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Seminario sulla teoria della traduzione Corso di laurea in “Lingue e
Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Facoltà di Lettere e Filosofia
Largo S. Eufemia n. 19 - 41100 Modena
Seminario sulla teoria della traduzione
Corso di laurea in “Lingue e culture europee”
Facoltà di Lettere e Filosofia
Anno accademico 2003-4
Hans Honnacker (cur.)
DIECI INCONTRI PER PARLARE DI
TRADUZIONE
Materiali di discussione
Nr. 3 (2005)
INDICE
Prefazione
p. 3
Emilio Mattioli (Università di Trieste), Semiotica e traduzione (U. Eco) –
un binomio problematico?
p. 5
Hans Honnacker (Università di Modena), ‘Renaissance’ della traduzione
nella didattica delle lingue straniere. La traduzione e la sua rivalutazione
come processo interculturale di trasformazione
p. 9
Demetrio Giordani (Università di Modena), Traduzioni e traduttori del
Corano
p. 22
Cesare Giacobazzi (Università di Modena), Tradurre è interpretare:
il testo letterario come testo ideale nella formazione del traduttore
p. 30
Franco Nasi (Università di Modena), Da un italiano ad altri: riscritture
e traduzioni endolinguistiche del “Decameron”
p. 38
Giovanna Buonanno (Università di Modena), Tradurre Shakespeare oggi
p. 59
Adele D’Arcangelo (Università di Milano), L’uso del testo filmico nella
didattica della traduzione: un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato
p. 67
Antonello La Vergata (Università di Modena), Specialismo e divulgazione
p. 78
Marco Cipolloni (Università di Modena), Il Secolo d’Oro delle traduzioni o
la nascita di un “nación traducida”: il mercato della mediazione linguisticoculturale nella Spagna del secondo Settecento e dello Entresiglos
p. 87
AleardoTridimonti (Università di Modena), L’industria delle lingue e i
mestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione
multilingue e multimediale
p. 100
Nota sugli autori
p. 129
PREFAZIONE
Il presente lavoro nasce dall’esperienza nuova e stimolante di un seminario organizzato dal
sottoscritto presso l’ateneo modenese nell’anno accademico 2003-4: dieci relazioni, tenute da
altrettanti docenti, sul tema della traduzione durante l’intero arco del secondo semestre. L’approccio
del seminario era volutamente interdisciplinare: il seminario, dedicato sia alla prassi che alla teoria
della traduzione, la cosiddetta traduttologia, si rivolgeva agli studenti che seguivano un corso di
traduzione del secondo anno, quindi ancora poco esperti delle problematiche traduttologiche. Il
seminario verteva su varie questioni che la teoria e la prassi della traduzione oggi pongono in
ambito letterario e non, affrontate da docenti di diverse discipline, e non solo di quelle linguistiche.
Si trattava quindi di un seminario interdisciplinare che coinvolgeva, fra gli altri, i docenti di inglese,
francese, spagnolo, arabo, tedesco e di filosofia. Principale obiettivo del seminario era fornire allo
studente strumenti per una corretta riflessione sull’atto di tradurre e sull’interdipendenza tra il tipo
di testo, la sua funzione linguistica o comunicativa e la forma di traduzione, ed allo stesso tempo
offrirgli strategie traduttive pratiche.
Il successo riscosso presso gli studenti (circa 50 studenti hanno partecipato ad ogni
incontro) ha premiato la scelta dell’approccio interdisciplinare. Da un questionario distribuito agli
studenti nel corso del primo incontro, emergeva il forte interesse ed il desideratum di un seminario
che affrontava da vari punti di vista il ‘mare magnum’ che rappresenta oggigiorno la tematica della
teoria e della prassi della traduzione.
Nell’intervento inaugurale del seminario, 1 Emilio Mattioli parla del binomio “semiotica e
traduzione”, con evidente riferimento al recente libro di Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa.
Esperienze di traduzione (Milano, Bompiani, 2003). Sulla scia di Henri Meschonnic, propone una
“poetica della traduzione” che si contrappone al concetto di traduzione elaborato sia dalla semiotica
che dall’ermeneutica gadameriana che, a suo avviso, risulta troppo rigido. Partendo dal presupposto,
condiviso dalla maggior parte degli studiosi di traduttologia, che non si traduce mai da lingua a
lingua, ma da testo a testo, Mattioli smaschera il pregiudizio ‘metafisico’ dell’intraducibilità della
poesia.
Nel suo intervento, il sottoscritto richiama l’attenzione sulla rivalutazione della traduzione
nell’ambito della didattica delle lingue straniere che è anche una riflessione sul proprio operato
all’interno dell’insegnamento della lingua tedesca. Al centro delle sue riflessioni stanno le
osservazioni teoriche di Martin Heidegger (übersetzen als übersetzen) e di Hans-Georg Gadamer
riguardo all’atto di tradurre e la loro ‘spendibilità’ didattica in ambito universitario.
L’intervento di Demetrio Giordani dal titolo “Traduzioni e traduttori del Corano” mette in
luce le difficoltà sia linguistiche che dottrinali e teologiche della traduzione di un testo sacro, quale
il Corano. Tali difficoltà sono aggravate dal fatto della presenza di versetti “chiari” e versetti
“allegorici” in questo testo inimitabile. Per secoli ogni tipo di traduzione del Corano fu osteggiato
dagli esponenti dell’ortodossia religiosa fino a non molto tempo fa.
Cesare Giacobazzi, nel suo intervento “Tradurre è interpretare: il testo letterario come testo
ideale nella formazione del traduttore”, parla del tema della traduzione letteraria come ‘palestra’
ideale per imparare a tradurre, sfatando in tal modo alcuni luoghi comuni sulla traduzione come
quello secondo cui, da un punto di vista didattico, il testo letterario non si presterebbe
all’insegnamento della traduzione.
Nel suo intervento dal titolo “Da un italiano ad altri: riscritture e traduzioni endolinguistiche
del Decameron”, Franco Nasi affronta il tema della traduzione endolinguistica (dall’italiano
all’italiano). Con esempi di traduzioni ‘moderne’ del Decameron – fin dall’inizio del Novecento,
dalla ‘traduzione’ di Fabietti (1906) alla molto discussa ‘riscrittura’ di Busi (1990) – Nasi mostra la
1
L’ordine dei contributi qui raccolti rispecchia l’ordine cronologico in cui sono state tenute le corrispettive
relazioni all’interno del seminario.
3
necessità e, allo stesso tempo, la difficoltà di rendere comprensibile al lettore del Duemila il
capolavoro boccacciano.
Giovanna Buonanno, presentando una conferenza dal titolo “Tradurre Shakespeare oggi”,
parla dei problemi specifici delle traduzioni shakespeariane che derivano soprattutto dal fatto che i
testi teatrali di Shakespeare sono da considerare, da una parte, testi letterari e, dall’altra, testi da
mettere in scena (Shakespeare for the stage vs. Shakespeare for the page). Ne risultano varie
possibilità e forme di traduzione, equivalenti fra di loro.
L’intervento di Adele D’Arcangelo, “L’uso del testo filmico nella didattica della traduzione:
un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato”, mette a fuoco i problemi specifici della traduzione
filmica che non riguarda tanto la traduzione intersemiotica (nella terminologia di Roman Jakobson),
cioè la trasposizione di un sistema semiotico in un altro, ad esempio di un romanzo in un film, ma
quella ‘interlinguistica’, cioè fra due lingue naturali diverse. L’esempio del film americano (p.es.
Racing Bull di Martin Scorsese con Robert De Niro, 1980) mostra quanto sia difficile tradurre un
prodotto spesso caratterizzato da influenze gergali in una lingua europea, quale ad esempio
l’italiano.
Antonello La Vergata affronta il tema “Specialismo e divulgazione”, in tutti i campi del
sapere, e non solo. Egli critica innanzitutto la mania contemporanea di ‘scimmiottare’ le lingue
straniere, in particolare l’inglese. Spesso le cattive traduzioni derivano, a suo parere, dalla
competenza deficitaria della propria madrelingua ‘inquinata’ da ‘mostri’ linguistici, presenti non
solo nel ‘technichese’ o nel ‘burocratese’.
Marco Cipolloni parla del tema “Il Secolo d’Oro delle traduzioni o la nascita di un “nación
traducida”: il mercato della mediazione linguistico-culturale nella Spagna del secondo Settecento e
dello Entresiglos”. Dalle sue osservazioni emerge come tra Sette- e Ottocento l’identità nazionale
iberica si formasse anche per mezzo delle traduzioni: in quell’epoca nei circoli letterari scoppiava la
polemica sulla Spagna in quanto “nación traducida” (Ramón de Mesonero Romanos). Emerge
un’idea della traduzione legata all’invasione straniera – basti pensare all’invasione francese nel
1808.
Last but not least, Aleardo Tridimonti, presentando un intervento dal titolo “L’industria
delle lingue e i mestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione
multilingue e multimediale”, sgombra dapprima il campo da numerosi malintesi sul traduttore e/o
sulla traduzione. Al centro delle sue esposizioni stanno soprattutto i problemi pratici che futuri
traduttori devono affrontare, quando si affacciano sul mercato di lavoro delle traduzioni, problemi
che spesso vengono trascurati nella formazione accademica degli studenti. Portando esempi pratici
di traduzione, Tridimonti illustra tali difficoltà e le varie possibilità di soluzione. La lunghezza di
quest’ultimo contributo si giustifica con il particolare interesse e con l’utilità pratica per gli
studenti del corso di laurea “Lingue e culture europee” presso l’ateneo modenese. Pur non
trattandosi di un corso di laurea per interpreti e/o traduttori, la traduzione rimane sempre uno
sbocco professionali di tali studenti, una volta laureati.
Vorrei infine ringraziare tutti i relatori per la loro squisita disponibilità che ha reso possibile
lo svolgimento regolare del seminario. Un particolare ringraziamento va al collega ed all’amico
Franco Nasi per i suoi preziosi suggerimenti. Dulcis in fundo, vorrei esprimere la mia gratitudine a
Giovanna Procacci per il suo prezioso e sempre competente appoggio, senza il quale la
pubblicazione del presente volume non sarebbe stata possibile.
Modena, 15 febbraio 2005
Hans Honnacker
4
EMILIO MATTIOLI
Semiotica e traduzione (Umberto Eco) - un binomio problematico?
La pubblicazione del recente volume di Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa Esperienze
di traduzione, ripropone con l’autorevolezza dello studioso italiano oggi forse più famoso nel
mondo, il problema del rapporto fra semiotica e traduzione, ma non è mia intenzione tanto
soffermarmi sul saggio di Eco che peraltro ho già recensito, 1 quanto affrontare questo problema nei
suoi termini più generali e considerare le conseguenze che comporta una impostazione semiotica
del tradurre.
Non ho cose nuove da dire, ma riflessioni già svolte da altri da riproporre: mi riferisco in
particolare a quanto ha teorizzato nel corso di tutta la sua carriera di studioso un pensatore del
calibro di Henri Meschonnic, filosofo del linguaggio, teorico della traduzione, traduttore in
particolare della Bibbia e poeta in proprio.
Se vogliamo contrapporre con una formula sintetica semiotica e poetica, possiamo parlare di
segno contro ritmo. Ma il discorso è estremamente complesso e perché abbia un qualche senso deve
essere articolato e motivato.
Partiamo da uno dei tanti libri di Meschonnic, nessuno dei quali è stato tradotto in italiano
nella sua totalità, Le signe et le poème, l’autore cita questa affermazione della Kristeva:
“Sostituendo la filosofia classica, la semiotica dovrebbe essere la teoria scientifica dell’epoca
dominata dalla scienza”, 2 ma, come ha scritto Benveniste, citato da Meschonnic nella stessa opera:
“in nessun momento, in semiotica, ci si occupa della relazione del segno con le cose denotate, né
dei rapporti fra la lingua e il mondo.”3
Eco ha esposto con molta chiarezza il modello semiotico hjelmselviano: “una lingua (e ogni
sistema semiotico) consiste di un piano dell’espressione e di un piano del contenuto, che
rappresenta l’universo dei concetti esprimibili in quella lingua. Ciascuno dei due piani consiste di
forma e sostanza ed entrambi sono il risultato della segmentazione di un continuum o materia
prelinguistica.” 4
E’ un modello che sembra viziato dal formalismo che ha posto in crisi lo strutturalismo.
Dice Meschonnic: “Hjemselv non può non apparire, mostruosamente, a causa della sua filiazione, e
degli stereotipi dominanti, come un anti-Saussure, e anche, dato lo sviluppo della semiotica, la più
grande disgrazia postuma di Saussure. Perché, ultimo paradosso, non è il teorico della grammatica,
il cui apporto sui problemi del pronome e della reggenza ha la sua pertinenza, ma è, in Hjemselv, il
metafisico dello strutturalismo che è stato seguito.”5
La polemica contro il segno è motivata soprattutto dalle coppie binarie che sviluppa a
cominciare da quella stessa che definisce il segno, di significante e significato. Sono tante le coppie
che è impossibile elencarle tutte, mi limito a ricordare quelle che Meschonnic ha suddiviso in sei
paradigmi: linguistico (significante/significato, proprio/figurato, forma/senso, poesia-forma/prosalinguaggio ordinario); antropologico (corpo/anima, vita/linguaggio, natura/cultura); filosofico
(parole/cose, origine/convenzione); teologico (cristiano: Antico Testamento/Nuovo Testamento);
sociale (individuo/sociale); politico (maggioranza/ minoranza).
Il proprio di questi dualismi è d’opporre e separare i due termini in un rapporto non
dialettico o ancora secondo una dialettica che si risolve a profitto di un solo termine.
Vedere nel linguaggio un “segno” o un “insieme di segni” è in primo luogo pensarlo come
un sostituto di un’altra cosa. Il pensiero dualista appartiene secondo Meschonnic a quella che
Horkheimer chiama la teoria tradizionale: opponendo un termine ad un altro, oppone un ordine ad
1
Mattioli (2003).
Meschonnic (1975), p. 238
3
Ivi, pp. 246-7. Tutte le citazioni sono state tradotte dall’autore del contributo.
4
Eco (2003), p. 39.
5
Meschonnic (1975), p. 231.
2
5
un altro, invece di modificarlo. Per Meschonnic il segno impedisce l’invenzione di nuovi rapporti in
ogni ambito.
Come sfuggire allora al dualismo del segno? E questo, come vedremo, è fondamentale per la
traduzione. Meschonnic propone una semantica del continuo che egli pensa servendosi del concetto
di significanza attinto a Benveniste. La significanza è definita come significazione prodotta dal
significante, ma il significante è inteso come participio presente del verbo significare e non come
portatore materiale del senso. Specificamente la significanza si dà attraverso la prosodia e il ritmo.
Attingo dall’opera capitale di Meschonnic Critique du rythme. Anthropologie historique du
langage del 1982, la definizione del ritmo:6
Io definisco il ritmo del linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso le quali i
significanti, linguistici ed extralinguistici (nel caso della comunicazione orale soprattutto) producono
una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, e che io chiamo la significanza, cioè i valori
propri di un discorso e di uno solo. Queste marche possono collocarsi a tutti i ‘livelli’ del linguaggio:
accentuali, prosodici, lessicali, sintattici. Esse costituiscono insieme una paradigmatica e una
sintagmatica che neutralizzano precisamente la nozione di livello. Contro la riduzione corrente del
‘senso’ al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso, essa è in ogni consonante, in ogni
vocale, che, in quanto paradigmatica e sintagmatica, produce delle serie. Così i significanti sono
tanto sintattici quanto prosodici. Il ‘senso’ non è più nelle parole, lessicalmente. Nella sua accezione
ristretta, il ritmo è l’accentuale, distinto dalla prosodia - organizzazione vocale, consonantica. Nella
sua accezione larga, quella che io implico più spesso, il ritmo ingloba la prosodia. E, oralmente,
l’intonazione. Organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso., il ritmo è
l’organizzazione stessa del senso del discorso. E il senso essendo l’attività del soggetto
dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo
discorso.
Quali sono le conseguenze sul problema del tradurre di queste due diverse impostazioni
teoriche che possiamo definire l’una della semiotica, l’altra della poetica? L’impostazione
semiotica del problema del tradurre, come risulta, ad esempio, in Eco porta a concepirlo come
problema di resa del significato: Dire quasi la stessa cosa è un titolo che indica bene come la
traduzione sia concepita come una resa parziale del significato. Se le cose stanno così, la specificità
della traduzione letteraria viene cancellata. Non a caso Meschonnic ha parlato di un anello debole
della semiotica costituito proprio dai problemi che pone la letteratura. La semiotica rompe l’unità
fra il significante e il significato e finisce per privilegiare, traducendo, il significato. Esistono le
società bibliche che prima traducono il contenuto, poi provvedono alla forma. Ha scritto Nida, uno
degli autori di riferimento di Eco: “Tutto quello che può esser detto in una lingua, può esser detto in
un’altra, eccezion fatta se la forma è un elemento essenziale del messaggio.”7
E’ evidente che Nida si riconnette a Jakobson il quale, come noto, ha affermato che la
poesia è intraducibile per definizione e che è soltanto possibile la trasposizione creatrice. Siamo al
cuore del problema, Siamo di fronte a due diversi modi di intendere la traduzione. Riprendiamo un
passo da Poétique du traduire, un testo di Meschonnic:
Io non prendo più il ritmo come un’alternanza formale del medesimo e del differente, dei tempi forti
e dei tempi deboli. Seguendo Benveniste, che non ha trasformato la nozione, ma che ha mostrato,
attraverso la storia della nozione, che il ritmo era in Democrito l’organizzazione di ciò che si muove,
io prendo il ritmo come l’organizzazione e lo svolgimento stesso del senso nel discorso, Cioè
l’organizzazione (dalla prosodia all’intonazione) della soggettività e della specificità di un discorso:
la sua storicità. Non più un opposto del senso, ma la significanza generalizzata di un discorso. Quello
che si impone immediatamente come l’obiettivo della traduzione non è più il senso, ma ben più del
senso, e che l’include: il modo di significare.8
6
Meschonnic (1982), pp. 216-217.
Riprendo la citazione da Meschonnic (1973), p. 331.
8
Meschonnic (1999), pp. 99-100.
7
6
Occorre esemplificare questo diverso modo di tradurre e le conseguenze che comporta. Un
esempio che si trova in Iliade, VIII, 64-65, citato da Meschonnic più di una volta, può mostrare che
il ritmo costituisce dei paradigmi di significanza che superano il senso lessicale. Qui un’equivalenza
morfologica e ritmica installa una equivalenza fra due parole di senso praticamente opposto. Di che
cosa si tratta? I due termini greci oimoghé ed eukholé che esprimono rispettivamente il grido di
dolore degli uccisi e il grido di gioia degli uccisori, nella loro equivalenza ritmica, sono tre sillabe
lunghe (non si tratta di metrica) intercalate nel verso da due brevi e da due brevi precedute e seguite
ed hanno un effetto di significanza per il quale uccisori e uccisi vengono uguagliati ai di là della
visione immediata del combattimento. E questo coincide con i risultati della ricerca antropologica
contemporanea. Il ritmo della poesia omerica lo mostra, non lo dice. Meschonnic al quale abbiamo
fatto continuamente riferimento, così traduce i due versi: 9
Ensemble montaient le cri de malheur et la clameur
Des tueurs ed des tués et la terre coulait le sang
Clameur contiene e rovescia, malheur, foneticamente. Prendiamo adesso da Eco. Secondo lo
studioso la metafora del primo verso del Cimitero marino di Valéry, quella del tetto per il mare, è
intraducibile. Ricordiamoli quei versi stupendi:
Ce toit tranquille, où marchent des colombes,
Entre les pins palpite, entre les tombes;
Midi le juste y compose les feux
La mer, la mer, toujours recommencée!
Secondo Eco la metafora risulta comprensibile soltanto ad un lettore francese che abbia presenti i
tetti di ardesia di Parigi che “sotto il sole possono dare riflessi metallici”10 e che quindi può pensare
ad una superficie azzurra. Ora io non riesco a capire perché si debba disambiguare la metafora nella
traduzione. Tradurre toit con tetto vuol dire porre al lettore italiano gli stessi problemi che ha il
lettore francese ed evitare di eliminare le possibilità interpretative diverse da quelle suggerite da
Eco. Basta leggere il commento della Giaveri nella sua traduzione con testo a fronte del Cimitero
marino, ed anche soltanto leggere il testo nella sua totalità, nell’ultimo verso il tetto ricompare
ancora come metafora del mare senza ombra di dubbio:
Ce toit tranquille où picoraient des focs!
Quel tetto calmo al beccheggio dei fiocchi! (trad. Giaveri) 11
Picorer (beccheggiare) e focs (fiocchi) sono termini marinareschi. E’ evidente che i diversi modi di
tradurre implicano diverse concezioni della scrittura e che ammettere una specificità della
traduzione letteraria comporta una difesa dei valori letterari e artistici. In questo senso una
concezione della traduzione che non sia concepita in termini puramente formali e nemmeno
puramente contenutistici è, secondo me, uno sforzo necessario in difesa della civiltà delle lettere,
per usare un’espressione oggi fuori moda. Io avverto il pericolo di uno scientismo, di un
positivismo che si riaffaccia in questo ambito di studi. La via indicata da Meschonnic mi sembra
preziosa. Il porre la questione in termini di poetica è un modo di sottrarsi ad ogni forma di
dogmatismo e di formalismo. La poetica è stata nell’estetica italiana ricuperata soprattutto come “la
riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme
operative, le moralità, gli ideali.”, secondo la definizione di Luciano Anceschi, in Meschonnic,
come ha scritto Lucie Bourassa, “la poetica /ha di mira/ la descrizione dei modi di significazione dei
testi particolari, specialmente attraverso la questione centrale del rimo, piuttosto che una
grammatica astratta di forme e di generi, così come la concepiva lo strutturalismo.”12 Le due
9
Ivi, p. 110.
Eco (2003), p. 168.
11
Valery (1984)
12
Bourassa (1977), p. 24.
10
7
posizioni, intendo quella di Anceschi e quella di Meschonnic, non sono poi così lontane, perché la
poetica, secondo il filosofo francese del linguaggio, si propone di individuare la specificità dei testi,
di ogni singolo testo e va alla ricerca di questa specificità nel ritmo; questa ricerca vale tanto per la
poesia che per la prosa, la distinzione delle quali è stata superata da Meschonnic, proprio partendo
dalle sue traduzioni bibliche, perché nella Bibbia questa distinzione non c’è, mentre la cosa
letteraria nel suo complesso è invece qualificata dalla presenza del ritmo. Le conseguenze di questa
impostazione sono molteplici e, per più di un aspetto, rivoluzionarie. Prima di tutto battono in
breccia ogni concezione formalistica: il rifiuto della semiologia e in particolare della riducibilità
dell’opera letteraria a segno, come già si accennava, nasce di qui. Fin dal 1970 Meschonnic
scriveva di “una poetica che tende a mostrare come, a tutti i livelli e in tutti i sensi, non è né scienza
dello stile né soggettivismo.” Per Meschonnic dunque il percorso principale per legare l’opera
letteraria alla vita è la ricerca del ritmo, del ritmo specifico di ogni opera ed in questa ricerca lo
studioso ha speso larga parte del suo impegno. Ma al di là del discorso sul ritmo rimane
fondamentale il tentativo di legare l’opera letteraria alla vita non, ovviamente, nel senso banale del
rapporto fra la biografia dell’autore e l’opera. Nel tradurre un’opera letteraria non si potrà
prescindere dalla sua specificità, dalla sua storicità, dalla sua soggettività intesa in senso
transnarcisistico. Di qui la necessità di un’etica della traduzione, della assunzione di una
responsabilità da parte del traduttore che non può configurarsi come un negoziatore. Se l’opera è un
sistema, andrà tradotta nella sua totalità in un’altra opera sistema. E non si tratterà di un trasporto,
ma di un rapporto. L’idea del traghettatore Caronte che trasporta cadaveri rappresenta
efficacemente la traduzione concepita come traduzione del solo significato. Il traduttore come
autore è la prospettiva nuova, un autore che agisce in un rapporto con l’opera originaria leggendone
la poetica e non soggiacendo all’imperativo banale e insensato della copia. Un imperativo che ha
molte volte intimidito e bloccato l’attività traduttiva.
BIBLIOGRAFIA
Bourassa (1977)
Bourassa, L., Henri Meschonnic Pour une poétique du rythme, Paris, Bertrand-Lacoste, 1977
Eco (2003)
Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione , Milano, Bompiani, 2003
Mattioli (2003)
Mattioli, E., Recensione a Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani,
2003, in “Testo a fronte”, n. 29, dicembre 2003, pp. 247-255
Meschonnic (1973)
Meschonnic, H., Pour la poétique II, Paris, Gallimard, 1973
Meschonnic (1975)
Meschonnic, H., Le signe et le poème, Paris, Gallimard, 1975
Meschonnic (1982)
Meschonnic, H., Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Paris, Verdier, 1982
Meschonnic (1999)
Meschonnic, H., Poétique du traduire, Paris, Verdier, 1999
Valery (1984)
Valery, P., Il cimitero marino, a cura di M.T. Giaveri, Milano, il Saggiatore, 1984
8
HANS HONNACKER
‘Renaissance’ della traduzione nella didattica delle lingue straniere.
La traduzione e la sua rivalutazione come processo interculturale di trasformazione 1
Il titolo provocatorio 2 non significa un semplice ritorno o addirittura una ricaduta nel
cosiddetto ‘metodo grammatica-traduzione’ 3 dopo una lunga predominanza del metodo
comunicativo nella didattica delle lingue straniere, in particolare del tedesco come lingua straniera. 4
Intendo invece dimostrare in che modo la traduzione nell’accezione dell’odierna traduttologia non
contraddica, ma anzi completi, il cosiddetto metodo ‘immersivo’, proposto da Antonie Hornung e
da lei illustrato al convegno di linguistica tedesca recentemente tenutosi a Roma. 5
1. Status della critica riguardante la traduttologia
Alcune brevi considerazioni riguardo allo status della critica concernente la traduttologia:
negli ultimi venti anni la critica riguardo alla traduttologia è addirittura ‘esplosa’ – nella stessa
misura sono aumentati in modo esponenziale i corsi universitari, i seminari, i convegni 6 e,
conseguentemente, la critica sul tema della traduzione. 7
In questa sede non posso dare una panoramica sugli svariati e spesso contradditori approcci, 8
e rimando perciò al lavoro di Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/Schmitt (cur.) (19992 ), che tratta anche
la storia della traduttologia, al saggio di Rega (2001) che si occupa dettagliatamente della questione
della definizione della traduzione e della traduttologia nonché a Kautz (20022 ), ed infine al libro
recente di Eco (2003) 9 che, nonostante le critiche mossegli da Mattioli, offre spunti interessanti. 10
Mi vorrei invece soffermare su alcune questioni poste dalla traduttologia che, a mio parere, sono
rilevanti per la didattica delle lingue straniere.
1
Il seguente contributo è la versione italiana modificata dell’intervento tenuto al primo convegno della
Linguistica tedesca a Roma nel febbraio del 2004.
2
In seguito uso il termine traduzione come termine collettivo che comprende anche l’interpretariato (cfr. a tale
riguardo C. Nord, Textanalyse und Übersetzungsauftrag, in Königs (cur.) (1989), pp. 95-119 [p. 96], al contrario di M.
Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51
[p. 18]). Per quanto riguardo i concetti di testo e cultura, usati in seguito, seguo M. Snell-Hornby, Eine integrierte
Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 20-21.
3
Borello (2001), pp. 42 sgg.
4
Per una breve storia dell’insegnamento europeo delle lingue straniere si veda S. Ettinger, Soll man im
Fremdsprachenunterricht übersetzen?, in Königs (cur.) (1989), pp. 199-221 [pp. 200-202].
5
Cfr. ad esempio il contributo di Antonie Hornung durante un convegno tenutosi a Monaco di Baviera nel
2002 sulla didattica del tedesco come lingua straniera: Die Tesina – unterwegs zum wissenschaftlichen Schreiben mit
italienischen Deutschstudierenden, pubblicato in Ehlich/Steets (cur.) (2003), pp. 347-368.
6
Si veda ad esempio il convegno sulla traduzione a Milano dal 30 gennaio al 1° febbraio 2004: Traduzione e
riforma universitaria. Esperienze e didattica nei corsi triennali e biennali, organizzato, fra gli altri, dal DAAD e dal
Goethe-Institut Mailand, Mailand, 30 Gennaio – 1° Febbraio 2004.
7
Cfr. per esempio Eco (2003), p. 17. Tra parentesi, la problematica traduttiva e comunicativa è perfino entrata
nel mondo del cinema; mi riferisco al film di Sofia Coppola, figlia di Francis Ford Coppola, “Lost in Translation”,
uscito nelle sale italiane prima di Natale del 2003, il cui titolo è stato erroneamente tradotto in italiano con “L’amore
tradotto” e che rappresenta, in chiave ironica, problemi traduttivi ed i disturbi comunicativi che ne nascono. Il film ha
vinto, a mio avviso meritatamente, tre Golden Globe, ed un Oscar per la miglior sceneggiatura.
8
Per la complessità dei sistemi teorici della traduttologia si veda Kautz (20022 ), p. 42.
9
Cfr. Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/Schmitt (Hg.) (19992 ), pp. 39 sgg., Rega (2001), in particolare pp. 7-38,
Kautz (20022 ), pp. 29 sgg. e l’ampia critica citata da Eco (Eco (2003), pp. 365-379). Si veda anche M. Snell-Hornby,
Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare
pp. 16-19.
