes. Ebbene, oggi Anna Sanders Film ha venduto la propria presenza al Museo di Arte moderna di New York. Una società non la si può vendere ad un museo, non abbiamo venduto le opere… abbiamo venduto la possibilità di mostrare le opere come una presenza, e questo è completamente nuovo. il contratto è magnifico! È la prima volta che c’è un contratto del genere, un po’ come, con i dovuti distinguo, quando Siegelaub inventò il contratto per l’arte concettuale: fece un contratto per quelle opere che sono protocolli, programmi… il contratto firmato per Anna Sanders Film va in quella direzione, non è un contratto per Phillip king, Blue Slicer, Relief, 2010; Spectrum, 2007-2008; Bottom Pink, 2010; Moonstruck, 1983 Le Consortium - Digione. Courtesy l’artista. Photo André Morin la proprietà di un oggetto ma è basato solamente sull’idea di una reciprocità e di un’attività condivisa che porta ad una presenza in una sala. Conduce ad uno scambio economico e ovviamente alla possibilità, in futuro, di fare delle cose insieme. Ed è interessante vedere che sia il museo più grande a fare questo passo: vuol dire che il possesso, in rapporto alla proprietà, può individuare una relazione a degli “oggetti viventi”, alle attività legate a questi oggetti. Tutto questo mi affascina: il museo resta per me un oggetto intellettuale estremamente interessante. MS: Gli interventi del numero che stiamo preparando ruotano intorno ad uno stesso approccio, che è in qualche modo anche il tuo. XD: Perché ora stiamo fronteggiando una guerra! Qui ad esempio, al Consortium: facciamo vedere il lavoro di artisti molto famosi… ma è interessante per esempio vedere Christopher Wool, che è una star del mercato con cui ho lavorato e che si sentiva molto a disagio, sempre, discutere completamente a suo agio con l’artigiano, il mastro vetraio che stava lavorando alle sue opere. Finalmente respirava… io credo che ab- biamo bisogno di questo. Adesso sto lavorando con Oscar Tuazon, Matias Faldbakken … tutti questi artisti sono assolutamente aperti a questo genere di condizioni perché pensano siano importanti anche per loro. E non stiamo facendo interventi sociali, perché il fine è quello di avere delle opere. MS: Parlavamo prima con Franck di queste cose. La mia esperienza con Fuori Uso è stata così: artisti e curatori vivevano fianco a fianco, lavoravano insieme. Appartenevano ad una comunità temporanea in cui si viveva insieme, persino cucinando e dormendo nel luogo in cui si esponeva, trascorrendo molto del tempo insieme, e così il lavoro cambiava… XD: Perché l’arte non è un problema di spazi. Sono le conversazioni a dare la struttura; la buona architettura, oggi, è quella che ha a che fare con gli uomini e con le relazioni. L’architecture c’est toi, you are the building! Xavier Douroux, co-direttore del Consortium di Digione e fondatore della casa editrice Presses du réel, mediatore dell’azione Nouveaux commanditaires, è il primo ad essersi impegnato nella sua messa in opera. Le Consortium - Digione. Mostra Alex israel, 2013. Photo Zarko Vijatovic MU11 ALFREDO PIRRI - PASSI Sala delle Cerimonie L’accesso al museo è una soglia simbolica, una zona di trapasso auto-critico e insieme celebrativo, attraversarla è una cerimonia che accentua la percezione di una dimensione spaziale e temporale irreale ma allo stesso tempo radicalmente e intimamente materiale; forse il congiungimento di questi due estremi è quello che si chiama esperienza (?). Con quest’opera vorrei dare allo spettatore l’impressione che, muovendosi nello spazio, ne possa modificare la visione compiendo una doppia azione contemporanea di demolizione e ricostruzione dell’immagine (anche della propria). La sua esperienza, lo porta a pensare che sia egli stesso soggetto dell’opera e che, sperimentando l’azione del guardarsi capovolto, del sentire quello spazio infinitesimale come una pelle che lo lega e separa dalla propria immagine il motore che lo proietta dentro uno spazio (solo all’apparenza) già conosciuto in precedenza lo conduca a farne parte in maniera “naturale” allo stesso modo di come si fa parte del mondo, allo stesso modo di come l’immagine parrebbe parte del mondo. Piuttosto, stare dentro quest’opera, allontana dall’idea che l’arte si proponga a noi come specchio del mondo poiché, al contrario, quella minuscola, pellicolare, porzione di spazio che divide il proprio piede dal proprio doppio è sufficiente a produrre un romanzo che proietta lo spettatore al centro di una narrazione spezzata che annulla ogni partecipazione consolatoria. Un romanzo che celebra la bellezza (insieme alla sua caducità), la gloria (insieme al suo fallimento), il desiderio (insieme alla sua perdita). L’esperienza di questa narrazione, l’insieme di questi sentimenti e modi di conoscere, le immagini che ne scaturiscono, rendono il passo dello spettatore incerto e simile a quello di chi si trova su un ghiacciaio in liquefazione dove per via dei mutamenti rapidi di temperatura si aprono crepe che ne assottigliano lo spessore permettendo all’acqua sottostante di lambire i piedi facendoci sentire parte di un processo di mutamento e in bilico su di esso. Spettatrici privilegiate e seppure immobili, paritarie con lo spettatore umano, sono le sculture ottocentesche private dei loro basamenti e restituite alla loro dimensione reale, umana. Esse ci appaiono come angeli caduti e responsabili (insieme agli spettatori) della rottura del cielo sotto di noi. Non più specchio prospettico dei nostri sogni, ma luogo di pietra disegnato per accogliere le nostre debolezze dentro una luce differente da quella che ci siamo lasciati alle spalle entrando nel museo. Quella di fuori (o di prima) era luce terrestre, luce della vita, quella di dentro (o di ora) è luce del trapasso verso un luogo dove la distinzione fra mondo e non mondo oppure fra vita e non vita perdono il loro senso abituale. Lo scultore Arturo Martini, col titolo del suo noto testo “Scultura lingua morta”, insisteva sull’urgente bisogno di una fuoriuscita da una visione della scultura che definiva troppo carica di rimpianti per avventurarsi in una dimensione spaziale ai limiti dell’architettura “… fino ad oggi le forme furono fatte consistere in volumi solidi positivi. Penso che forme vere siano invece ideali matrici … ogni seme, a cominciare da quello dell’uomo, ha una certa possibilità di sviluppo, un certo spazio virtuale attorno a sé. La scultura dovrà saper rappresentare questo spazio … ”. io penserei che oltre a guardare al linguaggio della scultura celebrativa come una lingua finita, morta, bisogni pensare alla scultura stessa come “materia” della morte. Materia grazie alla quale la morte, l’assenza, trova accoglienza e forma spaziale. La scultura che si fa spazio, trova quindi nell’atmosfera, nell’aria concava e risuonante che circola fra le cose presenti il suo modo di manifestarsi e farsi rappresentazione. in questo senso la maschera funebre dello scultore Antonio Canova, racchiusa in una teca che la serra al suolo come … l’architettura è l’unica ragione della scultura. Lo spirito dell’architettura è la scultura, e costruzione della scultura è architettura … Arturo Martini, Scultura lingua morta, 1945 un dado sul metallo, evoca un corpo espanso, enorme, virile, convesso, dilaniato e sparso ovunque nelle molte sale del museo, ma qui assente, morto e raccontato da un volto di gesso che tecnicamente è più vicino alla fotografia che alla scultura. Un volto piccolo, umano, che starebbe nella cavità di due mani raccolte a coppa come per raccogliere l’acqua fresca che sgorga dalla fonte. Un volto di gesso attorniato da sculture femminili, infantili e letterarie dallo sguardo chino, che si riguardano nello stagno ghiacciato della loro rappresentazione ritrovando in essa nuova vita in una luce che le accomuna con la vita reale degli spettatori. Alfredo Pirri Alfredo Pirri, Passi, Galleria Nazionale d’Arte Moderna - Roma, 2011. Photo Antonello idini MU13 iL MUSEO E iL TERRiTORiO (A SUD) DI DANIELA BIGI PARLARE DI SUD, E NELLO SPECIFICO DI SUD ITALIANO, SIGNIFICA OGGI RACCONTARE DI UNA CONDIZIONE DEL TUTTO ORIGINALE, INEDITA, TRA LE PIÙ STIMOLANTI CHE SI POSSANO OFFRIRE ALLA SPERIMENTAZIONE DI MODELLI MUSEALI CORAGGIOSI. il dibattito museologico degli ultimi vent’anni, accelerato dalla proliferazione globale dei musei (oltre che dalla nascita dei musei globali), scandito dalla fantasmagorica apparizione dei buildings delle archistar, ossessionato dalla topica del pubblico, attratto dall’articolazione di mirabilanti offerte di servizi, intento a bilanciare istanze difformi come conservazione, interpretazione, valorizzazione, intrattenimento, marketing e produzione di valore, si è inevitabilmente concentrato su una tipologia istituzionale legata alla metropoli di scala mondiale, una tipologia che, come alcuni hanno tempestivamente individuato, altro non era che il precipitato esemplare delle strategie del tardo capitalismo – o, come direbbe qualcun altro, del capitalismo della fase totalitaria. Una tipologia che però non poteva adattarsi a qualsiasi paese, a qualsiasi territorio, un modello incapace di esprimere, o di includere, la vastità potenziale delle esperienze immaginabili. E l’italia si può considerare un esempio calzante delle falle di quel modello, non credo soltanto per un’arretratezza organizzativa o per una inadeguatezza formativa quanto, più probabilmente, per una naturale, fisiologica, resistenza ad una omologazione incondizionata ai flussi globalizzanti, dovuta probabilmente alla sua mai completata trasformazione in un paese moderno, nel senso di quell’occidentalizzazione con la quale certi filosofi intendono la pervasiva/totalizzante/totalitaria dominazione del capitalismo. D’altronde è ormai acquisito che non basta la cifra dell’architetto o la ricetta del progettista/museologo (o addirittura del museografo, come è avvenuto sempre più spesso negli ultimi quindici-vent’anni) a fare di un museo un’istituzione capace di esprimere autenticamente la dimensione culturale di una comunità, di rispondere alle sue istanze di crescita sociale, attrezzata per rileggerne e interrogarne il passato, intenzionata a svilupparne il potenziale creativo e produttivo. Né, per continuare a giustificare l’enorme costo del museo in termini di spesa pubblica, si può perpetrare l’errore della verifica quantitativa dei rientri, tra biglietteria e servizi aggiuntivi. il capestro dell’audience non ha certo salvato la televisione (e continuo a riferirmi soprattutto all’italia) dal progressivo svilimento di contenuti, qualità e autonomia cultura- MU14 le… Anzi, va ricordato che il dibattito interno alla Nouvelle Muséologie ha sottolineato abbastanza presto l’allarmante differenza tra pubblico audience e pubblico comunità1 e credo che, a distanza di qualche decennio, si debba ripartire proprio da quella distinzione e riaffrontare prioritariamente in sede politica la questione cruciale che ne consegue. Tornando al Sud, e alla condizione che esso esprime nella congiuntura storica attuale, bisogna innanzitutto evidenziare che è la prima volta nella storia recente che viene assunto allo stesso tavolo progettuale delle altre aree italiane e non per politically correctness, come è avvenuto per decenni, ma in quanto effettivo portatore di contenuti nuovi, e questo ribaltamento di prospettiva, prima ancora che dai percorsi istituzionali, è desumibile da quelli spontanei, autogestiti, giovanili, basti guardare all’importantissimo lavoro svolto dagli artist run spaces. Lo scenario al quale mi riferisco, di certo inedito rispetto a quello preso in esame negli ultimi decenni dal dibattito museologico (e che nulla ha a che fare anche con quello, pure per qualche verso assimilabile, toccato dagli studi post-coloniali), è quello in cui l’aggiornamento culturale e la determinazione costruttiva dei più giovani si sono innestati in un sistema di valori – e in molti casi in un paesaggio – che ha difeso e custodito l’ancoraggio ad una storia plurimillenaria ove eredità mediterranee, saperi tradizionali, ritualità collettive, colture secolari hanno disegnato e ridisegnato, ininterrottamente, equilibri e squilibri, in una latenza tutt’altro che immobile, tutt’altro che indolente, tutt’altro che inconsapevole. il fatto che oggi, quelle terre, in certi casi ancora a carattere rurale o comunque micro industriale, traboccanti di segni e sapienza antica, meta e approdo di etnie diverse, rappresentino una piattaforma ove esprimere e verificare istanze aggiornate, competenze giovanili acquisite sulla scena internazionale, relazioni intessute su scala globale, costituisce un potenziale che proprio in un momento di acuta crisi valoriale oltre che economica non può sfuggire neppure al più globalizzato degli osservatori. C’è una storia significativa da raccontare in tal senso ed è quella di RiSO - Museo d’arte contemporanea della Sicilia, che all’atto dell’istituzione, nel 2007, ha scelto di do- Massimo Bartolini, Una volta trasparente, performance, Fortezza Carceraria, Ficarra, 2010. Produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo tarsi dell’identità del museo diffuso2, un modello che trova le sue radici nel dibattito francese degli anni settanta e che si struttura proprio a partire da una concezione del pubblico come comunità (e non come audience). Nato su presupposti che l’italia non aveva ancora accolto negli anni della proliferazione dei musei e dei centri per l’arte contemporanea (non dimentichiamo che ancora alla metà degli anni novanta i luoghi istituzionali vocati esclusivamente al contemporaneo in italia erano pochissimi e quindi la nascita e lo sviluppo della maggior parte di essi è avvenuta negli ultimi quindici/venti anni3), gestito per quattro o cinque anni con grande intelligenza degli obiettivi, è stato poi smantellato nel 2012 per funzionamento troppo virtuoso (l’analisi delle ragioni politiche di quello smantellamento necessita di altro spazio e altra sede, ma di certo si rende necessaria, così come si fa urgente una riflessione schietta su quanto sta avvenendo a Rovereto, a Torino, a Bologna, a Roma, a Prato… Se il dibattito museologico non si confronta con il pensiero politico rischia di rimanere sterile esercizio accademico). Quell’idea di museo diffuso nasceva dallo studio e dal rispetto delle peculiarità storiche, culturali, geografiche, economiche di una terra straordinaria e difficile come la Sicilia, e si poneva come possibile modello di sviluppo non attraverso l’imposizione di modelli eteronomi e globalizzati bensì attraverso una sorta di processo maieutico generato da una serie di azioni volte a rileggere e valorizzare il patrimonio culturale isolano attraverso il motore del pensiero e delle metodologie del contemporaneo. il progetto era evidentemente ambizioso e pensato a medio e lungo termine, incardinato all’arte contemporanea per rivolgersi alla cultura in termini estensivi, ancorato ad un edificio cittadino (Palazzo Belmonte Riso a Palermo), quindi con vocazione urbana, ma presente, attraverso attività diversificate e partnership di diversa natura, nell’intera regione, anche nelle aree meno urbanizzate. Le direzioni di lavoro portate avanti in quei pochi ma densi anni di attività, se da una parte hanno seguito un percorso museale tradizionale – dalla nascita di una collezione permanente alla programmazione di una attività espositiva e alla conseguente predisposizione dei servizi connessi, dalla didattica alla caffetteria al bookshop – dall’altra hanno espresso a diversi livelli l’idea che il museo non fosse altro che un dispositivo atto a dar voce alle proposizioni culturali più recenti di una terra che bisognava tornare a considerare come il più importante avamposto mediterraneo in Europa, ma al contempo un volano per il recupero di discorsi interrotti, per la riemersione di testimonianze artistiche d’eccellenza, per la rilettura di storie più o meno lontane nel tempo da sottrarre all’oblio. La prima azione in tal senso è stata quella di ripartire da una sorta di mappatura del presente al fine di meglio comprendere quale futuro poter progettare, e inevitabilmente le prime tre realtà coinvolte in un progetto congiunto sono state Gibellina, Fiumara d’arte e il Museo di Montevergini a Siracusa, realtà che in tempi diversi (rispettivamente gli anni settanta, ottanta e novanta/duemila) e con modalità differenti avevano lottato per l’affermazione del portato artistico contemporaneo. Parallelamente veniva inaugurato uno Sportello dedicato alla scena siciliana emergente (S.A.C.S), pensato come archivio ma anche come una specie di agenzia, volto alla valorizzazione dei giovani artisti siciliani attraverso programmi condivisi con istituzioni straniere (per lo più di area mediterranea). Sulla stessa linea di intervento nascono le prime due mostre a Palazzo Riso, centrate sulla ricognizione delle più importanti col- Flavio Favelli, Alfasud 1x2, 2010, neon e light box Palazzo del Comune Termini imerese (Pa), produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo lezioni d’arte contemporanea della Sicilia. Dunque un museo poco glamour, molto concentrato sulle istanze del suo territorio, ma con una strutturale inclinazione al dialogo internazionale. Mentre realizza queste iniziative RiSO progetta gli step successivi, che vanno dai laboratori scientifici sulle problematiche conservative del Cretto di Burri a Gibellina (museo come attore della conservazione), all’ampliamento della collezione (museo come scrittura della storia), al potenziamento delle attività di SACS (museo come osservatore e promotore delle espressioni più significative del suo tempo), alla messa in atto di una rete di collaborazioni istituzionali mediterranee (mostre/scambio con le Biennali di Atene, istanbul e Marrakesh, ovvero museo come attore di una politica culturale internazionale), all’ideazione di un progetto su scala regionale, “Germogli di Riso”, che prevedeva la circuitazione delle opere della collezione (di livello e di provenienza locale, nazionale e internazionale purché per qualche motivo collegate alla Sicilia, per motivi ideativi, o realizzativi, o per committenza, o per tematica, e via dicendo) in aree mai toccate dalla ricerca artistica contemporanea, lontane dagli itinerari consolidati, ma custodi di patrimoni architettonici superbi da restituire alla collettività (museo come volano turistico, economico, ma anche di ricerca e di occupazione in territori sfuggiti agli ingranaggi dello sviluppo regionale). Nel frattempo, di mese in mese, si stringe la collaborazione con le istituzioni siciliane del contemporaneo, fondazioni, gallerie, accademie, università, associazioni, con coinvolgimenti di vario genere e a vario livello, mentre una sorta di house organ, i “Quaderni di Riso/Annex”, enucleano le tematiche portanti del lavoro museale, raccontano i progetti in corso e ospitano contributi di esperti nazionali. in pochi anni RiSO mette in piedi e valorizza il sistema dell’arte siciliano, mai esistito in precedenza, permette alla comunità dell’arte di costituirsi come tale, di riconoscersi, di sostenersi in una azione condivisa, difende e diffonde il pensiero contemporaneo. intanto l’attenzione al territorio cresce, si mette a fuoco, e presto si traduce nell’attivazione di un programma di residenze studiato con l’obiettivo di portare gli artisti in luoghi distanti dalle mete turistiche abituali, di inserirli all’interno delle comunità locali come interlocutori e attivatori di processi di conoscenza, di invitarli alla lettura del paesaggio nella sua duplice dimensione, visibile e invisibile, e all’interazione concreta con le emergenze architettoniche locali. il progetto4 – che ha interessato Enna, Termini imerese, Capo d’Orlando, Ficarra, ovvero centri urbani differenti per dimensione demografica, estensione territoriale, importanza storica, consistenza economica, condizioni di sviluppo – ha avuto un riscontro straordinario sia sul piano del coinvolgimento locale sia nei risultati artistici conseguiti, riattivando iniziative culturali abbandonate da tempo (per esempio il Premio Vita e Paesaggio a Capo d’Orlando, dove ha lavorato Hans Schabus), rilanciando l’impegno di gruppi di lavoro intenti già da anni nella rilettura del proprio territorio (come il Museo Lucio Piccolo di Ficarra, al quale si è dedicato Massimo Bartolini), facendo riaffiorare brani importanti ma rimossi della storia locale recente (come è avvenuto ad opera di Marinella Senatore che ha lavorato con le comunità di minatori dei dintorni di Enna), attivando il dibattito civile intorno a questioni collettive (come nel caso di Flavio Favelli e Zafos Xagoraris che si sono infiltrati nel tessuto critico di Termini imerese a ridosso della chiusura degli stabilimenti Fiat). Un progetto di forte coesione tra museo, artisti, istituzioni e attori locali, i cui risultati sono stati poi ricongiunti, ampliati e ridiscussi, nel5 la sede ufficiale di Palazzo Riso , con un movimento complesso che nelle sue varie fasi – ascolto, ricerca, collaborazione, sintesi, valorizzazione, ampliamento – ha testimoniato dell’importanza di una regia unitaria e condivisa capace di stimolare e altresì di accreditare processi locali di crescita che rischierebbero di esaurirsi senza l’inserimento in un corso più ampio e ambizioso di sviluppo, così come istanze di ricerca che troppo facilmente potrebbero ricadere dentro il recinto di una autoreferenzialità erudita. Progetti analoghi, nelle stagioni successive, avrebbero dovuto approfondire ed estendere questa tipologia di intervento, ma proprio a quel punto è arrivato l’intervento politico ad arrestare la macchina, ormai ben lanciata, del museo diffuso. La politica non ha capito, o non ha voluto capire. RiSO ha chiuso i battenti, e quando li ha riaperti, qualche mese dopo, si trovato ad indossare la veste usurata della vecchia inutile istituzione museale di provincia. Zafos Xagoraris, Indicatore, ETiCO_F, Termini imerese, 2010. produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo. Photo Stefania Zocco 1. Torna a farne menzione di recente Joelle Le Marec nel suo Public et musées. La confiance éprouvée, L’Harmattan, Paris, 2007 2. La progettazione e la conduzione di RiSO dall’apertura nel 2007 alla chiusura nel 2012, al di là delle varie figure dell’amministrazione regionale coinvolte nel corso del tempo e dei curatori di volta in volta incaricati, vanno definitivamente ricondotti a Renato Quaglia, direttore artistico, che ne ha progettato l’identità come museo diffuso, e Antonella Amorelli, che lo ha fortemente voluto e coordinato in tutta la complessità progettuale che lo ha caratterizzato. 3. Mi sembra utile a tal fine rimandare ad un numero speciale di “Arte e Critica” (n.13, settembre 1997) che riportava gli interventi di una giornata di studi tenutasi a Bologna nel gen- naio dello stesso anno, dedicata al “Ruolo delle Gallerie Pubbliche nell’arte contemporanea”. 4. Curato da chi scrive, il progetto si intitolava ETICO_F. 5 movimenti sul paesaggio, e si svolse nel luglio 2010. (Catalogo Mondadori Electa) 5. Sempre per la cura di chi scrive, la mostra che riunì a RiSO le opere e gli artisti di ETICO_F insieme ad altri interventi progettati ad hoc intorno alle stesse tematiche ebbe come titolo Sotto quale cielo?, e si tenne dal 10 giugno al 31 dicembre del 2011 (Catalogo Mondadori Electa) Daniela Bigi è co-direttrice della rivista Arte e Critica e docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo. MU15 I POLITICI NON SI FIDANO DELL’ARTE PERCHÉ L’ARTE NON SI FIDA DI LORO Gunilla klingberg, Mantric Mutation, veduta dell’installazione. Fuori Uso 2006, Altered States – Are you experienced, Ex Cofa Pescara. Photo Salvatore Prestifilippo Massimiliano Scuderi: Questo numero s’intitola, come sai, il museo di MU6, per capire quali possano essere le caratteristiche di un museo veramente contemporaneo. Partiamo dalla tua esperienza con Fuoriuso, che nasce dalla carenza di spazi per l’arte contemporanea a Pescara. Quello che vorrei capire è com’è nata l’idea e quando? Cesare Manzo: Ho iniziato ad organizzare Fuori Uso perché non vedevo nessuna possibilità per la città, che aveva avuto in un recente passato un interessante storia grazie ad alcune gallerie. Ad un certo punto mi sono ritrovato da solo, ma ero riuscito ad aggregare tanti giovani che mi seguivano. io avevo una piccola galleria ai tempi e non sapevo come fare. C’era bisogno di fare delle grandi mostre, ma non c’era un museo o comunque qualsiasi altro spazio utile. MS: Cosa intendi per grandi mostre? CM: Mostre, anche di giovani, ma importanti. Cioè occasioni per cui i giovani si impegnassero, assumendosene la responsabilità. i grandi artisti non venivano qui. Oltretutto c’era il timore di invitarli ad esporre in spazi poco convenzionali. MS: Quindi, se ho capito bene, la tua è stata quasi una “chiamata alle armi” o, meglio, la richiesta di un’assunzione di responsabilità, più che la necessità di inaugurare un contenitore espositivo? CM: Del contenitore non mi fregava niente. Certo se ce ne fosse stato uno e fosse stato possibile utilizzarlo… ma la scommessa era più importante: fare vedere alle persone, del posto e non solo, come fare delle mostre interessanti in assenza di un museo. Cioè tutto tirato a lucido ecc. Un quadro bello o interessante poteva essere attaccato ad una parete non pulita. MS: È l’opera che crea lo spazio… CM: Certamente. Ero molto convinto di questa idea e pensavo che veramente fosse rivoluzionaria. in quanto in italia, ai tempi, non c’erano tanti musei d’arte contemporanea. il rapporto con gli artisti e i critici mi aiutò a capire che impegno mi aspettava. Ma tutto partiva sempre dal trovare uno spazio che avesse un carattere interessante. MS: Ma Fuoriuso iniziò prima del novanta? CM: Si, ad Ortona. Rimisi in sesto un Palazzo in cui non facevano alcuna attività. Lo realizzai grazie ai privati, gente generosa. Erano anche tempi floridi. La prima mostra fu curata da Giorgio Cortenova che però non capì lo spirito dell’iniziativa e, come spesso capita, si trincerò dentro la sua mostra escludendo tutti. A me la cosa non piacque e lasciai perdere. Poi chiamai Achille Bonito Oliva. MS: Hai lavorato molto sul territorio? CM: Certo. Ho lavorato tantissimo, modestamente ero molto bravo! (ride) Poi vidi l’edificio dell’Aurum progettato da Michelucci ed ebbi una folgorazione! La prima mostra del novanta la curai direttamente io, ci misi dentro alcuni giovani artisti, una mostra di Schifano e altre cose. Ci avevano dato lo spazio per soli sette giorni e poi venne prorogata, tanta era stata l’affluenza di pubblico. Ero rimasto molto colpito dalla mostra di ABO a Montepulciano, con dei lavori site-specific. Nel 1991 mi recai da lui a chiedergli la mostra e le persone erano incredule, tutti pensavano che rifiutasse. Non avevo una lira, ma mi impegnai molto a fargli capire bene quello che avevo in testa. Achille mi disse che c’era la guerra del Golfo ed io risposi: meglio! Sarebbe stato un modo interessante per impegnarsi ed essere presenti. MS: Quello che mi interesserebbe capire bene con te è che quindi non è importante prendere uno spazio abbandonato per farci dentro le mostre, è importante il modo in cui lo fai. Una presa di posizione precisa, una dichiarazione sul fare arte, che colloca il pensare all’arte attraverso il pensiero stesso dell’arte. CM: Esattamente. Le persone che più hanno contribuito sono stati Achille Bonito Oliva e Giacinto di Pietrantonio. Con loro è stato molto facile lavorare e “giocare”, perché avevano capito lo spirito di Fuori Uso. Ogni tanto ci si aggiungeva un po’ di teatro, la musica, in modo che le persone del teatro e della musica venissero a vedere le mostre. E qui si incominciarono ad intrecciare alcune situazioni innovative. Anche il cinema con Enrico Ghezzi che stava fino alle cinque del mattino a proiettare i film, ti ricordi? MS: Certo. Questo secondo me rappresenta la tua vera forza ovvero la capacità di aggregare tante persone diverse, anche non vicine all’arte, in modo semplice. Da lì sono nate tante esperienze importanti e A destra Cesare Manzo MU16 UN DiALOGO CON CESARE MANZO, DA GiORNALAiO A GALLERiSTA, S’iNVENTò NEGLi ANNi NOVANTA FUORi USO, UNA MOSTRA D’ARTE iNTERNAZiONALE ORGANiZZATA iN SPAZi ABBANDONATi tante competenze. Fuori Uso è stato una sorta di incubatore, non è stata solo una mostra, giusto? CM: Chiamavo le persone a divertirsi con l’arte. E li invitavo a dare una mano, per entrare in questo mondo. MS: Una formula vincente è stata forse quella di accostare figure professionali a neofiti dell’arte. Ma dopo cos’è successo? CM: La cosa è diventata sempre più importante, ma la politica non ha capito. MS: Com’è possibile che una manifestazione così interessante negli anni non abbia trovato una sponda o amministratori in grado di cavalcare un’occasione vera per il territorio? Pensa in Francia a Jacques Lang. CM: Qualcuno c’è stato. Gli altri non avevano interesse. MS: Fuori Uso è stato importante perché è riuscito a giustapporre ambienti diversi, culturali e non. Cioè hai fatto capire che l’arte non è una cosa per pochi, ma neanche qualcosa da consumare o la cui comprensione sia necessariamente immediata a tutti. Tu parli di responsabilità, la necessità di fare arte con una visione alta, non dico idealistica, ma rigorosa. Ma ora il Fuori Uso non si fa più? CM: Si. MS: Pensando anche all’arte come qualcosa in grado di aggregare le persone, le energie, quale potrebbe essere un modello di museo veramente contemporaneo? CM: Bella domanda… il segreto, che vale per chiunque, è di fare propria l’occasione che si presenta, di farsi coinvolgere per potersi esprimere. ABO e Giacinto hanno capito questo, anche Bourriaud, anche tu. Altri se la giocavano solo per un tornaconto personale. MS: L’arte, quindi, come luogo della generosità? CM: Certamente. Anche molti giovani ne hanno capito il senso e sono riusciti a non esagerare. MS: Ovvero? CM: Sai chi esagera nel mondo dell’arte? chi pensa di farsi vedere a tutti i costi, chi crede di non farcela e allora esagera. Chi non esagera ha fatto opere meravigliose. MS: Tipo? fammi un esempio che ti viene dal cuore? CM: Cucchi e Chia quando si misero a dipingere e chiamarono anche Montesano a farlo con loro, nel Fuori Uso del ‘95. Quando artisti diversi, per idee o età, si sono uniti e hanno fatto una magia. Dei veri e propri miracoli. Getulio Alviani che disse di voler fare una “cosettina piccola, piccola…” e poi ci son volute venti persone per dipingere un tunnel. Era un modo per coinvolgere le persone e far loro vedere come nasce un pensiero. MS: Forse servirebbe anche adesso? CM: Anche più di ieri. MS: Ma forse oggi si è persa quell’idea di comunità, presi come capita più da se stessi che dagli altri. Sarebbe possibile indurre ancora le persone a sentirsi parte di un progetto comune? CM: io ho ancora questa visione e sono convinto che mai come in questo momento storico ce ne sia bisogno. Basterebbe solo dire “chi vuole venire?” e ti trovi tutta la città a darti una mano. E solo quando c’è questa generosità vengono fuori le cose importanti. MS: Insomma come ti immagini un museo contemporaneo? CM: il luogo non è importante, ma non si deve fare in una grande città. Non si deve fare a Roma, a Milano, a Bologna o a Torino. Perché ce l’hanno già e fanno grandi disastri. Hanno tutto, ma non riescono mai a metterci quel piacere del fare. Ti mollano la “botta” con i quadri del Metropolitan di New York, ma questo non è detto che ti restituisca una grande emozione. il fascino sta nel saper mostrare tutta l’energia che l’artista ci mette per fare un’opera. MS: Negli ultimi dieci anni c’è stata la “necessità” di inaugurare musei d’arte contemporanea. E se andiamo a vedere, in Italia dietro ogni angolo si nasconde un museo. Tu che ne pensi? CM: Ne hanno prodotti in abbondanza. Potrebbero essere necessari se avessero una certa freschezza, invece è tutto collegato al mercato, con gli interventi a ‘gamba tesa’ dei galleristi. E lì casca l’asino! Perché c’è un interesse economico reale. MS: Progetti per il futuro? CM: Salvare la galleria. E poi sto ancora cercando un luogo dove poter fare delle cose fisse, un vero luogo per l’arte contemporanea. MS: Ti capita ancora di perderti e scoprire dei luoghi per caso? CM: Si, ancora adesso mi capita. Conclusa l’intervista mi allontano dalla galleria, ma subito vengo richiamato da Manzo, anzi da Cesare. Come al solito, dopo aver ripensato alle cose che ci eravamo appena detti e volendo precisare altro: “Fuori Uso non era istituzionale per cui nessun politico, nessuno, poteva metterci le mani sopra o te lo poteva togliere. Si decideva con gli artisti e con i critici e basta. Perché di litigate, e tu ne sai qualcosa, ce ne erano tante, non eravamo d’accordo su tutto e su tutti.” MS: Quindi cosa mi vuoi dire, che l’arte appartiene all’arte e non alla politica? CM: L’arte non appartiene assolutamente alla politica. E per questo il politico ha paura dell’arte, perché l’arte fa quello che gli pare. Ecco perché. Non si fidano dell’arte, ne hanno paura. Non si fidano dell’arte perché è l’arte a non fidarsi di loro. PARCO NOMADE QUANDO iL MUSEO PUò SPOSTARSi E METTERE RADiCi iN ALTRi LUOGHi … Più “FERTiLi” INTERVISTA A FRANCESCO NUCCI Massimiliano Scuderi: Nata da una tua idea, sulla base dell’esperienza maturata con la Fondazione Volume!, il Parco Nomade è un progetto pensato su un’area di 40 ettari, una riserva naturale, vicino al Corviale a Roma. Un’idea che pone al centro il ruolo dell’arte nel rapporto con il territorio. Cosa ti ha spinto ad intraprendere questo progetto, ce ne puoi parlare? Francesco Nucci: Fin da subito ho pensato che tutto quello che si faceva dentro VOLUME! dovesse avere una sua continuazione all’esterno: dare un certo grado di permanenza a quello che, per statuto, non può che essere effimero. L’artista quando viene a VOLUME! cambia gli spazi, crea ambienti ed emozioni nuove. L’idea di portare tutto questo fuori e, addirittura, farlo