10
A tale proposito si veda il contributo di Emilio Mattioli nel presente volume.
9
2. Riflessioni teoriche preliminari
Prima di affrontare il tema propostomi, vorrei fare alcune premesse teoriche fondamentali.
Primo, se parlo di traduzione, mi riferisco a quella interlinguistica, cioè la traduzione da una lingua
naturale ad un’altra, la traduzione propriamente detta, come scrive Roman Jakobson. 11 Secondo, la
premessa delle mie seguenti riflessioni è il fatto che una tale traduzione è possibile in linea teorica.
In effetti, come scrive Eco (2003), i sistemi linguistici sono, in ultima analisi, sì incommensurabili,
ma pur sempre comparabili. 12 A favore di questa ipotesi depone, sostiene Eco, il fatto
apparentemente paradossale che, sebbene nella critica venga ripetutamente affermata
l’impossibilità di traduzione (per citare solo due nomi, ad esempio Jacques Derrida, Willard van
Orman Quine), 13 nella prassi si continui a tradurre e non senza successo. 14
Il dibattito sulla possibilità o impossibilità della traduzione si svolge, nella critica di
impronta decostruttivista, in modo assai simile alla discussione sulla possibilità o meno di
interpretare testi. Sul legame tra interpretazione e traduzione tornerò più nel dettaglio in seguito. In
linea generale, vorrei chiarire che parto dalla premessa della traducibilità, benchè mai completa, e
della interpretabilità di testi, nonché della comunicabilità, in linea teorica, nonostante tutti i limiti
evidenti.
Ciò non significa però che una traduzione sia possibile sempre e comunque. Un caso-limite
è sicuramente rappresentato dalla poesia, e non solo dai versi ermetici di un Nostradamus. 15 Già
Dante Alighieri aveva messo in evidenza nel Convivio la difficoltà o anche, in casi estremi,
l’impossibilità della traduzione della poesia, 16 e Roman Jakobson ha riconfermato tale tesi ancora
nel Novecento. A mio avviso Umberto Eco dimostra tale difficoltà (non impossibilità) in maniera
convincente, adducendo esempi di poesia medievale (Dante) e moderna (Baudelaire). 17 Ciò non
11
Per la distinzione tra traduzione interlinguistica (tra due lingue naturali), endolinguistica (all’interno della
stessa lingua) ed intersemiotica (tra due sistemi semiotici diversi, ad esempio tra letteratura e film) si veda Eco (2003),
pp. 225 sgg., che riprende qui la differenziazione di Roman Jakobson. Per la traduzione endolinguistica si veda il
contributo di Franco Nasi in questo volume.
12
Eco (2003), pp. 350 sg. Per il pregiudizio metafisico dell’intraducibilità si confrontino Mattioli (2003a), p.
173 e Mattioli (2003b), p. 35.
13
Cfr. a tale proposito Nergaard (cur.) (1995), pp. 301 sgg. e 367 sgg. Per evitare fraintendimenti, non intrendo
affatto giudicare negativamente – a priori ed in generale – gli studi traduttologici di impronta decostruttivista – anzi
condivido la posizione, sostenuta da Derrida, della possibilità di più varianti di una traduzione –, vorrei però richiamare
l’attenzione sul pericolo, implicito nel decostruttivismo, dell’arbitrarietà di traduzioni ed interpretazioni.
14
Eco (2003), p. 18. Si veda a tale riguardo anche Kautz (20022 ), p. 32. Quanto sia importante una traduzione
affidabile, lo si può evincere da un clamoroso ‘errore’ traduttivo nella pagina culturale de “La Repubblica” del 30
novembre 2003: in un articolo di George Steiner su Theodor Wiesengrund-Adorno, la sua opera famosa Dialektik der
Aufklärung viene tradotta dalla traduttrice con Dialettica dell’illuminazione e non, come era da aspettarsi, con
Dialettica dell’illuminismo: “Ma ciò che questa sequela di testi postumi va decretare [sic] è il valore di Adorno come
filosofo, come illustre voce in campo ontologico, epistemologico, nell’esplorazione della metafisica. I Minima moralia,
la Dialettica dell’illuminazione [sic], e l’attacco ad Heidegger in Jargon der Eigentlichkeit sono stati esempio del ruolo
eminente di “critico culturale” che Adorno ha rivestito.” (George Steiner, Adorno. La sua fama di intellettuale oscurata
da una certa doppiezza, (traduzione di Emilia Benghi) in “La Repubblica”, 30 novembre 2003, pp. 34-35 [p. 34]). Devo
lasciare aperta la questione se, in questo caso, si tratti di un semplice refuso o di un errore di interpretazione; credo però
che l’errore nasca dalla ri-traduzione dall’inglese: il titolo inglese dell’opera di Adorno è Dialectic of Enlightenment, ed
‘enlightenment’ può anche significare, per quanto io sappia, illuminazione).
15
Emanuel Eckardt ha riportato, in un articolo della “Zeit”, le traduzioni totalmente differenti dei primi due
versi della nona centuria che sono riconducibili non soltanto alle profezie difficilmente decifrabili, ma anche alla lingua
complessa di Michel de Notredame che è ricca di allusioni: “Dans la maison du Traducteur de Bourc / Seront les lettres
trouvée sur table […]” (IX, 1-2) viene tradotto da Eduard Rösch nel 1849 con “Im Haus des Austrägers von Tour / Man
die Briefe findet auf der Tafel […]”, nel 1994 da Manfred Dimde, un ‘nostradamico’, con “In dem Haus wird abgestützt
werden der Führer des Geldbeutels. Man wird haben die Bildung entdeckt – fünf ist unter dem Tisch” (E. Eckhardt,
Sterne lügen nicht. Der große Nostradamus konnte sie verstehen – doch leider sprach er in Rätseln, in “Die Zeit” del 22
dicembre 2003, p. 76).
16
D. Alighieri, Convivio, I, vii, 14. A tale riguardo si confrontino anche Nasi (2004), p. 11 ed Eco (2003), pp.
186 e 296 (il Convivio è stato probabilmente composto negli anni 1303-1309).
17
Eco (2003), pp. 276 sgg. Viceversa, questo non vuol dire che, in via di principio, la poesia è intraducibile.
Emilio Mattioli dimostra in maniera plausibile come, nel senso della ‘poetica’ elaborata da Henri Meschonnic, possa
10
vale tuttavia solo per testi poetici, come può confermare chiunque si sia cimentato in un lavoro di
traduzione, ma quasi per tutti i tipi di testo in quanto, traducendoli, rimane un cosiddetto “resto
intraducibile”. 18 Come ultima ratio il traduttore ha a disposizione soltanto il ricorso ad annotazioni
esplicative nel testo (ad esempio note a piè di pagina o l’apparato paratestuale in generale). Per Eco
questo equivale ad una ‘sconfitta’ della traduzione, e quindi del traduttore. 19 A mio avviso però, tale
fatto è una conseguenza ineluttabile dell’incommensurabilità di due sistemi linguistici, e quindi
inevitabile. Difatti, se si presuppone come Eco (2003) il fatto che le lingue naturali adoperino
segmentazioni differenti, descrivendo la ‘realtà’ o mondi possibili, ad esempio descrivendo dei
colori, 20 una traduzione uno ad uno spesso non è possibile, una traduzione esplicativa invece sì.
3. Rilevanza di alcune riflessioni teoriche per la prassi e didattica traduttiva
Partendo dalla premessa di una traducibilità di testi, in via di principio ed entro certi limiti, è
ora importante capire che cosa accade durante il processo di traduzione, e come questo possa essere
messo a frutto dalla didattica. La traduttologia degli ultimi venti anni ha contribuito a definire in
modo nuovo l’atto del tradurre. 21 Al centro di tale ricerca non sta più la questione su come si debba
tradurre, ma piuttosto la riflessione su ciò che accade quando si traduce. La traduzione non viene
più intesa come la riproduzione di singole unità di parole o frasi, ma come processo interculturale di
trasformazione durante il quale una lingua (o meglio testo) viene tradotta in un’altra, ossia un
sistema culturale in un altro. 22
In seguito mi soffermerò su tre aspetti diversi che, provenienti dall’ambito delle riflessioni
della filosofia e della linguistica testuale, risultano utili per la prassi e la didattica della traduzione:
primo, la giustapposizione tra traduzione (Übersetzung) e traduzione (Übersetzung), adoperata da
Martin Heidegger, secondo, la correlazione tra traduzione ed interpretazione, sostenuta
dall’ermeneutica di Friedrich Schleiermacher e Hans-Georg Gadamer, ed infine terzo, il modello di
comunicazione, elaborato dalla linguistica testuale per il processo di traduzione. 23
3.1 Tradurre (Übersetzen) come tradurre (Übersetzen)
Dapprima mi vorrei soffermare sulle riflessioni di Martin Heidegger riguardo a tradurre
(übersetzen) come tradurre (übersetzen) nell’introduzione al suo corso universitario su Parmenide:24
Man meint, das «Übersetzen» sei die Übertragung einer Sprache in eine andere, der
Fremdsprache in die Muttersprache oder auch umgekehrt. Wir verkennen jedoch, daß wir
ständig auch schon unsere eigene Sprache, die Muttersprache, in ihr eigenes Wort übersetzen.
Sprechen und Sagen ist in sich ein Übersetzen, dessen Wesen keineswegs darin aufgehen kann,
daß das übersetzende und das übersetzte Wort verschiedenen Sprachen angehören. In jedem
Gespräch und Selbstgespräch waltet ein ursprüngliches Übersetzen. Wir meinen dabei nicht
erst den Vorgang, daß wir eine Redewendung durch eine andere derselben Sprache ersetzen
und uns der «Umschreibung» bedienen. Der Wechsel in der Wortwahl ist bereits die Folge
davon, daß sich uns das, was zu sagen ist, übergesetzt hat in eine andere Wahrheit und Klarheit
oder auch Fragwürdigkeit. Dieses Übersetzen kann sich ereignen, ohne daß sich der
sprachliche Ausdruck ändert. Die Dichtung eines Dichters, die Abhandlung eines Denkers
essere tradotta anche poesia (per Henri Meschonnic, Poétique du traduire si vedano Mattioli (2003b), pp. 30 sgg.,
Mattioli (2003a), pp. 173 sgg. e Mattioli (2003c), p. 251).
18
Per il ‘resto intraducibile’, cfr. ad esempio Osimo (1998), passim.
19
Eco (2003), p. 95 (contro la tesi di Eco cfr. Mattioli (2003c), p. 254).
20
Cfr. Eco (2003), pp. 345 sgg.
21
A tale riguardo si vedano M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des
Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51 (in particolare pp. 16 sgg.) e Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/ Schmitt
(cur.) (2 1999), pp. 37 sgg.
22
Cfr. a tale riguardo S. Nergaard, Un approccio semiotico alla traduzione multimediale, in Bollettieri
Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 431-449, qui p. 431.
23
Cfr. a tale proposito M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens,
in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 20 sgg. e K. Reiß, Übersetzungstheorie und Praxis der
Übersetzungskritik , in Königs (cur.) (1989), pp. 71-93 (in particolare pp. 80 sgg.).
24
Heidegger (19922 ), pp. 17-18, §1 b.
11
steht in ihrem eigenen, einmaligen einzigen Wort. Sie zwingt uns, dieses Wort immer wieder
so zu vernehmen, als hörten wir es zum ersten Mal. Diese Erstlinge des Wortes setzen uns
jedesmal über zu einem neuen Ufer. Das sogenannte Übersetzen und Umschreiben folgt immer
nur dem Übersetzen unseres ganzen Wesens in den Bereich einer gewandelten Wahrheit.
Si ritiene che il «tradurre» sia la trasposizione di una lingua in un’altra, della lingua straniera
nella lingua madre o viceversa. Non ci accorgiamo tuttavia che, costantemente, noi traduciamo
già anche la nostra stessa lingua, la lingua madre, nella parola che le è propria. Parlare e dire
sono in sé un tradurre, la cui essenza non può esaurirsi nel fatto che la parola da tradurre e la
parola tradotta appartengono a lingue diverse. In ogni colloquio e soliloquio domina un
tradurre originario. Con ciò non intendiamo il procedimento con il quale sostituiamo una
locuzione con un’altra della medesima lingua, servendoci di «perifrasi». Il cambiamento nella
scelta delle parole è già la conseguenza del fatto che per noi ciò che c’è da dire si è tradotto in
una verità e in una chiarezza diverse o anche in una diversa problematicità. Questo tradurre
può avvenire senza che l’espressione linguistica muti. La poesia di un poeta, la trattazione di
un pensatore stanno nella loro parola propria, che è unica e singolare. Esse ci costringono a
percepire sempre tale parola come se la udissimo per la prima volta. Queste primizie della
parola ci «tra-ducono» ogni volta su una nuova sponda. Il cosiddetto tradurre (übersetzen
[sic]) e perifrasare è sempre solo successivo al tradurre (übersetzen [sic]) la nostra intera
essenza nell’ambito di una verità mutata.25
Quello che Heidegger, in un senso più ampio e più profondo, espone con l’esempio del
termine greco per verità (alétheia) e del suo significato di ‘dis-velatezza’ (Unverborgenheit), legato
alla cultura greca antica, vale a mio avviso anche per il tradurre in un senso più stretto, come lo uso
qui, cioè nel senso di un processo interlinguistico: tradurre (übersetzen) significa collocarsi su
un’altra sponda culturale, in un altro spazio culturale, cioè tradurre (übersetzen). Tradurre
(übersetzen) presuppone, secondo Heidegger, sempre un tale tradurre (übersetzen). 26 Nel caso di
una traduzione, sono in gioco non solo due lingue, ma due culture o meglio, come dice Eco
(2003), 27 due ‘enciclopedie’ che vengono comparate tra di loro e tradotte l’una nell’altra. 28
Ciò ha come conseguenza una concezione del tutto nuova di traduzione (Übersetzung) come
traduzione (Übersetzung) che rende di nuovo interessante la trasposizione di testi per la didattica
delle lingue straniere: non più come esercizio stilistico, per appurare le competenze grammaticali e
lessicografiche dei discenti, 29 ma come riflessione su lingua, cultura e tipi di testo. La traduzione
può essere intesa come processo interculturale di trasformazione durante il quale un sistema
culturale viene trasposto, cioè tradotto, in un altro.
3.2 Correlazione tra traduzione ed interpretazione
Un altro aspetto decisivo su cui si trovano d’accordo la filosofia heideggeriana,
l’ermeneutica romantica di Schleiermacher, l’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer30 e la
semiotica di Eco, consiste nell’affinità tra interpretazione e traduzione: a loro avviso, tradurre
25
Heidegger (1999), pp. 47-48.
Übersetzen non significa naturalmente il ‘traghettare di cadaveri’ (cioè parole), come, nella sua polemica
contro la semiotica, scrive Henri Meschonnic (si veda a tale proposito Mattioli (2003b), p. 33), ma il ‘dialogo’, cioè lo
scambio tra due lingue, o meglio culture.
27
Eco (2003), p. 162.
28
Tale cultural turn nella traduttologia è gia presente in nuce nelle considerazioni di Friedrich Schleiermacher
e di Wilhelm von Humboldt (Schleiermacher (1813) e Von Humboldt (1816)), quando parlano del fatto che la
traduzione è un incontro tra lingue e culture – anche Johann Wolfgang von Goethe si esprime nelle Noten und
Abhandlungen zu besserem Verständnis des Westöstlichen Divans (1819) in questo senso (cfr. a tale riguardo Nergaard
(1993), pp. 121-124). Per il cultural turn nella traduttologia si veda Eco (2003), p. 162 e la bibliografia ivi riportata.
29
Tuttavia, come tale controllo delle competenze linguistiche e grammaticali, la traduzione viene ancora oggi
impiegata sia nelle scuole che alle università (si veda a tale proposito Kautz (20022 ), pp. 449 sgg.).
30
Cfr. a tale riguardo Eco (2003), pp. 225 sgg. e Gadamer (19906 ), pp. 387 sgg.
26
12
significa sempre anche interpretare. 31 Benché non sia vero il contrario (cioè che interpretare voglia
dire anche tradurre), come dimostra Eco in modo plausibile, 32 la traduzione è solo possibile,
allorché il traduttore abbia interpretato il testo da tradurre; questo avviene passo per passo. Fin dal
principio, il traduttore elabora ipotesi interpretative che, nel decorso del processo traduttivo,
verifica. 33 Analogamente all’interpretazione, non esiste la traduzione, esiste soltanto una gamma di
traduzioni possibili che sono da distinguere da quelle impossibili. 34 Nella prassi, ciò non è sempre
facile, e la traduttologia non fornisce a tale proposito regole generalmente valide. Fra l’altro, Eco
(2003) ricorre qui – a mio parere giustamente – anche al cosiddetto ‘senso comune’: come criterio
adduce ad esempio la lunghezza di una traduzione rispetto al testo originale. 35 Un ruolo centrale
nelle riflessioni di Eco, è rivestito inoltre dalla reversibilità di una traduzione che, naturalmente, può
essere soltanto approssimativa – non a caso il titolo del suo ultimo lavoro sulla traduzione recita
Dire quasi la stessa cosa – e la problematica, come è facilmente immaginabile, sta tutta in questo
‘quasi’. 36
3.3 Aspetti e pragmatico-linguistici della traduzione
La linguistica testuale parte, a ragione, dal presupposto che la traduzione è sempre una
trasposizione di testi, e non di singole parole o frasi, come invece viene ancora sostenuto da alcuni
studi della traduttologia. 37 Molti problemi di traduzione possono essere risolti se non si cerca la
traduzione adeguata di una parola, ma dell’intero testo, come obietta Mattioli (2003c) ad Eco
(2003), quando questi tenta di trovare una soluzione traduttiva di singoli lessemi o di espressioni
idiomatiche. 38
La “svolta pragmatica” nella linguistica testuale della traduttologia ha richiamato
l’attenzione sugli aspetti pragmatico-linguistici39 che devono essere presi in considerazione durante
l’atto della traduzione, come per esempio il genere, tipo e sorta di testo che il traduttore si trova ad
affrontare, 40 e la loro funzione dominante, al fine di poterli tradurre adeguatamente. Mi riferisco ai
modelli comunicativi, oramai classici, di Roman Jakobson e Karl Bühler con cui può essere
31
Si vedano a tale proposito Heidegger (1984), pp. 74-76 e J. Drumbl, Un verso di Mörike, in Drumbl (2003),
pp. 83-99, qui 97-99. Contro tale tesi si esprimono Mattioli (2003b), p. 33 e F. Nasi, Note per una teoria della
traduzione letteraria, in Nasi (cur.) (2001), pp. 135-150, qui 142 sg.
32
A tale riguardo Heidegger (1984), pp. 74-76, sostiene la posizione opposta.
33
Cfr. Nasi (2004), pp. 20 sg.
34
Si vedano a tale proposito anche Mattioli (2003a), p. 176 e F. Nasi, Note per una teoria della traduzione
letteraria, in Nasi (cur.) (2001), pp. 147 sg. Come esempio di una traduzione impossibile, Nasi cita il film di Roberto
Benigni La vita è bella, dove Guido (interpretato dallo stesso Benigni) si offre come traduttore, benché non sappia
alcuna parola di tedesco, al fine di salvare il proprio figlio dall’orrore del campo di concentramento (ivi, p. 147). A mio
avviso, si tratta qui sicuramente di un caso limite in cui la traduzione del padre, in condizioni normali, non sarebbe
ammissibile, avendo tuttavia, almeno da un punto funzionale, la sua ‘legittimità’ funzionale, dal momento che salva la
vita al bambino. Da segnalare in questa scena è anche il fatto che, sebbene non esprima il contenuto del discorso del
ufficiale tedesco, la traduzione di Guido, riproduce fedelmente la sua mimica ed i suoi gesti. Si potrebbe quindi parlare
di una traduzione adeguata da un punto di vista mimico.
35
Eco (2003), p. 19 e passim.
36
Ivi, pp. 57 sgg. Kautz parte dal presupposto dell’irreversibilità, in via di principio, di traduzioni (Kautz
(20022 ), p. 73). Esperimenti interessanti, in parte anche riusciti, si riscontrano in Wunderli (cur.) (2002), pp. 226 sg. e F.
Nasi, Prefazione, in Nasi (cur.) (2001), pp. 7-9, qui pp. 8 sg. In questo contesto vorrei anche rimandare all’esperimento
della ‘staffetta’ traduttiva della poesia montaliana Nuove stanze della raccolta Le occasioni, voluta dallo stesso Montale
A differenza dell’esperimento di Wunderli, quello montaliano giunge a risultati ben diversi, forse anche perché si tratta
di un testo di poesia e non di prosa (cfr. anche M. A. Terzoli, Le insidie della fedeltà, in Montale (1999), pp. 17-32).
37
Cfr. a tale proposito L. Rega, Textlinguistische Schwerpunkte in der Übersetzungsdidaktik DeutschItalienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und Sprachunterricht. Neue Wege der italienischdeutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004) (in corso di stampa).
38
Mattioli (2003c), pp. 247 sg.
39
Vgl. hierzu Kautz (20022 ), pp. 37 sgg.
40
Ivi, pp. 75 sgg. Per la differenziazione tra generi e tipi di testo si veda in particolare le pagine 76-77.
13
descritta adeguatamente la pragmatica di un testo. 41 Traducendo, si deve sempre tener conto della
funzione linguistica di un testo sia nella lingua di partenza che nella lingua di arrivo. Tale funzione
non deve essere necessariamente identica nella lingua di partenza ed in quella di arrivo, come
Hönig/Kußmaul (19995 ) e Kautz (20022 ) dimostrano in modo convincente. 42
La critica pragmatico-linguistica degli anni Ottanta e Novanta ha elaborato modelli
comunicativi per l’atto traduttivo in cui viene attribuito al traduttore un ruolo centrale, anzi quasi
uno status da autore. Nella più recente critica linguistica poststrutturalista, tali modelli vengono
considerati superati, 43 innanzitutto perché, nel settore della traduzione di testi multimediale,
vengono messe in dubbio, se non addirittura dichiarate obsolete, l’esistenza e l’autorità della figura
e del ruolo dell’autore e quindi, in ultima analsi, nella lingua di arrivo anche quella del traduttore.
Lo stesso vale per il termine del ‘testo’ stesso, e quindi naturalmente anche per i termini ‘testo di
partenza e di arrivo’ se, nel caso di test multi- ed ipermediali in internet, i limiti di un testo non sono
più nettamente definibili, e quindi la linguistica del testo rischia di perdere l’oggetto della sua
ricerca. Ciò porta naturalmente a conseguenze incalcolabili per la traduzione di tali nuovi tipi di
testo che oggi si possono solo immaginare. Siccome non posso entrare più nel dettaglio di questa
problematica, rimando alle puntuali esposizioni di Marcello Soffritti riguardo a tale tema. 44
Nondimeno anche in questi studi, la partecipazione creativa del lettore e quindi anche del
traduttore alla costruzione testuale non viene messa in dubbio, anzi viene particolarmente
evidenziata:45 nella lingua d’arrivo, il traduttore, in quanto lettore/ascoltatore/spettatore di un testo
multimediale diviene lui stesso un secondo autore, o meglio un co-autore. 46 Nella lingua di
partenza, il traduttore è, da un lato, ricevente in quanto lettore, dall’altro, nella lingua di arrivo,
autore in quanto traduttore. La traduzione non è quindi mai una semplice trasposizione, ma un atto
‘creativo’ 47 che presuppone sempre un’interpretazione. In questo punto centrale convergono gli
approcci dell’ermeneutica e della linguistica testuale anche di impronta poststrutturalista.
41
Secondo Roman Jakobson si possono distinguere una funzione referenziale, emotiva, conativa, fàtica,
poetica, e metalinguistica della lingua. La funzione referenziale si riferisce, come è ben noto, al contesto (cioè al
“contenuto” o alla “realtà”), quella emotiva all’emittente, quella conativa al destinatario, quella fàtica al canale, quella
poetica alla forma del testo (il messaggio stesso) e quella metalinguistica al codice della comunicazione. Cfr. a tale
proposito Osimo (1998) pp. 8-12.
42
Hönig/Kußmaul (19995 ), pp. 39 sg. e Kautz (20022 ), pp. 55 e 61. Cfr. anche L. Rega, Textlinguistische
Schwerpunkte in der Übersetzungsdidaktik Deutsch-Italienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung
und Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004) (in corso di
stampa).
43
Ad esempio il modello comunicativo assai idealizzato di Bassnett-McGuire (1993), p. 58: (LP) autore 1 –
testo – ricevente/lettore = (LA) traduttore/autore 2 – testo – ricevente/lettore, che dovrebbe essere completato da
numerosi fattori dell’industriua culturale, quali l’incarico ed il committente della traduzione etc. (v. al proposito Kautz
(2 2002), pp. 49 sgg.). Questo vale a maggior ragione per i testi multimediali che non vanno solo letti, ma recepiti anche
audiovisualmente (per la messa in dubbio di concezioni tradizionali, quali per esempio il testo di arrivo nel contesto di
testi multimediali cfr. R. M. Bollettieri Bosinelli, Quale traduzione per quale testo?, in Bollettieri
Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 13-23, in particolare pp. 15 e 21, M. Soffritti, Una finestra sulla
traduzione, ivi, pp. 293-299, soprattutto pp. 296-297 e G. Nadiani, Dal testo “d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove
tecnologie imporranno una nuova terminologia?, pp. 323-334, in particolare pp. 328 sgg.). Per altri modelli linguisticotestuali di comunicazione si veda anche A. Schwarz, Verstehen als Übersetzen, in Schwarz/Linke/Michel/Scholz
Williams (1988), pp. 13-54, qui 14-16.
44
M. Soffritti, Textlinguistik und Texte: Was bestimmt das Tempo der Entwicklung?, in Akten der Tagung
“Texte in Sprachforschung und Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24
ottobre 2004) (in corso di stampa).
45
G. Nadiani, Dal testo “d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove tecnologie imporranno una nuova
terminologia?, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 325 sg. e 330 sg.
46
Cfr. a tale riguardo anche M. Soffritti, Una finestra sulla traduzione, ivi, p. 297 e G. Nadiani, Dal testo
“d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove tecnologie imporranno una nuova terminologia?, ivi, pp. 330 sg.
47
Per l’importanza della creatività durante il processo traduttivo si vedano ad esempio Rega (2001), p. 180 e
Kautz (20022 ), p. 57. Questo però non significa che il traduttore possa produrre un testo completamente nuovo e
autonomo, dal momento che rimane sempre legato al testo di partenza (v. L. Rega, Textlinguistische Schwerpunkte in
der Übersetzungsdidaktik Deutsch-Italienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und
14
4. Traduzione e “metodo dell’immersione”
In che modo però può diventare la traduzione, intesa come processo interculturale di
trasformazione, un elemento integrativo di un corso di laurea di tipo ‘immersivo’? L’immersione in
una lingua straniera non esclude una riflessione sulla lingua da acquisire? Non sarebbe
l’‘emersione’ dall’‘immersione’ il presupposto per rendere possibile la riflessione sulla lingua, e
quindi anche la traduzione?
Per rispondere a questi quesiti, è utile tenere presente che cosa si intende esattamente con
metodo ‘immersivo’: Antonie Hornung elabora il seguente concetto sull’apprendimento delle lingue
in maniera ?immersiva’:48
Das Konzept hat vier tragende Säulen: die methodische Orientierung an der Immersion [...], den
Einbezug der realen Mehrsprachigkeit der Studierenden in das didaktische Handeln [...], die
Integration des europäischen Sprachenportfolios [...] und die aktive Förderung von
Sprachbewusstheit durch Reflexion über rezipierte und selbst produzierte Sprache [...].
Senza poter discutere più nel dettaglio la complessità e la validità di questo modello, si può almeno
affermare quanto segue: il concetto didattico qui sviluppato non si esaurisce affatto
nell’apprendimento ‘immersivo’ della lingua, ma include allo stesso tempo le competenze, previste
dal portfolio europeo delle lingue, quali la coscienza linguistica, la conoscenza di più lingue, la
competenza interculturale, etc.
Innanzitutto nel settore “Sprachbewusstsein” potrebbe essere inserita la traduzione in quanto
riflessione sulla lingua, visto che la finalità dichiarata di quest’ultima è “Sprache selbständig [zu]
gebrauchen und über ihren Gebrauch nach[zu]denken”, come dimostra lo schema elaborato da
Hornung. 49 La traduzione di un testo, come ad esempio la Geschichte eines Deutschen. Die
Erinnerungen 1914-1933 di Sebastian Haffner, pubblicato postumo, porta necessariamente ad una
tale riflessione sulla lingua, dal momento che si tratta di un testo che, da un lato, ha le caratteristiche
di un’autobiografia, dall’altro quelle di un saggio storico, e quindi differenti funzioni comunicative
dominanti di cui si deve tener conto in una traduzione. Tali differenti funzioni sono evidenti già nel
capitolo introduttivo del racconto di Haffner:
Der Staat ist das Deutsche Reich, der Privatmann bin ich. Das Kampfspiel zwischen uns mag
interessant zu betrachten sein, wie jedes Kampfspiel [...]. Aber ich erzähle es nicht allein um der
Unterhaltung willen [..]. Mein privates Duell mit dem Dritten Reich ist kein vereinzelter Vorgang.