viaggiare, è stata una necessità. Se un artista e un architetto lavorano insieme alla realizzazione del “modulo-opera” da collocare all’aperto, questa creazione può rigenerare un territorio, senza stravolgerlo ma ponendosi come dispositivo di attivazione. Nel caso del progetto a Corviale l’idea era quella di intervenire sull’Agro Romano, valorizzarlo mantenendo inalterato il suo ecosistema. MS: In Italia quali sono state le difficoltà che hai incontrato dal punto di vista burocratico e culturale, in un Paese che attraverso la riforma Gelmini elimina l’insegnamento della storia dell’arte in alcuni istituti superiori? Quali fraintendimenti, se ci sono stati, hai incontrato durante tutto l’iter realizzativo? FN: Le difficoltà sono stata enormi, soprattutto perché è facile con questo progetto suscitare entusiasmo… a parole! Più difficile è trovare nel concreto, sia da par- te delle istituzioni che da parte di sponsor privati, la volontà di sostenerlo. Gli artisti e gli architetti a cui abbiamo chiesto di collaborare si sono dimostrati disponibilissimi e propositivi: abbiamo già i progetti di 10 moduli pronti per essere realizzati. La Fondazione VOLUME! però non ha alle spalle grosse aziende, banche o il mondo dell’industria. il nostro patrimonio è fondamentalmente un patrimonio di idee, relazioni umane, entusiasmo e, perché no, visionarietà. Per me che sono un neurochirurgo l’arte e la cultura sono sempre stati un investimento culturale, mai economico. Purtroppo la visione economicistica si è ormai insinuata nelle nostre menti e anche nelle istituzioni. Diventa sempre più difficile trovare compagni di viaggio. A Roma poi portare avanti progetti come questo, che richiede sinergie su molti livelli, diventa quasi impossibile per i motivi che tutti sappiamo o immaginiamo, senza stare qui ad elencarli tutti. MS: A che punto è il Parco Nomade, qual è lo stato di avanzamento del tuo progetto e quale il futuro, in Italia o all’estero? FN: Proprio a causa delle difficoltà trovate a Roma non escludo che il progetto possa articolarsi su più fronti, in italia e in altre nazioni. Abbiamo già stabilito diversi contatti in proposito. All’estero se hai una buona idea le istituzioni fanno di tutto per farla propria e realizzarla; in italia a limite avviene solo la prima fase. Entro il 2014 porremo fine a questa fase di stallo e chiariremo tempi e luoghi di realizzazione. Proprio perché nomade, il Parco può spostarsi e mettere radici in altri luoghi … più “fertili”. Progetto del modulo GiUSEPPE GALLO/MASSiMiLiANO FUkSAS iN ALTO: Progetto di João Nunes MU17 DIEGO ESPOSITO, Aquila, 2013, Resina colorata - Edizione per MU6, 40 esemplari L’opera ha una circonferenza di 36 cm e uno spessore massimo di 2 cm. Al centro c’è l’impronta di un uovo portato da un’aquila in volo dal Gran Sasso. Per la rinascita di L’AQUILA. Michelangelo Pistoletto, L’universo speculare, Nuovo Palazzo di Giustizia - Pescara, 2004. Photo Ela Bialkowska e Attilio Maranzano La storia dello sviluppo locale a base culturale in italia è lastricata di belle intenzioni e di tanti fallimenti, per lo più dovuti ad una carenza di cultura amministrativa che, nei casi migliori, ha avuto il merito di dare avvio ad un percorso di reale di cambiamento ma ha perso per strada il coraggio di perseguirlo fino in fondo, e nei casi peggiori lo ha pregiudizialmente rifiutato preferendo rifugiarsi nelle formule più immediatamente remunerative, dal punto di vista dell’immagine e del consenso, dei grandi eventi e del taglio dei nastri di strutture destinate prima o poi a soccombere sotto la scure della sostenibilità finanziaria. in italia mancano dunque esempi compiuti di sviluppo a base culturale, anche se certamente in alcuni casi, ad esempio Torino, si è fatta molta strada e si sono in ogni caso ottenuti effetti permanenti non trascurabili. Ma cosa vuol dire in ultima analisi un modello ‘compiuto’? L’aspetto più importante da considerare è l’auto-sostenibilità del processo, che non vuol dire l’indipendenza dalle risorse pubbliche (alcune attività, soprattutto in settori come le arti visive, il patrimonio storico-artistico e lo spettacolo dal vivo non sono semplicemente non sono possibili senza risorse pubbliche), ma la sostenibilità politica dell’impiego di risorse pubbliche nello sviluppo a base culturale. il che vuol dire soprattutto una comunità capace di riconoscere e apprezzare l’importanza di una simile traiettoria di sviluppo in tutte le sue implicazioni, comprese quelle economiche, sociali e di sviluppo umano, senza cadere nelle solite trappole retoriche della contrapposizione tra soldi alla cultura e soldi agli asili o ai servizi sociali. Questo tipo di espedienti viene invece usato correntemente nell’arena del dibattito politico nel nostro paese per manipolare strumentalmente l’opinione pubblica, e il problema è che proprio perché manca quasi completamente una reale consapevolezza del contributo della cultura nel garantire, tra le altre cose, obiettivi fondamentali quali la qualità della vita, la coesione sociale e la capacità competitiva, tali espedienti si rivelano normalmente piuttosto efficaci. il punto è che queste condizioni di sostenibilità mancano in italia in primo luogo a livello nazionale – non a caso il nostro paese è l’ultimo nell’Europa a 28 per la spesa pubblica in istruzione e cultura: un dato quantomeno sconcertante che però, eloquentemente, non ha scosso più di tanto un’opinione pubblica forse ormai rassegnata allo stillicidio di primati negativi inanellati dal nostro paese negli ultimi anni. E questo significa quindi che se qualcosa deve cambiare, questo può presumibilmente avvenire a partire da esperienze a livello locale rese possibili da una nuova generazione di amministratori disposti ad investire tempo ed attenzione nella comprensione del rapporto spesso contro intuitivo ed apparentemente elusivo tra cultura e sviluppo, a partire dall’aspetto fondamentale, e in italia particolarmente trascurato, della partecipazione culturale attiva. Capita così che anche quando si studiano gli esempi più interessanti, non li si comprendono proprio perché si tende a leggerne in maniera distorta soltanto gli aspetti che rispondono alla logica già familiare: il caso più eclatante è naturalmente quello di Bilbao, che porta tuttora molti amministratori locali a credere che la chiave del successo sia stata la costruzione di una architettura-feticcio capace di attirare folle di turisti, e non la creazione di un LA CULTURA COME MOTORE D’iNNOVAZiONE PER iL TERRiTORiO DI PIERLUIGI SACCO sistema di produzione fondato sul capability building e sullo stimolo dell’imprenditoria culturale e creativa. Per capire queste dinamiche non si può decidere con approssimazione o per sentito dire come si fa normalmente in italia quando si parla di politiche culturali. Occorre capire e conoscere davvero ciò di cui si parla. La nuova generazione di amministratori locali italiani che vorrà raccogliere davvero questa sfida deve quindi prepararsi a fare quello che fanno molti dei loro colleghi stranieri: documentarsi, dedicare tempo, riflettere. Senza una cultura amministrativa adeguata, lo sviluppo a base culturale in italia non decollerà mai. E sarebbe probabilmente l’occasione perduta che rimpiangeremmo di più negli anni a venire. Perché negli anni a venire, che ci crediate o no, sarà soprattutto la cultura a fare la differenza, tra città e città, tra regione e regione, tra paese e paese. Pierluigi Sacco è Professore Ordinario di Economia della Cultura, con delega rettorale all’innovazione e alle relazioni internazionali, e coordinatore del corso di laurea magistrale in Arte, Patrimoni e Mercati presso lo IULM di Milano. Scrive per il Sole 24 Ore e per Flash Art. MU19 GiACiNTO Di PiETRANTONiO DIRETTORE GAMEC - BERGAMO Massimiliano Scuderi: Cosa significa dirigere un museo in Italia e, per di più, in tempo di crisi? Giacinto Di Pietrantonio: Per chi, come me, ha lavorato in condizioni estreme come Fuori Uso la crisi non può che prenderla con filosofia nel senso di crisis, quindi un’opportunità, un’occasione per la rinascita. Quindi, senza piangerci addosso ne abbiamo approfittato per riorganizzare la nostra programmazione, anche nel senso di aumentare collaborazioni con altre istituzioni pubbliche e private. Paradossalmente con meno risorse economiche abbiamo aumentate le attività. insomma, abbiamo seguito la massima di Mies van der Rohe: “il meno è più.” MS: Quanto è importante il rapporto tra struttura museale e territorio? GDP: Per vocazione la GAMeC è un museo che si rivolge a tutti, quindi all’italia e all’estero, potendo tra l’altro Bergamo vantare il terzo aeroporto italiano di Orio Al Serio. Tuttavia, è naturale che si abbia una particolare attenzione al territorio e per questo facciamo molto lavoro con e sulle scuole di ogni ordine e grado, dall’asilo all’università. Con quest’ultima dallo scorso anno abbiamo attivato anche una lavoro di partenariato chiamato Art fellowship con seminari sull’arte che la GAMeC offre ai corsi universitari, lo scorso anno se ne attivarono con una decina di corsi e questo nuovo anno accademico siamo in aumento già del 50%. Quello che possiamo osservare è che la maggior parte del pubblico della GAMeC è un pubblico proveniente da Bergamo e provincia, poi da Milano e man mano che ci allontaniamo da Bergamo percentualmente il pubblico diminuisce, ma questo accade per tutti i musei. Ma consentimi di spiegare ancora meglio questo, perché è uno dei nostri punti di forza. Come detto ciò avviene soprattutto attraverso la formazione con le scuole ed in questo i servizi educativi hanno un’importanza fondamentale. Ma anche attraverso la relazione con i collezionisti che a Bergamo sono numerosi e di grande qualità internazionale. Poi abbiamo attivato il Club Gamec (amici della GAMEC) che raccoglie circa 200 soci. Poi con società di consulenza di comunicazione come la Multiconsult con un’attività di consulenza reciproca, quindi a costo zero. Ma vorrei segnalare che tra le tante iniziative i nostri Servizi Educativi hanno creato, in aggiunta alle preesistenti guide GAMeC, già dal 2006, i mediatori museali che sono guide di 30 nazionalità diverse presenti nel nostro territorio, un unicum, con lo scopo di portare al museo i loro connazionali e di fargli da guida nella loro lingua. Quindi la GAMeC, credo caso unico al mondo, oltre all’italiano offre visite guidate in 30 lingue diverse a cui dal nuovo anno si aggiungerà anche la possibilità di avere le visite in dialetto bergamasco. D’altra parte per me questo non è una novità assoluta, come sai nel 1995 pubblicai un testo in dialetto abruzzese sul quotidiano d’Abruzzo “il Centro”, testo relativa al lavoro di Enzo Cucchi in mostra allora da Cesare Manzo. Ma tornando alla GAMeC e alla relazione con il territorio vorrei citare un brano dell’intervista rilasciata dalla mediatrice libanese Maedeh Ziarati alla rivista online dei nostri Servizi Educativi “Zona Franca” a cui racconta la sua prima visita guidata: “La mia prima visita l’ho fatta per 15 donne arabe/marocchine. Tutte erano alla loro prima visita ad un museo. Ho dovuto andarle a prendere e accompagnarle durante tutto il tragitto verso il museo. Sentivo la loro agitazione e curiosità. il personale della GAMeC è stato meraviglioso, le ha accolte molto bene e si sono sentite a loro agio. Sentivo la loro agitazione svanire man mano che la visita proseguiva. Tutto era bello, tutto nuovo, tutto meritava la loro attenzione. Ma davanti all’opera di Pistoletto Venere degli stracci le donne si sono impietrite ad un primo momento!!! Mi raccomandavano di non dire niente ai mariti!!! Ma dopo un attimo d’imbarazzo la complicità femminile si è fatta avanti e sono cominciati gli scherzi e il divertimento vero e proprio. È come se quest’opera le avesse fatte sentire a loro agio!!! Strano ma vero. Sono ritornate a casa contentissime e mi hanno ringraziato molto. il fatto che mi ha reso ulteriormente contenta sono state le mail di complimenti che ho ricevuto da alcuni educatori, mediatori e formatori che erano lì al momento della mia visita e sono rimasti colpiti dalle espressioni di felicità delle mie donne. L’hanno descritta come una visita ‘storica’. Queste donne sono tornate altre due volte al museo; una volta con i mariti e un’altra volta con un’altra educatrice del museo.” Un altro episodio che mi piacerebbe raccontare è quello di gruppo di donne marocchine sempre alla loro prima visita ad un museo e particolarmente di una di loro che è rimasta colpita in un modo esagerato dall’opera di Dorazio “Verso il raffreddamento”. Non staccava l’occhio e rimaneva sempre davanti al quadro a guardarlo e mi faceva delle domande per cercare di capirlo. Abbiamo fatto tutto il percorso ma lei continuava a ritornare ogni tanto per guardarlo di nuovo. Di sera mi chiama per ringraziarmi per averle regalato un’emozione indimenticabile e per aver spezzato la monotonia della sua vita in un modo bello. Le sue parole mi hanno fatto capire come l’arte può accorciare le distanze fra le persone a prescindere dalle loro appartenenza. MS: Come intendi il rapporto tra patrimonio e contemporaneità? GDP: Beh, anche qui siamo avanti, perché non intendiamo, ma facciamo. Vedi, oggi sono in molti a tentare questo rapporto e a vantarlo come una novità, ma noi in GAMeC -grazie anche al fatto che il nostro museo è parte del sistema Carrara composta dalla Pinacoteca e dall’Accademia di Belle Arti e che quindi posso disporre di un patrimonio storico non indifferente che va dal medioevo all’ottocento con importanti opere come Raffello, Pisanello, Mantegna, Lotto per non fare che qualche nomegià dalla prima mostra, che feci dopo un mese che ero stato nominato nel gennaio 2001 e chiamata “Dinamiche della Vita dell’Arte”, esponevo a confronto opere dal medioevo fino al 2001, dimostrando la stretta relazione che corre nell’arte, perché, come diceva Gino De Dominicis: “L’arte è tutta contemporanea”. Esperimento che abbiamo poi ripetuto con la mostra “Esposizione Universale” nella primavera del 2009 sempre con opere antiche, moderne e contemporanee e che nell’autunno esportammo alla Fondazione Proa di Buenos Aires. Qui, come scrissero i giornali locali, la mostra ebbe un tale impatto da cambiare la prospettiva della curatela in Argentina. Ora stiamo lavorando ad una mostra che inauguriamo il 6 febbraio 2014 intitolata “Modernità della Memoria dell’Arte”, in cui confrontiamo ancora una volta le diverse epoche storiche a partire dal Quattrocento ad oggi con autori come Bernini e Beecroft e Pistoletto, o Lorenzo Costa, Leonardo e allievi con Pirri per non fare che qualche esempio, il resto dei confronti lo scoprirete visitando la mostra. MS: Se ci sono o ci sono stati, quali sono i musei che reputi più interessanti? GDP: Tralasciando l’ovvietà di supermusei come la Tate Modern di Londra, citerei la Whitechapel sempre a Londra nella direzione di iwona Blazwick, o lo SMAk di Gent nella gestione Jan Hoet, ma ora anche Philippe van Cauteren si difende bene. Da noi è più difficile dire per la situazione ballerina in cui si trovano i musei, ad esempio Pietromarchi, ma anche Luca Massimo Barbero stavano facendo un buon lavoro con il MACRO, ma la situazione politica li esonera senza dargli il tempo di consolidare il museo. Qui da noi, non parlo per me, spesso non si è ancora cominciato un lavoro che già bisogna ricominciare daccapo. Oppure Torino considerata l’avanguardia e un’isola felice in senso museale che si trova a vivere una situazione di stallo, perché anche qui la politica si è ultimamente messa di traverso, mettendosi in testa di voler fare una superfondazione che dovrebbe accorpare sotto una direzione unica competenze museali e non diverse tra loro come la GAM con il Castello di Rivoli e la fiera d’arte Artissima. Gli esempi potrebbero continuare e non per difendere la categoria, ma credo che in una situazione come questa tutti i direttori italiani fanno dei miracoli per far si che il nostro sistema museale non scompaia. di ricerca fisica del CERN di Ginevra e quello LNGS del Gran Sasso. Mi dirai, ma che c’entra la fisica con l’arte? C’entra perché, a parte che sono due sistemi immaginativi astratti, dimostra che da noi, soprattutto nella politica, spesso si mettono persone al posto sbagliato. La storia dell’arte non dovrebbe mai essere eliminata in nessuna nazione al mondo, ma farlo in italia che l’Unesco considera depositaria del 50/60 % del patrimonio artistico dell’umanità vuol dire commettere un vero e proprio delitto. Ma questo fatto, unito a quello dell’eliminazione dei laboratori dalle scuole d’arte la dice lunga sul progetto d’eliminazione che è volto a mio avviso a ridurre quelle materie legate all’arte e quindi alla creatività. Sono materie che fanno sí che la gente pensi, perché essere creativi vuol dire volere che le cose cambino e questo non sta bene a chi vuole che le cose restino come sono, per meglio controllarci. MS: In Italia dietro ogni angolo si nasconde un museo. Secondo te questo rappresenta un valore indiscutibile o bisognerebbe ripensare la logica dei sistemi museali in un’ottica sostenibile sia per impiego di risorse che per una migliore gestione delle reti? GDP: Non vorrei fraintendere, ma la tua domanda fa supporre che questo sia una cosa italiana, perché dell’estero spesso si conoscono solo i grandi musei come la già citata Tate, il Pompidou, eccetera, ma guarda che all’estero ogni piccola cittadina ha uno o più musei e/o istituzioni d’arte contemporanea e nessuno si pone la questione, perché sono coscienti che la loro presenza è fondamentale per la crescita della cittadinanza. Ora questo non può che essere lo stesso per l’italia anche perché, ad esempio, l’italia è molto più comunale ed identitaria in tal senso della Francia, o della Germania e quindi non può che esprimere queste località, il che rappresenta un valore mondiale, località e non localismo, perché come diceva Andy Warhol è il locale che può aspirare all’universale. MS: Qual è secondo te il ruolo che attende al museo del futuro o come auspichi che possa diventare? GDP: Come diceva il corrispondente da Londra Sandro Paternostro: “Ecco ora la domanda delle cento pistole.” Ma ti rispondo con quanto mi disse il rappresentante della Tenaris Dalmine, socio fondatore GAMeC insieme al Comune di Bergamo: Noi facciamo tubi e apparentemente l’arte con noi non c’entrerebbe un tubo, ma noi siamo convinti che un museo, soprattutto d’arte contemporanea come la GAMeC, è utile alla crescita culturale dei cittadini e noi come industria del futuro, come industria tecnologicamente avanzata abbiamo bisogno che ci sia un innalzamento del livello d’istruzione. Quindi direi che un museo deve comunque mantenere una parte della sua vocazione illuminista da cui è nato e ampliare la sua vocazione in linea con i mutamenti dell’arte, perché è sempre l’arte a dettare le regole come a trasgredirle. MS: Provincia o metropoli. Ammettendo che possa dipendere anche da una questione di scala, qual è l’ambito in cui si può fare meglio il tuo lavoro? GDP: Come dici non è una questione di scala, ma in italia la piccola provincia è il grande motore, anche perché un po’ più al riparo dalle questioni destabilizzanti di cui dicevamo sopra. Ma in senso generale credo che il buon lavoro si possa e si debba fare ovunque e comunque. MS: La riforma Gelmini ha eliminato la storia dell’arte dall’insegnamento di alcuni istituti superiori. Cosa ne pensi e quanto conta la formazione e la didattica? GDP: Che dire di chi dice che c’è una galleria tra il laboratorio Lo staff della GAMeC all’interno dell’opera di Luciano Fabro 1962 (Habitat), 1981. Photo Maria Zanchi - Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo MU20 DIRETTORI A CONFRONTO CRiSTiANA COLLU DIRETTRICE MART - ROVERETO Photo Carlo Furgeri Gilbert Massimiliano Scuderi: Cosa significa dirigere un museo in Italia e, per di più, in tempo di crisi? Cristiana Collu: Probabilmente è fondamentale non entrare troppo nel ruolo, non credere alla crisi e nello stesso tempo non fare finta che non esista, in quanto la crisi è una situazione così prossima alla normalità che è davvero difficile distinguerle. Bisogna provare, almeno provare, a portare determinazione e leggerezza, bisogna farsi carico di tutta la responsabilità e condividere tutto il merito se ve ne fosse. MS: Quanto è importante il rapporto tra struttura museale e territorio? CC: Cruciale sempre perché parlare di territorio significa parlare di comunità, dunque di appartenenza e appropriazione. La risonanza che questi due fattori costruiscono è una sorta di scudo magnetico per il museo, lo rafforza e lo rende indispensabile. Si crea un’osmosi che genera continuamente nuovo senso, da identità e vigore all’istituzione MS: Come intendi il rapporto tra patrimonio e contemporaneità? CC: La vedo così: il patrimonio è contemporaneità, la contemporaneità è già patrimonio. Se non c’è questa uguaglianza e questa equivalenza significa che qualcosa non funziona nel nostro modo di guardare le cose, nel nostro modo di guardare al tempo e alla gestione dell’eredità del passato e per il futuro, a partire da adesso. MS: Se ci sono o ci sono stati, quali sono i musei che reputi più interessanti? CC: Ci sono dei musei sorprendenti, è questa la cosa più interessante dei musei, alcuni lo sono per la loro collezione, altri per la loro attività, alcuni sempre, altri ogni tanto, ma rispondono a questa logica persino quando sono stanchi e dimenticati, ma si lasciano ogni volta riscoprire. MS: Provincia o metropoli. Ammettendo che possa dipendere anche da una questione di scala, qual è l’ambito in cui si può fare meglio il tuo lavoro? CC: Si può sempre fare bene, nonostante sia evidente che ci sono condizioni che rendano più semplice questa possibilità. MS: La riforma Gelmini ha eliminato la storia dell’arte dall’insegnamento di alcuni istituti superiori. Cosa ne pensi e quanto conta la formazione e la didattica? CC: La mia esperienza personale dice che il mio incontro con la Storia dell’Arte come materia di insegnamento in un liceo classico ha fatto la differenza, in qualche misura e in un modo che definirei carsico. La frequentazione del tema e la passione trasmessa da chi insegna, prima o poi si fanno vive con effetti solitamente positivi. un’ottica sostenibile sia per impiego di risorse che per una migliore gestione delle reti? CC: A me questa idea piace, mi sembra un invito a guardare, non solo l’arte, ma tutto in ottica diversa, tutto ha bisogno di essere guardato con occhi nuovi ogni giorno, c’e tanta bellezza che ancora deve essere riconosciuta e che aspetta un nuovo canone. La frase ha infatti una ambiguità che poi la domanda tenta di sciogliere. Sulla seconda parte dunque credo che si tratti invece di individuare una visione di fondo e l’applicazione di buone pratiche gestionali che rendano più composto e efficiente questo sistema così come tanti altri. Ma il sistema, come sappiamo, genera sempre l’antisistema. La questione è la gestione della complessità e delle risorse necessarie per conservare e produrre valore, patrimonio, innovazione. MS: Qual è secondo te il ruolo che attende al museo del futuro o come auspichi che possa diventare? CC: il museo ha tanto da fare se vuole un futuro, come tutti noi del resto, se non ha le carte per essere un baluardo inespugnabile, allora deve camminare sulla terra leggero, sperimentare, essere coscienzioso e responsabile, capace di tradurre le istanze del proprio tempo e non avere paura di premere sull’acceleratore. Deve osare pensare altrimenti. Provarci? MS: In Italia dietro ogni angolo si nasconde un museo. Secondo te questo rappresenta un valore indiscutibile o bisognerebbe ripensare la logica dei sistemi museali in Mart, Rovereto (Tn). Photo Fernando Guerra Mart, Rovereto (Tn). Photo Fernando Guerra MU21 IL MUSEO E I SUOI PUBBLICI: ESPRIMERSI PER IMPARARE Ma ai musei interessa davvero il proprio pubblico? Posta così la domanda appare provocatoria. Spiego meglio: le istituzioni museali, che nascono – come da definizione – per essere a servizio della società, conteggiano i visitatori in termini numerici o ne hanno a cuore la comprensione, il piacere, l’arricchimento personale, insomma l’apprendimento? A ben guardare è sempre più crescente l’attenzione che i musei rivolgono ai propri pubblici con percorsi educativi, laboratori non solo per le scuole ma anche per gli adulti, lectures, ma spesso si tratta di eventi occasionali, che sono imparentati con la divulgazione invece che con la didattica. Sono, insomma, situazioni estemporanee, che richiamano alla mente l’interrogativo di Bordieu che si chiedeva se il museo fosse un’istituzione colta per un’élite colta. Eppure, a mettere il naso fuori dall’italia, ci si accorge che Paesi come la Gran Bretagna o la Francia hanno una tradizione pluridecennale di studi sui pubblici e, addirittura, sui non-pubblici. Nel 1994 Hooper Greenhill scriveva che bastava fare un po’ di ricerca sul campo per rendersi conto di quanto il museo fosse marginale nella vita della maggior parte delle persone. Barriere di natura sociale, culturale, economica, ma anche la sovrabbondanza di attività con cui occupare il tempo libero ostacolano la lettura del museo e del patrimonio quali occasioni privilegiate in cui apprendere e crescere. E allora sono le istituzioni a dover uscire da se stesse. il Brussels Museums MU22 Council ha ideato uno dei progetti più entusiasmanti e originali degli ultimi anni. Si tratta di MUSEUMTALkS, una piattaforma multimediale gratuita che contiene oltre 150 brevi registrazioni in cui visitatori comuni raccontano la propria esperienza di visita in un museo o le proprie impressioni riguardo un’opera scelta. Ad oggi sono 43 i musei che si possono visitare attraverso il parere di qualcuno che c’è già stato e oltre 25 le lingue dei contributi audio da scaricare o ascoltare sul sito www.museumtalks.be. il progetto è sorretto dal principio dello scambio: i file possono essere ascoltati da tutti e tutti possono registrare un commento audio semplicemente inviando una mail all’indirizzo [email protected]. Si tratta di una strategia che parla di contemporaneità, nell’uso che fa della tecnologia, e che ha tutti gli ingredienti per il successo: democratizzazione della cultura, condivisione, compartecipazione del pubblico nella costruzione dei saperi che non sono detenuti esclusivamente dall’istituzione culturale ma sono i prodotti di uno scambio. Molti i musei che predispongono on line materiali di approfondimento scaricabili gratuitamente, come i dossier pedagogici del Centre Pompidou che contengono descrizioni delle opere, biografie degli artisti e contestualizzazioni storico-critiche utili a fornire al pubblico gli strumenti per una lettura autonoma delle opere. Sempre a Parigi il Palais de Tokyo ha ideato il progetto This is my Palais: in occasione delle diverse mostre viene chiesto a un personaggio del mondo dell’arte contemporanea – regista, artista, critico – di descrivere il proprio personale percorso di visita, scegliendo le opere che hanno catturato la sua attenzione, condividendo con il pubblico pensieri e suggestioni. in italia dal sito del MAXXi si possono scaricare le MAXXi ZOOM, schede-focus sugli artisti nella collezione del museo che si chiudono con domande o esercizi per il pubblico, pensando al munariano “se faccio capisco”. Ma la cura che i musei devono al proprio pubblico dovrebbe essere spesa in egual misura nei confronti del proprio non-pubblico. È necessario che le istituzioni culturali si aprano alla società e si chiedano le ragioni per le quali molte categorie di persone non visitano i musei. Proprio nel solco della convinzione che nell’arte risieda un potenziale per migliorare la vita di ciascuno sono nati progetti di vera e propria azione sociale. È il caso del MoMA, ad esempio, che offre tutte le attività didattiche anche in lingua dei segni, per non vedenti, con dispositivi di amplificazione per persone ipoacusiche, e che ha uno speciale programma educativo per persone affette da Alzheimer. Di grande interesse è anche il progetto Dall’ospedale al museo che il Reina Sofia realizza in collaborazione con l’Ospedale Psichiatrico Puerta de Hierro de Majadahonda. Un gruppo di disabili mentali è coinvolto in attività educative nelle sale del museo e i risultati mostrano che il contatto con le opere è in grado di migliorare la qualità delle vita dei partecipanti. E visto che il pubblico è formato anche dai giovani artisti, i musei confezionano per loro incontri e dibattiti con altri colleghi già riconosciuti nel sistema dell’arte. Ma se questo non bastasse sono gli stessi artisti di fama internazionale che si sostituiscono alle istituzioni e creano scuole o vere e proprie botteghe dal sapore rinascimentale. Certo, il sospetto che in queste esperienze ci sia una buona dose di autoreferenzialità si fa concreto quando, per esempio, si viene a sapere che il college che Marina Abramovic sta facendo costruire da Rem koolhaas a New York si chiamerà Marina Abramovic institute, ma accanto a questa esperienza ce ne sono altre più “aperte”. È il caso dall’accademia Mass di Alessandria d’Egitto fondata da Wael Shawky o della scuola progettata da Ryan Gander in Gran Bretagna. Resta indubbio che in questa grande partita il ruolo da regista deve essere assunto dalle istituzioni museali che, prima dei numeri di biglietteria e marketing, devono ricordare che la loro identità è anzitutto educativa e che la loro ragione di vita risiede nell’essere a servizio della società e del suo sviluppo. E noi, pubblico, dobbiamo acquisire familiarità con i musei, frequentarli, usarli come una delle tante occasioni che la vita ci offre per crescere nella consapevolezza di noi stessi e del nostro posto nel mondo contemporaneo. Antonella Muzi CONDIVIDERE IL PATRIMONIO DEL MUSEO: LE SPERiMENTAZiONi DEL RiJkSMUSEUM Di AMSTERDAM DI RAFFAELLA MORSELLI Museums and the web, organizzazione americana che sotto questa sigla si occupa di analizzare il rapporto tra il museo e la sua audience, di nuove tecnologie applicate ai musei, di accessibilità digitale dei musei da almeno un decennio, pone tra i suoi obbiettivi lo studio dell’interattività del sito web dei musei. Nelle sue Conference annuali organizzate in tutto il mondo (l’ultima, nel 2013, è stata a Portland, negli Stati Uniti, la prossima sarà a Firenze), sollecita la partecipazione dei dipartimenti Multimedia dei musei di ogni ordine, grado e genere, e dei singoli studiosi, generando un dibattito assai proficuo sul rapporto tra l’utente fruitore e il museo stesso. Moltissimi sono i case studies presentati nelle relazioni, le applicazioni tecnologiche, le pratiche sociali sperimentate da tutti i musei del mondo per essere attivi e presenti sul web, andando incontro alle esigenze degli utenti, sempre più esigenti e differenziati nelle richieste. Basti pensare che grandi musei come il Louvre di Parigi hanno istituito, ormai da alcuni anni, dei dipartimenti ad hoc dedicati al multimedia in cui teams di designers, projects manager, storici, traduttori, sviluppatori di sistemi esplorano le nuove tecnologie per rendere il museo accessibile fisicamente e intellettualmente. L’obbiettivo è elaborare strategie per creare un link tra il museo e il suo pubblico. Viviamo nella società dell’obsolescenza e proprio i portali web, da cui si accede per informarsi sul museo, invecchiano nel momento stesso in cui vengono creati. E proprio qui nasce l’ossimoro tra museo storico e rete. Una collezione sedimentata nel tempo che, soprattutto in Europa, vive da secoli entro le stesse mura cambiando pochissimi tratti del suo sistema museografico/museologico, procedendo lenta nel tempo, trova nelle moderne tecnologie l’accelerazione sistematica del proprio divenire. Un sistema di metadata è dunque necessario per poter usufruire da lontano dei tesori contenuti nello scrigno che li protegge, e tale struttura semantica necessita di essere ridisegnata in continuazione per assecondare i cambiamenti d’approccio culturali che la nostra società impone. il primo ingresso al museo non avviene più attraverso un viaggio catartico, cui erano sottoposti, per esempio, i viaggiatori del grand tour alla fine del Settecento, che varcavano, timidi, portoni monumentali; l’ingresso ora è virtuale e avviene attraverso una rete e una connessione. Sembrerebbe ovvio che per oltrepassare la quarta dimensione non si debba transitare attraverso una soglia del tempo, e che il visitatore non si aspetti di trovarsi di fronte a una serie d’immagini che non può possedere, ne’ percorrere virtualmente, anche con visioni fotografiche a 360°, le stanze di un museo. Eppure questa situazione è quella più consueta per un sito di un museo, almeno fino all’inizio del XXi secolo. L’analisi attenta delle soluzioni create per l’accesso ai musei storici on-line ha dimostrato che l’utente ha necessità di possedere l’oggetto, di poterne scaricare l’immagine per archiviarlo in una propria cartella, di fruirne non contestualmente alla consultazione del sito. Ha messo in luce, peraltro, le differenti tipologie di consumatori: dal semplice visitatore occasionale a quello che opziona i soli capolavori, dalla scuola che ha bisogno di un percorso didattico calibrato, all’appassionato che vuole leggere la scheda e conoscere la bibliografia di un singolo oggetto. La sperimentazione più aggiornata, e non ancora obsolescente, è offerta da un sito e da una ricerca creativa che corrisponde a un antico museo appena riaperto al pubblico. il 13 aprile 2013 uno dei musei più importanti per la conoscenza del patrimonio culturale europeo, il Rijksmuseum di Amsterdam, si è offerto al pubblico in una nuova veste antica ma contemporanea. La struttura, progettata nel XiX secolo in stile neogotico, e ospitante più di 125000 opere di tutte le tipologie in più di 80 gallerie, dopo 10 anni di restauri e riadattamenti, si presenta ora nella sua antica contemporaneità. A tale interpretazione museologica e museografica corrisponde un sito ancora più sorprendente. il Rijkstudio richiede la registrazione, ma appena varcata la soglia, si è veramente proprietari virtuali delle opere esibite ad Amsterdam. L’utente può collezionare oggetti salvando l’intera opera d’arte sul proprio computer, offerta in altissima definizione senza limiti di copyright se non se ne fa un uso commerciale, o delimitarla in un singolo, stupefacente, particolare. Può crearsi la propria cartella e archiviare le selezioni per il futuro. Le opere possono essere stampate su qualsiasi materiale e utilizzate per creare un prodotto unico: un tatuaggio, la decorazione di una moto, il portasapone. infine qualsiasi oggetto scelto può essere condiviso sui social networks. 