Solche Duelle, in denen ein Privatmann sein privates Ich und seine private Ehre gegen einen
übermächtigen feindlichen Staat zu verteidigen sucht, werden seit sechs Jahren in Deutschland zu
Tausenden und Hunderttausenden ausgefochten [...].50
Da una parte, Haffner riproduce le sue personali impressioni dell’epoca (nella categorizzazione di
Roman Jakobson, la funzione espressiva ed emotiva), dall’altra crede di poterle generalizzare,
disegnando un quadro generale della situazione storica intorno al 1933 in Germania (funzione
referenziale), al fine di convincere i lettori della pericolosità del regime nazista (funzione conativa)
– almeno nell’intenzione originaria del testo, quando Haffner lavorava a questo manoscritto
(intorno al 1939) che sarebbe poi stato pubblicato dopo la sua morte. Pertanto, una traduzione non
solo deve riflettere queste diverse funzioni linguistiche, ma deve anche tener conto della distanza
temporale tra il tempo della composizione dell’opera (fine anni Trenta) e la data della sua
pubblicazione (ben sessant’anni dopo). 51
Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004)). Tuttavia il traduttore
guadagna uno spazio interpretativo non irrilevante.
48
Ehlich/Steets (cur.) (2003), p. 351.
49
Ivi, p. 352.
50
Haffner (2002a), p. 10.
51
Cfr. a tale proposito il mio contributo al venticinquesimo seminario “Italienisch-Deutsche Wissenschaftliche
Übersetzung” a Bolzano, 11-13 novembre 2004: Die italienische Übersetzung von Sebastian Haffner, “Geschichte
eines Deutschen”: Probleme und Kuriositäten.
15
Il Portfolio europeo delle lingue, un ulteriore elemento importante del modello, elaborato da
Hornung, dell’apprendimento ‘immersivo’ della lingua straniera prevede, oltre alle cinque
competenze tradizionali (parlare, ascoltare, scrivere, leggere e comunicare), esperienze culturali di
cui fa parte anche la traduzione. 52 In effetti, ‘Übersetzen’ in quanto ‘Übersetzen’ significa, come
esposto sopra, incontro con un’altra cultura (la cultura della lingua di partenza e/o di arrivo), anzi
‘immersione’ in questa. Se quindi viene, tradotto in classe un testo, tratto da un giornale e/o rivista
tedesco/a, è necessario trasmettere ai discenti anche delle conoscenze sulla cultura di partenza. Un
testo come ad esempio l’articolo dello “Spiegel” sull’attuale crisi scolastica in Germania 53 trasmette
anche conoscenze sul sistema scolastico tedesco, che si differenzia a seconda delle regioni, con i
relativi termini tecnici (Grund-, Haupt-, Gesamt-, Real- e Fachoberschule, Gymnasium etc.), la cui
conoscenza approfondita viene agevolata dalla traduzione. 54 L’‘immersione’ nell’altra cultura
procede di pari passo con il processo traduttivo.
Infine la traduzione può essere impiegata ai fini dell’apprendimento di un plurilinguismo –
la terza colonna portante del ‘modello di immersione’ –, presentando la pluricentralità del tedesco
per mezzo di testi tedeschi, austriaci e svizzero-tedeschi e stimolando la riflessione su questi
attraverso la traduzione. Per esempio traducendo brani presi dai romanzi di Wolf Haas, scritti nel
linguaggio parlato austriaco, possono essere evidenziate varianti del tedesco standard,
descrivendone le peculiarità. In tal modo gli studenti possono “die verschiedenen Standards des
Deutschen kennen und erkennen [lernen]”. 55 Per addurre solo un esempio, cito dal primo giallo di
Haas Auferstehung der Toten una scena chiave, in cui l’associativo lavoro di detective del
protagonista del romanzo, l’ex-commissario Simon Brenner, diventa evidente, rispecchiandosi
anche nella sintassi:
Und ausgerechnet da hat ihn die Äußerung über den Vergolder aus dem Konzept gebracht. Hat er an
den Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer. Der hat ja überall seine Finger im Spiel, hat
er denken müssen. Aber die Engljähringer muß es bemerkt haben, daß der Brenner ein Problem hat,
weil sie hat ihn jetzt so nett angelächelt. 56
In un raffronto contrastivo, può essere qui messa in luce la diversa sintassi rispetto al tedesco
standard: ‘Hat er an den Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer’ invece ‘Er hat an den
Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer’; sintassi in cui colpisce inoltre l’uso di
congiunzioni coordinate (copulative e coordinate, quali und, aber) all’inizio della frase, tipico del
linguaggio colloquiale. Traducendo brani simili, si possono sottolineare tali differenze e restituirli,
ad esempio in italiano, in modo analogamente colloquiale.
Se l’“immersione” in una lingua – l’elemento centrale del modello di Hornung – include da
sempre anche l’immersione nella cultura della lingua da apprendere, si possono trovare anche qui
punti di collegamento con la traduzione, se questa viene concepita, come sopra esposto, quale
riflessione sulla lingua e transfert culturale. La traduzione è pertanto non solo conciliabile con il
metodo “immersivo” di Hornung, ma può divenirne anche un elemento integrante.
52
Cfr. il Portfolio europeo delle lingue, Bern, Berner Lehr- und Medienverlag, 2001.
Si veda Horrortrip Schule, in “Der Spiegel”, 46 (10.11.2003), pp. 46 sgg.
54
Che durante questo trasferimento di sapere nella traduzione (soprattutto per quanto riguarda la terminologia
specialistica), si possano verificare anche delle difficoltà a causa dei sistemi scolastici ben differenti, lo dimostra la
traduzione di Sebastian Haffner Anmerkungen zu Hitler dove, nella descrizione della carriera scolastica di Hitler, il
traduttore si trova davanti al compito di trovare un termine equivalente per ‘Realschule’: egli traduce con ‘scuola
media’ (v. Haffner (2002b), p. 27), seguendo per esempio le indicazioni di Rentrop/Schmitz (2001) riguardo al sistema
scolastico tedesco (Rentrop/Schmitz (2001), p. 215). Tuttavia Hitler andava a scuola fino al 1905 a Steyr (Austria),
prima di interrompere, sedicenne, la sua formazione scolastica. Ci si potrebbe quindi chiedere, se non si trattasse in
questo caso di una scuola superiore, come esiste ancora oggi ad esempio in Baviera, e quindi dovrebbe essere tradotta
con ‘scuola tecnica’, come propone Soppera (Soppera (2000), p. 58).
55
Ehlich/Steets (cur.) (2003), p. 352.
56
Haas (20039 ), p. 80.
53
16
5. Il modello modenese: didattica della traduzione presso l’Università degli Studi di Modena e
Reggio Emilia
La novità, inizialmente postulata, del connubio tra traduzione e metodo ‘immersivo’
dell’insegnamento delle lingue consiste, nel caso dell’università di Modena, nel fatto che la
traduzione non fu inserita fin dall’inizio nell’offerta formativa e quindi nel curriculo degli studenti,
ma che venne proposta solo a cominciare dall’anno accademico 2000/2001 per l’insegnamento del
tedesco come completamento e elemento integrante del ‘modello di immersione’. In un corso di
lingua di tipo ‘immersivo’ (almeno per l’insegnamento del tedesco), quale Lingue e Culture
Europee presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, in cui viene proposta la traduzione nel
secondo anno come materia facoltativa, 57 questa può rappresentare non solo un’offerta didattica
supplementare interessante, ma divenire una parte integrante della didattica delle lingue straniere, al
fine di rendere possibile un apprendimento adeguato della lingua e/o cultura straniera per mezzo del
continuo confronto interculturale. Infine un corso di traduzione, inteso in questo modo, ha senso
all’interno di un corso di laurea in Lingue e Culture Europee, come viene offerto dall’Università
degli studi di Modena e Reggio Emilia, se esso trasmette al discente il concetto di traduzione come
processo interculturale di trasformazione, sensibilizzandolo per generi testuali, non solo letterari.
Non è quindi tanto importante insegnare ai discenti tecniche di traduzione (naturalmente anche
questo), quanto guidarli nel loro atto di tradurre e stimolare la loro riflessione su quest’ultimo:
decisiva è quindi la coscientizzazione di tali processi (traduttivi) durante la traduzione di testi. Tutto
questo può essere offerto da un corso di traduzione all’interno del quale vengono discussi diversi
approcci teorici alla comunicazione testuale, vengono applicati modelli comunicativi alla traduzione
di vari tipi di testo e vengono appurate le funzioni linguistiche di questi ultimi; questo vale a
maggior ragione, se si cerca di mediare tra la teoria e la prassi della traduzione, in particolare
nell’ambito universitario, cosa che normalmente nella ricerca non viene recepita o viene recepita
solo in parte, anche se, da anni o meglio decenni, costituisce un desideratum.58
In tal modo, la traduzione può diventare un elemento integrativo di una moderna didattica
comunicativa delle lingue straniere, completando in modo sensato le cinque tradizionali competenze
linguistiche (parlare, ascoltare, scrivere, leggere, comunicare) – in uno stadio già avanzato
dell’apprendimento linguistico – con una sesta, cioè con la competenza traduttiva, ora anche
prevista dalle disposizioni del Consiglio d’Europa in materia di insegnamento linguistico. Così la
traduzione non contraddice il cosiddetto ‘metodo immersivo’, ma lo completa, stimolando la
riflessione sulla lingua in quanto sistema culturale e trasmettendo agli studenti un maggior grado di
coscienza nell’apprendimento linguistico. Difatti, come Gadamer afferma, a mio avviso,
giustamente:
Eine Sprache verstehen ist selbst noch gar kein wirkliches Verstehen und schließt keinen
Interpretationsvorgang ein, sondern einen Lebensvollzug. Eine Sprache versteht man, indem
57
Per non essere frainteso, vorrei ribadire che qui non si tratta di un corso di laurea per traduttori e/o interpreti
e che quindi la competenza traduttiva non è una finalità primaria della formazione linguistica. Tuttavia in questo saggio
si voleva dimostrare che la traduzione ha senso anche in un corso di laurea di tipo ‘immersivo’. Che ancora oggi la
traduzione sia nel settore scolastico che in quello universitario sia molto discussa, e che quindi non sia scontata in un
tale corso di laurea, lo dimostra Kautz (20022 ), p. 439: “Die Stellung des Übersetzens im FSU
[Fremdsprachenunterricht] an Schulen und Hochschulen ist bis heute Gegenstand heftigen Meinungsstreits [...].” Kautz
stesso si esprime positivamente riguardo ad una competenza traduttiva, almeno parziale, come fine didattico all’interno
dell’apprendimento delle lingue straniere (ivi, pp. 444 e 453 sgg.).
58
Si vedano per esempio Hönig/Kußmaul (5 1999), pp. 9-15 e M. Snell-Hornby, Eine integrierte
Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 30 sgg. Un
tentativo in questo senso è certamente il libro di Sylvia Handschuhmacher Aspetti didattici della traduzione in tedesco
dall’italiano uscito recentemente, nel 2003 (Handschuhmacher (2003)). Prendendo le mosse da riflessioni teoriche della
linguistica contrastiva, Handschuhmacher cerca di individuare e risolvere concretamente costanti di difficoltà traduttive,
quali ad esempio (dall’italiano in tedesco) la traduzione del gerundio italiano, o (dal tedesco in italiano) la traduzione
delle particelle modali tedesche, quali ‘mal’, ‘halt’ ed altri (ivi, pp. 10 sgg. e 58 sg.).
17
man in ihr lebt – ein Satz, der bekanntlich nicht nur für lebende, sondern sogar für tote
Sprachen gilt. 59
Capire una lingua non è ancora di per sé un vero comprendere, e non implica un processo di
interpretazione, ma è un atto vitale immediato. Si capisce infatti una lingua nella misura in cui
si vive in essa: questo principio non vale solo, come si sa, per le lingue viventi, ma anche per le
lingue morte.60
La vera comprensione della lingua di cui parla Gadamer, presuppone tuttavia, come
possiamo dedurre, la riflessione sulla lingua ed interpretazione da parte dell’ascoltatore e/o lettore.
Non è tanto la comprensione di una lingua, ma attraverso una lingua che è in gioco quando
traduciamo. 61
59
Gadamer (19906 ), p. 388.
Nergaard (1995), p. 343.
61
Cfr. a tale riguardo Kautz (20022 ), p. 67.
60
18
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21
DEMETRIO GIORDANI
Traduzioni e traduttori del Corano
Traduzioni occidentali e traduzioni orientali
Nel mondo islamico la questione della traduzione del Corano emerse tardivamente, fu uno di
quei problemi che i musulmani dovettero affrontare nel momento in cui la modernità europea
irruppe nel loro sistema sociale durante l’epoca coloniale. La questione maturò e crebbe
d’importanza soprattutto con l’introduzione delle tecniche di stampa e la diffusione dei mezzi di
comunicazione.
Il mondo islamico si dotò degli strumenti per la stampa non prima della fine del XVIII
secolo, con quattro secoli di ritardo sull’Europa, e i primi esemplari di libri a stampa che
circolarono nell’Impero Ottomano, provocarono la reazione ostile delle autorità religiose: la nuova
tecnica di riproduzione andava infatti a toccare direttamente le modalità tradizionali della scrittura
del Corano; fino ad allora i musulmani avevano affidato la riproduzione dei libri all’opera
meticolosa di schiere di scrivani, che esercitavano l’arte della calligrafia con lo strumento del
calamo, così come il Corano stesso poneva a modello:
Leggi! Ché il tuo Signore, è Generosissimo, – Colui che ha insegnato l’uso del Calamo, – ha
insegnato all’uomo ciò che non sapeva. (Corano 96:3-5)
Da qui la diffidenza e la ripugnanza ad abbandonare quel che appariva il modo più naturale,
e forse l’unico modo canonico di diffusione del libro sacro. Dopo un mezzo secolo di incertezza, il
mondo arabo si impegnò infine ad adottare la tecnologia tipografica. È nell’Egitto di Muhammad
Alî (1769 – 1849), che fu aperta, nel 1821, nel quartiere cairino di Bulak, la prima stamperia
moderna con caratteri arabi. Non poche difficoltà infine si dovettero superare in Egitto per stampare
quella che è giudicata la più perfetta edizione del Corano, uscita per iniziativa di re Fu’âd I nel
1923.
In Europa invece le prime edizioni del Corano furono stampate a Venezia nel 1530 e ad
Amburgo del 1694. Nel 1698 fu stampata a Padova l’edizione a cura di padre Ludovico Marracci
(1612-1700); ma l’edizione più utilizzata dalla prima generazione di orientalisti è stata quella curata
da Gustav Flügel edita a Lipsia nel 1834.
Le prime traduzioni europee del Corano furono ovviamente in latino; prima fra tutte quella
commissionata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, eseguita dall’inglese Roberto di Kenneth (o
di Chester) a Toledo, tra il 1141e il 1143, e che fu poi stampata quattro secoli più tardi a Basilea.
Padre Ludovico Marracci fu l’autore di una memorabile traduzione del Corano dal titolo:
Alcorani textus universus ex correctionibus Arabum exemplaribus summa fide, atque pulcherrimis
characteribus descriptus, stampata a Padova nel 1698, assieme al testo originale e a una lunga e
circostanziata confutazione. Si tratta di un lavoro rigoroso, frutto di quaranta anni di studio dei
principali commentari arabi, (tra cui quelli di Al-Baydâwî, Al-Zamakhsharî e Al-Suyûtî) che egli
fece con il preciso intento di dimostrare l’inconsistenza teologica del testo sacro dei musulmani. Il
risultato finale fu però d’una esattezza filologica prodigiosa, riconosciuta unanimemente anche dai
principali arabisti del secolo scorso. La traduzione di Ludovico Marracci fornì la base per le
successive e più agevoli traduzioni in francese di Nicolas Savary del 1751, e in inglese di George
Sale del 1734. 1
Negli ultimi due secoli il Corano è stato tradotto in tutte le lingue europee, fra tutte vale la
pena di menzionare le versioni francesi di R. Blachère (Parigi 1947-51), in più volumi, e quella di
Jacques Berque, più recente (Parigi 1990); quelle inglesi di Yusuf Ali (Lahore 1934), in due volumi
con il testo originale a fronte, che è forse la più conosciuta tra quelle ad opera di autori musulmani
del ‘900; di Bell (Edinburgo 1937-39) e Arberry (Londra 1953). C’è poi da segnalare che in Arabia
1
Pedani Fabris in Zatti (cur.) (2000), pp. 9-29.
22
Saudita, a Medina, sono state recentemente realizzate, con il patrocinio di Re Fahd, traduzioni del
Corano in tutte le lingue del mondo islamico.
Tra le traduzioni italiane del secolo scorso c’è da segnalare il volenteroso tentativo del prof.
Aquilio Fracassi; ma la sua traduzione, edita a Milano nel 1914 con testo arabo a fronte, è da molti
giudicata inefficace sia dal punto di vista della fedeltà all’originale, sia a causa del linguaggio a dir
poco desueto. La traduzione di Luigi Bonelli, edita a Milano nel 1929, è secondo molti talmente
fedele al testo originale da risultare forse un po’ troppo letterale, al punto tale da essere, secondo
Francesco Gabrieli: “Priva di ogni simpatia con il testo tradotto, e di ogni letterario pregio”. 2 Il
lavoro di Alessandro Bausani 3 è universalmente riconosciuto come il migliore dal punto di vista
filologico; giunta ormai alla dodicesima ristampa la sua traduzione è considerata di riferimento per
tutti gli orientalisti; essa è inoltre dotata di una ricca sezione di note e di una lunga introduzione.
Infine Roberto “Hamza” Piccardo 4 è l’autore della prima traduzione realizzata da un italiano
convertito all’Islâm; la sua non pretende di essere una traduzione vera e propria, bensì una
“traduzione interpretativa” come lui stesso la definisce, in conformità con l’atteggiamento generale
dei musulmani nei confronti delle traduzioni del Libro sacro.
Se nell’Occidente cristiano c’è stato, e continua ad esserci, un interesse crescente verso lo
studio e alla traduzione del Corano, sul versante islamico però, accanto alle ostilità che hanno
accompagnato la produzione di libri stampati, vi è stata sempre una persistente avversione verso
ogni tentativo di traduzione del Libro. La prima traduzione di cui si ha notizia certa è quella del
teologo, riformatore e sufi Shâh Walî Allâh Dihlawî (m. 1762), il quale produsse una versione
persiana del Corano, a Delhi nel 1738, intitolata Fath al-Rahmân. Questa traduzione fu eseguita con
il preciso intento di rendere accessibile il contenuto del Libro a tutti quei musulmani indiani, di un
certo livello culturale, che prevalentemente leggevano il persiano ma non l’arabo, che era invece la
lingua padroneggiata da cerchie ristrette di dotti religiosi. Quando nel 1743 l’opera fu divulgata, gli
‘ulamâ’ tradizionalisti reagirono violentemente e accusarono Shâh Walî Allâh di essere un
innovatore e un rivoluzionario; si dice che fu persino minacciato da una banda di teppisti armati che
circondarono la sua casa. Come complemento alla traduzione del Corano Shâh Walî Allâh scrisse in
seguito anche un breve trattato in persiano sulle regole guida da adottare nella traduzione del testo
sacro, dal titolo Muqaddima dar fann-i tarjama-yi Qur’ân. 5
L’inimitabilità del Libro
L’atteggiamento di opposizione radicale verso ogni tipo di traduzione restò diffuso tra gli
esponenti dell’ortodossia religiosa fino a non molto tempo fa. Nel 1925, al Cairo, l’annuncio della
pubblicazione della prima traduzione turca del libro sacro dell’Islâm, diede vita ad un animato
dibattito sulle più importanti riviste a carattere religioso dell’epoca. 6 Coloro che opponevano un
rifiuto incondizionato erano spinti dal timore che il testo originale potesse venire frainteso e
denigrato; costoro erano fermamente convinti che ogni tentativo di traduzione equivalesse al
tradimento del senso originale. Per molti degli ulamâ’ tradurre letteralmente poteva condurre alla
sostituzione dei termini, se non addirittura alla perdita del vero significato del testo, che invece
restava chiaro e inequivocabile solo nel contesto linguistico originale. Inoltre, uno dei maggiori
avversatori della traduzione letterale, in un parere giuridico (fatwâ) emesso in tale occasione,
spiegava:
L’ordine e lo stile coranici producono un effetto particolare nell’animo dell’ascoltatore che non può
essere trasferito nella traduzione; se va perduto, con esso va perduto un grande beneficio. 7
2
Gabrieli (1960), pp. 39-40.
Bausani (cur.) (2001). Le citazioni coraniche di questo articolo sono tratte in massima parte dalla sua
traduzione.
4
Piccardo (cur.) (2003).
5
Rizvi (1980), pp. 230-232.
6
Moreno (1925), pp. 532-543.
7
Ridâ (1983), p. 87.
3
23
In conclusione, le massime autorità religiose egiziane dell’epoca preferirono autorizzare
invece della traduzione letterale (tarjama), un commento (tafsîr) che desse una spiegazione del
senso dei versetti in una lingua qualunque, purché fosse affiancata dal testo originale e non fosse
chiamata “Corano”, in maniera analoga a come si presentava originariamente la prima traduzione
persiana di Shâh Walî Allâh Dihlawî.
Nella visione tradizionale islamica nulla può sostituire il valore dell’autentica e inimitabile
Parola di Allâh. In altre parole l’uomo non può modificare o alterare il messaggio divino, esso deve
essere trasmesso e riprodotto nella sua scrupolosa esattezza. Quindi non solo la lingua, persino gli
stessi caratteri in cui il Libro è espresso devono essere considerati una fedele trascrizione umana
dell’Archetipo celeste in cui è iscritta dall’eternità la Parola divina. È per questo motivo che tutti i
musulmani del mondo si debbono sforzare di apprendere per lo meno quel tanto di arabo che serve
loro a recitare le sure più brevi a memoria. Se il Corano venisse infatti recitato in una lingua diversa
dall’arabo, o semplicemente letto in traslitterazione con caratteri diversi, cesserebbe
immediatamente di essere Corano.
L’identità araba del Corano è stabilita chiaramente dai versetti che presentano il Libro come:
Un Libro che gli altri (Libri) conferma, in lingua araba, ad ammonire coloro che iniquamente
agiscono. (Corano 46:12).
Ecco i segni del Libro Chiarissimo: ecco, l’abbiamo rivelato in dizione araba a che abbiate a
comprenderlo. (Corano 12:1-2).
La questione della traduzione diviene ancor più complicata se si pensa che per la teologia
islamica quello dell’inimitabilità del Corano è un fatto indiscutibile. Tradurre letteralmente il
Corano vuol dire pretendere di produrre qualcosa di analogo al Verbo rivelato, ovvero competere
con Allâh in cose come la creazione o la produzione di miracoli. L’imprudenza di una tale intento
risulta ancor più evidente se si considera che, nella stessa Scrittura, Dio ha sfidato (tahaddî) uomini
e jinn a provare a eguagliare la perfezione stilistica e gli argomenti del Libro:
E se avete dei dubbi su ciò che abbiamo rivelato al Nostro servo, producete una sûra simile a
quelle e chiamate i vostri testimoni altri che Dio, se siete sinceri! (Corano 2:23)
Dì: “Se pur si adunassero uomini e jinn per produrre un Corano come questo, non vi riuscirebbero,
anche se s’aiutassero l’un l’altro.” (Corano 17:88)
Per la teologia islamica gli esseri umani non sono in grado di compiere il miracolo del
Corano, di conseguenza il persistere di questa incapacità attraverso le epoche è la conferma della
sua inimitabilità. Dio avrebbe reso impossibile l’imitazione del testo in molti modi; innanzitutto
attraverso l’intrinseca incapacità degli esseri umani di giungere ad una tale perfezione stilistica,
secondariamente in virtù di un divieto che non è d’ordine intellettuale ma d’ordine metafisico. Tale
divieto sarebbe evidente nell’intervento divino che puntualmente ostacola e rende impossibile il
compiere l’imitazione a chiunque. 8 Così parlava di questa particolare interdizione un famoso
teologo maghrebino del XII secolo:
I dotti sunniti non trovano accordo su quanto renda inimitabile il Corano. La maggior parte
ritiene che l’inimitabilità dipenda dalla forza della penetrante eloquenza, dalla purezza delle
espressioni, dalla bontà della composizione, dalla concisione, dal modo innovativo in cui si
dispongono le parole, e dallo stile; tutto questo sta racchiuso nel Libro, essi dicono, realmente non
rientra nelle capacità di alcun uomo, e va annoverato tra le cose che eccedono e contrastano la
possibilità delle creature. Secondo costoro non vi è differenza alcuna col far risuscitar i morti o il far
cantare lodi a Dio da un pugno di pietruzze.
Il mio maestro Abû Al-Hasan Al-Ash‘arî, affermò invece che gli uomini sono in grado di
imitare il Corano, che Iddio li ha creati capaci; ma così non accadde, né accadrà in futuro, perché
8
Gardet (1967), p. 220.
24
Iddio stesso li ha trattenuti dal farlo e li ha resi impotenti. Molti suoi colleghi sono d’accordo con
lui. 9
Tradurre o commentare?
Per un ipotetico traduttore occidentale i problemi di interpretazione del Corano iniziano
subito con il primo capitolo: “La sûra aprente” (Al-Fâtiha). Quella che segue è la traduzione che ne
dà Alessandro Bausani.
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
Nel Nome di Dio, clemente misericordioso!
Sia lode a Dio il Signore del Creato,
il Clemente, il Misericordioso,
il Padrone del dì del Giudizio!
Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto:
Guidaci per la retta via,
La via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via
di quelli che non vagolano nell’errore!
I commentatori non sono d’accordo se la formula introduttiva: “Nel nome di Dio Clemente e
Misericordioso,” detta in arabo basmala (dalle prime due parole arabe che la compongono: bismiLlâh), sia da considerarsi o meno come un vero e proprio versetto. Negli esemplari del Corano essa
viene riprodotta in testa ad ogni sûra (ad eccezione della IX); vi è dunque chi la considera a tutti gli
effetti parte integrante del testo e chi, invece, la ritiene una semplice formula introduttiva o una
forma di separazione fra un capitolo e un altro.
Nella basmala la pronuncia del Nome divino Allâh, è accompagnata dalla formula degli
attributi di Misericordia: Al-Rahmân e Al-Rahîm, i quali derivano da un’unica radice verbale araba
(rhm). In arabo come in ebraico la radice rhm conta tra i molti significati anche quello di utero
(rahim) ed evoca immediatamente l’idea di una materna protezione. Tra i due attributi vi è però una
sottile distinzione, più volte rimarcata dai commentatori orientali. Si sostiene in genere che Rahmân
esprima una valenza più ampia e universale che non Rahîm, nel senso che il primo dei due attributi
sta a significare la Misericordia di Dio per tutti gli esseri e per tutti gli stati, mentre il secondo si
riferirebbe a modalità più circoscritte della stessa clemenza divina, che è rivolta ad esempio solo
verso certi esseri e in determinati stati. 10 Per alcuni dei commentatori, infatti, la Misericordia di AlRahmân abbraccia questo mondo e quell’altro, mentre quella di Al-Rahîm è rivolta solamente verso
gli esseri di questo mondo. 11
Questo è il classico esempio di come la traduzione letterale ponga seri problemi a chiunque
voglia tentare l’impresa, conoscendo bene la lingua araba, soprattutto a causa dell’impossibilità
delle lingue occidentali di rendere con esattezza la complessità del lessico arabo e le innumerevoli
sfumature dei vocaboli. Per quanto concerne la basmala, il Bonelli ad esempio traduce: “Nel nome
di Dio misericordioso e compassionevole”; Bausani traduce: “Nel nome di Dio, clemente
misericordioso”; Piccardo: “In nome di Allâh, il Compassionevole, il Misericordioso”; Ventura:
“Nel Nome di Dio, Misericordioso e Compassionevole”; padre Ludovico Marracci: “In Nomine Dei
Miseratoris Misericordis”; Yusuf Ali: “In the name of God, Most Gracious, Most Merciful”;
Arberry: “In the Name of God, the Merciful, the Compassionate”; Jacques Berque: “Au nom de
Dieu, le Tout miséricorde, le Miséricordieux”; Blachère: “Au nom d’Allah le Bienfaiteur
miséricordieux”. Nell’edizione francese di Medina si legge infine: “Au nom d’Allah, le Tout
Miséricordieux, le Très Miséricordieux”.
Un altro ordine di problemi insorge invece quando si affronta il versetto quarto:
Il Padrone del dì del Giudizio!
9
Qadî ‘Iyâd (1995), pp. 22-23.
Ventura (1991), pp. 47-48.
11
Al-Baydâwî (1998), vol. I, p.7.
10
25
La prima parola di questo versetto ha infatti due letture possibili: Mâlik (Padrone) e Malik
(Re). Entrambe le varianti testuali vengono ammesse dalla tradizione anche se la prima, che è quella
contenuta nell’edizione standard di re Fu’âd del 1923, è certamente la più diffusa ed accettata.
Accanto a questa c’è però la cosiddetta lettura “maghrebina” in cui è riportata appunto la variante
Malik.12 Entrambi i vocaboli derivano dalla radice verbale mlk, che comprende sia il significato di
sovranità che quello di possesso, che in arabo sono strettamente legati. Chiosando il versetto, un
illustre commentatore medievale ha annotato la differenza tra i due termini, facendone risaltare la
sottile differenza:
Il Padrone (Mâlik ) è colui che, nel suo dominio, fa quel che vuole delle anime degli esseri in suo
possesso; il Re (Malik ) è colui che ha facoltà di ordinare il bene e proibire il male a coloro che nel suo
regno sono sottomessi alla sua autorità.13
Tenendo conto delle varianti di scrittura i traduttori hanno diversamente interpretato; ad
esempio Bausani scrive: “Il Padrone del dì del Giudizio!”; Piccardo: “Re del Giorno del Giudizio”;
Ventura: “Padrone del giorno del giudizio”; Yusuf Ali: “Master of the Day of Judgement”; Arberry:
“The Master of the Day of Doom”; Berque: “Le roi du jour de l’allégeance”. La versione francese
di Medina propone : “Maître du Jour de la rétribution”.