125000 opere che escono dal museo e circolano sulla rete, pronte per essere commentate. Ovviamente l’utente viene avvertito tramite e-mail di novità e di altre iniziative che il museo inventa. Ma i creativi olandesi sono andati oltre questa sfida: hanno inventato il RiJksmuseum Award. Chiunque abbia utilizzato un’immagine del museo per applicarla a un oggetto può partecipare: il vincitore dell’idea migliore potrà vedere commercializzato, nel bookshop interno del museo e on-line, il prodotto inventato. L’utente diventa parte del sistema museo. Raffaella Morselli è Professore Ordinario di Storia dell'Arte Moderna presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Teramo. MU23 Being for somebody IL MUSEO COME LUOGO DI PRATICHE QUOTIDIANE E COINVOLGIMENTO DI ANTONELLA BRUZZESE Uno dei capitoli del libro di Stephen E. Weil, Making museums matter (2002), si intitola “From being about something to being for somebody”. Nonostante l’oggetto del capitolo fossero le trasformazioni avvenute a partire dagli anni ‘80 nei musei americani, il concetto chiave della sua riflessione può essere facilmente estesa ad altri contesti e riguarda il passaggio da una concezione del museo come luogo di conservazione del patrimonio storico e artistico a luogo di impresa sociale in grado di coinvolgere un numero ampio ed eterogeneo di persone. “Senza valore sociale e capacità di incidere nella vita della società il museo è nulla”, sostiene il museologo, proponendo un modo radicalmente differente di intendere il ruolo dell’istituzione museale, analogo a quello che David Fleming - direttore dei musei nazionali di Liverpool – ha definito in tempi più recenti “museo democratico” (2008). il Tensta konsthall di Stoccolma è un’istituzione culturale localizzata in un quartiere periferico che presenta un’alta percentuale di immigrazione prevalentemente di origine turca e che tradizionalmente svolge un ruolo di animazione culturale e sociale in un contesto problematico. Una recente serie di conferenze si interrogava su cosa possono fare oggi le istituzioni artistiche. in una di queste, Chris Dercon, attuale direttore della Tate Modern di Londra, ha messo a fuoco la diversa centralità che l’audience, il pubblico, ha assunto oggi. Se in passato poteva essere considerato quasi una “seccatura” necessaria che doveva interferire il meno possibile con l’algida fruizione dell’opera d’arte e, più di recente, è stato considerato una minaccia a causa delle pressanti richieste degli sponsor di avere visibilità e grandi numeri mal sopportati dagli enti museali, oggi, sostiene, siamo di fronte ad una fase di maggiore equilibrio, in cui i visitatori sono in qualche misura degli stakeholder, parti in causa, portatori di interesse con cui trovare nuove forme di collaborazione1. La centralità del visitatore e la necessità di ripensare alla relazione tra istituzioni museali e fruizione sono temi attuali rilevanti anche per le loro implicazioni urbane e territoriali. Mi limito a citarne tre: per il ruolo che i musei possono giocare nella definizione dello spazio pubblico, per come possono contribuire alla tutela di patrimonio e memorie storiche, in generale, per le forme di radicamento al territorio che possono realizzare. Musei per qualcuno, “democratici” e nei quali le comunità locali sono coinvolte pur con ruoli diversi, sono alcune caratteristiche che si possono ascrivere a due istituzioni museali italiane pubbliche molto differenti tra di loro per statuto, contesto geografico, contenuti, dimensioni e obiettivi. Ma che tuttavia consentono di esemplificare due modi, per certi versi opposti ma altrettanto significativi, di instaurare una relazione con i rispettivi contesti e con le pratiche quotidiane, rispondendo ciascuno a suo modo alla domanda posta nei seminari del Tensta konsthall “how can art institutions be a productive part of civil society?”. IL MUSEO COME LUOGO DI PRATICHE QUOTIDIANE. Esterno: Sul piazzale di mattoni rossi, di fronte all’edificio ci sono circa quindici bambini di età variabile dai tre ai 12 anni. Sono con i genitori e disegnano a terra con dei gessetti seguendo le istruzioni di un gioco collettivo. Usano quello spazio collettivamente, disegnando il suolo, toccandolo, modificandolo seppure in maniera effimera2. Interno 1: Di fronte al bancone del piccolo locale alcune persone chiedono un caffè. Altre, sedute ai tavolini, bevono, chiacchierano, progettano che fare dopo o semplicemente si riscaldano prendendo tempo. Hanno fatto un giro e questa è il luogo della sosta prima di ritornare a casa o andare a fare altro. È un luogo chiuso ma funziona come punto di incontro. Interno 2. Venti ragazzi occupano il grande spazio aperto di fronte all’ingresso. Hanno con sé libri, computer, cuffie per isolarsi o sentire musica di sottofondo. Hanno spostato sedie e alcuni tavolini per stare più comodi: per isolarsi, appoggiare le loro cose o poter stare vicini ai compagni. Studiano, alcuni chiacchierano, navigano in internet in quella che è diventata la loro aula studio. Queste tre situazioni descrivono tre ambienti del museo Maga di Gallarate, una città di 50.000 abitanti in provincia di Varese, in una domenica pomeriggio di fine Novembre. Sono tre ambienti “accessori” del museo: il piazzale, il bar e la hall che Marti Guixè ha progettato. Sono tre ambienti complementari agli spazi del museo, dove si trova la collezione e che ospitano le mostre temporanee che tuttavia riescono a diventarne l’anima e a dare la possibilità al museo di diventare altro. Uno spazio pubblico, condiviso, da usare, di cui ci si può appropriare, facendolo diventare parte di pratiche quotidiane (studiare, far giocare i bambini, prendere un thè). il Maga ha una storia del tutto particolare, il suo radicamento al territorio è parte della sua storia costitutiva. Nel 1950, subito dopo la guerra un gruppo di cittadini animati da una grande fiducia nei confronti del valore dell’arte e della cultura, istituisce un premio per le arti visive3 che prevede l’acquisizione delle opere vincitrici e la progressiva costruzione di una collezione permanente. È una piccola comunità locale che inizia a promuovere la collezione, un dipartimento educativo che eroga servizi per circa 10.000 persone con laboratori e attività per famiglie, che si struttura come fondazione di cui il Comune è socio di maggioranza e che nel 2005 attraverso finanziamenti pubblici realizza la sede del Museo4. CONTROCANTO: LE PRATICHE QUOTIDIANE DIVENTANO MUSEO. La Val Taleggio è una piccola valle, perpendicolare alla Val Brembana sopra Bergamo, distante dai principali flussi turistici. Qui nel 2008 è stato istituito un Ecomuseo5. in alcune baite recuperate, si mostra il procedimento per la stagionatura dello Strachitunt il formaggio della valle; itinerari e bacheche forniscono spiegazioni su luoghi e tradizioni - costruttive, sociali e religiose; volontari competenti e fieri di quella storia che è la loro storia accompagnano e illustrano dettagli e storie. L’Ecomuseo della Val Taleggio è uno dei molti che si potrebbe citare. L’istituzione di questo tipo di musei è nata in Francia negli anni ‘70 dalle riflessioni di Hugues De Varine e George Henry Rivière e affonda le proprie radici in tutte quelle esperienze che hanno fatto della cultura materiale e delle tradizioni locali l’oggetto da osservare, conservare e far conoscere. Con una differenza sostanziale, tuttavia, perché, come viene precisato dall’iRES Piemonte (Maggi, Murtas 2003), l’ecomuseo è una iniziativa museale dietro cui sta un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio. in questi casi non solo le pratiche quotidiane tradizionali diventano i contenuti di un museo diffuso, ma i soggetti e le modalità del coinvolgimento sono di altra natura. Chi abita non è solo custode della tradizione, ma promotore del museo e soggetto attivo per la sua tutela e diffusione. Se gli ecomusei si sono diffusi in ambiti prevalentemente rurali, altre esperienze si collocano su un solco analogo ma in ambienti urbani. Foresta Nascosta, a San Giuliano Milanese6, è un esempio di un “museo” temporaneo, certamente non istituzionalizzato, reso possibile attraverso il coinvolgimento degli abitanti dei quartieri che hanno raccolto memorie e storie personali che hanno in questo modo contribuito a far diventare patrimonio condiviso, allestendole ad uso degli stessi e di un pubblico più allargato. il Maga e l’Ecomuseo raccontano storie diverse, con livelli di complessità che non è possibile affrontare in questa sede. Tuttavia, in entrambe il museo è l’esito di un coinvolgimento e di un “commitment” della comunità locale; tenta di incarnare una dimensione di servizio e di costruire una relazione di “necessità” con il contesto entro cui si trova, che va oltre il suo fondamentale e imprescindibile valore culturale. Ma che proprio dalla complementarietà con altri aspetti può risultare rafforzato. A Gallarate lo spazio museale nelle sue diverse articolazioni è divenuto luogo di vita di alcuni gallaratesi: è un vero e proprio spazio pubblico in cui si può andare a vedere che succede, a fare qualcosa per conto proprio, a usufruire di servizi e offerte. A patto che ci sia sufficiente capacità di lavorare sulle dimensioni dell’accessibilità (in termini spaziale e di cura degli orari); della flessibilità degli usi (spazi “vaghi” che possano essere reinterpretati dalle esigenze degli utenti); della diversificazione dell’offerta di iniziative e mostre e attività (garantendo il delicato equilibrio tra democratizzazione e qualità dell’offerta) per tentare di radicare una nuova cultura dello spazio pubblico che può ritrovarsi non solo nelle piazze o nei centri commerciali ma anche in istituzioni pubbliche culturali come avviene comunemente in altri contesti del nord Europa. L’ecomuseo mostra come storie personali possono diventare storie collettive che vale la pena conservare, tramandare e rendere accessibili attraverso l’impegno di tutta una comunità. in questo caso, andando ancora oltre l’auspicio di Weil: non solo being for somebody (con tutto il suo portato di servizi e attività e nuovi spazi per la comunità) ma with somebody. 1. What does an art institution do? Ciclo di seminari tenutosi al Tensta konsthall di Stoccolma tra il 2011 e il 2012 promossi da CuratorLab, BA and MA Art in the Public Realm, konstfack and Tensta konsthall. Seminar 3: Size Matters February 2012– con Chris Dercon, Gabi Ngcobo, kim Einarsson - visibile in www.tenstakonsthall.se/uploads/47-120202-What-does-an-art-inst-doEnglish.pdf 2. Le famiglie in quell’occasione - giorno di riapertura del Museo dopo i lavori di ristrutturazione - stavano giocando a UP@GiOTTO, un gioco collettivo ideato da Alessandro Ceresoli e gruppo A12 con il coordinamento di Rossana Ciocca. www.museomaga.it/en/didattica/117/UP_GiOTTO 3. Si veda www.premiogallarate.it; www.museomaga.it 4. Chi scrive desidera ringraziare Alessandro Castiglioni del Dipartimento Educativo del Museo Maga per le informazioni fornite. 5. L’Ecomuseo “Val Taleggio – Civiltà del Taleggio, dello Strachitunt e delle Baite tipiche” è stato riconosciuto da Regione Lombardia con d.g.r. n. Viii/7873 del 30 luglio 2008 assieme ad altri 17 ecomusei lombardi, che hanno costituito la Rete Ecomusei Lombardia. Si veda www.ecomuseovaltaleggio.it. 6. Foresta nascosta è un progetto di Matteo Balduzzi, Daniele Cologna e Stefano Laffi, promosso dalla Provincia di Milano e dal Comune di San Giuliano Milanese. www.forestanascosta.net Antonella Bruzzese è architetto, docente e ricercatrice presso il Politecnico di Milano, dove insegna Urbanistica e Urban Design. È membro fondatore di gruppoA12, con cui ha partecipato – con progetti e installazioni - a mostre in Italia e all’estero. Museo Maga, Gallarate (Va). Photo Riccardo Carabelli MU24 ARCHITETTI E COMMITTENTI DI FRANCESCO GAROFALO Garofalo Miura Architetti, Temporary contemporary nella ex Caserma Montello, via Guido Reni, Roma 2001 La crisi che attraversiamo risuona delle lamentazioni sulla scarsa attenzione alla cultura, la mancanza di investimenti, la necessità di promuovere la creatività. Poiché tali invocazioni resteranno inascoltate, con ogni probabilità ancora per un po’, penso che sarebbe utile approfittarne per fare un bilancio. Questo intervento ne è solo l’abbozzo quindici anni trascorsi dal 1998. È una data arbitraria, un punto di osservazione alquanto personale. Rimettendo in ordine l’archivio per il nuovo sito internet dello studio, ho scoperto di avere fatto quarantotto progetti in questi quindici anni: dodici di essi, esattamente un quarto, hanno riguardato spazi espositivi, e più raramente musei. Questo fa di me e Sharon Miura, contitolare dello studio, progettisti non particolarmente prolifici e specializzati. Tuttavia, in cinque casi mi è successo di fare anche un lavoro diverso, più affine a quello del committente. Partendo dalla fine degli anni novanta, questo secondo lavoro ha riguardato il Centro per le Arti Contemporanee, che poi sarebbe diventato il Maxxi, e la Galleria Nazionale d’arte Moderna, entrambi a Roma, La Pinacoteca di Brera a Milano e due nuovi musei, uno abortito – in Calabria, e uno avviato a incerta realizzazione a Nuoro in Sardegna. in questi ultimi due, per strano che possa sembrare, ho svolto con altri bravissimi colleghi (in un caso Mauro Saito, nell’altro Vallifuoco, Pani, Steingut), sia il ruolo di progettista che di committente; ciò nel senso che le istituzioni chiedevano a noi di definire missione, contenuti, e perfino gestione dei musei. Tornando all’insieme dei dodici progetti, per la metà si è trattato di concorsi di cui il meno che si possa dire è che chi li ha promossi non aveva una idea chiara, per un motivo o per l’altro, di cosa stesse facendo. E infatti, forse solo uno di questi, il Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara, vedrà la luce grazie alla leva rappresentata dal tema scottante, ma senza che gli equivoci in cui è avvolto siano stati chiariti. Solo per fare un accenno, si trattava di mettere il museo in un banale carcere degli anni dieci del novecento, che però con la persecuzione degli ebrei non ha avuto niente a che fare. La bizzarra interferenza reclusiva dei due programmi era presentata con imbarazzo agli architetti chiamati a progettare, invitandoli a risolvere il problema con il ricorso alla propria “creatività”. Dunque si trattava quasi sempre di iniziative “dall’alto”, indifferenti ai contenuti, se non come risposta alla lamentazione di cui sopra – fare qualcosa per la cultura – e rispondenti alle più svariate vocazioni e ambizioni locali, con una delega agli architetti di riempirne il vuoto con delle immagini. Gli stessi architetti che poi vengono, magari giustamente, accusati di protagonismo e prevaricazione sugli innocenti protagonisti del lavoro curatoriale e artistico. Fanno eccezione due casi, uno in positivo e uno in negativo: il Maxxi di Zaha Hadid e l’ampliamento della Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roger Diener. Sul primo tornerò brevemente; il secondo un contenuto ce lo aveva eccome, ma è stato vanificato dopo avere speso ingenti risorse. Si potrebbe dire che sono stato sfortunato o che ho fatto delle scelte sbagliate nel mio lavoro. E allora è necessario allargare lo sguardo al secondo cerchio di questo bilancio. Partirei da quattro progetti realizzati che coincidono con una istituzione dotata di acronimo, secondo l’uso invalso a livello globale: Maxxi, Macro, Mart, Museion. i risultati architettonici sono variabili, e ammetto di non essere un fan di nessuno dei quattro. Nonostante la loro diversità, mi sembrano tutti curiosamente datati, frutto di un’incarnazione monumentale compensativa della debolezza della istituzione. La cosa che mi colpisce di più è la corrispondenza tra il grado di “stabilità” e di sicurezza di ciascuno dei quattro musei, e quelle del contesto di riferimento. Non vorrei ripetere un luogo comune, quello per cui in italia il direttore del museo rientra nello spoil system municipale. Lo considero un po’ un fatto di costume, una troppo comoda immagine della degenerazione politico-amministrativa, quando è piuttosto il segno della gracilità delle istituzioni culturali. Milano è invece diventata l’epicentro dell’incompiutezza. Anche se Brera aprirà un cantiere, il tentativo di affidare, prima a Renzo Piano e poi a Daniel Libeskind, un museo dai contorni indefiniti rimane il segno più evidente di questo quindicennio, fino al tentativo di Stefano Boeri, probabilmente giusto ma tardivo e destinato alla sconfitta, di riciclare per l’arte contemporanea il progetto di David Chipperfield per l’ex Ansaldo. Ai lettori di questa rivista mi posso limitare a ricordare i guai del Madre di Napoli, la cancella- zione dell’ambizioso museo di Cagliari progettato da Zaha Hadid, ma anche il non realizzato ampliamento del Man a Nuoro. Un ultimo tentativo affrontato con scarsa convinzione da un gruppo di concorrenti di tutto rispetto, un concorso per un museo a Mestre che cerca di distogliere l’attenzione dalla eccessiva offerta di Venezia, si è svolto in un clima fuori stagione nel 2010, ma forse andrà avanti. il bilancio non sarebbe completo se non dicessi di una serie di tentativi per lo più andati in crisi o soffocati nella culla, di cui gli autori presenti in questo fascicolo sarebbero più capaci di me di raccontare le storie. Mi riferisco alle iniziative spesso identificate con un curatore, di Siena, Trento, Siracusa e altri luoghi, qualcuno ancora attivo a dispetto della difficoltà di trovare risorse. il solo fenomeno che sembra davvero in controtendenza è quello delle fondazioni private. Che piaccia o no, ognuna di esse sa cosa vuole fare, organizza i propri programmi, si rivolge a un pubblico. Questo è il comune denominatore, con le dovute differenze di scala, di Prada, Sandretto, Trussardi, Ratti, Depart, Pitti immagine (soprattutto negli anni in cui è stata diretta da Maria Luisa Frisa). Questo bilancio ci consegna un curioso panorama della doppia costruzione di nuove architetture e di nuove istituzioni, da cui emergono alcune “case vuote”, e molti curatori “homeless”. Come in altri campi, dalla legge elettorale all’università, l’italia sembra incerta tra diversi modelli; e con questo si apre il terzo cerchio del mio improvvisato bilancio. Nelle storie appena accennate e in tante altre si scorgono le tracce simultanee del modello centralista francese e insieme di quello anglosassone delle donazioni e del mecenatismo, ma senza riuscire a coinvolgere strati sociali più vasti. Eppure i precedenti sono ricchi di insegnamenti. Dopo la prima formidabile ondata di “Lottery Projects” in inghilterra divenne chiaro e che troppi investimenti di capitale rispetto alle possibilità di gestione avrebbero creato il rischio di una peculiare “bolla” culturale. in italia l’importazione di questo modello durante il primo governo Prodi, da parte di una persona intelligente come Marco Causi, fu subito sterilizzata dal Ministero che si preoccupò di scrivere il regolamento in modo che i fondi delle estrazioni supplementari del lotto potessero essere destinati esclusivamente ai restauri e non alla costruzione di nuove strutture. in quindici anni il paradigma del Palais de Tokyo e della fabbrica 798 di Pechino ha sostituito quello del Guggenheim nell’immaginario anche architettonico, producendo danni analoghi, ispirati da una sorta di decrescita architettonica, che in italia però passa attraverso il filtro della incultura delle soprintendenze (ve lo immaginate il funzionario nostrano alle prese con il debadigeonnage di Lacaton e Vassal? Eppure in Francia c’è un’intera falange di architetti dei Monuments Historique). Per concludere, mi sembra giusto citare almeno tre casi che si collocano per diversi aspetti oltre le contraddizioni di questo mainstream. il primo, sotto l’aspetto del programma, è la Fondazione Rosengarten di Lucerna. il pesante edificio novecentesco della Banca di Svizzera è stato sofisticatamente ed economicamente adattato da Roger Diener per la classica raccolta di maestri del novecento. Ma soprattutto Angela Rosengarten ha deciso che nel museo, “servizi aggiuntivi” non ce ne dovevano essere: se volete mangiare andate al ristorante, se volete un caffè andate al bar dall’altra parte della strada. il secondo esempio è la rinascita del Neues Museum a Berlino per opera di David Chipperfield, che impartisce una formidabile lezione alla nostra presuntuosa cultura del restauro addormentata sugli allori della propria precettistica. E infine una nuova costruzione, capace di tenere insieme identità all’esterno, in una New York in cui tutto è stato già detto, e disponibilità all’interno, prendendo l’ambiente grezzo delle gallerie che hanno occupato gli spazi industriali, ma riscattandolo dalla inefficienza distributiva e organizzandolo in verticale. È ovviamente in New Museum di kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa. Programma, restauro critico, tipologia: tre chiavi di lettura che ci indicano una via non ossessionata dalla autografia del progettista, ma nemmeno dalla banalizzazione della atmosfera “loft”. Francesco Garofalo è architetto, Professore Ordinario di Progettazione presso la Facoltà di Architettura di Pescara. È stato Curatore del Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia del 2008. MU25 Empusa Pennata BIODROID NAViGARE NELLA RETE DELLA ViTA Papilionidae iphiclides podalirius MU26 E se l’unico peccato fosse la disattenzione per la grande bellezza che ci circonda? La risposta appare evidente zoomando le foto che ci mostra Remo Angelini: gli umani non avrebbero neanche il coraggio di schiacciare una mosca con la ciabatta se solo i loro occhi potessero vedere il dorso d’argento liquido della Tachina magnicornis, le ali che sembrano opalescenti vetrate liberty, la perfetta architettura del corpo al confronto della quale Fuksas è un dilettante. Remo Angelini di Bucchianico, studioso di agroecologia, e Daniele Di Ottavio, di Pescara, laureato in scienze naturali, sviluppatore C++, da anni lavorano ad un progetto affascinante e un pò folle. Biodroid il suo nome. Un sito internet, un’applicazione, un social network tematico e un database RDBMS dallo sviluppo potenzialmente infinito, che intende organizzare, e rendere facilmente navigabili, tutte le informazioni sugli esseri viventi le loro relazioni e interdipendenze. Una prima versione sarà disponibile nel 2014, già con migliaia di specie viventi, ciascuna con una propria scheda di dettaglio, finora redatte unicamente da Remo Angelini. Partirà in parallelo una raccolta fondi per server più potenti e costi di gestione. Ad oggi tutto è stato autofinanziato. Servirà anche l’aiuto di esperti per il controllo dei dati e di traduttori per l’internazionalizzazione. Biodroid sarà un’opera collettiva del social network. Spiega Daniele, che al framework di sviluppo lavora da quindici anni: “Grazie a specifici form generati sul sito, tutti potranno proporre inserimenti e modifiche, segnalare nuove specie e nuove relazioni tra i viventi, esaminati però dagli amministratori. Ci saranno anche utenti accreditati, con competenze acclarate, che inseriranno direttamente informazioni.” Biodroid sarà anche una rete di blog per favorire la nascita di cerchie a tematica specifica. Come avviene in twitter, sarà possibile per gli utenti diventare followers di qualche altro utente, interessante per ricerche effettuate e dati inseriti. Biodroid sarà un archivio condiviso di testi didattici, appunti universitari, tesi di laurea, articoli scientifici. Ma anche di informazioni sugli usi erboristico-medici delle erbe, sulle tecniche di preparazione di concimi e humus, su come combattere un parassita. Ci saranno pagine affidate ai parchi e alle riserve naturali, dove potrà essere messo in rete il patrimonio biologico, con spazi riservati a dati sensibili e protetti, ad esempio le specie in pericolo di estinzione e la loro localizzazione. Biodroid fa propria la tradizionale classificazione ad albero della vita, che parte dalle cellule procariotiche ed eucariotiche e, attraverso regni, phylum e famiglie, arriva alle singole specie per analogie e differenze. Daniele e Remo stanno anche studiando la cosiddetta “chiave dicotomica totale” utile a riconoscere un essere vivente, con semplici sequenze di domande via via escludenti, generate automaticamente dal software. La logica profonda di Biodroid è però il rizoma, metafora filosofica e vegetale che meglio rispecchia il tentativo di comprendere l’infinito reticolo di relazioni della vita. Apriamo una scheda a caso: sul monitor compare l’Aelia acuminata, cimice dannosa per i cereali. Su Biodroid con pochi click si scopre che è preda della mosca Cistogaster globosa, che deposita le uova sul suo dorso. Le larve penetrano nella cimice e cominciano a mangiarla, non intaccando per primi gli organi vitali, perchè le mosche non sono stupide come gli esseri umani. E continuando si scopre che la Cistogaster è a sua volta attratta dal nettare dei fiori di ruta e di timo. Oppure si può partire da un pomodoro, meglio detto Solanum lykopersicum. Tra i suoi parassiti varie specie di afidi, e soprattutto la Nezara viridula, una cimice verde smeraldo. Mangiata però dall’altrettanto elegante mosca Gymnosoma, attratta dai fiori di carota, finocchio e prezzemolo. identificato il miride Deraeocoris si scopre che esso è attratto nell’orto dalla bieta in fiore e dalle ortiche ed è un formidabile predatore, al pari dei ragni, dei terribili afidi pascolati dalle formiche. Un agricoltore 2.0 a questo punto sa cosa deve fare. La rete alimentare è solo una delle relazioni complesse che Biodroid vuole descrivere. Altri alberi della vita sono dedicati ai climi, ai biomi, ovvero le porzioni di biosfera classificate in base al tipo di vegetazione, e alle zone, ossia i perimetri o percorsi geolocalizzati dove sono presenti determinate specie. L’ambizione è anche quella di mappare tutti i terreni italiani in base alla loro composizione chimica e al tasso di fertilità. L’immensa mole di informazioni sul vivente sarà dunque geolocalizzato in una mappa navigabile, un po’ come avviene in google maps. Grazie all’applicazione opensource Qt-Marble. Navigare virtualmente tra la vita e la biodiversità di un territorio, e non solo tra autostrade, svincoli, aree industriali ed urbane, sarò senz’altro un salutare shock psico-geografico. La nostra visita si conclude nell’orto di Remo, da dove tutto è iniziato. Un labirinto di cespugli di rosmarino, salvia e lavanda che fanno da barriera aromatica e anti-erosione a fertili lettiere di biomassa. Dove vengono coltivati gli ortaggi secondo consociazioni ben precise. Le file di mais si alternano ai pomodori, per disorientare e depistare i parassiti. i piselli rampicanti sono orientati ad est per farsi ombra tra loro, e impedire l’arrivo della terribile formica Tapinoma. il romice non viene estirpato, perché le sue foglie sono un luogo accogliente per gli afidi, e dunque per le coccinelle septempunctate, ghiotte di afidi sia allo stadio larvale che da individui adulti, che poi difenderanno dai parassiti anche i fagiolini di Remo. “Andare contro la natura – commenta Remo – invece che imparare a conoscerne le regole, alla lunga crea deserti. io mi prendo sempre il tempo per osservare chi vive nell’orto e nei terreni intorno, per capire come posso favorire tutti gli esseri viventi che potrebbero starci.” Tutt’intorno prati incolti, roveti e siepi lasciate al loro naturale disordine. Un terzo paesaggio, per usare la definizione di Gilles Clément, che sopravvive negli interstizi dimenticati o abbandonati tra i paesaggi agricoli e urbani. Rifugio della biodiversità, della ridondanza genetica che è la materia prima dell’evoluzione. E il tempo mediterraneo scorre lento in quest’orto senza confini, al riparo dall’integralismo della corsa, dal monotesimo del prato inglese, dalla nevrosi dei sacerdoti del pil e da quella dei giardinieri che squadrano i cespugli. Filippo Tronca - [email protected], [email protected] Wildflower Field, guardando Nord verso la West 29th Street, in cui la High Line comincia una lunga e delicata curva verso il fiume Hudson. Photo: © iwan Baan, 2011 Gilles Clément nel suo recente libro “Breve storia del giardino” sostiene senza cadere in errore che la prima vera forma di giardino sia stata quella del recinto, come chiusura dell’uomo nei confronti dell’ambiente esterno al temine delle sue peregrinazioni fisiche. Da sempre legato e affiancato allo spazio costruito, appendice stessa dell’edificio, passerà nel corso dei secoli da hortus conclusus circondato da mura a parco di rappresentanza rinascimentale, autonomo nella sua creazione, ma mai realmente svincolato dall’habitat umano. i giardini contemporanei diventano flottanti, pareti e spazi che imitano la caducità della natura mutando forma con il cambiare delle stagioni: pareti che coprono la propria nuda pelle di fogliame per proteggere l’uomo e che si aprono alla luce come alberi d’inverno. il verde della nostra contemporaneità è sempre più pubblico e a servizio di un uomo che cerca quel recinto di protezione a ben guardare molto simile a quello costruito dal suo lontano antenato. L’architettura imita la natura e sale verso l’alto in cerca di sole e aria e se non può estendersi sulla superficie orizzontale, la natura imita se stessa e cresce artificiosamente in verticale. L’estensione della parete verde verticale progettata da Patrick Blanc per il primo museo nel mondo interamente dedicato alle arti e alle civiltà primitive “Quai Branly” di Parigi è di oltre 800 mq con 15.000 piante e 150 differenti specie provenienti da Giappone, Cina, Stati Uniti ed Europa centrale. il progetto complessivo del museo fu affidato a Jean Nouvel con l’obiettivo di ottenere una fusione pressoché totale tra interno ed esterno: alberi, specchi d’acqua e colline artificiali introducono il visitatore all’ingresso principale come per interrompere la visione urbana presente in quel momento e aprire la mente allo spazio espositivo interno. Giardini verticali che racchiudono arte e alberi utilizzati come sculture a cielo aperto per il Metropole Museum of Modern Art di Lille, il cui nucleo iniziale, costituito da opere in pietra di Eugene Dodeigne e Jean Roulland è stato progressivamente arricchito da nuove acquisizioni che completano la cornice verde di uno dei parchi più popolari della conurbazione di Lille “il parco urbano di Villeneuve-d’Ascq”. Femme aux bras écartés di Pablo Picasso e vent’anni dopo The Boxing Ones di Barry Flanagan sono solo alcune delle opere di “outsider art” o “art brut” custodite dal parco. Giardini come “arcipelago” di verde europeo per i numerosi progetti ideati e realizzati da Atelier Le Balto, gruppo fondato dai paesaggisti francesi Laurent Dugua, Marc Pouzol, Véronique Faucheur e Marc Vatinel: spazi urbani dimenticati e vuoti sociali ancor prima che spaziali trasformati in verde pubblico intimo e selvaggio come riflessione sul ruolo che il giardino acquisisce nell’uso e riuso dello spazio pubblico nella città contemporanea. Spruzzi di Luce per la storica sede della Certosa di Padula, Private Garten a Berlino e Avant Garden per il trasporto pubblico della città di Madrid come esempi di giardino inteso come operazione architettonica e allo stesso tempo artistica di colonizzazione della natura sul vuoto creato dall’uomo. Lo spazio green assume spesso un ruolo culturale strategico non solo per la città in generale, ma soprattutto per gli spazi culturali e museali in essa contenuti. il giardino come filtro rispetto alle opere esposte o come parete sulla quale esporre ed accogliere forme d’arte che non riuscirebbero a trovare la giusta collocazione all’interno degli spazi chiusi e spesso affollati dei musei contemporanei. Spazi aperti più o meno verdi diventano oggetto di programmazioni collaterali spesso più interessanti ed apprezzate di quelle studiate per gli spazi interni. L’Aldrich Rockefeller Sculpture Garden del Moma di New York si serve dell’arte come motore di attività sociali, il giardino delle sculture rimane il cuore pulsante del museo, progettato in prima istanza nel 1958 dal noto architetto Philip Johnson, venne affidato nel 2004 al nipponico Yoshio Taniguchi. Per una città che cambia forma in modo sempre nuovo, nasce il parco lineare High Line, la promenade verde progettata dagli architetti Diller Scofidio+Renfro e dallo studio di architettura del paesaggio James Corner Field Operation. il nuovo parco pubblico, fortemente voluto dai residenti, copre una sezione di oltre 2 km di una ferrovia sopraelevata abbandonata del west side di Manhattan. La natura cura una rovina postindustriale che rischiava di scomparire dalla città; la stessa biodiversità che si era radicata spontaneamente negli anni di abbandono, è riletta in una serie di microclimi site-specific urbani. il parco racchiude il selvatico e il coltivato, l’intimo e il sociale: un modo per salvaguardare il passato e ripensare nuovi modi di interpretare lo spazio pubblico contemporaneo in chiave ambientale e culturale. IL VERDE NON È UN COLORE GIARDINI ‘PIÙ O MENO’ SPONTANEI NELLO SPAZIO PUBBLICO CONTEMPORANEO Accade, invece, in Giappone che il