Nell’ultimo versetto di questa prima sûra appaiono poi i primi problemi relativi al
significato, poiché di un passaggio in particolare è possibile dare più di una spiegazione:
La via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di
quelli che non vagolano nell’errore!
Molti commentatori distinguono in questo particolare versetto tre generi di uomini, il primo
dei quali ovviamente è composto dai pii, dai santi e dai Profeti, che sono i ricettori della Grazia
divina, coloro che sono degni di ricevere i doni di Dio e che sono preservati dalla Sua Ira. Sulle
altre due categorie invece non vi è accordo; su chi siano di fatto coloro con i quali Iddio è adirato, e
quelli che vagano nell’errore vi è infatti discordanza di pareri. È però consuetudine diffusa tra i
commentatori identificare il primo gruppo con gli Ebrei e il secondo con i Cristiani14 in base al
confronto con altri passaggi coranici (5:60 e 5:77). Ma non è sempre così, secondo certi autori, e in
particolar modo quelli legati alle correnti spirituali e al sufismo, coloro coi quali Iddio sarebbe
adirato sarebbero: “Quelli che si sono fidati di questo basso mondo e che in esso ripongono le loro
speranze”; mentre “quelli che vagano nell’errore” sarebbero coloro vengono respinti sulla via della
conoscenza di Dio, e che sono stati privati della Sua tutela. 15
Versetti “chiari” e versetti “allegorici”
La differenza di interpretazione dell’ultimo versetto della prima sûra, ci permette di
introdurre un ultimo genere di considerazioni che riguarda tutti quei versetti del Corano il cui
significato non è ben definibile, e che hanno generato nei lettori e nei traduttori non pochi errori ed
equivoci. Nel Corano stesso ve n’è un accenno in un versetto della sûra “Della famiglia di Imrân”,
in cui si legge:
Egli è Colui che vi ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del
Libro, che versetti allegorici. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che vi è d’allegorico,
12
Le “varianti” o “letture” del Corano hanno avuto origine da preferenze testuali fondate sia sulla tradizione
orale, sia su un lavoro esegetico operato sul prototipo della vulgata del califfo ‘Uthmân. Dalle sette varianti iniziali si è
poi giunti a due, una delle quali, quella risalente alla lettura medinese di Nâfi‘ (m. 785 d.C) e tramandata da Ibn Sa‘îd,
alias Warsh (m. 813 d.C.), è contenuta nell’edizione detta “maghrebina” in uso in Africa del Nord e in Africa subsahariana. L’edizione standard egiziana è quella realizzata da una commissione di esperti espressamente voluta da re
Fu’âd I nel 1923. Quest’ultima edizione, largamente diffusa, adotta la lettura di ‘Asim di Kufa, tramandata da Hafs (m.
806 d.C.). Tra le due varianti di lettura le differenze sono minime e raramente a una variante scritturale corrisponde una
vera differenza di significato.
13
Al-Baydâwî (1998) , vol. I, p. 8.
14
Ivi, p.11; Al-Zamakhsharî (1977), vol. I, p.71.
15
Al-Sulamî (1995), p. 7; Al-Sulamî (2001), vol. I, p. 44.
26
bramosi di portar scisma e di interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei
passi non la conosce che Dio (Corano 3:7).
Vi sono quindi dei versetti chiamati muhkamât, solidi, chiari, che hanno in sé elementi
inequivocabili e comprensibili a tutti, che contengono prove assolutamente irrefutabili di cose da
affermare o da negare, sia in campo legale e giuridico, che in quello dottrinale e teologico; e dei
versetti mutashâbihât, “analoghi”, la cui lettura può dare adito a più di una interpretazione. Secondo
l’evoluzione semantica della parola, mutashâbih può significare anche “ambiguo” (nel senso di
“simile ad altre parole”) o anche, come ha tradotto Alessandro Bausani, “allegorico”. In pratica tutti
i versetti che esprimono un precetto sono muhkamât; invece i versetti mutashâbihât sono quelli sui
quali è possibile discutere, e sono, genericamente, tutti quelli in cui sono contenute storie, parabole
e giuramenti. In diverse sure, ad esempio, si giura su entità abbastanza misteriose, su stelle o su
fenomeni della natura. Sono espressioni o argomenti non totalmente chiari, di cui spesso alcuni
commentatori forniscono una spiegazione altamente simbolica. Si vedano ad esempio i primi
versetti della sûra “dell’Aurora”, del primo periodo meccano, di trenta versetti :
1.
2.
3.
4.
5.
Nel Nome di Dio Clemente e Misericordioso!
Per l’Aurora!
Per le dieci notti!
Per il Pari e il Dispari!
Per la notte che si dilegua!
Non è questo un giuramento per gli uomini di sano intelletto?
(Corano 89:1-5).
Oppure i primi cinque della sûra “delle Puledre Veloci”, anch’essa meccana, di undici
versetti:
1.
2.
3.
4.
5.
Nel Nome di Dio Clemente e Misericordioso!
Per le puledre veloci correnti anelanti
Scalpitanti scintille
Gareggianti a corsa di primo mattino
Suscitando polvere a nembi
Nel pieno della turba nemica!
(Corano 100:1-5).
In genere, mentre i commentatori più conosciuti danno di questi versetti una spiegazione
filologica, e non escono mai dal tracciato dell’interpretazione letterale, per gli autori che ricorrono
al metodo esegetico caratteristico del misticismo islamico, versetti come questi rinviano, ad
esempio, ad argomenti escatologici, e richiamano immagini sia della “Grande Resurrezione” (AlQiyâma Al-Kubrâ) e del Giudizio Universale, sia della “Piccola Resurrezione” (Al-Qiyâma AlSughrâ) che è il trapasso dell’essere individuale al momento della morte. 16 In fin dei conti, però,
consapevoli che una sola interpretazione non riesce a risolvere fino in fondo il nodo dei versetti
allegorici, tutti i commentatori sono concordi nell’affermare che, qualsiasi sforzo di interpretazione
possa essere fatto:
La vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio (Corano 3:7).
Conclusioni
Sono state elencate alcune delle principali difficoltà della traduzione del Corano, esse sono
sia di tipo dottrinale e teologico, sia di tipo prettamente filologico. È evidente da quanto è stato
detto che non è pensabile affrontare la traduzione del testo sacro senza lo studio dei commentari
classici. Lo sapeva bene il Marracci, il quale, pur non avendo mai vissuto in ambiente islamico, e
non avendo avuto dei maestri arabi, riuscì però a portare a termine il suo lungo lavoro dopo essersi
dedicato all’apprendimento delle opere dei più importanti mufassirûn dell’Islam classico, e dopo
16
Al-Qâshânî, ‘Abd Al-Razzâq (1968), vol. II, pp. 803-839.
27
aver raccolto le loro spiegazioni sui temi teologici fondamentali. Quanto alle difficoltà linguistiche,
è davvero impensabile poter produrre una traduzione letterale del Corano con la stessa sicurezza e
precisione di una versione tra lingue europee: l’arabo non lo permette, la vastità del vocabolario e la
difficoltà di adattamento dei significati originali ha bisogno di aggiunte e sottrazioni, molto spesso
di perifrasi. È particolarmente vero quindi quel che dice Alessandro Bausani quando afferma di non
aver voluto fare della sua traduzione: “un ‘traduttore’ o ausilio per la lettura del testo originale”.
Egli ammette chiaramente di essersi preso qualche libertà per poter rendere l’espressività e il ritmo
del testo originale, che una traduzione letterale avrebbe tradito, e dice infine:
Molte altre scelte le giustificherà, o criticherà, il lettore specialista, alla cui clemenza di giudizio mi
affido, dichiarando che il mio scopo non è stato di fare cosa filologicamente nuova, che a questo non
mi sarebbero bastate le forze, ma piuttosto di presentare al pubblico in una forma letterariamente più
accessibile questo capolavoro del genio religioso semitico. 17
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17
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28
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29
CESARE GIACOBAZZI
Tradurre è interpretare:
Il testo letterario come testo ideale
nella formazione del traduttore
Testi specialistici e testo letterario
La proposta del testo letterario come testo ideale per imparare a tradurre qualsiasi tipo di
testo può apparire a prima vista provocatoria, se non addirittura insensata. Come esistono – si
ritiene – da un lato i testi specialistici e dall’altro i testi letterari, così deve esistere da un lato anche
la traduzione letteraria e dall’altro la traduzione di testi specialistici. Le scuole per interpreti e
traduttori conoscono bene tale differenza e, visto che si prefiggono il compito di formare interpreti e
traduttori di testi tecnico-scientifici, escludono generalmente il testo letterario. Chi nella vita
professione dovrà tradurre testi giuridici, economici, commerciali e così via, deve nel corso della
sua formazione – si ritiene apparentemente con tutte le ragioni del mondo – confrontarsi con tali
tipologie testuali. Del resto esistono anche le scuole specializzate nella formazione di traduttori
letterari e in quelle, ovviamente, non deve mancare il testo letterario.
Tale convinzione sulla separazione netta tra testo di finzione e testo tecnico-scientifico si
fonda su una contrapposizione per così dire tradizionale, una distinzione apparentemente così ovvia,
così conforme al senso comune, da non meritare alcuna riflessione. La differenza tra testi della
letteratura e quelli della realtà risulta, infatti, così immediata e naturale che si capisce da sé e,
dunque, apparentemente non merita una mente che compia uno sforzo di comprensione.
Tutti sanno, infatti, che un testo specialistico è importante per il contenuto mentre in un testo
letterario ciò che conta è la forma. L’uno è dunque esclusivamente informativo, l’altro invece è
essenzialmente espressivo: un testo letterario mette in scena un particolare individuo mentre un
testo specialistico rappresenta solo la realtà degli oggetti, quella dei dati di fatto e non quella del
soggetto. L’uno si occupa, infatti, della realtà oggettiva, l’altro della fantasia soggettiva. Anche per
questo il testo specialistico tende alla semplicità e alla chiarezza, mentre un testo letterario mira a
rispecchiare la complessa unicità dell’individuo.
Un luogo comune ben radicato: la distinzione tra forma e contenuto
Già queste distinzioni di chiara natura dialettica potrebbero suggerire una loro intima e
ineludibile vicinanza: per capire cosa sia un testo specialistico occorre riferirsi al testo letterario,
l’uno ha bisogno dell’altro, del modello opposto, per definirsi. A ben guardare può poi accadere di
rendersi conto di come in realtà non viga necessariamente un rapporto di esclusione tra le categorie
che tradizionalmente definiscono le differenze tra un testo letterario e un testo specialistico.
Prendiamo per esempio l’apparentemente ovvia dicotomia tra forma e contenuto che se applicata
all’analisi di tipologie testuali conduce a ritenere che possano esistere testi formalmente ineccepibili
ma vuoti di contenuti e, d’altro canto, contenuti che si esprimono e si comunicano
indipendentemente dalla materialità delle forme linguistiche. Ora non appare difficile smascherare
tale ovvietà come una palese insensatezza, giacché si sa bene come determinate tipologie testuali,
siano esse di natura narrativa o esplicativa, discorsiva o metadiscorsiva, selezionino specifici
contenuti. Le cose cambiano a seconda di come le si dicono e, dunque, anche la forma è a suo modo
un contenuto. Nell’ambito della teoria della letteratura non può esservi alcun dubbio in proposito. È
sufficiente il richiamo ai tre generi classici – lirica, dramma ed epos, generi dai quali discendono
tutti gli altri più moderni come romanzo, novella, racconto e così via – per riconoscere con
chiarezza come a determinate forme espressive corrispondano altrettanto determinati ambiti di
contenuto: la lirica permette l’espressione del soggetto, il dramma la messa in scena di eventi nella
loro oggettività, l’epos la fusione di conoscenze condivise – per esempio quelle relative alle gesta
degli dei – con la posizione soggettiva del narratore. Anche tipologie testuali scientifiche rendono,
ovviamente, manifesto il rapporto inscindibile tra la lingua e l’oggetto che essa rappresenta o
30
spiega. Uno scienziato sarebbe ben poco credibile se riferisse della clamorosa scoperta di tutte le
sequenze del DNA nelle forme di un articolo divulgativo. Se poi lo stesso scienziato volesse rendere
di pubblico dominio la sua scoperta allora dovrebbe scegliere un linguaggio comprensibile anche
per chi non è addetto ai lavori. Del resto anche l’esperienza quotidiana contraddice il luogo comune
dell’esistenza di un contenuto libero da ogni forma. Quale innamorato potrebbe mai scrivere, per
esempio, una lettera d’amore nella forma di una lettera commerciale?
Forma e contenuto, si può affermare sinteticamente, sono aspetti inscindibili e di rilevanza
simile in tutte le tipologie testuali, sia dunque in un testo letterario sia in un testo tecnico-scientifico.
Da tali considerazioni si può trarre la conclusione che anche in testo specialistico la forma è
importante per definire l’oggetto, esattamente come in un testo letterario. L’inscindibilità tra forma
e contenuto porta a rivedere un’ulteriore convinzione su cui si fonda la pregiudiziale
contrapposizione tra testi di finzione e testi pragmatici. È vero che i primi mettono in scena una
realtà soggettiva, unica e irripetibile – vi sono anzi molte estetiche che fondano il valore di un’opera
letteraria proprio nella sua originalità. Appare tuttavia palesemente insensato ritenere che i testi
pragmatici possano esistere senza un soggetto che li rediga e uno, o più, che li legga. Se vi fossero
tipologie testuali concepibili senza soggetti che li scrivano si potrebbe raggiungere ciò che molti
considerano qualcosa di auspicabile: la traduzione automatica. Un testo simile potrebbe essere
tradotto da una macchina senza che un soggetto, ossia un traduttore, debba intervenire per
verificarne la correttezza e l’efficacia. Anche un testo specialistico, per esempio appunto il testo
scientifico di cui si diceva, è il risultato di particolari scelte lessicali, compositive e retoriche
operate da un soggetto che conosce il contesto in cui appare il proprio testo e può dunque
immaginare come il fruitore lo recepisca. Un enunciato che sia pura informazione
indipendentemente da chi lo produce e lo fruisce evidentemente non può esistere, giacché non
esistono informazioni indipendenti dal contesto comunicativo in cui vengono fornite e, dunque,
neutre rispetto all’istanza che le produce e a quella che le recepisce. Informazioni non si
comprendono mai da sole, ma occorre sempre qualcuno che le trasmetta e trasmettendole fa filtrare
qualcosa di sé, di ciò che sa del contesto comunicativo e di ciò che immagina sia il fruitore.
Vi sono certo in alcuni casi di informazioni in cui si può pensare a una sorta di grado zero
dell’interpretazione, si pensi, per esempio, all’indicazione dell’uscita in una stazione o di una curva
pericolosa. In questi casi però il testo si riduce ad una icona senza la necessità di un enunciato
linguistico. Per faccende più complicate, se si vuole per esempio spiegare ad un possibile acquirente
tutti i vantaggi economici ed ecologici di un frigorifero di nuova generazione, occorre fornire
informazioni che non si capiscono da sole, ossia informazioni che abbisognino di un soggetto
pensate che faccia ipotesi sulla conformazione mentale del proprio interlocutore. In casi appena più
complessi di una semplice indicazione di direzione o di avvertimento di pericolo, non è più
possibile affidarsi a strutture che richiedono semplicemente il grado zero dell’interpretazione.
Ulteriori luoghi comuni
Un altro ben radicato luogo comune che fonda la tradizione distinzione tra testi letterari e
testi specialistici riguarda il ruolo della fantasia. I primi godrebbero della libertà di dar vita ai più
irresponsabili mondi fantastici, mentre i secondi avrebbero il dovere di attenersi in modo rigoroso
alla realtà. Ora, anche tralasciando di approfondire la complessa questione di carattere filosofico del
rapporto tra fantasia e realtà, si può tranquillamente ribadire una banalità filosofica che però ha il
pregio di contrastare tale luogo comune: la lingua non è la realtà, ma una strumento per richiamarla.
Le parole dunque, anche quelle dei testi specialistici, né sono né raffigurano oggetti, un
nebulizzatore per esempio, ma sono uno strumento per richiamarli nella mente di chi legge. Non è
dunque vero che il lettore di una lettera commerciale, o di un manuale d’uso di un macchinario, non
abbia nulla da immaginare. Il traduttore sa bene che non può tradurre un manuale che illustra per
esempio, del sistema di frenata ABS senza potersi immaginare il suo funzionamento. Esattamente
come il lettore di un testo letterario che deve fare ricorso alla sue esperienze di lettura e di vita per
tradurre in immagini le parole del testo (ripensare per esempio al bosco se legge una fiaba
31
romantica), così anche il tradurre di un testo specialistico non può che fare riferimento a ciò che ha
visto ed esperito al fine di prefigurare ciò a cui le parole rimandano. La realtà a cui si richiama il
testo, sia essa di natura fantastica o connessa all’esperienza sensibile, ha sempre bisogno di una
mente che la pensi, dell’immaginazione del lettore, affinché possa acquisire consistenza.
Il luogo comune che nel testo specialistico si incontri per così dire con immediatezza la
realtà è generalmente accompagnato da quello secondo il quale i testi letterari sarebbero
caratterizzati dalla complessità, mentre gli altri – descrittivi, informativi, esplicativi o appellativi
che siano – sarebbero semplici, o almeno la semplicità, la chiarezza e la trasparenza, ne sarebbe un
indice di qualità. Di contro un testo letterario non ricercato che si limiti all’essenziale viene definito
con categorie connotate negativamente come “piatto naturalismo” o “asfittico minimalismo”.
In realtà tale luogo comune dimentica come una rappresentazione linguistica chiara e
trasparente sia il risultato della scelta di modalità rappresentativo o esplicative che schematizzano
ad arte la realtà a cui si riferiscono al fine di renderla accessibile alla comprensione altrui. La
semplicità è il frutto di una strategia comunicativa, il risultato di una prestazione linguistica che si
produce da scelte che escludono e selezionano. La chiarezza o la complessità sono qualità del testo
che presuppongo comunque una rielaborazione linguistica dell’esperienza, una traduzione della
percezione in forme linguistiche. Il pregiudizio che determina tale luogo comune fa ritenere che la
realtà degli oggetti, del mondo esperibile direttamente, sia semplice e occorra osservarla per capirla.
La fantasia, il mondo dei pensieri e dell’immaginazione, al contrario sarebbero faccende complesse
che devono essere interpretate giacché non sono chiare come sarebbe, ad esempio, un nebulizzatore.
Al contrario, si può ben dire, anche la semplicità con cui si rappresenta appunto un nebulizzatore è
il prodotto dell’abilità linguistica e interpretativa di chi lo rappresenta. La chiarezza non è un
carattere immanente agli oggetti rappresentati, ma è l’effetto che si produce da determinate scelte
linguistiche.
Tutti i testi circolano inseparabilmente
Lo svelamento del carattere pregiudiziale delle distinzioni comunemente accettate tra testi di
finzione e testi pragmatici e il rifiuto dunque di accettare come ovvia la loro separazione 1 induce a
ritenere che il testo letterario non viva semplicemente accanto ad altri come se fosse collocato in un
orizzonte ad essi estraneo, ma venga influenzato, o “contaminato” da tutti i testi che fanno parte
dell’orizzonte in cui è scritto e recepito. In effetti è facilmente verificabile il fatto di come nelle
opere letterarie confluiscano tutti i testi della realtà linguistica. Non esiste, infatti, la lingua della
letteratura. Al massimo può esiste la lingua letteraria, ma è solo una delle tante lingue che
compaiono in letteratura. Se per esempio in Pavese la lingua dei Dialoghi con Leucò, è facilmente
identificabile come lingua letteraria – nessun essere umano nelle situazioni comunicative della sua
vita potrebbe esprimersi in tal modo, se non come evidente citazione dell’opera letteraria – la lingua
di altre sue opere – in Paesi tuoi, per esempio – è facilmente identificabile come calco del dialetto
piemontese veramente parlato nelle Langhe. Si pensi, ancora per esempio, alla prima pagina de
L’uomo senza qualità di Musil: le strutture lessicali sono quelle di un testo prettamente informativo,
quello delle previsioni atmosferiche. Del resto nel romanzo compaiono le lingue più diverse: quella
della filosofia, del diritto, della pubblicistica e così via.
Le differenze non sono dunque riscontrabili né su un piano terminologico né morfosintattico
e semantico, ma si ritrovano su altri piani, su piani non identificabili nella materialità filologica del
testo, per esempio negli aspetti funzionali, ossia nell’intento di chi usa e fruisce la lingua.
Ora, se è vero che tutti i testi circolano inseparabilmente e, dunque, che i testi letterari sono
contaminati dai testi non letterari, occorre chiedersi in che modo i primi si espandono sui secondi, in
definitiva cosa ci sia di letterario in un testo specialistico. La risposta appare ovvia: poiché la
materialità filologica dei testi, anche di quelli specialistici, è semplicemente uno strumento per
1
La riflessione postmoderna, per esempio quella espressa nelle posizione del cosiddetto New Historicism, può
essere considerata l’artefice di tale svelamento poiché in essa si presuppone che tutti i testi, letterari e non-letterari,
circolino inseparabilmente. A tal proposito si menziona Veeser (cur.) (1994).
32
ottenere determinati effetti (la prefigurazione del funzionamento di un’apparecchiatura, per
esempio), ciò che li accomuna, li colloca sullo stesso piano, è la necessità di individuare strutture
comunicative, strategie retoriche e piani significativi impliciti. In tal senso occorre considerare il
testo tecnico-scientifico anche nella sue dimensioni ‘letterarie’ o – nei termini della riflessione
postmoderna – assumere consapevolezza della contaminazione che subisce circolando
contestualmente ai testi letterari. Per riconoscere tale omogeneità si deve allora ricorrere agli
strumenti dell’interpretazione dei testi letterari nella didattica del testo specialistico. Vediamo come
questo possa accadere.
GLI ASPETTI REALI DEL TESTO LETTERARIO E GLI ASPETTI DI FINZIONE NEL
TESTO SPECIALISTICO
Autenticità del testo letterario e inautenticità del testo specialistico
In genere si tende a considerare un testo specialistico come un testo autentico e un testo
letterario un testo di finzione. Nella didattica della traduzione può essere vero esattamente il
contrario: il vero testo autentico è quello letterario, mentre il testo specialistico serve per simulare la
realtà e, dunque, ha molti dei caratteri della finzione.
Innanzitutto a un testo specialistico nella prassi didattica manca proprio quella prerogativa
per cui vi si fa ricorso, ossia quella dell’autenticità. Un testo è, infatti, autentico in relazione al
contesto d’uso. Una lettera commerciale è autentica se è scritta o letta per vendere o comprare
merce; un articolo di medicina è autentico se viene letto da un medico che deve curare pazienti; è
autentico un articolo di giornale se è letto da un lettore che voglia informarsi.
Ogni lettore può fare uso proprio, ossia conforme all’origine, ma ha anche la possibilità di
ignorare il motivo per cui era stato redatto e utilizzarlo come meglio crede. Musil, per esempio, con
l’incipit del sul romanzo testimonia di essere un lettore di previsioni atmosferiche che trasforma una
destinazione d’uso informativa con una letteraria. Gli studi culturologici insegnano che tutto ciò che
avviene in una orizzonte culturale, dalle lotte di galli ai reality shows, ha sì una sua funzione
specifica, ma può anche essere considerato un documento utile per scoprire strutture simboliche di
una cultura.
Esistono, dunque, diverse forme di autenticità e ognuna è connessa ad un particolare uso, o
interpretazione, del testo. Un testo specialistico nella prassi didattica non svolge la funzione
originaria ma quella di strumento per una simulazione: si presume che nella vita si verifichino
condizioni d’uso simili. Si presuppone, non si è certi, che nella prassi professionale, o nella vita, si
presenteranno testi analoghi. La simulazione didattica dunque è fondata su un gesto interpretativo
che deve prefigurare il futuro. In tal senso il testo specialistico, al contrario di ciò che comunemente
si crede, è utilizzato nella didattica della traduzione non perché rappresenta un “magazzino” di
strutture terminologiche pronte da utilizzare nella prassi traduttiva. Nessuno, infatti, può prevedere
come saranno i testi della futura vita reale. Il loro utilizzo è dettato dal fatto che è espressione di una
possibilità sì verificatasi nel passato, ma che deve essere verificata ogni volta nella sua pertinenza.
L’attività che bisogna allora esercitare, assieme a quella della memorizzazione e della scrittura
riproduttiva di una determinata terminologia, è dunque connessa alla domanda: è ancora attuale la
lingua che ho imparato? In che modo può essere attualizzata? Che differenza c’è tra il contesto
d’uso della simulazione e quello autentico in cui occorre tradurre?
Poiché è proprio il testo letterario che richiede ci si pongano tali domande si può
tranquillamente sostenere che la letteratura offra i veri testi autentici nella formazione del traduttore.
Il carattere dell’autenticità è inoltre sottolineato da una caratteristica del testo letterario, quella della
sincerità, estranea ad altri tipi di testo: non pretende, infatti, di essere sempre “autentico”, “vero” e
attuale. A nessuno verrebbe in mente che si possa parlare come scrive Goethe, o come parlano gli
argonauti nei Dialoghi con Leucò o Talino nei Paesi tuoi e, dunque, di imitare la lingua della
letteratura. Il palese smascheramento della sua inautenticità fornisce al lettore la consapevolezza
che per parlare di letteratura occorra usare un’altra lingua, quella per esempio, che permette di
rispondere alla domanda: “cosa dice a me Goethe?”, “come posso capirlo?”, “quali sono nelle sue
33
opere le tematiche ancora attuali?”, “cosa c’è di nascosto, di non detto che occorre comprendere e
trasformare in discorso?”. Il testo letterario permette, insomma, l’esercizio dell’abilità più utile al
tradurre: creare un testo da un altro testo che sia sì da questo dipendente, ma che non riproduca la
stessa lingua.
Le domande “cosa vuole dire questa cosa?”, “cosa ha in mente il mio interlocutore?”, “come
posso dire le stesse cose con le mie parole” sono le domande autentiche che ci si pone ogni
qualvolta ci si debba confrontare con interlocutori, ogni qualvolta li si voglia comprendere e si
voglia farsi comprendere da loro. Le stesse domande deve porsele il traduttore. Non è sufficiente
chiedersi: “cosa si dice in questo testo?”. La traduzione alla lettera, parola per parola (come appunto
potrebbe fare una macchina) non è una traduzione. Occorre invece porsi domande di altra natura,
domande che potrebbero essere così formulate: “cosa pensa chi ha scritto il testo?”, “cosa voleva
dire?”, “come posso dire le stesse cose a modo mio, cioè nella mia lingua?” Queste domande
presuppongono i processi mentali autentici che deve esercitare e apprendere il traduttore. E queste
sono le domande che si pone un lettore di un testo letterario perché questo si presenta come un
testo che ha bisogno di un lettore per essere compreso: non illude che il senso sia evidente, sia
ancorato alle parole, ma invita a cercarlo. È, dunque un testo, che ha bisogno della voce, della
parola, della lingua del lettore, esattamente come un testo da tradurre ha bisogno della voce, della
lingua del traduttore.
Il testo specialistico nasconde la sua immobilità, mentre la realtà a cui si riferisce cambia
L’esigenza di non limitare nella didattica della traduzione allo sviluppo di abilità
prettamente terminologiche ma di indirizzarla verso competenze interpretative è resa ulteriormente
evidente dal carattere di marcata dinamicità del testo specialistico. Il progresso tecnologico, infatti,
modifica costantemente la realtà a cui la terminologia deve adeguarsi introducendo continuamente
neologismi o modificando i termini linguistici già in uso. Anche la concorrenza tra i produttori di
tecnologie che intendono mettere il loro “marchio” sui loro prodotti chiamandoli a modo proprio, è
un aspetto che concorre in modo decisivo a rendere instabile il lessico tecnico-scientifico
nonostante tutti i tentativi dirigistici di normalizzazione.
L’uso del testo specialistico nella didattica della traduzione non può allora essere sorretto
dall’intento di presentare materiali linguistici definitivi, compiuti, completi. In effetti il lessico di un
testo specialistico deve alimentare l’illusione di rappresentare in modo certo e inequivocabile la
realtà a cui si riferisce. Il traduttore tuttavia non può credere a questa sua bugia, non può dunque
limitarsi ad apprendere la terminologia specialistica come se questa non potesse più mutare. Ciò
allora che dovrebbe far parte della sua formazione è l’abilità di riconoscere ciò che non si è mai
presentato, e di affrontare le difficoltà di una traduzione anche quando questa propone aspetti
linguistici che non si sono incontrati in precedenza. Non si tratta dunque, ancora una volta, di
“immagazzinare” strutture terminologiche da “spendere” nella prassi traduttiva, ma di sapere
affrontare la loro dinamicità, prendere atto della loro fugacità, della loro labilità. Ciò che dunque è
opportuno sviluppare nella didattica della traduzione è l’abilità di fare ipotesi sulla conformazione,
sul senso e la funzione di espressioni possibili, la capacità di sapere affrontare non solo ciò che è
ma anche potrebbe essere. In termini vagamente filosofici si potrebbe affermare che il traduttore
non può affidarsi solo all’empiria, ossia a ciò che ha esperito, ma deve fare ricorso anche alla
razionalità, ossia a ciò che si può prefigurare, al fine di affrontare il continuo processo di
attualizzazione richiesto dalle terminologie specialistiche.