museo metta in mostra la natura e che un guscio di cemento spesso 25 cm e aperto verso il cielo attraverso un grande oculo senza vetri permetta letteralmente all’acqua, alla luce e all’aria di penetrare all’interno dello spazio fruito dai visitatori. il progetto architettonico di Ryue Nishizawa, co-fondatore, con kazuyo Sejima, dello studio SANAA, mette in luce l’aspetto simbiotico che inevitabilmente sussiste tra il giardino e l’arte. i campi e le terrazze di Teshima custodiscono un museo completamente vuoto, privo tecnicamente da ogni forma di ostacolo formale in cui Nishizawa in collaborazione con l’artista Rei Naito sfrutta la metafora della goccia d’acqua per creare uno spazio in cui arte, architettura e paesaggio generano un’unica entità. Da Parigi a Berlino e da New York a Teshima il giardino contemporaneo o spazio “naturiforme” continua ad essere emblema di inclusione fisica e mentale tra lo spazio culturale e la società dell’uomo. Nicla Cassino e Giovanni Di Bartolomeo Atelier Le Balto, Gartenparade, Berlino MU27 iSOLA ART CENTER E i VANTAGGi DEL CENTRO DiSPERSO DI ANTONIO BRIZIOLI DALLA DiSTRUZiONE Di UNO SPAZiO PER L’ARTE ALLE POSSiBiLiTà OFFERTE DALLA SUA FRANTUMAZiONE Christoph Schäfer, Strategic Embellishment/Abbellimento strategico, intervento su saracinesca per isola Rosta Project, 2009. Photo Bert Theis Dis-perdere significa separare con azione volontaria qualcosa che si presenta accorpato in una massa, un fascio, uno schieramento, un viluppo. Nel contempo il termine risulta equivoco, poiché l’esplosione di un insieme può rappresentarne la dissoluzione o la (ri)nascita. E tener conto di ciò può aiutarci ad interpretare alcuni fenomeni che interessano l’attuale contesto urbano, dove la dispersione è un metodo repressivo ampiamente utilizzato: per sedare scioperi, manifestazioni, occupazioni; per marginalizzare ogni forma di dissenso ritenuta pericolosa. isola Art Center ha subito una dispersione repressiva nelle intenzioni e violenta nei fatti. il 25 aprile 2007, con una mostra in pieno svolgimento,1 il centro d’arte fondato nel 2003 al secondo piano di uno stabile industriale dismesso, la Stecca degli artigiani, viene abbattuto con l’edificio che lo ospita. Gli artisti, oltre a subire l’indegna distruzione di opere e materiali, si ritrovano per strada a veder crollare la propria casa, diventata nei cinque anni di occupazione un punto di riferimento ineludibile per il versante indipendente dell’arte milanese. La dispersione comincia però molto prima dell’abbattimento ed è portata avanti in modo congiunto e capillare dal Comune di Milano e da Hines, la multinazionale immobiliare texana che nel 2003 comincia ad investire sull’area Garibaldi-Repubblica,2 individuandovi un vuoto urbano favorevole alla speculazione. in presenza di un’amministrazione che, oltre a non esercitare un’auspicabile azione di contrappeso, alleggerisce in tutto e per tutto l’operato degli investitori, l’opposizione sorge spontaneamente e dal basso, attraverso una serie di associazioni stanziate alla Stecca. il fronte di opposizione si presenta inizialmente piuttosto compatto e dunque per disperderlo si ricorre alla strategia romana del divide et impera. Le associazioni che stanno alle condizioni della multinazionale (riunite nel gruppo ADA Stecca) vengono salvaguardate e ricambiate con la promessa di nuovi spazi al termine dei lavori sull’area. isola Art Center, che insieme a un nutrito gruppo di abitanti riuniti nel Comitato i Mille, persiste in una resistenza mai passiva e volta piuttosto alla creazione di un modello alternativo, viene isolato e logorato fino al colpo finale dello sgombero e della gratuita distruzione. Fin qui la storia, necessariamente semplificata3, della demolizione di un centro d’arte e cultura per far posto ad uffici e appartamenti di lusso, della gentrificazione di un quartiere di Milano storicamente popolare, appunto l’isola, e di un’amministrazione che dimostra totale indifferenza alle esigenze del proprio territorio, avvicinandosi all’Expo 2015 con un’etica alla “senza un palazzo di vetro la vita diventa un peso”4. E isola Art Center? Nel 2007 gli artisti sono ridotti alla clandestinità. il quartiere è diviso, sfiduciato, senza verde e in breve tempo le nuove costruzioni ne altereranno prima la conformazione e poi l’essenza. Una buona dose di disorientamento è inevitabile e non ci sono le energie per teorizzare nuovi status o minimizzare un accaduto cosÏ traumatico. il centro d’arte trova la possibilità della propria sopravvivenza in un processo di transizione. Le sue macerie si rivelano semi, che -dispersi con la forza- attecchiscono al terreno atipico del quartiere isola. Vari elementi ne consentono la germogliazione. Anzitutto l’entusiasmo di molti giovani artisti e curatori della scena milanese, che hanno trovato proprio in isola Art Center la piattaforma in grado di formarli in una Milano avida come non mai di spazi non ufficiali. in secondo luogo la sopravvivenza di una comunità di quartiere consolidata in cinque anni di lotta e produzione d’arte contemporanea, una comunità che esiste e non può né vuole scordarsene di colpo. Da ultimo la reattività di isola Art Center: quando attivi un conflitto urbano a lungo termine in una città soggetta a cambiamenti cosÏ imprevedibili, se ti irrigidisci sei destinato ad estinguerti o ad essere cooptato. Dunque una flessibilità che nulla ha a che fare con l’opportunismo di ADA Stecca, scesa a patti con la multinazionale. isola Art Center non ha mai fatto un passo indietro sui fondamenti della sua battaglia. Rifiutando un dialogo unilaterale e umiliante con gli investitori, ha dimostrato di saper attuare strategie di lotta diversificate che, quando affronti un nemico avvantaggiato da mezzi e circostanze, possono aiutarti a riequilibrare la bilancia. Passano pochi mesi e si fa chiara la conformazione del nuovo centro. Localmente si approfondisce la connessione inestricabile fra artisti ed abitanti, portando l’arte in luoghi deputati ad altro. Si organizzano mostre all’interno di ristoranti, negozi, associazioni culturali. Senza alterarne i ritmi, isola Art Center espone sulla pelle stessa del quartiere. A ottobre 2007 viene attivato il primo della serie di progetti Rosta, il cui nome è un omaggio all’agenzia telegrafica sovietica che diffuse manifesti di propaganda rivoluzionaria a partire dal 1919. Si tratta di dipingere contenuti relativi alla lotta di quartiere sulle saracinesche delle attività solidali con il progetto, coinvolgendo una moltitudine di artisti italiani ed internazionali. Nel contempo, si agisce anche al di fuori dell’isola con la partecipazione ad iniziative milanesi, nazionali ed internazionali. in questi casi si privilegia la dimensione del racconto. Ritenendo la vicenda dell’isola esemplare e utile a chiunque si occupi di arte e attivismo nel contesto urbano, non sembra fuori luogo proporla finanche in contesti come la Biennale di istanbul o quella di Tirana5. Detto questo, se isola Art Center si fosse limitata a trovare nuove possibilità espositive, sen- MU28 za aiutare il quartiere nella ricostruzione di concrete prospettive di lotta, avrebbe progressivamente perso la sintonia con gli abitanti. Diversamente, il conflitto è ancora aperto e si cerca risposta alla principale emergenza: la totale assenza di verde. infatti nel 2007 l’isola non ha perso solo la Stecca, ma anche gli adiacenti giardini di via Confalonieri: unico parco di quartiere e spazio sociale insostituibile. A partire da ciò, un gruppo di abitanti sostenuto da isola Art Center, individua uno spazio abbandonato da ricomporre e restituire alla comunità in forma di verde pubblico. Una striscia verde, un ex-deposito edile e un piccolo parcheggio, la cui unione permetterebbe di ricavare una superficie di 2.000 mq miracolosamente scampati alla speculazione. Nel 2010 si crea il gruppo isola Pepe Verde6 a sostegno dell’omonimo parco, che ha preso forma nella mente degli abitanti e dunque già esiste. out7 ne abbozza una possibile conformazione, studiata come versatile punto di partenza per una progettazione collettiva. Oggi, dopo tre anni di rivendicazioni e dialogo con l’amministrazione, isola Pepe Verde ha ottenuto in affidamento provvisorio il primo giardino condiviso di Milano. il seme della battaglia per i giardini di via Confalonieri, dopo il trauma della loro cementificazione, ha dato i suoi frutti in un sogno rimpicciolito nelle dimensioni ma potenziato nella forza: in quanto emblema della vocazione costruttiva di una parte del quartiere, di cui isola Art Center costituisce l’altoparlante artistico. il tratto comune di pratiche cosÏ diversificate è espresso nel concetto di fight-specific, in cui si è trovata l’essenza di un’arte che, pur essendo specifica al sito, non si accontenta di interagire con una comunità passiva. Al contrario, ne crea una attiva che si consolida attorno alla rivendicazione di valori condivisi e messa in opera di azioni artistiche e politiche mirate. in una situazione di questo tipo, il fatto di non avere una sede è forse uno svantaggio, ma il vantaggio di potervi rinunciare lo supera. Attualmente, la carenza di spazi a Milano compromette la nascita di realtà artistiche indipendenti. i soldi pubblici finiscono unicamente nell’organizzazione di eventi mainstream e gli affitti proibitivi precludono la possibilità di autofinanziare un centro d’arte. Le gallerie locali si muovono unicamente su binari commerciali. Le occupazioni, unica reazione possibile a questo stato di cose, vengono duramente combattute se s’insediano in spazi nevralgici e tollerate solo se riguardano zone meno calde8. Poter agire senza una sede da proteggere, ma con una rete di soggetti dalle competenze diversificate e le idee ben chiare, può essere una soluzione decisiva per chi si trovi ad operare in questo stato di cose. il che, in un certo senso, è stato una scoperta anche per noi. Se oggi possiamo proporre un’ipotesi di centro disperso e considerarne i vantaggi, è grazie al suo prodursi spontaneo. Le teorie di isola Art Center vengono sempre dalla pratica. Teorizzare serve soprattutto a trasferire al campo dell’universale la nostra vicenda locale. Crediamo che la strada verso una città che rispecchi le esigenze del cittadino anziché delimitarne scelte e percorsi, passi attraverso la moltiplicazione di micro-realtà attive, resistenti e costituenti allo stesso tempo. L’arte deve avere un ruolo in questo processo e speriamo che la nostra esperienza possa fornire una bussola a chi si trovi ad agire in contesti simili. i semi dell’arte che rappresenta, germogliano sui libri e dentro i musei. Quelli dell’arte che combatte, anche sull’asfalto. 1. SituazionIsola. A New Urbanism, a cura di Marco Biraghi, Maurizio Bortolotti e Bert Theis, inaugura il 16 aprile 2007. 2. Si tratta dell’area interessata a partire dal 1999 dal maxi-progetto “Città della moda”, che intendeva in origine concentrare in un unico polo il meglio dell’alta moda milanese. Nonostante questa vocazione sia ben presto messa da parte per il totale disinteresse degli stilisti, l’area è comunque soggetta all’edificazione di numerose torri a scopo residenziale, commerciale e terziario. il quartiere isola, dove si trova la Stecca degli artigiani, è parte integrante di questo progetto. 3. Per una trattazione ampia e documentata della vicenda politica e artistica dell’isola rinviamo a Fight Specific Isola. Arte, architettura, attivismo e il futuro della città, Archive Books, Milano 2013. 4. Si tratta di una delle frasi del poeta Paul Scheerbart, incise sul padiglione di vetro che Bruno Taut presenta all’Esposizione del Werkbund a Colonia, nel 1914. i due tributavano al vetro un culto religioso e ritenevano che il suo impiego come elemento urbano avrebbe contribuito a fondare una nuova società. 5. Alla prima isola Art Center partecipa nel 2007 con la presentazione del video Isola Nostra di Mariette Schiltz. Alla seconda nel 2009, con il video Isola, a neoliberal italian tale. 6. Si costituisce come associazione più tardi, il 6 ottobre 2011. 7. out (Office for Urban Transformation) viene fondato dall’artista lussemburghese Bert Theis nel 2002, come soggetto complementare a isola Art Center. La sua vocazione pragmatica consiste nel dare una progettualità scientifica alle proposte di cambiamento degli abitanti, per contrapporle in maniera credibile ai progetti calati dall’alto. Ha sede alla Stecca dal 2002 al 2007, poi continua ad operare senza una sede al pari del centro d’arte. 8. A tal proposito è emblematica la vicenda di Macao, il centro per l’arte e la cultura che il gruppo dei Lavoratori dell’Arte fonda il 5 maggio 2012 con l’occupazione di un grattacielo abbandonato nei pressi dell’isola, la Torre Galfa. L’azione suscita un entusiasmo cittadino al di sopra di ogni aspettativa, ma dopo undici giorni il Comune di Milano ordina lo sgombero. L’esperienza di Palazzo Citterio, sontuoso e dimenticato edificio settecentesco nel cuore di Brera che il collettivo occupa subito dopo, dura solo tre giorni. Differentemente, quando Macao, dopo il duplice sgombero, trova sede nel contesto interessante ma meno problematico di via Molise, il Comune ne accetta la presenza e il centro esiste tutt’oggi. MUSEI: PROBLEMI GIURIDICI DI DOMENICO D’ORSOGNA E ANDREA CRISMANI Nell’eterogeneo e mutevole settore della cultura, i musei, a prima vista, si candidano a costituire un fermo punto di riferimento come luogo in cui i significati culturali sembrano trovare un loro oggettivo riconoscimento [istat, 2010]. Esiste peraltro una notevole discrasia tra l’immaginario collettivo e la realtà giuridica. Nell’ambito del primo i musei sono lo spazio in cui gli oggetti e i “beni” conservati ed esposti sono l’espressione validata e certificata di un “patrimonio” il cui valore culturale è accertato, codificato, condiviso, e proprio in virtù di questo preservato ed esibito [istat, 2010]; nella realtà dell’ordinamento positivo e dell’esperienza applicativa è vero il contrario: il settore museale è fortemente disaggregato e difficilmente riconducibile ad unità; i musei costituiscono una realtà pluriforme, dinamica, imprevedibile [Marchegiani, 2007]. Nella letteratura giuridica, inoltre, poca attenzione è dedicata ai musei. Le opere degli ultimi anni si concentrano sull’analisi del museo inteso come azienda, organizzazione di risorse umane e finanziarie e fattore produttivo di ricchezza nazionale [Cerrina Feroni, 2009]. Anche tale aspetto, tuttavia, ha evidenziato non poche carenze dal punto di vista della organizzazione, dell’attività e del finanziamento[Corte dei conti, delib. n. 8/2005]. in italia, storicamente, il museo non ha avuto una rilevanza istituzionale pari a quella dei musei stranieri. Dal punto di vista giuridico e amministrativo è stato configurato (e per molti aspetti continua a configurarsi) come museo “ufficio” della soprintendenza statale o dell’assessorato (regionale, provinciale o comunale) in cui è incardinato [Maresca Campagna, 2009]. Oggigiorno si è affermato un ruolo diverso dei musei: prestatori di un servizio pubblico, in relazione al quale, in particolare a livello di diritto europeo, si pone la questione della inclusione dei musei nel novero delle industrie della cultura e della creatività (cultural and creative industries) oppure della distinzione di trattamento tra settore pubblico e settore privato: Theatres, museums and libraries etc. that have been publicly funded and financed in the past, will now find themselves together with commercial organisations under the concept of ‘cultural industries’. This can be somehow problematic. [ESS-net Culture, 2012]. È vero: può essere problematico se non si considera la distinzione tra market activities and the non market activities of the cultural sector, ovvero se si prescinde dalla seconda. Non a caso le istituzioni museali hanno sperimento, nel corso degli ultimi anni, profonde trasformazioni, che ne ha modificato ruolo, funzioni e significato [istat, 2010; Marchegiani, 2007]. Le modifiche hanno riguardato le forme organizzative (di tipo pubblicistico o privatistico o misto), gestionali [a conduzione pubblica e a conduzione privata], le politiche tariffarie, gli orari di apertura, le modalità di promozione e comunicazione al pubblico, i contenuti dei servizi proposti (da contenitori di beni a diventare luoghi di eventi: spazi che propongono, ospitano o offrono location a esposizioni temporanee, percorsi tematici, seminari, attività culturali e altre manifestazioni di varia natura che, nell’intento di ampliare il pubblico di riferimento, sono dedicate alle diverse espressioni del loisir, del tempo libero, dello svago e del divertimento, come le discoteche e gli happy hour serali) [istat, 2010; Marchegiani, 2007]. L’analisi giuridica di tali fenomeni è limitata, ed è spesso impostata sulla base di dati tratti dalla letteratura economica [Cerrina Feroni, 2009]. È comunque concentrata sugli aspetti gestionali e sulle modalità di erogazione del servizio pubblico culturale. A livello statistico vi sono tuttora forti limiti alla reperibilità di dati aggiornati, completi, esaustivi e affidabili. Dal punto di vista giuridico desta interesse l’analisi del grado di istituzionalizzazione formale dell’assetto organizzativo. Nel sistema italiano gli aspetti critici sono numerosi e importanti. in estrema sintesi si può constatare che: - i musei sono realtà debolmente strutturate in termini formali; - vi è un’oggettiva difficoltà di individuare, in via generale, l’iter di istituzione di un museo; - è difficile distinguere in concreto le funzioni di tutela, valorizzazione e gestione alla luce del riparto di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali previsto dall’art. 117 della Costituzione (riformato nel 2001); - non sempre è chiaramente definito il rapporto tra l’organo politico e quello gestionale; - in molti casi (o ambiti) non è chiara e netta la compatibilità tra logica aziendale e interesse pubblico. Nell’ordinamento italiano non esiste una definizione normativa e/o amministrativa che identifichi in modo univoco e uniforme i musei e gli istituti similari, né esiste ad oggi un loro registro o un elenco ufficiale che individui tali strutture sul territorio nazionale e, soprattutto, ancora non è stato portato a compimento un sistema omogeneo di certificazione e di accreditamento e non sono stati individuati gli organi responsabili dell’accertamento e della valutazione degli standard tecnico-scientifici che descrivono il loro funzionamento [Corte dei conti, 2005; istat, 2010]. Al fine di inquadrare il regime giuridico, le competenze legislative e quelle funzionali, innanzitutto si distingue tra musei pubblici e musei privati. Nel comparto pubblico [circa il 75% del totale] la maggior parte dei musei è di proprietà degli enti locali. i musei privati si dividono in musei ecclesiastici e musei appartenenti ad altri soggetti privati che possono essere società di capitali, consorzi, associazioni, fondazioni bancarie e non, imprese straniere e persone fisiche. Vi sono musei a gestione diretta (con la formula della responsabilità diretta – musei/uffici- oppure con la forma consortile pubblica, in forma associata o con affidamento in house) e a gestione indiretta (tramite lo strumento della concessione a terzi o dell’affidamento a un soggetto autonomo) [istat, 2010]. Per indicare i “musei”, il legislatore fa spesso ricorso al termine più generico di “istituti d’antichità e d’arte”, con un riferimento lessicale che ben evidenzia come, nel nostro Paese, tali istituzioni siano state storicamente identificate con gli enti deputati a preservare ed esporre beni di specifico interesse storico e/o artistico, se non addirittura con le strutture fisiche atte a contenere il patrimonio oggetto di tutela [MBAC, Atti di indirizzo, 2000; iSTAT, 2010]. Dopo la riforma costituzionale del 2001 e l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio [d.lgs. n. 42/2004, art. 101]) si è avuta una notevole produzione di norme per disciplina- Enzo Cucchi, Mosaico, Nuovo Palazzo di Giustizia - Pescara, 2004. Photo Ela Bialkowska e Attilio Maranzano re le attività gestionali delle istituzioni museali, il loro assetto organizzativo e la qualità dei servizi erogati. i musei, nonostante le resistenze opposte dagli enti di appartenenza, sono destinati ad abbandonare la figura e la concezione di musei/uffici, giacché la legge [art. 115, c.2, Codice beni culturali] spinge verso un diverso modello organizzativo, in cui la gestione diretta deve essere assicurata mediante strutture organizzative apposite, dotate di autonomia organizzativa, finanziaria contabile e scientifica e del supporto di personale specializzato [Corte conti, 2005; Maresca Campagna, 2009]. Nonostante il riordino normativo, di fatto permane un’oggettiva difficoltà di individuare, in via generale, l’iter di istituzione di un museo. La disciplina è rimessa alla normazione propria dell’ente dal quale dipendono, che può essere pubblico o privato [Corte conti, 2005]. Pertanto la creazione di nuovi musei avviene in svariati modi: con atto formale di legge (statale o regionale), con delibera dell’organo di governo, con un decreto ministeriale, con provvedimento amministrativo, con scrittura privata. Non di rado ci si trova di fronte a strutture rese operative con provvedimenti interni e ordini di servizio del soprintendente o del dirigente, che li hanno resi funzionanti di fatto, ma non ne hanno definito né la missione specifica, né gli obiettivi, né l’organizzazione [Maresca Campagna, 2009]. Una tale autonomia presenta il grave difetto della carenza di una tipizzazione normativa a livello di caratteristiche tecniche, gestionali, legislative e scientifiche per ottenere il riconoscimento dello “status” di museo, da cui è seguita anche la mancata adozione di percorsi e procedure amministrative di “riconoscimento” ovvero di “accreditamento” della qualità formale di museo. Anche a livello di legislazione regionale si nota che la mancanza di una qualificazione univoca del museo si riflette nella incerta individuazione degli standard museali, con non poche difficoltà nel distinguere, in concreto, le funzioni di tutela, valorizzazione e gestione. il che ha da un lato reso incerte e poco incisive la normativa e la programmazione regionali in materia, dall’altro ha determinato una sostanziale deresponsabilizzazione degli organi politici, che hanno spesso seguito logiche contingenti, in mancanza di precisazione delle funzioni e delle responsabilità del direttore, di programmazione degli obiettivi di rafforzamento e di sviluppo museale [Corte conti, 2005; Maresca Campagna, 2009; istat, 2010]. in conclusione: in italia le istituzioni museali sono caratterizzate da una sostanziale indeterminatezza; sono prive di un’identità autonoma e specifica, hanno natura giuridica a larghi tratti indefinita; hanno alla base riferimenti normativi frammentari, spesso incoerenti e in continuo divenire. i musei pubblici sono in prevalenza strutture organizzative prive di autonomia organizzativa, finanziaria e contabile; non hanno un proprio bilancio, né proprie regole di contabilità; raramente hanno documenti che testimoniano il proprio e distinto andamento finanziario, non hanno proprio personale dipendente (quello stabile di cui dispongono è di ruolo presso il ministero, la Regione, Provincia, Comune o altro ente), non hanno perciò relazioni industriali, non sempre hanno board o comitati scientifici o artistici, non hanno propri documenti patrimoniali, non hanno propri regolamenti, ed in genere nemmeno sono propriamente organi, poiché sono di massima totalmente dipendenti da altri uffici [Forte, 2010]. il D.M. 20 maggio 2001 ha definito gli standard museali. La necessità di disporre di uno statuto, di un regolamento o di un altro documento scritto, in teoria, dovrebbe facilitare la individuazione dello status giuridico dei musei. Ma la ricognizione pratica del fenomeno ha evidenziato che difficilmente i musei sono provvisti di tali forme di regolamentazione. Sulla base dei dati raccolti dall’istat [2010], meno di un museo e un’istituzione similare su tre (31% del totale) risultano dotati di uno statuto, cioè di un documento costitutivo che ne espliciti e ne descriva la missione, le funzioni e le attività. Solo il 36,5% dei musei e delle istituzioni similari non statali dispongono di un regolamento che ne disciplini l’organizzazione interna. A ciò si aggiunge la diffusa carenza di adeguati strumenti di rendicontazione finanziaria dell’attività gestionale, che consentirebbero di identificare in modo appropriato, di tenere sotto controllo e di valutare le risorse impiegate, le attività realizzate e i risultati conseguiti, dal momento che solo il 18,7% degli istituti ha dichiarato di disporre di un bilancio autonomo. Nella larga maggioranza dei casi quindi si tratta di istituzioni la cui attività – pur importante sul piano economico oltre che culturale – non ha evidenza oggettiva e resta indistinta e per certi versi invisibile rispetto alla gestione amministrativa dell’ente di appartenenza. Basti menzionare l’annosa questione delle erogazioni liberali a favore dei musei e delle attività culturali che essi svolgono. Nel nostro Paese le erogazioni liberali intese in senso lato, donazioni e sponsorizzazioni, sono esigue rispetto all’ammontare raccolto dai musei di altri Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti. i fattori negativi sono essenzialmente tre. il primo riguarda il sistema delle agevolazioni fiscali previsto per le erogazioni liberali che è eccessivamente macchinoso e burocratizzato tanto da non favorire il donatore. il secondo attiene al sistema d’incentivazione a donare: manca un efficace sistema di promozione e sensibilizzazione ad elargire e difettano i meccanismi di riconoscimento sociale e visibilità personale per il donatore. infine, vi è una scarsa trasparenza e tracciabilità nell’impiego delle erogazioni liberali raccolte dalle istituzioni culturali. Quest’ultimo aspetto deriva soprattutto dallo scarso grado di istituzionalizzazione dell’organizzazione del museo: gran parte dei musei italiani non ha identità giuridica e non ha un conto economico proprio; essi hanno un carattere “istituzionale” più sul piano simbolico che su quello giuridico. Domenico D’Orsogna è Professore Ordinario di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Sassari; Andrea Crismani è Professore Associato di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Trieste. MU29 MAGIONE PAPALE RELAIS Via Porta Napoli, 67/I - 67100 L’Aquila Tel +39.0862.414983 - Fax +39.0862.411107 www.magionepapale.it CASINO DI CAPRAFICO L’azienda si estende per 130 ha su terreni collinari in agro di Guardiagrele. Il centro aziendale, sito sulle Piane di Caprafico, è costituito da un “Casino”, costruito nel secolo scorso. L’azienda produce cereali, legumi ed olive e si pone l’obiettivo di valorizzare queste produzioni curando la scelta delle varietà, le tecniche colturali e la trasformazione dei prodotti aziendali seguendo e riscoprendo metodiche tradizionali dell’alimentazione mediterranea. La riscoperta di varietà vegetali antiche permette inoltre di fare a meno di fitofarmaci e di altri prodotti della chimica di sintesi. La riconversione produttiva al metodo biologico è stata realizzata sotto il controllo deII’AMAB, attualmente IMC (Istituto Mediterraneo di Certificazione), ed è terminata nell’annata ’96. Accanto al centro aziendale è stato ristrutturato di recente un vecchio casolare di impianto settecentesco adibito ad uso agrituristico. In esso tre unità abitative distinte possono accogliere da 3 a 5 persone ciascuna. Uno spazio comune a livello seminterrato è utilizzato per attività comuni legate all’uso ed alla conoscenza di alimenti e di ambienti naturali. CASINO DI CAPRAFICO AZIENDA AGRICOLA E AGRITURISMO PIANE DI CAPRAFICO - 66016 GUARDIAGRELE (CH) TEL. E FAX. 0871.897492 - [email protected] Laboratori Nazionali del Gran Sasso, Ricercatori Esperimento Gerda. Photo Ufficio Comunicazione iNFN DAL GRAN SASSO SCiENCE iNSTiTUTE PARTE LA SFiDA DELLA CONOSCENZA “La scienza continuerà ad avere il suo ruolo essenziale per un futuro migliore dell’Umanità: ma gli scienziati devono essere preparati a interagire in modo più costruttivo con la società non solo come scienziati, ma anche come cittadini pienamente coinvolti nelle sue problematiche” Sono parole del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia nella Lectio Magistralis che ha inaugurato il primo anno accademico del Gran Sasso Science institute. il 14 ottobre scorso, anzi dello scorso anno, all’Aquila apriva i battenti una scuola di alta formazione e specializzazione per dottorandi in: Fisica Astropartecillare, Matematica, informatica e Scienze Sociali, niente di più lontano dalla frase che ci è sembrata significativa della lezione di Rubbia; invece a guardar bene queste aree di ricerca sono e vogliono ancorarsi alle molteplici problematiche della società contemporanea. “A parte il corso di fisica – spiega il Direttore del GSSi Eugenio Coccia già direttore dei Laboratori di Fisica del Gran Sasso – che è legato all’attività di ricerca pura che si svolge nei laboratori dell’iNFN, gli altri dottorati sono molto legati agli sviluppi futuri e possibili della società moderna. L’attività di ricerca e di formazione in Matematica dell’istituto è connessa alla matematica nelle scienze naturali, sociali e della vita. Essa è il linguaggio universale della scienza ed è uno strumento essenziale nella descrizione della conoscenza scientifica. Oltre al tradizionale ambito di applicazione nelle scienze fisiche e nell’ingegneria, i metodi matematici sono divenuti oggi strumento fondamentale per le ricerche più avanzate in molti settori delle scienze sociali e della vita. Non di meno, l’area di ricerca in informatica si confronta con i problemi connessi a modelli, algoritmi, linguaggi e metodologie software necessari per le sfide presenti e future del mondo digitale. Certo l’area di studi che più di ogni altra si avvicina a quell’idea espressa dal Prof Rubbia è quella delle Scienze Sociali, con il dottorato in Studi Urbani, che ha, come tema focale, l’innovazione nelle società contemporanee. innovazione tecnologica, organizzativa, culturale, economica e politica con gli effetti che essa ha sulle prestazioni dei relativi sistemi organizzativi”. insomma al Gran Sasso Science insitute dell’Aquila, l’idea dello scienziato pazzo e solitario, semmai è veramente esistita, non sembra proprio essere vera! Piuttosto qui i 36 ricercatori, selezionati su 552 domande, nuovi talenti come vengono indicati, provenienti da tutto il mondo, irlanda, Pakistan, Germania, Francia, Colombia, Brasile, sono più simili all’uomo “faber” e a dirla ancora con le parole del nobel “ … egli (l’uomo faber ndr) vuole inventare e costruire, per se e per gli altri. Su questa attitudine intrinseca all’uomo si basa quella che oggi chiamiamo tecnologia. Ma, per costruire, è necessario conoscere e prevedere. Da qui l’essenziale e universale legame tra scienza e tecnologia, tra conoscenza e invenzione”. Considerazioni queste che vanno proiettate nel quadro emergente di una nuova civilizzazione planetaria che segue quella della sua globalizzazione, la componente determinate della società attuale; per questo è quanto mai opportuno parlare in un contesto di altissima formazione scientifica anche di città e del loro sviluppo urbano nel quadro più complesso e complessivo di territorio. “Nel 2008 – continua il direttore Coccia – si è invertito il numero degli abitanti che abitano le città a danno di quelli che invece continuano a vivere nelle campagne, per questo motivo i centri urbani hanno bisogno di ripensare il loro sviluppo seguendo l’idea di smart city. Per gestire un numero sempre maggiore di persone, le città devono affrontare le varie problematiche che derivano da un flusso sempre maggiore di gente, mobilità – smaltimento rifiuti – comunicazione, in maniera intelligente e funzionale guardando anche al futuro. Per questo motivo abbiamo voluto istituire un corso di studi dedicato agli Studi Urbani. Si tratta di un dottorato unico in Europa, infatti abbiamo ricevuto il maggior numero di domande circa duecento, il primo che affronta in maniera interdisciplinare queste tematiche perché ha come oggetto di studio le città viste nella loro dimensione sociale ed econo- mica. È – conclude Coccia – anche un corso di studi che più degli altri si radica nel territorio della città che ospita il nostro istituto: L’Aquila con gli scenari che si stanno affrontando di una ricostruzione complessa e difficile”. È chiaro che non stiamo parlando di scienziati obbligati a risolvere tutti i problemi del mondo contemporaneo le cui soluzioni andrebbero trovate, soprattutto, attraverso decisioni politiche, ma quello che al GSSi si propone, è un modello di scienziato - ricercatore teso a “…promuovere un atteggiamento scientifico basato su fatti, sulla curiosità del sapere, sulla ricerca coraggiosa di concetti fondamentalmente nuovi”, a dirla ancora con le parole di Carlo Rubbia; un lavoro che per il Gran Sasso Science institute è appena iniziato con la consapevolezza che non sarà un percorso facile vista la situazione generale del Paese e quella particolare della città che lo ospita. Ma anche con il GSSi, forse dall’Aquila e dall’Abruzzo potrà essere rilanciata l’idea della necessità della ricerca se si vuole pensare ad uno sviluppo vero dell’italia in Europa; allora non resta che chiudere con la parole del Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta, scritte nel suo messaggio di augurio all’istituto “Abbiamo tutti la responsabilità di dimostrare coi fatti che agganciare una ripresa duratura vuol dire anzitutto puntare su istruzione e ricerca”. Dall’Aquila, città della conoscenza, la sfida è stata lanciata. Angela Ciano Laboratori Nazionali del Gran Sasso, Esperimento Icarus. Photo Ufficio Comunicazione iNFN MU31