Il testo letterario anche in tal senso fornisce la possibilità di fare esercizio in questo ambito
creativo richiesto dalla connaturata dinamicità del testo tecnico-scientifico. Il testo letterario, infatti,
non rivelando apertamente il suo senso, esige l’esercizio dell’abilità di fare costantemente ipotesi, di
considerare ciò che si comprende come una possibilità che deve essere costantemente verificata e
rivista, riformulata. Fornisce, in definitiva, la consapevolezza della necessità di trovare sempre
nuove parole, nuove formulazioni, ossia la consapevolezza della incompiutezza e dinamicità del
gesto linguistico, un gesto che per essere vero e autentico non deve riprodurre l’esistente ma
34
attualizzare ciò che si conoscere, rinnovare le conoscenze di cui già si è in possesso. Grazie alla
coscienza della dinamicità del lessico le competenze terminologiche non dovrebbero riguardare solo
ciò che il linguaggio terminologico è, ma anche a come potrebbe diventare. Ancora in termini
vagamente filosofici si potrebbe affermare che la formazione del traduttore non deve limitarsi a
chiarire l’essere del linguaggio specialistico, ma a prendere coscienza del suo divenire.
L’apprendimento di abilità traduttive non può allora affidarsi solo a capacità mnemoniche,
alla registrazione di ciò che è stato, ma presuppone capacità creative: la capacità di fare ipotesi, di
attualizzare il passato, di prefigurare ciò che ancora non è.
La riflessione e l’azione
Dalle considerazioni finora proposte si può dunque a ragione sostenere che una delle
caratteristiche principali del testo specialistico, o anche puramente informativo, è quella di mentire.
Ci suggerisce, infatti, qualcosa di palesemente falso: “Questa non è lingua ma realtà”. Se fosse
sincero dovrebbe dirci: “Questa è la lingua e la lingua è solo uno strumento, anche se di certo il
migliore che abbiamo per rappresentare o spiegare la realtà”. Ovviamente, la bugia su cui si fonda
non solo è a fin di bene ma è indispensabile affinché realizzi la sua funzione. Il testo specialistico,
infatti, non può smascherare i suoi limiti perché è impegnato non a riflettere su se stesso ma a fare
qualcosa, a dare informazioni, per esempio, o a mettersi d’accordo quando ci si incontra, o, ancora,
a spiegare come si installa un’antenna parabolica. Ha, infatti, l’esigenza non di svelare ma di
alimentare l’illusione di vedere come funziona l’ABS, o un montacarichi. Allo stesso modo un testo
di anatomia medica deve dare l’illusione di essere realtà affinché il chirurgo la possa riconoscere
quando opera. Non può perdere tempo mettendo il dubbio nel lettore-medico che la milza possa
essere rappresentata anche con altre parole, diverse, più precise. La lingua dei testi specialistici
deve, insomma, essere “chiara” e dunque nascondere la complessità della realtà che rappresenta.
Un traduttore tuttavia non può mentire a se stesso dicendosi che ciò che deve tradurre non è
lingua, ma una cosa della realtà. Non può non porsi la domanda in merito a come la cosa sia stata
detta e a come la si possa dire nel modo più efficace, ovvero sul come si possano produrre gli stessi
effetti, alimentare la stessa illusione di realtà con un’altra lingua.
La pratica della lettura e dell’interpretazione del testo letterario offre l’opportunità di un
ulteriore esercizio indispensabile al traduttore: quello di vivere in due realtà differenti, ossia nella
realtà rappresentata, quindi di pensare ed agire in essa, ma anche nella propria. Il testo letterario
permette insomma tanto l’esercizio dell’immersione in una prassi, quanto quello della presa di
distanza da essa e dell’osservazione. 2 Per un traduttore è infatti indispensabile pensarsi nell’azione
di rappresentare e spiegare, quanto il prendere le distanze dal testo, di svelarne gli aspetti che un suo
uso esclusivamente funzionale, totalmente immerso nella prassi, non permette di riconoscere. Per
imparare a tradurre occorre, infatti, svelare le illusioni che il testo tecnico-scientifico alimenta
affinché queste vengano ricostruite negli stessi effetti in un altro contesto linguistico. Proprio questo
continuo movimento tra l’immersione del mondo della finzione e la presa di distanza da esso – uno
dei caratteri fondamentali dell’esperienza della lettura – è ciò di cui il traduttore ha maggiore
esigenza, giacché gli permette di pensare a un testo sia come documento ‘autentico’ (di immergersi
in esso e nella prassi che fonda), sia come strumento di osservazione e riflessione sulla prassi reale
(di prenderne le distanze).
Conclusioni
Le considerazioni sulla contaminazioni tra testi letterari e testi specialistici e sulla necessità
della pratica col testo letterario al fine della formazione del traduttore, non possono evidentemente
2
Secondo Iser, per esempio, la letteratura offre un modello di interpretazione della realtà attraverso il quale si
attivano quei processi non riconoscibili nella prassi della vita reale perché in essa non si può agire e nello stesso tempo
prendere le distanze dalla propria azione: “Insofern bietet sich Literatur und die ihr geltende Theorie als ein Modell der
Weltherstellung, durch das jene Vorgänge ausgespielt werden, die wir im Vollzug lebensweltlicher Praxis nicht zu
erkennen vermögen, weil wir gleichzeitig tätig und in Distanz zu dieser Tätigkeit sind” (Iser (1992), p. 19).
35
essere interpretate in modo palesemente insensato come sarebbe l’intendere in esse l’auspicio
dell’abolizione del testo specialistico nella formazione del traduttore o addirittura la negazione
dell’esistenza di testi che non siano letterari. Testo letterario e testo specialistico non possono essere
considerati in alternativa, ma l’uno vive, può vivere, in perfetta armonia accanto all’altro. La
funzione del primo rispetto al secondo è infatti quella di svelarne aspetti che ne agevolino la
comprensione. In tal senso si potrebbe richiamare una efficace formulazione di Günter Figal, e
affermare che se di certo non tutto è letteratura, tutto si comprende però meglio grazie alla
letteratura 3 . Ciò che rende preziosa la pratica col testo letterario nella fruizione e nella traduzione di
testi specialistici può essere innanzitutto identificato nella consapevolezza smascherante che esso
sviluppa nel lettore. La pratica col testo letterario porta a svelare la dimensione autoriale e
soggettiva dei testi, dunque ciò che un testo specialistico di norma tende a nascondere: la posizione
contingente, l’intenzione latente, la connotazione soggettiva di ogni testo. Raramente si persegue un
unico intento di natura pragmatica anche quando il proprio gesto linguistico è finalizzato ad
un’azione ben precisa. Non si intende, per esempio, solo presentare i vantaggi di un frigorifero, ma
anche dare un’immagine di sé. In tal senso l’esperienza col testo letterario può sviluppare la
consapevolezza di come in ogni tipo di testo si mettano necessariamente in atto strategie
comunicative di volta in volta finalizzate ad ottenere effetti sul fruitore, come, ad esempio,
convincerlo, o ottenerne la benevolenza, o provocarlo, o sollevare in lui determinate attese e così
via. Rende insomma sensibili verso le dimensioni implicite dei testi e stimola a produrre una loro
formulazione esplicita e a verificare la pertinenza di quest’ultima.
In conclusione si può affermare che l’obiettivo didattico della proposta dell’utilizzo del testo
letterario nella didattica della traduzione non mira a soppiantare il testo specialistico ma a
considerarlo per quello che è, ossia lo strumento di una simulazione che presuppone e richiede
processi interpretativi. In tal senso il testo specialistico nella didattica della traduzione dovrebbe
svolgere una funzione molto simile a quella del testo letterario, ossia quella di sviluppare l’abilità di
recepirne aspetti impliciti ‘contingenti’ e, dunque, un’abilità non semplicemente riproduttiva, ma
anche produttiva.
Il testo specialistico non può essere semplicemente considerato come ‘serbatoio’ di strutture
lessicali, ma valorizzato come ‘appello’ all’allievo affinché non si aspetti una lingua da imitare ma
ne ricerchi l’originalità e l’autenticità, questo sia nella sua fruizione, sia nella sua produzione.
L’apprendimento di linguaggi specifici non avviene così solamente per contatto,
assimilazione e ripetizione, ma anche attraverso interventi interpretativi, processi di comprensione e
di verbalizzazione di aspetti non rivelati espressamente dal testo.
L’applicazione dell’esperienza estetica alla comprensione di testi specialistici permette
inoltre l’esercizio di prendere le distanze dal testo – di osservare ciò che accade mentre lo si
produce o lo si recepisce – e, nello stesso tempo, anche l’esercizio opposto, ossia quello di
orientarsi verso una prassi ben determinata.
La consapevolezza fruitiva sviluppata dalla lettura di testi letterari permette, in definitiva, di
svelare la complessità della comunicazione linguistica perché smaschera come illusoria, come
funzionale, la semplicità, l’immediatezza, la trasparenza.
Nel testo specialistico e nel testo letterario agiscono dunque medesimi aspetti finzionali,
la loro differenza consiste essenzialmente nel fatto che il testo letterario questi si svelano con
chiarezza mentre nel testo specialistico tendono a nascondersi. Per un traduttore è
indispensabile saperli riconoscere perché è indispensabile tradurre l’effetto della finzione sul
lettore.
3
Figal parla di “Kunst”, di arte ma la sua riflessione vale evidentemente anche per ogni modalità d’espressione
artistica (Figal (1996), p. 81).
36
BIBLIOGRAFIA
Figal (1996)
Figal, Günter, Der Sinn des Verstehens, Stuttgart, Reclam, 1996
Iser (1992)
Iser, Wolfgang, Theorie der Literatur. Eine Textperspektive, Konstanz, Universitätsverlag, 1992
Veeser (cur.) (1994)
Veeser, Aaram (cur.), The New Historicism - Reader, Routledge, New-London, 1994
37
FRANCO NASI
Da un italiano ad altri:
riscritture e traduzioni endolinguistiche del “Decameron”
Il valore ‘intrinseco’ di un’opera letteraria non ne
garantisce da solo il successo duraturo, che è
determinato almeno in egual misura dalle
riscritture: cessare di riscrivere un autore, significa
condannarlo definitivamente all’oblio.1
Le analisi comparate di traduzioni letterarie sono in genere molto particolareggiate, spesso
pedanti, quasi sempre noiose. Servono a poco se non sono sostenute da una solida riflessione teorica
o se non contribuiscono alla definizione di una teoria. Dovendo economizzare al meglio il tempo
che ho a disposizione vorrei che immaginaste questa conversazione come una sorta di appendice
alla lezione di apertura del professor Emilio Mattioli, al quale devo gran parte del poco che so su
queste questioni. Assumerò dunque l’approccio fenomenologico di Mattioli 2 come sfondo teorico e
mi soffermerò su una serie di casi (prima interlinguistici poi endolinguistici) che potranno forse
esemplificare quell’approccio, nella speranza di dimostrare che tradurre un testo (letterario, ma non
solo) è una cosa complessa; che giudicare una traduzione richiede come minimo una grande cautela;
che lo studio delle traduzioni letterarie ci dice molto sulla storia della letteratura e delle idee; e
infine che più si analizzano con mente aperta e disponibile diverse versioni d’autore di un’opera
letteraria più ci si accorge di quanto poco conosciamo sia la lingua da cui si traduce sia quella in cui
si traduce.
1. Traduzione e poetiche: un esempio sincronico
Ch’a m’so ardota a crédar / d’nö ësi gnânca tota, / ch’a m’so vesta piò d’na vôlta / a cve e a lè int e’
stes zir ad temp, / una matêda a dirì vuiétar, / e u m’è dvent stret ste ‘sti, / ös-cia, s’u m’è dgvent
stret, / e cun piò ch’e’ pasa e’ temp / sta matasa la s’ingavâgna, / e alóra e’ ven che dè / che on u
s’stofa (…)
Sono i versi di apertura di ? ? ? ? , un lungo monologo drammatico di Bêlda, una leggendaria stregaguaritrice romagnola. Il testo, scritto dal poeta Nevio Spadoni, è stato messo in scena da Ermanna
Montanari e dal teatro delle Albe di Ravenna nel 1995 e da allora ha girato per il mondo, con
consenso unanime della critica. Nel 2003 Nevio Spadoni ha raccolto in un volume la sua
produzione poetica per il teatro. Con l’esclusione di Galla Placidia, tutti i testi di Spadoni sono in
dialetto romagnolo con traduzione a fronte dell’autore. L’attacco del monologo di Bêlda nella
versione in italiano suona così:
E mi sono ridotta a credere / di aver perso persino il senno, / e mi sono vista più di una volta / qui e lì
nello stesso torno di tempo, / un momento di pazzia direte voi, / e mi è divenuto stretto questo
vestito, / accidenti, se mi è divenuto stretto, / e più passa il tempo / questa matassa si aggroviglia, / e
allora viene quel giorno / che uno si stanca.3
Si ha l’impressione, leggendo questa traduzione, che quella potenza espressiva, materica e
immaginifica del dialetto romagnolo, che comincia a delineare sin da subito il carattere della
protagonista, si sia come annacquata. Sembra che la lingua italiana ingentilisca e attenui la forza
della lingua romagnola, come se le parole si volessero mettere in posa davanti all’obiettivo di un
fotografo. Una posa innaturale, forzata: “aver perso persino il senno” è un bel novenario, con
1
Lefevere (1998), p. 118.
In particolare Mattioli (1983), (1993) e (2001).
3
Spadoni (2003), p. 19.
2
38
allitterazioni e andamento metrico aggraziato, ma è tutt’altra cosa rispetto al duro e sospeso: “d’nö
ësi gnânca tota”. Nell’espressione dialettale siamo chiamati in causa; siamo chiamati a completare
l’immagine; ma nello stesso tempo sentiamo una voce davanti a noi che si fa corpo, che comincia
ad assumere una fisionomia precisa. In italiano, in quell’italiano della traduzione, invece sembra
che tutto venga svelato e che la persona che pronuncia quelle parole sia un’attrice affettata, una
prestatrice di voce, e non la voce originaria di una donna fuori di sé. “Senno” poi è parola troppo
carica di richiami letterari per non portarci su altri palcoscenici, magari sulla luna, con Astolfo.
In una nota introduttiva al libro di Spadoni, Gianni Celati, con il suo orecchio
sensibilissimo, coglie subito che il monologo in dialetto di Spadoni – in modo simile a quanto
avviene nella poesia di Raffaello Baldini, altro poeta dialettale romagnolo fra i massimi della poesia
italiana contemporanea – “diventa racconto”, deviando “dal lirismo”. “Il dialetto romagnolo di
Spadoni – scrive Celati – si rivela una risorsa incomparabilmente più adeguata e duttile, rispetto
all’italiano letterario, scolarizzato in tutto il suo sistema espressivo. Ci sono cose che con l’italiano
scritto non è più possibile fare. Una di queste è la ricerca d’una lingua plurale, abitata non da una
sola voce (l’autore!), ma da tante voci sparse come echi del mondo”. 4 Poco dopo Celati, senza
peraltro dire nulla della traduzione offerta nel volume da Spadoni, si sofferma su quello che lui
definisce “attacco-capolavoro” di ? ? ? ? e ne dà una sua versione.
Che mi sono ridotta a credere / di non esserci neanche tutta / che mi son vista più d’una volta / e qua
e là nella stessa fetta di tempo / una mattolica direte voialtri / e m’è diventato stretto sto vestito /
ostia, se m’è diventato stretto / e con più che passa il tempo / sta massa s’intriga tutta / e allora vien
quel giorno / che uno si stufa …5
La traduzione di Celati è, da un certo punto di vista, molto più alla lettera di quanto non sia quella di
Spadoni sia nelle forme sintattiche sia nelle scelte lessicali. Eppure, basta avere un po’ di familiarità
con la scrittura di Celati per rendersi conto di come questo suo assaggio di traduzione si accordi con
la tonalità della sua opera. “Aver perso persino il senno”, “torno di tempo”, “divenuto”,
“aggroviglia”, “stanca”, sono parole di un altro colore rispetto a “Non esserci neanche tutta”, “fetta
di tempo”, “diventato”, “s’intriga”, “stufa”. Tutto arriva in modo diverso, persino “mattolica” che
non è nel dizionario e probabilmente è un’italianizzazione del ferrarese matôlica (per mattezza),
come attesta il Vocabolario Ferrarese Italiano di Luigi Ferri, 6 ma che è chiaro nel contesto.
Per rigore filologico segnalo che ? ? ? ? uscì in prima edizione nel 1995. Anche quella volta il
testo era accompagnato da una traduzione italiana dell’autore:
Mi sono ridotta a credere / di non esserci neppure tutta, / mi sono vista più di una volta / qui e lì allo
stesso tempo, / una pazzia direte voi, / e mi è divenuto stretto questo vestito, / accidenti, se mi è
divenuto stretto, / e più passa il tempo / questa matassa si aggroviglia, / e allora viene quel giorno /
che uno si stanca.7
In questa prima versione di Spadoni ci troviamo di fronte a scelte intermedie tra la versione più
scolastica e aggraziata del 2003 e quella pulsante e poetica di Celati.
Da quest’esempio si possono ricavare alcune semplici considerazioni:
1. I traduttori sono spesso insoddisfatti delle proprie traduzioni e ritornano su di esse modificandole
vistosamente (un caso canonico sono le versioni di Raboni delle poesie di Baudelaire).8
2. Non sempre le nuove versioni sono migliori delle precedenti.
3. L’autore non è necessariamente il miglior traduttore di se stesso, così come non ne è il miglior
interprete. Il testo, una volta pubblicato, va per conto suo e vive nelle diverse interpretazioni o
riscritture.
4. Esistono modi diversi di tradurre anche perché esistono poetiche diverse.
4
Celati (2003), p. 9.
Ivi, p. 11.
6
Ferri (1889), p. 245.
7
Spadoni (1995), p. 13.
5
8
Si veda Roboni (2004).
39
2. Traduzione e poetiche: un esempio diacronico
Se ci sono differenze così evidenti fra tre traduzioni fatte quasi nello stesso “torno di
tempo”, ancora più marcate e prevedibili saranno le varianti fra traduzioni svolte in momenti fra
loro distanti. Vediamo ora una breve lirica di Saffo in quattro traduzioni in italiano:9
A. È tramontata la luna
E le Pleiadi, è mezzanotte,
il tempo passa ed io,
io dormo sola.
B. Sparìr le Pleiadi
Sparìo la luna,
È a mezzo corso
La notte bruna.
Già fugge rapida
Ogni ora, e intanto,
Sola in le piume,
Io giaccio in pianto.
C. È sparita la luna,
le Pleiadi. Notte
alta.
L’ora del tempo varca.
Io dormo
sola.
D. Cinzia tramonta; la fatal carola
Le Pleiadi rimena a Teti in braccio;
È mezzanotte; l’ora passa; sola
Intanto io giaccio.
Si potrebbe rendere meno noiosa l’esposizione chiedendo di ordinare cronologicamente le quattro
versioni e di individuarne la data approssimativa di stesura. Il gioco (e la traduzione ha molto a che
fare con il gioco e con le sfide) dovrebbe essere molto semplice anche per chi non sia uno studioso
della storia delle istituzioni letterarie e dei modelli retorici della letteratura italiana. In B. la forma
chiusa della quartina di quinari, con il primo sdrucciolo e gli altri piani, e la rima abcb, il tipo di
lessico scelto fanno pensare a un traduttore sette-ottocentesco. In D. il sistema di rime, gli
endecasillabi e la forma metricamente regolare della quartina, insieme alle personificazioni e alle
perifrasi suggeriscono un traduttore classicheggiante, forse ottocentesco. A. e C. assumono molte
delle convenzioni poetiche del Novecento: il verso è libero, non c’è una forma chiusa, il lessico non
si discosta da quello parlato. Confrontandole è altrettanto evidente che in C. il linguaggio è più
ellittico, con una frammentazione e una spazializzazione del testo che rimanda alla poetica
dell’ermetismo ungarettiano. Più distesa, almeno così sembra a noi lettori di oggi, la versione D.
Ecco la soluzione del piccolo gioco, integrata con il nome del traduttore: B. Foscolo (1794);
D. Nievo (1856); C. Pontani (1969); A. Paduano (1991). I quattro testi riguardano indubbiamente la
stessa malinconica riflessione notturna di una donna sola, ma i modi in cui questa meditazione
diventa poesia sono diversissimi e viene il dubbio che non traducano lo stesso testo.
3. Progetto traduttivo e figure del traduttore
9
L’esempio di Saffo e parti del paragrafo 5 su Petrarca e Boccaccio sono ripresi da Nasi (2004).
40
Si è trascurato volutamente il testo originale di Saffo perché a questo punto non è tanto
interessante verificare la “fedeltà” della traduzione (paradigma valutativo quello della fedeltà che
uso qui tra virgolette solo per dire che sarebbe bene abolirlo del tutto dalla critica alle traduzioni
letterarie, perché ingannevole, ambiguo e pertanto insignificante), ma piuttosto fermarsi sulle
traduzioni per verificare se sono “testi”, se hanno mantenuto la coerenza interna e la forza
espressiva dei versi da cui traggono origine. Berman suggerisce nella parte introduttiva della sua
Pour un critique productive di lasciare all’ultima parte dell’analisi valutativa delle traduzioni il
confronto tra testo di partenza e testo di arrivo, e di concentrarsi piuttosto: (A) sulla verifica della
qualità del testo considerato come testo autonomo e non come insieme di parole derivate e
dipendenti, (B) sullo scopo per cui la traduzione è stata fatta, e (C) sulla figura del traduttore (una
cosa ci si potrà aspettare dalla traduzione di un poeta, una cosa diversa da quella di uno studioso
ecc.). 10
Che le quattro versioni di Saffo siano dei testi coesi per scelte lessicali, sintattiche, metrico
ritmiche mi sembra evidente. Ma per comprendere meglio le ragioni che hanno guidato il traduttore
è opportuno interrogarsi su chi sia il traduttore, sui motivi per cui traduce, sulla base di quale idea di
traduzione. Si tratta insomma di considerarne il progetto traduttivo.
Foscolo, uno dei traduttori di Saffo citati, ha un’idea precisa: la traduzione di una poesia deve
essere fatta da un poeta e non da un filologo. Molto chiara e sferzante è la sua critica a Anton Maria
Salvini, considerato all’inizio del secolo XIX uno dei più “esatti” traduttori di Omero. Scrive
Foscolo:
Nei versi salviniani v’era la massima infedeltà, perché la parola essendo tradotta col dizionario, ogni
immagine, ogni frase della poesia rimanevasi muta d’ogni armonia, cieca, fredda di splendore e di
fuoco e l’Iliade pareva cadavere. Niuno lo legge, è vero; ma torno a dirlo, i maestri e i dotti di
mestiere lo lodano, e gl’imberbi de’ collegi e de’ licei a chi ponno credere se non a’ maestri? Aprono
il Salvini, e mandano ai corvi l’Iliade divenuta carogna.11
Per il Foscolo solo il poeta è in grado di “animare” una traduzione. Il filologo, che traduce parola
per parola, uccide l’opera, la trasforma in cadavere.
Naturalmente la figura del traduttore poeta, è soltanto una delle molte possibili figure di
traduttore, ed è quasi ovvio che un poeta come Foscolo difenda la “categoria” dei poeti traduttori.
Ma ci saranno anche il traduttore filologo che lavorerà con l’occhio rivolto soprattutto alla
comunità degli studiosi; il traduttore traduttore che guarderà (o che sarà costretto dagli editori a
guardare) al mercato, alle attese del pubblico, e dovrà fare i conti con i tempi di lavoro, di consegna
e con le retribuzioni; il traduttore teorico che cercherà di evidenziare nell’atto della traduzione
quegli elementi che ritiene essenziali del testo letterario e della traduzione (se la paronomasia è
l’elemento centrale della definizione di poesia naturalmente la paronomasia sarà irrinunciabile in
qualunque traduzione poetica, lo stesso vale per il ritmo, l’ambiguità, l’evasione dalla norma ecc.),
il traduttore critico che suggerirà agli editori certi autori da tradurre funzionali a un’ipotesi
interpretativa di certi movimenti letterari, il traduttore linguista che si preoccuperà di evidenziare
nelle versioni interlineari le funzioni grammaticali di ogni singolo elemento della frase…
Le diverse figure, pur avendo obiettivi e progetti traduttivi differenti, interagiscono
continuamente fra loro così come le poetiche, nel loro continuo movimento, s’intrecciano e
s’influenzano. Paduano, un altro dei traduttori di Saffo, è un valente grecista. Il suo progetto
traduttivo non è quello imitativo o ri-creativo assunto spesso dai poeti. Pur dichiarando
“l’intenzione e l’ambizione di trasferire in italiano il piacere della lettura (“perché la lettura e non
l’informazione è il fine essenziale di questo libro”) egli si augura di coniugare leggibilità e
“rigoroso rispetto del testo, considerato con attenzione filologica”. 12 Ma forse la sua traduzione non
sarebbe come è, e neppure la poesia italiana del Novecento sarebbe stata come poi è stata, se
10
Berman (1995).
Foscolo (1810), p. 1348.
12
Paduano (1991), p. VI.
11
41
Quasimodo, non avesse pubblicato nel 1940 la sua raccolta del Lirici Greci, con un importante e
programmatico “Chiarimento alle traduzioni”. Nella raccolta si legge:
Tramontata è la luna
E le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
4. Traduzione e ideologie: le scelte, le censure
Oltre alle scelte di poetica, alla diversa “professione” del traduttore, alla sua intenzione
traduttiva, nella trasformazione dell’opera originale interviene, secondo Lefevere, anche l’ideologia
del traduttore, “accettata spontaneamente o imposta da qualche forma di patronato”, che “detta la
strategia di base del traduttore e quindi le soluzioni a problemi traduttivi connessi non solo alla
lingua dell’originale, ma anche all’Universo del Discorso che vi trova espressione (oggetti, nozioni,
usanze del mondo dell’autore).”13
L’ideologia condiziona ampiamente le scelte su quali testi tradurre in una determinata
situazione storico-politica. Piuttosto sorprendente è scoprire leggendo The Scandals of translation
di Venuti (1998) che i libri di Guareschi furono in cima alle classifiche di vendita statunitensi con
centinaia di migliaia di copie vendute mentre i grandi capolavori della nostra letteratura moderna e
contemporanea raramente erano presi in considerazione per traduzioni. Ma erano gli anni della
guerra fredda e i personaggi statici e stereotipati come Peppone e Don Camillo rientravano
perfettamente nell’orizzonte di attesa del pubblico americano. 14
L’ideologia modifica una traduzione non solo scegliendo cosa tradurre, ma anche
intervenendo volontariamente o meno con censure, perifrasi o eufemismi nell’atto concreto della
traduzione. Lefevere dedica alcuni saggi molto interessanti alla storia delle versioni inglesi di
Catullo. Anche in questo caso un esempio di traduzioni in italiano potrà chiarire come piccoli
spostamenti possano produrre testi diversissimi.
Giura la mia donna
Non sposerebbe Giove,
Giura; ma quel che giura
Scrivilo sopra il vento,
che vuole me solo, me solo;
se la chiedesse Giove.
al cupido amante una donna
scrivilo sopra il rivo.
Dice che mia, sol mia vuol essere donna la donna
Mia; no, d’altri; se lei Giove solleciti, no!
Dice; ma quello che dice a l’adoratore la donna,
scrivi nel vento ch’è vano, uomo, e ne l’acqua che va!
Che non sarà di nessuno, dice la mia donna:
soltanto mia, dovesse tentarla pure Giove.
Dice: ma ciò che donna dice ad un amante,
scrivilo nel vento o in acqua che va rapida.
Solo con te dice la donna mia
Solo con te chiaverei, direi
Di no anche a Giove.
Dice così ma quel che donna dice
A un amante pazzo di lei
Nel vento è scritto sull’acqua è scritto.
Anche in questo caso è possibile un’analisi comparata delle scelte stilistiche. Si vede bene che
molte di queste versioni sono splendide per compattezza ritmica e tonale. È come se ciascuna fosse
una “interpretazione” originale (nel senso che si attribuisce a questo termine quando riferito alla
13
14
Lefevere (1998), p. 41.
Venuti (1998), pp. 124-157.
42
“messa in suono” di uno spartito musicale). I nomi dei primi tre traduttori nell’ordine sono Guido
Mazzoni (latinista e critico di vaglia), Giovanni Pascoli e Salvatore Quasimodo. Di fronte all’ultima
traduzione si rimane un poco interdetti. L’autore è Guido Ceronetti, noto studioso di questioni
bibliche e forse ancor più noto come moralista. Non si può certo pensare che Ceronetti abbia scelto
di rendere il “nubere” di Catullo con un’espressione così metaforicamente forte e rozza a cuor
leggero. Avrà trovato delle ragioni filologiche che giustificano questa scelta. Sta di fatto che dopo
aver letto la traduzione di Ceronetti, le perifrasi o gli eufemismi adottati delle altre tre traduzioni
suonano diversamente. Una traduzione seguente risignifica e carica di significati nuovi l’operazione
più reticente dei tre poeti che avevano tradotto in precedenza. Per chi volesse cimentarsi con
un’ulteriore versione ecco il testo di Catullo (LXX).
Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat,
dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.
Nonostante l’indicazione preziosa di Berman di dimenticarsi dell’originale, almeno nella fase
iniziale dell’analisi di una traduzione, la comparazione delle traduzioni con il loro testo generatore è
importantissima, purché non si limiti a un confronto parola per parola, ma sappia comprendere le
ragioni testuali, intertestuali ed extratestuali che orientano le scelte traduttive. Mengaldo sostiene
che non si può giudicare una traduzione, neppure fatta da un grande poeta, senza considerare il testo
di partenza:
In nessun caso (…) l’analisi confitta nella pura immanenza serve veramente a qualcosa; sempre la
buona critica è confronto di ciò di cui si parla con altro, testuale o extratestuale (…): e la versione
offre, nell’andirivieni del nostro occhio, orecchio, gusto fra il tradotto e il traduttore, il caso più
stringente di efficacia critica del confronto, comparabile in un certo senso alla chiamata in giudizio
delle differenti redazioni e varianti d’autore.15
La storia delle letteratura d’altronde esiste proprio perché la letteratura vive nel tempo, e nel tempo i
testi vanno e vengono (l’intertestualità ha mostrato quanto i fili siano intrecciati) ed è questo
continuo movimento, questo “andirivieni” che fa sì che le riscritture non siano semplici tautologie.
5. Traduzione e ideologie: Petrarca e Boccaccio
Un altro esempio di come l’ideologia possa intervenire nel processo traduttivo e quindi nella
vita di un testo lo troviamo all’inizio della letteratura italiana ed europea con la traduzione latina di
Petrarca dell’ultima novella del Decameron, e arriviamo così, finalmente, al testo oggetto della
nostra conversazione.
Probabilmente nel marzo del 1373 Petrarca scrive all’amico Boccaccio e gli racconta di avere
avuta tra le mani, forse per caso, una copia del Decameron. Data la mole del volume, la lingua
volgare in cui era scritto, e le preoccupazioni gravissime che lo affliggevano, confessa di non averlo
letto integralmente: “Gli ho dato un’occhiata, come fa il viaggiatore frettoloso che si guarda intorno
qua e là senza fermarsi” (Seniles, XVII, 3). 16 Elogia, in parte, il lavoro “giovanile” di Boccaccio, in
parte lo critica: “e se mi sono imbattuto in qualche eccesso di licenziosità, ti scusavo per l’età che
avevi allora, per lo stile, per la lingua, per l’inconsistenza dell’argomento e dei futuri lettori. Ha
grande importanza il pubblico per il quale si scrive, e la diversità dello stile è giustificata dalla
diversa mentalità di chi legge”. 17 È interessante notare questa attenzione di Petrarca per il tipo di
pubblico a cui il libro era rivolto. Fino allora il Decameron aveva ottenuto un rapido successo
circolando soprattutto fra il pubblico mercantile o quello più popolare, che lo aveva apprezzato
attraverso i cantari o le raffigurazioni ispirate al libro, ma non aveva riscontrato uguale ricezione nel
pubblico più colto. Petrarca prosegue soffermandosi inaspettatamente e a lungo sull’ultima novella,
15
Mengaldo (1998a), p. VII.
Traduzione italiana in Boccaccio – Petrarca (1991), p. 13.
17
Ibidem.
16
43
quella in cui il marchese di Saluzzo mette disumanamente alla prova la fedeltà della moglie
Griselda dapprima togliendole i due figli e fingendo di farli uccidere, poi ripudiandola come moglie
e infine chiedendole di assistere la nuova giovanissima sposa nei preparativi del secondo
matrimonio. La storia gli sembrò diversa da tutte le altre e lo colpì al punto da volerla imparare a
memoria per ripeterla a se stesso e poterla narrare agli amici. Petrarca continua scrivendo che il
raccontare la novella fu per lui motivo di tale piacere che decise alla fine di tradurla in latino, a
vantaggio di un più vasto uditorio. Nella traduzione si ricordò del precetto di Orazio che
raccomandava di non tradurre parola per parola:
Ho reso la tua novella con parole mie, anzi in qualche caso ho sostituito le tue, in altri ne ho
aggiunte, convinto che non solo l’avresti tollerato, ma addirittura incoraggiato. 18
Petrarca, poeta della scrittura e dello studiolo, appartato e silenzioso, sente dunque il bisogno di
mandare a memoria una lunga novella come quella di Griselda per diletto personale e per il piacere
di riraccontarla agli amici. Ma la storia non è certo un motto di spirito: il diletto qui non consiste
nella battuta ingegnosa e sorprendente. Petrarca coglie la forza formativa di questa storia che turba e
commuove, esaspera e indigna. Il volerla riraccontare non è tanto determinato dall’urgenza di
“intrattenere” gli amici, ma piuttosto dal bisogno di raccontare una storia carica di saggezza, una
storia esemplare, come quella di Giobbe o di Abramo. Le trasformazioni che Petrarca apporta al
testo non sono solo scelte di stile, ma tendono a rendere ancor più esplicite le potenzialità educative
della vicenda. Nella traduzione la storia è resa più verosimile, alcuni passi vengono omessi, altri
invece sono ampliati. All’inizio ad esempio, Boccaccio scrive che i sudditi del marchese di Saluzzo
erano preoccupati perché il loro signore non si sposava, e lo pregavano genericamente di farlo
“acciò che senza erede né essi senza signore rimanessero”. 19 Questa è l’unica motivazione addotta
dai sudditi. Petrarca invece costruisce un dialogo tra il marchese e un portavoce autorevole dei
cittadini. Costui, con un’elegante argomentazione, cerca di convincere il marchese a prendere
moglie perché quell’atto è giusto e legittimo in sé, e perché la vita passa velocemente per tutti,
senza risparmiare nessuno: “Volant enim dies rapidi et, quanquam florida sis etate, continue tamen
hunc florem tacita senectus insequitur morsque ipsa omni proxima est etati. Nulli muneris huius
immunitas datur, eque omnibus moriendum est: utque id certum, sic illud ambiguum quando
eveniat”. 20 Griselda è l’ultima novella del Decameron e la sua funzione edificante si può cogliere
meglio se inserita nella struttura architettonica delle cento novelle. Traducendo la novella senza
cornice, senza il macrotesto in cui è inserita e in cui assume un particolare significato, Petrarca deve
riorganizzare il contesto e trasformare la fabula in un exemplum autonomo, compiuto e verosimile.
Luca Carlo Rossi, che ha curato un’edizione molto utile delle due versioni, spiega l’operazione di
Petrarca “come parte del suo programma di ‘ritorno’ all’età classica in era cristiana e costituisce una
vera e propria lezione per il suo più grande e affezionato discepolo Giovanni Boccaccio: per
scrivere un capolavoro occorre respingere le costruzioni architettoniche di aspetto barbaro, scegliere
argomenti nobili, comporre in latino, attenersi alla verosimiglianza sul modello degli exempla
storici della tradizione classica, e insieme rendere più trasparente la valenza figurale di Griselda
mediante un massiccio ricorso a temi e moduli tratti dai modelli biblici.”21
Quando Geoffrey Chaucer, con la voce del chierico di Oxford, racconta nei Canterbury Tales
la storia di Griselda lo fa riscrivendo in inglese l’exemplum di Petrarca, con le sue manipolazioni
ideologiche.
Così, grazie a una traduzione/interpretazione latina, inizia la peregrinazione del Decameron
fuori dall’Italia. 22 Un testo, quello del Decameron, che non è mai stato fermo e che è stato riscritto e
riraccontato in mille modi, da punti di vista diversi (e basterà ricordare come Christine de Pizan
18
Ivi, p. 14.
19
Ivi, p. 30.
Ivi, pp. 31 e 33.
21
Rossi (1991), pp. 17-18.
22
Si veda Branca (1986), pp. 388-393.
20
44
nella sua Cité des Dames riprenda diverse novelle offrendone però una lettura femminile,
ideologicamente opposta a quella di Petrarca, 23 con mezzi diversi (e qui viene in mente subito il
film di Pasolini), con lingue e forme letterarie diverse (Keats dà ad esempio una splendida versione
in versi della storia di Lisabetta da Messina), ma anche con le sempre più numerose traduzioni
endolinguistiche.
6. La traduzione endolinguistica
Esistono, secondo Jakobson, tre modi di interpretare un segno linguistico:
La traduzione endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per
mezzo di altri segni della stessa lingua; la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta
consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; la traduzione
intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi
di segni non linguistici. 24
Il Decameron di Pasolini è quindi una traduzione intersemiotica del testo di Boccaccio, la Griselda di
Petrarca è una traduzione interlinguistica, e la parafrasi dell’Introduzione (una delle parti
linguisticamente più complesse della raccolta) che si trova in lunghe note nelle antologie scolastiche è
una traduzione endolinguistica. Per Lefevere le varie forme di traduzione così come l’antologizzazione
o il saggio critico possono essere chiamate, con il termine generico di riscritture. Tutte queste forme
sono regolate da uno stesso processo che è quello della manipolazione. 25 Non ci sono interventi
“neutri”. Ogni traduzione, interpretazione, antologizzazione ecc. manipola il testo. Abbiamo visto come
questo avvenga sulla base di scelte di poetica o ideologiche. Ma la riscrittura è fondamentale per la
salute di un testo. La polvere che si deposita sui libri non è salutare. La sacralizzazione dei testi, contro
la quale ha parole molto critiche Lefevere, 26 può forse imbalsamarli (termine che appartiene allo stesso
campo semantico dei cadaveri di cui parlava Foscolo), non certo tenerli in movimento, tenerli in vita.
Quando uscì, pochi anni fa, un’edizione delle Canzoni di Leopardi accompagnata da una
traduzione in prosa di Santagata per gli Oscar Mondadori, ci fu sulle pagine dei giornali una vivace
polemica sull’utilità o il danno delle traduzioni dei classici. C’era chi sosteneva che in questo modo si
perdeva il senso di lontananza e della storia, che si banalizzavano questi grandi testi rendendo termini
complessi e carichi di rimandi al platonismo come “beltà” con un poco evocativo “bellezza”, che la
lingua di Leopardi è comprensibile e non ha bisogno di traduzioni. 27
Basta insegnare per alcuni anni in una scuola superiore in Italia per rendersi conto che oggi uno
studente non riesce a leggere con piacere i classici della nostra tradizione. Ma forse questo vale anche
per un pubblico adulto e colto, se è vero quanto scrive Melograni nella Premessa alla sua versione in
italiano contemporaneo del Principe di Machiavelli:
Alcuni anni or sono, Goffredo Parise mi confidò che abbastanza di frequente l’italiano di
Machiavelli gli risultava difficile, complicato e oscuro. Mi disse di esser riuscito a capire e a gustare
Il Principe di Machiavelli solamente dopo averlo letto in traduzione francese. Soggiunse che gli
stranieri conoscevano Machiavelli meglio degli italiani, poiché avevano la fortuna di leggerlo
tradotto. Suggerì di tradurre Il Principe in italiano moderno, e sostenne che la cultura politica degli
italiani ne avrebbe tratto gran giovamento. 28
Ho avuto la fortuna di insegnare per diversi anni all’estero. Una cosa che mi ha sempre
sorpreso era proprio la diversa velocità con cui gli studenti stranieri leggevano alcuni nostri classici.
Il Principe è un testo richiesto nei corsi di Scienze politiche, e gli studenti lo leggono, con piacere, in
un paio di sere. Così la Divina Commedia, che a me è sempre sembrata un libro lunghissimo, forse
23
Si veda Caraffi (2003), 126.
Jakobson (1966), p. 57.
25
Lefevere (1998), p. 10.
26
Ivi, p. 94.
27
Si vedano Mengaldo (1998b), Santagata (1998), Renzi (1998).
28
Melograni (1998), p. 5.
24
45
perché il rito di iniziazione a questo testo, consumato sui banchi di scuola del liceo, è durato tre anni
e mentre leggevo quel libro, lentamente, faticosamente (un canto ogni settimana era la razione che ci
veniva assegnata) la barba è spuntata davvero e sono successe anche mille altre cose. E mi sono
sempre chiesto che effetto debba fare leggere per la prima volta una Divina Commedia tutto d’un
fiato, senza dovere ricorrere alle note, se non per sapere qualcosa di più sui personaggi incontrati da
Dante. È un’esperienza che un lettore straniero può facilmente fare leggendo la Commedia tradotta
nella lingua del suo paese, mentre per la maggioranza degli italiani credo che la fruizione piacevole
della Commedia sia quasi sempre frutto di una rilettura. Si dirà che gli stranieri non leggono davvero
la Divina Commedia, ma una versione della Divina Commedia, una delle tante possibili riscritture.
Su questo non ci sono dubbi, così come non ci sono dubbi sul fatto che pochissimi sono quelli che
oggi in Italia leggono la Bibbia o il Vangelo nella lingua in cui furono scritti, eppure questi libri, per
molti, non sono solo libri belli, ma sono fonte di verità, anche in traduzione.
Una polemica analoga a quella che accompagnò l’uscita delle Canzoni di Leopardi curate da
Santagata si era riproposta per i classici italiani apparsi negli ultimi trent’anni in traduzioni
endolinguistiche. Nonostante discrete o meno discrete reprimenda, sta di fatto che ora anche alcune
antologie scolastiche riportano accanto alla novella di Calandrino di Boccaccio la versione in
italiano contemporaneo dello scrittore Piero Chiara, e che nei dipartimenti di italianistica all’estero le
riscritture di Busi del Decameron, di Celati dell’Orlando innamorato, di Calvino dell’Orlando
furioso, di Melograni del Principe, di Giuliani della Gerusalemme Liberata, ancora di Busi e Covito
del Cortegiano e del Novellino sono spesso testi di studio e non di curiosità. E chissà che presto non
arrivino da questi dipartimenti stranieri studi rigorosi come quelli che hanno accompagnato la
fortuna delle riscritture di Domenichi o del Berni dell’Orlando innamorato di Boiardo, esempio
illustre di un testo italiano tradotto in italiano dopo circa cinquant’anni dalla prima pubblicazione.
Di nuovo: prima di dare giudizi sbrigativi, sarà opportuno cercare di entrare nel merito di
queste riscritture. Più la critica sarà produttiva (per usare l’espressione di Berman), più riusciremo a
comprendere le manipolazioni (Lefevere) che ogni riscrittura inevitabilmente produce.
7. Il Decamerone: edizioni per bambini, per stranieri, per studenti…
Basta scorrere il catalogo in rete della sistema bibliotecario nazionale (www.sbn.it) per
accorgersi della quantità enorme di edizioni del Decameron, spesso con l’intento esplicitato nel
titolo di “emendare” (e quindi riscrivere) il testo. Vediamone alcuni:
Il Decameron di Messer Giovanni Boccacci Cittadino Fiorentino. Ricorretto in Roma, et emendato
secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento, et riscontrato in Firenze con Testi Antichi e alla sua vera
lezione ridotto da’ Deputati di loro Alt. Ser. Nuouamente stampato con Privilegij del Sommo
Pontefice, Fiorenza, 1573.
Decamerone di Giovanni Boccaccio ripurgato con somma cura da ogne cosa notevole al buon
costume e corredato con note riguardanti al buon indirizzo di chi desidera scrivere, Venezia 1754.
Decameron accomodato ad uso delle scuole, Faenza 1822.
Decamerone… nuovamente purgato ad uso delle scuole , Pistoia 1825.
Ventisei novelle di Giovanni Boccaccio tratte dal suo Decamerone e ridotte ad uso della gioventù
con annotazioni tratte da A. M. Bandiera, Venezia 1857.
Novelle commentate ad uso delle scuole , Firenze 1886.
Novelle scelte, purgate ed annotate da Celestino Durando, Torino 1891.
Accanto a questi ne compare uno di particolare interesse:
Ettore Fabietti, Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, tradotto in lingua italiana moderna ad uso
del popolo. Edizione integrale illustrata dall’artista A. Bastianini, 2 voll., Nerbini, Firenze 1906.
Già in precedenza si erano avute traduzioni di novelle del Decamerone, come nel Seicento con il
letterato padovano Paolo Beni, che “rassettò” la nona novella della prima giornata. 29 Ma, a quanto
mi risulta, quella di Fabietti è la prima versione integrale (e unica, visto che Busi tralascia
29
Si veda Dell’Aquila (2004).
46
intenzionalmente alcune parti). Sempre seguendo l’elenco bibliografico, si troverà che il numero di
riscritture-traduzioni in italiano del Decameron è notevolmente aumentato negli ultimi vent’anni.
Alcune dichiarano esplicitamente, già in copertina o nel sottotitolo, il loro progetto traduttivo. Si
hanno così:
1. Traduzioni graduate per studenti stranieri, dove viene proposto un numero limitato di novelle, in
genere quelle che si trovano in ogni antologia scolastica.
2. Riduzioni o riscritture per l’infanzia o la prima adolescenza. Anche in questo caso si tratta di
novelle scelte.
3. Riassunti per gli studenti delle scuole superiori.
4. Traduzioni per il lettore generico.
Riporto qui di seguito alcune ulteriori indicazioni bibliografiche con riferimento alla tipologia
indicata:
1. Edizioni per studenti stranieri
- Frate Cipolla, a cura di M.A. Covino Bisaccia e M.R. Francomacaro, Guerra, Perugia 1996
(Livello elementare).
- Cinque novelle dal Decamerone, a cura di M. Spagnesi, Bonacci, Roma 1995 (Livello intermedio).
2. Edizioni per ragazzi
Decamerone. Dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Mondadori, Milano 1984 (Scuola
elementare).
Il Decamerone, Scelta e riduzione a cura di E. Fiengo, Derva, Torino 1991 (Scuola media).
3. Riassunti
Decameron, a cura di R. Fabietti, Mursia, Milano 1992.
4. Traduzioni
Giovanni Boccaccio Aldo Busi, Decamerone. Da un italiano a un altro, Rizzoli, Milano 1990.
8. Frate Cipolla e i testi moltiplicati
Vediamo ora alcune specificità di queste riscritture unitamente a quella di Ettore Fabietti del
1906, limitando l’analisi comparata alla novella di Frate Cipolla, che è quasi sempre presente nelle
scelte antologiche per bambini e per studenti stranieri.
La novella è l’ultima della sesta giornata, dedicata alle vicende di coloro che seppero
sottrarsi a una situazione pericolosa o imbarazzante grazie ad una risposta arguta ed immediata.
Frate Cipolla, un monaco astuto e smaliziato, promette agli ingenui contadini di Certaldo di
mostrare loro una penna miracolosa delle ali “dello Agnolo Gabriello”, in cambio, naturalmente, di
generose elemosine. Nell’attesa della funzione religiosa due amici del frate, in vena di scherzi,
decidono di sostituire la presunta penna dell’angelo con dei carboni. Il frate si accorge della
sostituzione solo durante la predica e deve fare ricorso alle sue abilità oratorie per cavarsi
d’impaccio di fronte ai fedeli che gremivano la chiesa. Con un lungo discorso riesce a far loro
credere che la provvidenza ha fatto sì che lui sbagliasse reliquiario e portasse con sé non la penna
dell’angelo Gabriele, ma i carboni del martirio di San Lorenzo, la cui festa si celebrava in quei
giorni.
Nella novella, che ha struttura teatrale, il lettore è a conoscenza della truffa che si sta
consumando sul palcoscenico, si trova cioè in una posizione privilegiata rispetto al popolo di
Certaldo: sa quanto poco attendibili siano le reliquie del Frate e sa anche che nei suoi confronti è
stato organizzato uno scherzo. Ridendo della credulità del popolo, il lettore può dunque osservare il
modo in cui l’astuto frate riesce a riparare alla beffa. La felice riuscita di questa novella è dovuta
alla maestria retorica con cui Boccaccio racconta la storia il cui tema principale è appunto l’arte del
ben parlare. Il sermone di Frate Cipolla, con le sue invenzioni linguistiche e i suoi ritmi che
stordiscono, è in questo senso un capolavoro. Ma l’abilità di Boccaccio si mostra anche nelle
descrizioni dei personaggi, nell’architettura interna del testo, nei riferimenti intertestuali. Insomma,
una novella divertente e terribilmente difficile da tradurre.
Ecco i primi paragrafi nella versione di Boccaccio, introdotti dalla rubrica, a cui segue la
cornice e la novella.
47
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello, in luogo
della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover
dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il
sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
“Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi
io non intendo di voler da quella materia separarmi della quale voi tutte avete assai acconciamente
parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo
uno de’ frati di Santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi
dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol
guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo.
Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado,
il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona
pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andar ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro
dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo
nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle
famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e
il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto
era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe
detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o
amico o benevolente.
Nell’edizione più antica fra quelle citate, 30 la trasformazione è sorprendente: Frate Cipolla diventa
un semplice pellegrino, ogni riferimento alla sua filiazione con Sant’Antonio viene censurato,
compresa la predica finale dove Frate Cipolla non solo è un religioso, ma si prende gioco del suo
ordine. Ecco come viene riscritta la rubrica: “Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro una
penna, in luogo della quale trovandosi carboni, con presto avviso sé dalla soprastante beffa
delibera”. 31 Così poco dopo, si legge. “Usò un lungo tempo d’andare ogn’anno una volta a
ricogliere limosine una piacevole persona, il cui nome era Cipolla”. 32 Insomma, una versione
ottusamente “religiously correct”.
Ma veniamo alle riscritture più recenti concentrandoci maggiormente sugli aspetti linguistici
e stilistici.
Ho sottolineato tre termini che apparentemente non hanno bisogno di traduzione. Nella
tabella si possono vedere le scelte dei traduttori. Dove non compare nulla significa che chi ha
riscritto il testo ha tolto il termine o la frase che lo conteneva.
Boccaccio
Covino (1996)
Spagnesi (1995)
Chiara (1984)
Fabietti (1992)
Fabietti (1906)
Busi
(1990)
Vezzose donne
Graziose donne
Contado
Brigante
Campagna Di buona compagnia
Campagna Compagnone
Il miglior compagnone
Mie belle ragazze Contado
Buon compagnone
Zuccherine mie
Hinterland Eccellente furfante
Una delle maggiori insidie nella traduzione endolinguistica è il lessico. Di fronte a una struttura
sintattica complessa ci rendiamo subito conto di dover prestare attenzione. Di fronte invece a
termini come “Donna” o “Brigante” il più delle volte non sospettiamo di avere a che fare con false
friends, con parole che nel corso del tempo hanno perso in parte almeno il loro significato originale
e sono rimaste nell’uso con un significato diverso.
30
Boccaccio (1573).
Ivi, p. 339.
32
Ivi, pp. 339-349.
31
48
Gli esempi studiati dai filologi tratti dalla nostra letteratura del Due-Trecento sono molti. In
“Tanto gentile e tanto onesta pare” ci sono tre termini “gentile”, “onesta” e “pare” che sono
assolutamente comprensibili a un qualunque parlante medio. Essi sono di solito intesi come “di
buone maniere, ben educata”, “incorrotta” e “sembra o appare”. Gianfranco Contini, in un famoso
saggio, mostra invece che i tre termini per essere compresi devono essere contestualizzati
filologicamente. Scrive Contini che il sonetto di Dante:
Passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni, che
potrebbe “essere stato scritto ieri”; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali,
che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale. (…) Gentile è “nobile”, termine
insomma tecnico del linguaggio cortese; onesta , naturalmente latinismo, è un suo sinonimo, nel
senso però del decoro esterno (…); più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale
già “sembra”, e neppure soltanto “appare”, ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua
evidenza”.33
A nessuno credo venga in mente oggi, pronunciando il termine “Donna” l’origine “Domina” (mia
Signora e padrona”). Semmai oggi si usa l’espressione “la mia donna” nel senso molto meno nobile
di “la donna di cui io sono possessore”. Così il termine brigante ha come primo significato “ladro” e
non, come al tempo di Boccaccio, uno appartenente a una “brigata”, una compagnia di amici,
magari “allegra”, come quella dei protagonisti del Decameron. Scorrendo le traduzioni ci rendiamo
conto che tutti i traduttori hanno colto la variazione storica del significato di “brigante”. Busi, ha
giocato con questa ambivalenza accompagnando “furfante”, che sarebbe stato appunto un false
friend, a eccellente, caratterizzando così in modo più gioviale la figura del Frate. Per il vocativo con
cui Dioneo si indirizza alle compagne dell’allegra brigata la soluzione di Busi stupisce: sembra che
abbia voluto enfatizzare l’aspetto teatrale della situazione. Per il termine contado invece vale un
discorso differente. La parola è ora molto meno frequente di un tempo. Se Fabietti a inizio secolo
poteva ancora usarla senza remore, oggi i due traduttori delle versioni per studenti stranieri devono
sostituire contado con il generico campagna. Busi, che evidentemente sente che il termine è
desueto, non si accontenta e fa ricorso a un termine straniero, certamente eccentrico in questo
contesto.
Consideriamo ora un paio di espressioni idiomatiche. La prima si trova alla fine del passo
citato e riguarda Frate Cipolla che viene descritto come un abile retore; la seconda Guccio Imbratta,
il servo di Frate Cipolla che svolge un ruolo centrale nella dinamica della novella. In entrambi i casi
Boccaccio fa ricorso alla figura retorica dell’antonomasia. Mentre nel primo caso il riferimento ai
retori antichi è ancor oggi proverbiale, nel secondo il riferimento a Lippo Topo è per un lettore
odierno oscuro.
Boccaccio
Avrebbe
detto
esser
Tulio Aveva frate Cipolla un suo fante,
medesimo o forse Quintiliano
il quale alcuni chiamavano Guccio
Balena e altri Guccio Imbratta, e
chi gli diceva Guccio Porco; il
quale era tanto cattivo che egli
non è vero che mai Lippo Topo ne
facesse alcun cotanto.
Covino (1996)
Potrebbero prenderlo per lo stesso Era così brutto che neppure il
Cicerone o Quintiliano
pittore Lippo Topo aveva mai
fatto un personaggio simile.
Avrebbe detto che era Cicerone in che neppure Lippo Topo riusciva
persona o forse Quintiliano
mai a farne di così grosse
… maestro d’eloquenza
era grasso, aveva la peggior fama
del mondo.
Spagnesi (1995)
Chiara (1984)
33
Contini (1970), p. 161.
49
Fabietti (1992)
Fabietti (1906)
un novello Cicerone o un
Quintiliano redivivo.
Cicerone o Quintiliano in persona che nemmeno Lippo Topo ne
aveva fatte ai suoi tempi quante
lui
Busi (1991)
The Voice
era talmente idiota che nemmeno
Lippo Topo, specializzato in
ritratti di gobbi, guerci e sciancati,
è mai riuscito a ritrarne uno così
Anche nel caso quasi scontato della prima figura non mancano le sorprese. A Tulio si preferisce
Cicerone, ma Chiara non può dare per scontato che la figura retorica sia nota ai bambini per cui
scrive, e perciò la rende esplicita con “Maestro d’eloquenza” (termine peraltro che non credo dica
molto a un bambino delle scuole elementari). Busi invece di nuovo “attualizza” con un termine
straniero, questa volta inglese – a rigore The Voice starebbe per Frank Sinatra, quindi il cantante e
non il retore per antonomasia, ma evidentemente qui Busi sta continuando nel suo gioco di
ammiccamenti e complicità con il lettore. Più complessa invece è la figura usata per descrivere
Guccio Imbratta. Nella versione di Fabietti del 1906 Lippo Topo è un delinquente della peggior
specie. Così lo interpretano anche Chiara e Spagnesi. Busi invece spiega chi fosse Lippo Topo,
inserendo un inciso all’interno del testo. Anche Covino aggiunge il termine “pittore” che non
compare in Boccaccio. Sono due modi, più o meno discreti, per evitare di inserire una nota a piè di
pagina, che è vista spesso dai traduttori come una dichiarazione di sconfitta.
Veniamo ora ad un terzo esempio. Si diceva che la novella sull’arte dell’eloquenza di frate
Cipolla è un capolavoro retorico anche per la maestria con cui Boccaccio riesce a giocare con la
tradizione alta della letteratura parodiandola. Uno dei momenti più interessanti è la breve scena
dell’incontro di Guccio Imbratta e della Nuta. Ecco il testo:
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e
massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e
piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea
de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altrimenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata
la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò.
La struttura sintattica è un capolavoro architettonico: si inizia con il soggetto, ma poi si apre
una lunga sequela di secondarie che tengono in sospeso il lettore, fino alla conclusione che chiude
perentoriamente, con il verbo tronco, la lunga e concitata descrizione di Guccio e Nuta. Il passo si
struttura su contrasti semantici e su ricorrenze metriche, che danno all’intero andamento un ritmo
compatto. Guccio è “vago”, scrive il Boccaccio. Questo termine appartiene certamente al
linguaggio della tradizione cortese e si addice a un personaggio gentile che desidera la bellezza di
una donna. Ma Guccio è “vago di stare in cucina”, e qui abbiamo il primo contrasto stridente: al
termine scelto per dire “desiderio” non corrisponde un desiderio altrettanto nobile. Le situazioni
contrastanti continuano con il paragone fra lo “sgugliardo” e “scostumato” Guccio e l’usignolo fra i
verdi rami, che si esplicita con due endecasillabi dal tono idillicamente canzonatorio: “era più vago
di stare in cucina / che sopra i verdi rami l’usignolo”. La descrizione della Nuta è altrettanto
esilarante e in contrasto con le norme cortesi che non volevano che della donna si desse alcuna
descrizione fisica: “grassa e grossa e piccola e mal fatta” (si noti qui il polisindeto e la paronomasia
nei primi due aggettivi), “con un paio di poppe che parean due cestoni di letame e con un viso che
parea de’ Baronci” (i due paragoni, il secondo dei quali non dissimile dall’antonomasia fiorentina di
Lippo Topo, enfatizzano ancor più il ribaltamento dei valori di gentilezza e cortesia di Guccio)
“tutta sudata, unta e affumicata” (c’è qui un evidente richiamo a caratteristiche fisiche già descritte
di Guccio e, linguisticamente un divertimento nell’iperbole e nel climax). Riprendendo il paragone
con il mondo ornitologico, Guccio si trasforma in un avvoltoio “che si gitta ... alla carogna”.
50
Dall’usignolo tra i verdi rami e dalla vaghezza si passa nel giro di poche subordinate all’avvoltoio
rapace che si lancia sulla carogna. È questo un capolavoro di parodia. Il narratore ha prima
utilizzato una figura del repertorio lirico (l’usignolo); ma, applicandola al servo, opera un
accostamento stridente che si risolve in un effetto comico, ulteriormente dilatato dallo svelamento
dell’oggetto delle brame di Guccio, la cui descrizione sospende il corso dell’azione. Quindi
introduce una nuova comparazione, carica di violenta bestialità (carogna avvoltoio), che aumenta la
comicità della scena. A questo punto l’intonazione passa dalla lirica all’epica, ed il verbo principale
conclude solennemente la rappresentazione (là si calò): ma l’effetto d’insieme non è né epico né
lirico, bensì spassosamente grottesco. Una struttura complessa, ricchissima, ma anche segnata da un
ritmo che costituisce il senso e non lo accompagna come mero ornamento, quella che Meschonnic
chiamerebbe “significanza”. 34 Il compito per i traduttori non è facile.
Fiengo
(1991)
Frate Cipolla aveva un servo, chiamato Guccio, a cui, lasciandolo nell’albergo, aveva
raccomandato di stare attento a che nessuno toccasse le cose sue, e specialmente le bisacce, dove
erano le cose sacre. Ma i due giovani non lo trovarono nella camera del prete…
Covino
(1996)
Ma Guccio Imbratta, che preferiva stare in cucina soprattutto se lì c’era una donna, lascia aperta
la porta della stanza, dove sono le bisacce del frate, e va in cucina dove ha visto Nuta, una donna
grassa, grossa, piccola e brutta, con due seni molto grandi.
Ma Guccio Imbratta aveva più voglia di stare in una cucina di quanta ne ha l’usignolo di star
sopra i rami verdi, specie se vi si trovava qualche serva; capitò che ne vide una nella cucina
dell’oste, grassa e tozza e piccola e mal fatta, con due mammelle che sembravano due grosse
ceste per il letame e un viso che sembrava dei Baronci, tutta sudata, unta e affumicata; e proprio
come l’avvoltoio si getta sulla carogna, se ne andò da lei, lasciando aperta la camera di frate
Cipolla e abbandonando tutte le sue reliquie.
Spagnesi
(1995)
Chiara
(1984)
Ma la Balena o Porcellone, invece di guardarle se n’era andato in cucina a motteggiare con le
lavapiatti, lasciando aperta la camera.
Fabietti
(1992)
Guccio, che amava stare in cucina, così come l’usignolo ama starsene fra le fronde e
specialmente se c’era una servetta da blandire, visto che nella cucina dell’albergo ce n’era una
grassa, piccola e mal combinata con due poppe enormi che parevano cestoni da letame e con una
faccia grottesca che sembrava della nota famiglia dei Baronci, tutta unta e affumicata: Guccio
Imbratta, così come l’avvoltoio si butta in picchiata sulla carogna, si precipitò nella cucina, dopo
aver abbandonato le bisacce del frate.
Fabietti
(1906)
Ma Guccio Imbratta o Guccio Porco, che dir si voglia, piacendogli di stare in cucina, più che
l’usignolo sul ramo, specialmente quando c’era una servotta, appena ce ne vide entrare una
grassa e grossa, piccola e malfatta, con un paio di poppe che parevano due cestoni da letame e
con un viso più brutto di quel de’ Baronci, tutt’unto, sudato e affumicato, fece come l’avvoltoio
che si getta sulla carogna; scese, cioè, a precipizio dalla stanza di frate Cipolla, lasciandola
aperta con tutte le sue robe a barbara e si calò.
Busi
(1991)
Ma per Guccio Imbratta la cucina era un’attrazione ancora più fatale di un ramo fiorito per
l’usignolo, soprattutto se in cucina vedeva una servetta, e in quella dell’albergatore ne aveva
vista una grassa, grossa, bassa e culona, con un paio di tette che parevan due sacchi per il letame
e una faccia stile Baronci, tutta unta, sudata e affumicata: Guccio mollò la camera di frate
Cipolla aperta con tutte le sue robe incustodite e, come l’avvoltoio sulla carogna, si calò là.
Ci si può ragionevolmente aspettare che Chiara intervenga pesantemente nella sua trascrizione per
bambini. E così avviene. Altrettanto “censoria” è la versione della Fiengo per gli studenti delle
34
Si veda Meschonnic (1982).
51
medie inferiori. È interessante confrontare come viene tradotto il termine “poppe”, che mi pare non
abbia cambiato significato nel tempo (curiosa la scelta di Spagnesi), o ancor più l’impegnativo
“vago” (le soluzioni spaziano nei vari registri, con quella di Busi che recupera di nuovo
un’espressione della cultura popolare, “Attrazione fatale”, titolo di un noto film del 1987). Ma la
difficoltà di traduzione di questo passo sta nel ritmo, dato anche, ma non solo, dall’ipotassi. Si può
sentire come il ritmo vorticoso del passo, si frantumi nella riscrittura normalizzata di Spagnesi.
Fabietti (1992) che dovrebbe riassumere riporta in questo caso integralmente il passo. Fabietti
(1906) e Busi mantengono invece la struttura e soprattutto mantengono la chiusura con una parola
tronca (calò e là). Di nuovo le scelte di Busi sembrano essere un po’ sopra le righe, con alcune
soluzioni però davvero felici per immediatezza e velocità come “stile Baronci” o “mollò la camera”.
9. Sulla stasi ermeneutica e traduttiva
Si potrebbe continuare a lungo nel confronto. Credo che da parte di molti ci sia una sorta di
insoddisfazione per certe riscritture, considerate più come riduzioni, banalizzazioni (ma non si potrà
non riconoscere la “mano” dello scrittore nella versione di Chiara soprattutto se paragonata a tante
altre riduzioni per bambini) o stupefacenti “epurazioni” del testo (come nell’edizione del 1573). La
traduzione di Fabietti (1906) risulterà in alcuni passi “datata” (lasciare la stanza aperta “con tutte le
cose a barbara” è un’espressione oggi certo non usuale). Nel caso di Busi si sarà forse infastiditi da
scelte eccessive, ma non si potrà non sentire che la sua non è una “lingua di legno”, priva di ritmo,
priva di personalità, come quella che tante volte si incontra purtroppo leggendo le traduzioni.
Spagnesi, che pure compie un’operazione utilissima, cade a volte, come nell’ultimo passo
analizzato, in questo tipo di lingua. “Lingua di legno” è una traduzione letterale di un’espressione
idiomatica francese “langue de bois” che nel linguaggio comune significa lingua artefatta,
convenzionale e vuota, come quella di certi politici. L’espressione è usata da Meschonnic proprio
per criticare il modo “inanimato”, piatto, vorremmo dire incurante del ritmo e della significanza,
che certi traduttori adottano. 35
Si diceva a proposito della “critica produttiva” proposta da Berman che le dichiarazioni di
intenti dei traduttori sono momenti importanti per comprendere e quindi valutare meglio il loro
progetto traduttivo e la loro traduzione.
Ecco allora che la nota introduttiva di Spagnesi chiarisce certe sue scelte.
Obiettivo di questo libro è quello di far conoscere al pubblico straniero Giovanni Boccaccio, che con
il Decamerone è entrato nella storia della letteratura di tutti i tempi. (…) In questo libro sono
presentate al lettore alcune delle novelle più famose, affiancate da un aiuto alla lettura, una sorta di
traduzione in lingua italiana moderna, che rende più agevole il compito di comprendere l’italiano
trecentesco di Boccaccio, piuttosto complesso soprattutto a causa di particolari scelte sintattiche e
lessicali oggi non più in uso. Questa ‘traduzione’ vuole essere il più fedele possibile all’originale; si
avverte comunque il lettore che nel passaggio alla lingua moderna non sempre è possibile rendere il
colore e lo spirito che hanno fatto di Boccaccio un maestro della letteratura.36
Si potrà non essere d’accordo sull’approccio, si potrà criticare il fatto che sia possibile far
conoscere Boccaccio senza “rendere il colore e lo spirito” che lo hanno reso “maestro della
letteratura”, ma questo è l’intento dichiarato di Spagnesi, e su questo va valutata la sua lealtà al
Decameron. Per citare ancora Berman: “Il traduttore ha tutti i diritti se agisce lealmente”. 37 Inoltre
non è male impiegare i classici della letteratura italiana, che così bene rappresentano la nostra
storia, per insegnare la lingua (che è sempre anche insegnamento di una civiltà) sia all’estero che
nelle nostre scuole, dove sempre maggiore è la richiesta di insegnanti non improvvisati di italiano
come L2.
35
Meschonnic (2000).
Spagnesi (1995), p.3.
37
Berman (2000), p. 77.
36
52
Così vanno lette anche le due introduzioni di Fabietti e Busi, molto simili anche nelle scelte
delle immagini.
Sono stato lungamente indeciso prima d’assumermi il carico di ridurre in lingua corrente,
comprensibile al popolo, il maggior monumento dell’antica prosa italiana. Mi spaventava e la novità
dell’impresa, che poteva meritarmi taccia d’irriverenza, di profanazione e quasi di sacrilegio, e la
difficoltà enorme di rendere – in diversa forma – la freschezza, il sapore e la vivacità dell’originale.
Del peccato di superbia mi riconosco colpevole e ne faccio atto di contrizione, con poca speranza di
essere assolto; del peccato più grave di profanazione, no.
Il Decamerone non è una statua o un dipinto su cui l’incoscienza d’un mestierante dello scalpello o
del pennello s’adoperi a levar la patina antica per rinfrescarne i colori o le forme: il Decamerone
rimane intangibile e intatto, e gli studiosi dell’aureo Trecento, i puristi, i classicisti potranno ancora e
sempre baciarne la polvere veneranda fra le pagine ingiallite delle antiche edizioni.
Soltanto, perché il popolo non lo capisce e non lo legge nella sua forma originale, si è voluto
tentarne una copia per lui e colorirla col suo stesso eloquio presente. Non altro. 38
E Busi a sua volta:
Desidero sottolineare che ho tradotto il Decamerone di Giovanni Boccaccio, non ho scritto il mio
(…). Perché questa traduzione non ha affatto la pretesa di essere una traslitterazione o una
ricreazione o altra cosa dall’originale: è l’originale oggi. Si sa quanto gli originali più autentici siano
proprio quelli sottoposti a costanti revisioni e mutilazioni e reintegrazioni, e in questo sta la loro
vitale inossidabilità: nella letteratura universale le più grandi opere immutabili sono quelle che hanno
ancora e sempre tanta energia in serbo da sopportare (…) lo squartamento, la manipolazione,
l’estrapolazione aforistica, e pungolano i contemporanei di ogni epoca a espungerle, passarle
sottobanco, santificarle, mandarle al rogo, farle “risorgere” in un’edizione qualsiasi, e renderle,
appunto, di volta in volta nuovamente originali – e se non di fatto con una traduzione, con l’ingenuo
arbitrio di una reinterpretazione qualsiasi, benvenuta per quanto tirata per i capelli o messa in piega.
Per i più schizzinosi, poi, una precisazione fuori dai denti: l’originale non è stato trafugato e
sostituito da questa traduzione, è sempre lì al suo posto a loro disposizione. Ma perché, allora, gli
orripilanti non sono andati a leggerselo prima o perché contesterebbero a altri la possibilità di
accedervi grazie a una traduzione invocando la sacralità del testo e la blasfemità dell’operazione?
Non si vorrà negare, per esempio, che la Bibbia sia un testo sacro per qualcuno o fondamentale per
gli snob e sapete perché? Perché è mercuriale nel tempo, capricciosa e faziosa, pacifica e sanguinaria
nel suo muovere con sé secolo dopo secolo gran parte dell’umanità che ci sta. La Bibbia è quel che è
perché non conosce stasi ermeneutiche (non solo per questioni di traduzione, dunque), perché è
un’opera scatenatamente ballerina, che al Vaticano piaccia o no. Era ora che si strappasse il
Decamerone dal suo mortifero ballo liceale della mattonella per fargli fare un meritato e popolare
giro di valzer sul suolo nazionale. Sono sicuro che da adesso in poi non starà più fermo neanche un
secolo. 39
Stili diversissimi quelli di Fabietti, bibliotecario e filantropo lombardo, che parla con la fiducia
solare del riformatore di inizio Novecento, e di Busi, scrittore turbinoso ed edonista di fine secolo.
Sarebbe interessante a questo punto procedere ulteriormente e verificare sulle opere narrative di
Busi le affinità fra la sua poetica e la sua traduzione del Decameron. Potrebbe essere utile in questo
senso ricorrere alla categoria critica di Camp.
Sullo stile Camp hanno scritto in molti, a cominciare da Susan Sontag in un saggio del 1964
raccolto poi in Contro l’interpretazione. Solo adesso tuttavia si inizia ad utilizzare comunemente il
termine nella critica italiana, anche grazie agli studi di Fabio Cleto (1999), che ha dedicato al
soggetto un’ampia ricerca, sfociata in un utile reader apparso negli USA. Brevemente, e solo per
dare alcuni spunti, Camp è uno stile in cui si mescolano i registri stilistici; si fa ricorso ad immagini
tratte dalla cultura popolare e della televisione; si usano frequentemente termini stranieri; a
differenza del Pop spesso si ricorre all’esagerazione, all’artificio, all’affettazione; le situazioni sono
38
39
Fabietti (1906), pp. 3-4.
2
Boccaccio-Busi (1993 ), pp. 6-7.
53
spesso enfatizzate; c’è un amore per l’eccesso e l’artificioso; il bello e il brutto non sono distinti;
come scrive Susan Sontag, si assiste a una “teatralizzazione dell’esperienza”. 40 “Il Camp è solvente
della morale. Neutralizza lo sdegno moralistico e favorisce l’atteggiamento di gioco”. 41 Infine,
riprendendo questa volta David Bergman, 42 “Camp è associato alla cultura omosessuale, o almeno
a un erotismo consapevole che mette in discussione la naturalizzazione del desiderio” (Camp is
affiliated with homosexual culture, or at least with a self-conscious eroticism that throws into
question the naturalization of desire”).
Nei pochi passi visti della traduzione scanzonata di Busi, molti di questi elementi
compaiono puntualmente e il Decameron torna immediatamente ad essere quel libro di fronte al
quale i giudici dell’inquisizione decretavano la censura o Petrarca mostrava una certa insofferenza.
Sembra perdere l’aura di un “rassicurante” classico in-offensivo.
Per fortuna fra i compiti del critico non c’è quello di dover dare un voto alla fine di un’indagine.
Critica produttiva non credo voglia dire arrivare a giudizi definitivi, ma piuttosto arrivare a
comprendere un po’ meglio se possibile quanto altri hanno fatto.
Lasciando per un momento le scelte di poetica (e ideologiche) che hanno condotto Fabietti e
Busi a tradurre in modi molto differenti, nelle loro note introduttive ci sono molti punti comuni a
cominciare dalla difesa contro l’accusa di avere commesso il “peccato di profanazione” o di aver
operato in modo blasfemo. Anche il linguaggio afferisce allo stesso campo semantico della
religione (“sacrilegio”, “peccato di superbia”, “profanazione”, “blasfemità”, “sacralità”). Il testo
originario (o quello che si ritiene tale) è salvo, non è stato né trafugato né profanato e rimane a
disposizione di chi voglia leggerlo e studiarlo. Il testo però è stato riscritto (tradotto) ed è stato
rimesso in movimento.
Il mantenere in vita un testo coincide con il piacere procurato dal movimento e dalla vita. Le
traduzioni, scrive Apel, vanno concepite “come processi sospesi, come un contesto problematico
dinamico collegato direttamente alle opere. (…) La traduzione di un testo poetico (…) non è un
compito che si possa risolvere una volta per tutte, bensì una problematica che si rinnova di continuo
sul piano storico, con un orizzonte aperto”. 43
Santificare un testo e ritenere di essere gli unici depositari della chiave interpretativa porta a
una stasi ermeneutica, e lo uccide imbalsamandolo. Quanto questo possa essere devastante non solo
per l’opera in sé ma per il mondo, lo si vede ogni volta che una setta ha costretto o costringe in
rigidi parametri interpretativi un testo: lo è stato per la Bibbia, per il Vangelo, per il Capitale, per il
Corano… Laddove cessa il movimento, diceva Pascal, 44 subentra la morte, e la traduzione, con la
sua provvisorietà e la sua apertura verso l’altro, l’estraneo, aiuta certamente a muovere le cose.
BIBLIOGRAFIA
Apel (1997)
Apel, Friedmar, Sprachbewegung (1982), tr. it. a cura di E. Mattioli e R. Novello, Il movimento del
linguaggio, Milano, Marcos y Marcos, 1997
Ariosto (1970)
Ariosto, Ludovico, Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1970
Berman (2000)
Berman, Antoine, Pour une critique des traductions: John Donne (1995), tr. it. parz. G. Maiello, Traduzione
e critica produttiva, Salerno, Oedipus, 2000
40
Sontag (1967), p. 376.
Ivi, p. 381.
42
Citato in Cleto (1999), p. 4.
43
Apel (1997), p. 28.
44
Pascal (1993), p. 119.
41
54
Boccaccio (1573)
Boccaccio Giovanni, Il Decameron (…), Fiorenza, Giunti, 1573
Boccaccio (1906)
Boccaccio Giovanni, Il Decamerone, tr. it. E. Fabietti, Firenze, Nerbini, 1906
Boccaccio (1984)
Boccaccio Giovanni, Decamerone. Dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1984
Boccaccio (1991)
Boccaccio Giovanni, Il Decamerone. Raccolta di novelle, scelta e riduzione di E. Fiengo, Torino, Derva,
1991
Boccaccio (1992)
Boccaccio Giovanni, Decameron, a cura di R. Fabietti, Milano, Mursia, 1992
Boccaccio (1995)
Boccaccio Giovanni, Cinque novelle dal Decamerone, a cura di M. Spagnesi, Roma, Bonacci, 1995
Boccaccio (1996)
Boccaccio Giovanni, Frate Cipolla , a cura di M.A. Covino Bisaccia e M.R. Francomacaro, Perugina, Guerra,
1996
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58
GIOVANNA BUONANNO
Tradurre Shakespeare oggi
1. Shakespeare, nostro contemporaneo.
Parlare di traduzioni shakespeariane oggi vuol dire addentrarsi inevitabilmente in campi
ampi e spesso di difficile definizione. Si può procedere ad una rassegna di alcune tra le diverse
accezioni di traduzione del testo shakespeariano, facendo riferimento alle numerose suggestioni che
ci ha offerto e continua ad offrirci il cinema, passando per il balletto, l’opera o la video-arte,
riuscendo spesso a rintracciare una fitta rete di rimandi intertestuali. 1
La riflessione critica intorno a ‘Shakespeare, nostro contemporaneo’ 2 così feconda nel ‘900,
viene tutt’ora continuamente arricchita dalla vastissima diffusione dell’opera del drammaturgo in
diversi contesti linguistici e culturali, attraverso adattamenti, rappresentazioni, versioni
cinematografiche e televisive, o semplici tracce e citazioni che possono far ritenere che Shakespeare
più di ogni altro scrittore e drammaturgo occidentale viva e viva proprio in traduzione, attraverso
continue esplosioni, rifrazioni, echi che contribuiscono a creare un corpus parallelo a quello
propriamente testuale shakespeariano, con il quale intrattengono rapporti di maggiore o minore
prossimità. 3 Basti pensare, ad esempio, al regista Akira Kurosawa che ha diretto, a distanza di circa
trent’anni l’uno dall’altro, due film di chiara ispirazione shakespeariana, ambientati in un lontano
Giappone medievale: Trono di sangue (1957) basato sul Macbeth, e Ran (1985) che propone una
rivisitazione di King Lear.
2. Shakespeare: “page or stage”?
In uno studio precedente ho trattato le prime traduzioni shakespeariane in Italia
soffermandomi in particolare sul lavoro del traduttore e drammaturgo milanese Giulio Carcano, che
intorno alla metà dell’Ottocento si avvicina a Shakespeare e fornisce numerose traduzioni ai primi
interpreti shakespeariani sulla scena italiana, ponendosi anche l’ambizioso obiettivo di tradurre in
versi l’opera completa del drammaturgo inglese. 4 L’Ottocento e in particolare il periodo
risorgimentale costituiscono un momento importante per la diffusione di Shakespeare in Italia e per
la produzione di traduzioni delle sue opere, che avviene con notevole ritardo rispetto sia alla
fioritura del teatro shakespeariano che si compie a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, sia alla
successiva diffusione delle opere a stampa, la cui pubblicazione risale al terzo decennio del XVIII
secolo.
La cultura italiana, dunque, scopre Shakespeare tardi e soprattutto attraverso la mediazione
della cultura e della lingua francese, con le traduzioni e gli adattamenti di La Place, Ducis e Le
Tourner, cui si deve anche il tentativo di “regolarizzare” Shakespeare, ossia di rendere il suo verso
sciolto e intriso di commistioni tra vari registri, conforme ai canoni di purezza e decoro propri del
teatro classico francese, al punto che Le Tourner si propone nelle sue traduzioni di “distillare un
nuovo testo”5 . La novità di Carcano risiede, oltre che nell’ampiezza della sua opera di traduttore,
nella scelta di tradurre direttamente dall’inglese, operando precise scelte stilistiche che rendano le
sue traduzioni adatte anche alla scena.
L’attenzione al lavoro di Carcano consente, quindi, di toccare un nodo centrale della
riflessione critica sul testo shakespeariano e la sua natura che ha forti ricadute sulla maniera di
avvicinarsi alla sua traduzione, ossia se esso sia da intendersi come principalmente destinato alla
1
Mi limito a citare il film William Shakespeare’s Romeo + Juliet di Baz Luhrmann (1996), rivisitazione in
chiave multietnica e postmoderna della tragedia shakespeariana, non privo di suggestioni da West Side Story (1961).
2
Il riferimento è a Kott (1964), testo chiave nel panorama critico su Shakespeare, attento sia alla dimensione
testuale sia a quella teatrale della sua opera.
3
Sulle “tracce”di Shakespeare nella cultura inglese contemporanea si veda Drakakis (1997).
4
Si veda Buonanno (2002).
5
Sulla diffusione di Shakespeare in Italia attraverso la mediazione della cultura francese si veda Buonanno
(2002).
59
lettura o se debba essere orientato alla scena. Il dibattito “page vs. stage”, intorno alla validità del
testo shakespeariano come opera letteraria in opposizione alla sua natura propriamente scenica, ha
interessato la critica sin dagli inizi, sfociando spesso in giudizi e formulazioni teoriche in netta
contrapposizione, da indurre quasi a credere nell’esistenza di due distinti Shakespeare, il poeta e il
drammaturgo (cosa di per sé non trascurabile, se si pensa ad un versante degli studi shakespeariani,
di interesse soprattutto biografico e storiografico, che tende a negare l’esistenza stessa di
Shakespeare!)
Già Sir Tomas Bodley, studioso e diplomatico contemporaneo di Shakespeare, nonché
fondatore di una delle più prestigiose biblioteche al mondo, la Bodleian Libray di Oxford si
proponeva di escludere dalla sua costituenda biblioteca tutte le opere drammatiche in quanto “riffraff Books”, libri da poco, e tra questi includeva anche le opere di Shakespeare che per la loro
spiccata vocazione scenica, non dovevano essere lette ma recitate ed ascoltate in teatro.
Sul versante opposto, in epoca successiva, si possono annoverare tra i più illlustri sostenitori
della natura poetica del testo shakespeariano in opposizione a quella scenica, lo scrittore e critico
inglese Charles Lamb, autore del saggio “On the tragedies of Shakespeare, considered with
reference to their fitness for stage representation” (1811), nonché dei Tales from Shakespeare,
adattamenti narrativi delle opere del drammaturgo, e Johann Wolfgang von Goethe che pur attratto
dal mondo della scena e attento studioso del mestiere dell’attore, non riteneva che le opere di
Shakespeare si dovessero rappresentare. In un saggio del 1814 egli afferma:
La fama e il valore di Shakespeare appartengono alla storia della poesia. È un errore supporre che
tutti i suoi meriti discendano dal suo ruolo preminente nella storia del teatro (…) Non esiste piacere
più puro dello starsene seduti ad occhi chiusi ad ascoltare un’opera di Shakespeare recitata, non
declamata, da una voce naturalmente ricca di espressione . 6
Per quanto si possano ritrovare argomentazioni a favore della destinazione scenica delle
opere di Shakespeare nei secoli precedenti, si può ritenere che è nel ‘900 che si compie un’ampia
rivalutazione e riappropriazione dello Shakespeare teatrale. L’estetica teatrale ‘900 elaborata a
partire dai primi decenni del secolo dalle avanguardie storiche, fino alle tendenze più recenti, ha
contribuito in maniera significativa alla riflessione su Shakespeare e a ridefinire il rapporto tra
pagina e scena. In particolare, anche attraverso Shakespeare si è avviata una intensa riflessione
sull’autorità dei classici e sulla necessità di restituire i testi drammatici del canone occidentale alla
scena esplorando le diverse potenzialità che essi hanno di rinnovarsi e riproporsi in maniera “viva e
umana”, come sostiene Bertolt Brecht. Nella riflessione del drammaturgo tedesco, il teatro di
Shakespeare come autore classico può rivivere sulla scena del ‘900 se questa si libera “dall’effetto
intimidatorio dei classici”, ossia se essa è in grado di superare “una concezione falsa, superficiale,
decadente, meschina della classicità” e abbandonare definitivamente qualunque “bigotta, adulatoria
e falsa venerazione” che i classici incutono. 7 Una preoccupazione simile circa l’eccessivo rispetto
dei classici, seppure con una tendenza più iconoclasta, viene espressa da Antonin Artaud, secondo il
quale bisogna liberarsi dei capolavori, responsabili “dell’asfissiante atmosfera in cui viviamo”,
rivendicando il diritto di “dire ciò che è stato, e anche ciò che non è stato detto, in una forma che ci
sia propria, che sia immediata, diretta”. 8 Se da un lato un possibile esito della riflessione estrema di
Artaud è rappresentato dal rifiuto netto dei capolavori del passato sulla scena contemporanea,
dall’altro sembra possibile e forse auspicabile un recupero dei classici facendoli rivivere, in
traduzioni e adattamenti che possano riflettere via via nuove condizioni di produzione e fruizione.
La volontà di liberare i classici della propria aura e autorità manifestata dai teorici della
scena trova un forte punto di convergenza con la riflessione novecentesca sul senso e il valore della
traduzione, incentrata sul rapporto tra l’originale e le sue traduzioni, che rivendica l’autonomia della
6
Citato in Fenton (2004) (mia traduzione).
Brecht (1979), pp. 110-12.
8
Artaud (1978), p. 192.
7
60
traduzione e la sua natura di testo in sé, al di là del suo essere un derivato di un altro testo. Come
suggerisce Walter Benjamin, la traduzione contribuisce a conferire una “seconda vita” (Überleben)
all’originale, e a informare la sua ricezione in nuovi contesti. 9
Tornando a Shakespeare, la spinta a riproporre e rivitalizzare la sua opera sulla scena
contemporanea ha accomunato molti maestri del teatro contemporaneo, da Brecht a Strehler, a
Brook, ai quali si devono significativi scritti e riflessioni sul testo shakespeariano, oltre che
importanti messincene. Nel caso del regista inglese Peter Brook, la centralità di Shakespeare nella
sua lunga e intensa attività di regista è testimoniata da molte regie di opere shakespeariane lungo un
arco di tempo molto ampio, dalle messinscene più tradizionali degli anni ’40 fino all’ultimo Amleto
del 2003, affidato all’interpretazione di un attore nero e ad un cast multietnico e inoltre proposto
sulla scena internazionale anche in una versione in lingua francese, dunque in traduzione. Gli scritti
teatrali di Brook sono ricchi di riferimenti a Shakespeare, a partire da The Empty Space del 1968 nel
quale il drammaturgo viene ampiamente discusso e indicato come possibile modello da seguire per
creare un’alternativa alle forme teatrali più trite, convenzionali e “mortali”, secondo la definizione
di Brook, che infestano molta scena contemporanea. In uno scritto più recente risalente al 1998,
Evoking Shakespeare, Brook si sofferma a lungo sulle qualità del testo shakespeariano e le
condizioni sceniche in cui veniva rappresentato originalmente, rivelando una puntuale attenzione sia
alle qualità propriamente testuali del testo sia alla sua relazione con la struttura e la natura del teatro
di epoca elisabettiana.
La ricchezza e poliedricità dell’immaginario shakespeariano, la fluidità del verso e la sua
qualità di rendere visibile l’invisibile, e strano ciò che è familiare costituiscono per Brook la forza e
l’eccezionalità del testo shakespeariano legato in maniera inscindibile alla natura stessa del teatro
elisabettiano e alle sue precise modalità di produzione e fruizione. Nelle parole di Brook:
Il teatro elisabettiano suscitava un tale entusiasmo paragonabile a quello del cinema di venti o
trent’anni fa, quello in cui Orson Welles girò Quarto Potere e che offriva un mondo intero di
possibilità nuove. Questa particolare forma di teatro si basava su una semplice piattaforma (…)
sulla quale si susseguivano le immagini. Dato che non vi erano scene e fondali, se qualcuno diceva
‘ci troviamo in una foresta’, allora eravamo veramente in una foresta e se un attimo dopo diceva
‘non siamo in una foresta’, allora questa spariva. Questa tecnica è più veloce del montaggio nel
cinema.(…) Ed è fluida più di qualsiasi tecnica cinematografica elaborata fino ad ora.10
Per Brook, Shakespeare rappresenta l’apice del teatro elisabettiamo proprio per la sua
capacità di esaltare il teatro dell’illusione, (make-believe), ossia dell’evocazione e creazione sulla
scena di un mondo credibile per gli spettatori attraverso la magia e il potere della parola, di una
parola agita, recitata, condivisa, da far risuonare su uno spazio scenico vuoto, essenziale. Questa
riflessione si rivela ricca di implicazioni nel ridefinire il rapporto tra pagina e scena in quanto ne
sottolinea la reciproca dipendenza e al contempo consente di esaminare il testo shakespeariano nella
sua complessità semantica e stilistica senza perdere di vista la sua valenza di play-text, di testo per
la scena.
Un breve sguardo alla cronologia delle prime rappresentazioni delle opere di Shakespeare
sulla scena elisabettiana può servire a confortare l’argomentazione di Brook e più in generale a
tentare una ricomposizione nella tradizionale contrapposizione tra pagina e scena. Le opere di
Shakespeare vengono rappresentate per la prima volta a Londra tra il 1590 e il 1613 (Shakespeare
vivente) e in questo arco di tempo diciotto delle sue opere vengono anche pubblicate come
“quartos” e “bad-quartos”, mentre le restanti diciotto continuano a circolare come copioni. Solo nel
1623 avviene la pubblicazione postuma nella versione a stampa “in folio”, sulla quale si basano
molte successive edizioni critiche e traduzioni, delle trentasei opere teatrali attribuite a Shakespeare,
cui in seguito verrà aggiunto Pericles.
9
10
Benjamin (1923).
Brook, (1998), pp. 22-23 (mia traduzione).
61
Appare chiaro da questi brevi cenni alla cronologia del teatro di Shakespeare che i suoi testi
prima di diventare The Complete Dramatic Works of William Shakespeare, Esq., circolassero come
play-texts, prompt-books, e forse addirittura come scores, partiture, data la “porosità” di un testo
teatrale in forma di copione, aperto a riscritture e rimaneggiamenti successivi.
3. Translation studies e testo teatrale.
Se si tende a privilegiare la natura scenica del testo shakespeariano come playtext, nella
discussione su metodi e approcci nella sua traduzione si possono rinvenire interessanti spunti di
riflessione nell’ambito dei Translation studies, emersi come disciplina accademica soprattutto a
partire dagli anni ’70 e che si caratterizzano per la spiccata tendenza interdisciplinare e la
compresenza di vari approcci nell’elaborazione di teorie e metodi della traduzione, dal letterario la
linguistico al filosofico. Tuttavia, pur proponendo una notevole ampiezza di prospettive e
un’attenzione a varie tipologie testuali, all’interno dei Translation studies lo studio dei testi teatrali
è stato e in parte continua ad essere un ambito piuttosto marginale.
E’ soprattutto nel lavoro di due studiose, Mary Snell Hornby e Susan Bassnett che si
rintraccia una puntuale attenzione al fenomeno della traduzione del testo teatrale che conduce
all’elaborazione di metodi e approcci differenti ma con non pochi punti di convergenza. Per SnellHornby è importante considerare i diversi elementi costitutivi di un testo teatrale, in vista della sua
destinazione scenica. La studiosa propone dunque alcune categorie, in parte individuate già da altri
studiosi, che nel loro insieme concorrono a rendere il testo “performable” ossia adatto ad essere
recitato. Nella riflessione di Snell-Hornby il testo drammatico è fluido e plasmabile, diventa quasi
una partitura nella quale si rinvengono le seguenti caratteristiche: quella di poter essere recitato
(performable-spielbar) enunciato (speakable-sprechbar), ma anche cantato (singable-singbar), nel
caso dei libretti per opere e musica. Ad essi la studiosa affianca anche la qualità, fondamentale per
gli attori, di riuscire ad esprimere il ritmo, il tempo e l’espressione (breathability-Atembarkeit) che
incide anche sul polo della fruizione, orientando lo spettatore verso un tipo di risposta empatetica,
catartica oppure dissonante e reattiva. 11
Bassnett, privilegiando un approccio di tipo semiotico, vede nella partitura linguistica del
testo teatrale uno dei molteplici codici della scena e insiste sull’importanza dell’insieme e
dell’interazione dei vari codici. In quest’ottica propone una revisione del concetto di recitabilitàperformability, privilegiandone il carattere operativo che emerga durante il processo di analisi del
testo, traduzione e messinscena, tenendo presente le condizioni che contribuiscono all’evento
dall’emissione alla fruizione. 12
Entrambe le studiose assumono nella propria riflessione sulla traduzione del testo teatrale la
prospettiva e la reale situazione dell’interprete, ossia di colui o colei che deve recitare il testo, e
richiamano l’attenzione all’importanza della tradizione scenica e del contesto di produzione
nell’elaborazione del testo tradotto, insistendo sulle condizioni vigenti nella cultura teatrale
d’arrivo, che contribuisce ad orientare sia la discussione intorno ai testi teatrali da mettere in scena,
sia la pratica del tradurre.
Snell-Hornby si sofferma anche su alcuni caratteristiche del linguaggio del testo teatrale che
si esprime di solito nella forma del dialogo, però è altro rispetto al linguaggio comune, essendo
caratterizzato da forme di coesione testuale, densità semantica e al contempo ellissi, slittamenti,
allusioni che offrono ampio margine all’interpretazione individuale di chi lo recita, rinviando cioè
ad un sottotesto. Inoltre la partitura linguistica del testo drammatico è ricca di metafore, giochi di
parole, effetti voluti di climax e anti-climax, anacronismi che non devono essere sottovalutati
nell’atto della traduzione affinché il testo di arrivo abbia le stesse qualità di discorso drammatico
del testo di partenza.
Le caratteristiche individuate da Snell-Hornby sono presenti nei testi di Shakespeare,
accanto a elementi costitutivi propri della loro ricca partitura linguistica che pongono problemi non
11
12
Snell-Hornby (1996), pp. 32-33.
Bassnett (1998).
62
trascurabili al potenziale traduttore. In un recente saggio sulla traduzione del testo drammatico
shakespeariano, il critico e traduttore francese Jean Michel Dèprats si sofferma su aspetti di questi
testi particolarmente importanti in vista della traduzione. Egli afferma che il testo shakespeariano è
una macchina infernale che contiene miriadi di possibilità di senso e pone chi traduce davanti a
continue scelte e interpretazioni. Perché questo oggetto pieno di giochi di parole (puns), arcaismi,
giri di frasi sia fruibile in un’altra cultura o lingua il traduttore / la traduttrice deve farlo rivivere,
deve “soffiargli dentro la vita”, affinché il suo lavoro-travaglio non produca solo un nato morto. 13
Ciò che distingue una traduzione dalle altre, continua Déprats, sta nella scelta lessicale e nel modo
in cui vengono risolti precisi nodi formali quali l’adozione del verso libero piuttosto di una
particolare metrica, o, in alternativa, il ricorso alla prosa.
Un elemento imprescindibile da considerare nell’accostarsi alla traduzione del testo
shakespeariano è proprio la natura del verso. Shakespeare scrive in blank verse, il pentametro
giambico senza rime, vale a dire un verso di cinque piedi in cui ciascun piede è formato da una
sillaba lunga e una breve. È un verso che si impone nella poesia drammatica inglese proprio in
epoca elisabettiana, in quanto adatto a veicolare l’espressione drammatica. Il ritmo e l’accento sono
componenti importanti di questo verso, la cui distribuzione al suo interno risulta fondamentale nel
determinare l’enfasi, la scansione e l’aggregazione di parole. Un possibile analogo italiano di questo
verso, a cui spesso hanno fatto ricorso i traduttori, è l’endecasillabo, che ha però una distribuzione
diversa di accenti. 14 Al blank verse, che costituisce il metro prevalente, si affiancano passi in rima
nella forma di canzoni o poesie, di natura lirica e dal ritmo regolare se paragonati al blank verse,
nonché ampie sezioni in prosa, che nell’insieme contribuiscono a diversificare il tessuto testuale
shakespeariano. Queste eccezioni al blank verse contribuiscono ad esaltare la varietà di registri
linguistici, attraverso l’alternanza di registro alto e basso, il ricorso a voluti arcaismi e giochi di
parole che impongono al traduttore, ancora una volta, di operare scelte precise, spesso racchiuse tra
i due poli opposti, secondo la riflessione di Venuti, di “foreignizing” o domesticating”, ossia
dell’accentuazione della distanza e dell’estraneità tra testo di partenza e testo d’arrivo o della
prossimità tra essi, secondo una tendenza alla familiarizzazione del testo originale nella cultura di
arrivo. 15 Nel caso di Shakespeare in quanto classico del ‘600 si può optare per una traduzione che
guardi al passato, operando scelte stilistiche e lessicali dal gusto volutamente antico, oppure
attualizzarlo. Come sottolinea Serpieri, nel primo caso il rischio è la stesura di un testo troppo
erudito, mentre nel secondo un’eccessiva banalizzazione o omologazione, a cui il traduttore può
sfuggire se sceglie la strada dell’“ibridazione”, mirando a fare “del testo tradotto un sistema testuale
rivolto al pubblico attuale e tuttavia proveniente da un’altra epoca e un’altra cultura.”16
L’attenzione al pubblico e al polo della ricezione nella traduzione di testi drammatici viene
sottolineata anche da Dèprats, e si affianca ad una precisa considerazione per la destinazione
scenica:
L’unica e sola linea guida per il traduttore di testi teatrali è rappresentata dalla dimensione fisica di un
testo, scritto per delle bocche, dei polmoni e degli apparati respiratori. Parafrasando ciò che Vitez
disse di Molière (…) Vi è un’unica traccia lasciata da Shakespeare, ed è pneumatica.17
4. Tradurre Shakespeare per la pagina e la scena: l’esempio della Tempesta.
Tracce “pneumatiche” di Shakespeare in traduzione si può affermare che si imprimono
nitide nel lavoro di Agostino Lombardo, traduttore per la pagina e la scena della Tempesta.
Noto anglista e studioso di Shakespeare, Agostino Lombardo ha curato importanti edizioni
critiche e traduzioni delle opere shakespeariane. Le condizioni del lavoro di Lombardo sulla
13
Déprats (2002), p. 87.
Su problemi di metrica del testo shakespeariano e sul rapporto tra blank verse ed endecasillabo si veda
l’accurata analisi di Serpieri (2002).
15
Cfr. Venuti (1995).
16
Serpieri (2002), p. 70.
17
Dèprats (2002), p. 100 (mia traduzione).
14
63
Tempesta appaiono singolari e piuttosto eccezionali in quanto la traduzione dell’ultima opera
shakespeariana gli fu commissionata da Giorgio Strehler per l’allestimento da lui diretto per il
Piccolo Teatro di Milano e andato in scena nell’estate del 1978. Si tratta dunque di una traduzione
rivolta direttamente alla scena e ad una precisa produzione, che solo successivamente, secondo un
destino analogo al testo shakespeariano, diventa una traduzione per la pagina, pubblicata da
Garzanti in edizione testo a fronte nel 1984 e, come precisa lo stesso traduttore, ha come originale
l’edizione critica New Arden Shakespeare dell’opera, basata sul testo apparso nell’‘in-folio’ del
1623.
Come sottolinea Lombardo nella ‘Premessa’ all’edizione Garzanti,
La versione ha inteso obbedire al criterio della più rigorosa fedeltà filologica ma ha tentato,
insieme, sia di suggerire l’andamento ritmico del testo (di qui il suo essere in versi che, pur non
volendo in alcun modo riprodurre il blank verse elisabettiano, si ripropongono di rievocarne la
qualità drammatica e poetica) sia di conseguire il massimo di recitabilità.18
Da queste brevi indicazioni sul suo approccio alla traduzione, si comprende quali siano state
le principali linee guida di Lombardo, informate sia al rispetto per il testo, l’attenzione al verso e il
ritmo (“fedeltà filologica”, “andamento ritmico”), sia alla reale destinazione della traduzione, ossia
la scena (“recitabilità”). Inoltre, Lombardo ribadisce il carattere “scenico” del suo lavoro riducendo
all’essenziale le note di corredo al testo che, quando presenti, servono a giustificare particolari
scelte lessicali, a spiegare la resa di particolari giochi di parole (puns) o, infine a segnalare i casi in
cui la versione pubblicata propone una variante rispetto al testo utilizzato nella messinscena.
In uno studio successivo, Lombardo puntualizza alcuni aspetti del lavoro di traduzione e
illustra in maggior dettaglio il suo modo di procedere nella traduzione della Tempesta. Sorprende, a
prima vista, la riproposizione di un vecchio concetto, spesso abusato nella riflessione sulla
traduzione, e che le teorie contemporanee hanno tenacemente avversato, quello di fedeltà. In realtà
la professione di fedeltà di Lombardo è un atto piuttosto complesso che egli scorpora in vari
elementi, assimilandolo all’idea precedentemente illustrata di performability-recitabilità. Egli insiste
infatti sulla necessità del traduttore per il teatro come “mediatore e interprete” di compiere una serie
di atti di fedeltà, rivolti a tutti gli agenti e a tutte le componenti dell’evento teatrale, ossia all’autore,
al testo, agli attori, al regista e infine al pubblico. 19 Nel loro insieme questi atti contribuiscono a
conferire unità e autonomia al testo tradotto, e a giustificare le precise scelte operative del
traduttore, quali ad esempio la scelta di un verso che non cerchi di essere un equivalente del blank
verse ma piuttosto che assolva alla stessa funzione del verso shakespeariano, privilegiando
l’attenzione agli accenti e non al numero delle sillabe. Ne discende un’unità ritmica e stilistica del
testo che funga al contempo da “rotaia” per gli attori, secondo una suggestiva definizione proposta
da Lombardo, così che il testo “pur rimanendo una traduzione, [abbia] una sua chiave, un suo tono,
un’unità stilistica autonoma che però [evochi] l’unità stilistica dell’originale”. 20
La traduzione di Lombardo della Tempesta si caratterizza anche per la puntuale attenzione ai
diversi registri presenti nel testo e alla varietà del linguaggio dei personaggi che si desiderava far
risaltare particolarmente sulla scena. Così Ariel, “spirito dell’aere”, doveva avere un linguaggio
adatto alla sua natura “bizzarra e istrionica”, esaltata nella messinscena dalla scelta di Strehler di
farlo apparire come un funambolo Pierrot, scattante e agilissimo, che recita gran parte delle sue
battute impegnato in elaborate evoluzioni sospeso ad una fune. Nel caso di Caliban, invece, creatura
mostruosa e sub-umana, il linguaggio è ricco di aspre allitterazioni e sonorità quasi pre-verbali,
accompagnate da uno “straordinario passaggio dalla durezza alla dolcezza e poi di nuovo alla
durezza”. 21 Interessante risulta il linguaggio di alcuni dei personaggi minori, in particolare il
servitore Stefano e il giullare Trinculo, immaginati da Strehler come maschere della commedia
18
Lombardo (1984), p. LI.
Lombardo (2002).
20
Lombardo (2002), p. 59.
21
Ivi, p. 62
19
64
dell’arte cui la traduzione di Lombardo conferisce un lessico ricco di espressioni colloquiali e
connotato regionalmente, qualità che la rappresentazione tendeva ulteriormente a enfatizzare.
In conclusione si può affermare che l’esempio della Tempesta tradotta da Lombardo
illumini, nella sue varie sfaccettature, in maniera efficace e suggestiva i diversi aspetti e problemi
della traduzione shakespeariana oggi, contribuendo a ricomporre la presunta e a lungo dibattuta
dicotomia tra pagina-scena e, al contempo, portando alla luce il lavoro di chi si confronta
concretamente con la traduzione di Shakespeare, “nostro contemporaneo”.
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66
ADELE D’ARCANGELO
L’uso del testo filmico nella didattica della traduzione:
un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato
Premessa
L’attenzione di autorevoli studiosi nel campo della Teoria della traduzione verso le
problematiche che sottendono la produzione di prodotti cinematografici e televisivi doppiati o
sottotitolati per paesi diversi da quelli di origine, si è espressa, soprattutto negli ultimi due decenni,
in una seria produzione di articoli e volumi che concentrano la propria attenzione sul delicato
equilibrio delle molteplici componenti caratterizzanti il mezzo espressivo filmico nel corso del
processo traduttivo. Fra i tanti aspetti sui quali la critica ha focalizzato la propria attenzione
segnaliamo, ad esempio, gli elementi caratterizzanti la realizzazione di film doppiati o sottotitolati
in relazione ai sistemi culturali di partenza e a quelli di arrivo, 1 la pratica del sottotitolaggio, 2 il
discorso sulle aspettative del pubblico nel quadro delle teorie sulla ricezione, 3 l’interpretazione
simultanea come particolare tipologia di doppiaggio 4 e la validità dell’uso dei testi filmici nella
didattica della traduzione. 5
Con specifico riferimento agli studi in ambito italiano, la versatilità del testo filmico come
strumento didattico è stata in particolare analizzata in recenti pubblicazioni frutto di una consolidata
esperienza che si è concretizzata presso la SSLMIT della Università di Bologna nella proposta di
corsi di Specializzazione e Master di II livello in Traduzione e Adattamento dei Testi Audiovisivi e
Multimediali, così come nella pubblicazione di una serie di articoli e volumi dedicati a questo
argomento fra i quali citiamo: Il doppiaggio, trasposizioni linguistiche e culturali, che riporta una
sezione dedicata ai risultati ottenuti attraverso l’uso di testi multimediali nella didattica della
traduzione, 6 “The relevance of Dubbing and Subtitling to Language Teaching” 7 o “Using Subtitles
to Teach Translation” 8 e infine “La traduzione filmica come pratica didattica”. 9
Su quest’ultimo aspetto, in particolare, verte anche la nostra indagine che si presenta in
forma di case study, utilizzato per presentare lezioni di traduzione Inglese/Italiano a gruppi di
studenti frequentanti Corsi di Laurea in Traduzione e Interpretazione presso la SSLMIT (Università
di Bologna) e/o, come nel caso della lezione tenuta presso l’Università di Modena e Reggio Emilia
da cui prende spunto questo articolo, a studenti frequentanti Corsi di Laurea in Mediazione
Linguistica e Culturale.
Il nostro esame presenterà, innanzitutto, una breve sinopsi e analisi del film scelto per il case
study, ovvero RagingBull/Toro scatenato di Martin Scorsese, si passerà in seguito a evidenziare gli
elementi su cui verte la nostra indagine contrastiva per poi, infine, riportare alcune possibili
conclusioni cui si è giunti grazie anche al contributo degli studenti.
1. Raging Bull di Martin Scorsese
Il testo scelto per la nostra indagine è Raging Bull di Martin Scorsese, un film d’autore
realizzato nel 1980 con la sceneggiatura di Paul Shrader e Mardik Martin, che vede protagonista
uno straordinario Robert De Niro. 10 Definito dalla critica come miglior film mai prodotto sul mondo
1
Delabastida (1989) e (1990).
Taylor (2000).
3
Fink (1984).
4
Nadaud (1995).
5
Kaufmann (1995).
6
Baccolini/Bollettieri Bosinelli/Gavioli (1994).
7
Taylor (1996).
8
Rundle (2000).
9
Heiss (2000).
10
Per la sua generosa interpretazione De Niro vinse meritatamente l’Oscar come miglior attore.
2
67
del pugilato, 11 quest’opera magistrale dal punto di vista formale e tecnico, racconta, in forma di
autobiografia, la storia del pugile Jake La Motta, detto “the Bronx bull”, il quale conquistò il titolo
mondiale dei pesi medi nel 1949, per poi cederlo nel 1951 all’eterno rivale Sugar Ray Robinson. 12
La produzione, costata due anni di lavorazione e 14 milioni di dollari, narra con violenza il mondo
violento della boxe e il substrato socio-culturale che lo caratterizza, ma soprattutto è “il ritratto di
un uomo eccezionale sul ring, ma esemplare, nella sua normalità, in privato come prodotto
avvelenato di una cultura, di un ambiente e di una società”. 13 La fotografia in bianco e nero dona al
film, in cui la dimensione della fisicità è prorompente, una potenza d’immagine che cattura lo
spettatore e rende ancora più persuasiva la prospettiva della regia.
La scelta di questo testo di partenza (TP), suggerita da Christopher Rundle (SSLMIT,
Università di Bologna), come oggetto della nostra indagine è stata dettata fondamentalmente da tre
motivi:
- è un film di cui esisteva anche la versione sottotitolata, utilizzata da Rundle stesso per presentare
un ciclo di lezioni molto apprezzato da parte di studenti e colleghi. 14
- è un film d’autore celeberrimo, la cui sceneggiatura privilegia la parola dosandola con una
parsimonia che ne esalta la qualità e il valore. Si è inteso, così, verificare se, nei confronti di film
d’autore come questo, si potesse notare una cura particolare nella realizzazione del doppiaggio, in
particolare;
- i principali protagonisti dell’opera sono appartenenti della comunità italo-americana di New York e
vengono caratterizzati, nella versione originale, da una inflessione brooklynese, elemento che ci è
parso utile per affrontare anche una riflessione in termini diastratici del prodotto doppiato.
Il lavoro, svolto in collaborazione presso la SSLMIT, è stato presentato in una prima fase
sulla versione sottotitolata, gestita da Rundle e in seguito su quella doppiata, gestita da chi scrive. 15
Per l’analisi del sottotitolaggio si è proposto agli studenti di lavorare su un particolare software,
ideato dal ricercatore, molto utile a fini didattici. 16 Tale esperienza ha costituito, inoltre, l’occasione
per dare inizio a una seria attività di ricerca, tuttora in corso, nel settore specifico del sottotitolaggio
filmico, di cui Rundle è responsabile.
Le scene su cui abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione sono tre momenti relativi
alla presentazione dei personaggi nelle sequenze iniziali del film. Nel caso del presente lavoro,
l’analisi verterà sul solo esempio della realizzazione del doppiaggio in lingua italiana di Raging
Bull/Toro scatenato: verranno riportati integralmente sia il TP sia il testo di arrivo (TA) e le
considerazioni saranno elaborate così come è stato fatto nel corso della lezione proposta da chi
scrive agli studenti frequentanti il II anno del Corso di Laurea in Mediazione Linguistica e
Culturale, il 12 maggio del 2004 presso l’Università di Modena. Di ogni scena sarà presentata una
breve analisi che cercherà di tenere presenti sia gli elementi linguistici sia quelli più prettamente
filmici (tipo di ripresa, caratterizzazione dei personaggi e delle loro voci, bande sonore, scenografie
11
Mereghetti (2004).
I due sceneggiatori si sono ispirati alla autobiografia di Jake La Motta scritta dal pugile in collaborazione con
Joseph Carter e Peter Savage, (1970/[1997]). Raging Bull, My Story, New York: Bantam Books.
13
Morandini (2001), p. 1353. Il film si conquistò nel 1980, oltre all’Oscar per la miglior intepretazione
maschile, anche quello per il miglior montaggio.
14
In anni ancora lontani dalla diffusione dei DVD, il sottotitolaggio di Raging Bull è stato realizzato in
occasione di una programmazione RAI di film in lingua originale. Si tratta della fortunata trasmissione “Movies: i film
come non li avete mai sentiti” ideata dal critico Vieri Razzini e trasmessa alla fine degli anni Novanta.
15
La trascrizione dei dialoghi è stata curata da Rundle, per la versione originale, e da D’Arcangelo per la
versione italiana. Desidero, in questa occasione, ringraziare Chris Rundle per avermi proposto di collaborare con lui,
così come per gli utili consigli offertimi durante la stesura di questo articolo.
16
Rundle (2000).
12
68
ecc.) altrettanto fondamentali, nell’ambito della discussione relativa al doppiaggio, per apprezzare,
criticare, ma soprattutto comprendere le scelte compiute. 17
2. Toro Scatenato di Martin Scorsese
2.1 Jake La Motta -“The Bronx Bull” -“Il toro del Bronx”
Jake La Motta: I remember those cheers, they still
ring in my ears, and for years they remain in my
thoughts... ‘cause one night I took off my robe, and
what’d I do? I forgot to wear shorts. I recall every
fall, every hook, every jab, the worst way a guy can
get rid of his flab, as you know my life was a drab.
Though I’d much... though I’d rather hear you cheer
when you tell... Though I’d rather hear you cheer
when I tell them the Shakespeare: “A hoss, a hoss,
my kingdom for a hoss” I haven’t had a winner in six
months. And though I’m no Olivier I would much
rather... And though I’m no Olivier, ‘cause if he
fought Sugar Ray, he would say that the thing ain’t
the ring it’s the play. So give me a stage where this
bull here can rage and though I can fight I’d much
rather recite... That’s entertainment!!
Jake La Motta: Me li ricordo ancora gli applausi e li
sento ancora nelle orecchie e me li porterò dietro per
tutta la vita. Ricordo una sera... levai l’accappatoio e
cascò il mondo. M’ero scordato i calzoncini. Mi
ricordo tutti i K.O., tutti i ganci, tutti i jab. E’ il
sistema peggiore per fare una bella cura dimagrante.
La mia non è stata una vita squallida. Anch’io ho
avuto... e mi farebbe piacere sentirmi applaudire
quando recito come fanno con Lawrence Olivier
quando recita Shakespeare: “Un cavallo, un cavallo,
il mio regno per un cavallo, sono sei mesi che non ne
becco uno. Ma io non sono Olivier anche se mi
farebbe piacere. E poi lo vorrei vedere sul quadrato
recitare se con Sugar si misurasse chissà quante ne
pigliasse, per cui datemi un’arena Jake il toro si
scatena. Perché oltre al pugilato sono attore raffinato.
Questo è spettacolo.
Con queste parole il pugile Jake La Motta, invecchiato e ingrassato si presenta sullo schermo nella
scena iniziale del film. Siamo nel 1964, l’ex pugile si è trasformato in uno stand-up comedian di
scarso successo che lavora in locali di terz’ordine. Dopo una ripresa fissa della locandina che
pubblicizza il suo spettacolo la macchina stacca sul camerino in cui Jake si concentra prima di
entrare in scena, caricandosi come era solito fare anche prima di salire sul ring. Posizionato sulla
destra dello schermo, in piano americano, davanti a uno specchio prova la parte, tentenna, riprende
a recitare con una voce in presa diretta poco pulita; a metà del breve monologo si concede una
pausa durante la quale si accende un sigaro, gesto che renderà la dizione di De Niro ancora più
impastata.
Nel brevissimo spazio di questo efficace monologo Jake riassume la sua intera esistenza, gli
anni in cui era un campione e la sua attuale condizione di attore sfortunato, paragonando la sua
esperienza di uomo di spettacolo a quella del grande Lawrence Olivier, il cui nome risulta utile alla
sua improvvisazione soprattutto per trovare una rima. Dal punto di vista linguistico/stilistico, infatti,
il monologo di Jake è caratterizzato da una metrica regolata da rime ed assonanze che ne
scandiscono il ritmo veloce. Nel TP si notano alcune forme contratte o elisioni tipiche della lingua
parlata, in uso nella comunità italo-americana e nel cosiddetto “broccolino”; così pure dal punto di
vista lessicale il registro dei termini scelti è colloquiale “drab”, “flab” cheers”.
Nella versione doppiata si evidenzia un vistoso errore di decodifica del testo quando Jake
afferma “as you know my life was a drab” che viene tradotto in senso affatto opposto “La mia non è
stata una vita squallida”. 18 Inoltre la resa complessiva del TA fatica a riproporre il ritmo
dell’originale: solo nella fase conclusiva si apprezzano alcune assonanze efficaci che velocizzano la
17
Castellano (1996), p. 395.
Del termine “drab” il Longman Dictionary of contemporary English (1995), p. 407, riporta la seguente
definizione: “not bright in color or not interesting”; una possibile traduzione proposta dagli studenti per questo
particolare contesto è stato il termine “schifo”.
18
69
recitazione dell’attore Ferruccio Amendola, doppiatore di Robert De Niro in questo come in
molteplici altri film:19
E poi lo vorrei vedere sul quadrato recitare se con Sugar si misurasse chissà quante ne pigliasse, per
cui datemi un’arena Jake il toro si scatena. Perché oltre al pugilato sono attore raffinato.
L’uso sgrammaticato del congiuntivo, tipico di varianti dell’italiano regionale del centro/sud
(Campania/Lazio), che in questo caso permette di migliorare la metrica del testo, e di espressioni
quali “lo vorrei vedere” caratterizzano il personaggio Jake connotandolo come italo-americano
grazie anche a una marcata inflessione centro-meridionale. Tuttavia questa scelta di un italiano substandard colorito da colloquialismi (“Non ne becco uno”), non è in linea con la prima parte del
monologo, in cui il doppiatore fatica a scandire i tempi del parlato, proprio per la resa fin troppo
formale di alcuni tempi verbali (“mi farebbe piacere” ripetuto per ben due volte) e per scelte
lessicali non particolarmente congrue, come ad esempio “fare una bella cura dimagrante” che
traduce “to get rid of his flab”, espressione artificiosa e soprattutto poco probabile considerata
l’irruente violenza che caratterizza la maschia personalità di Jake. Appare molto valida, invece, la
resa “per cui datemi un’arena, Jake il toro si scatena” che rispecchia tono, ritmo e spirito della
conclusione del monologo nel TP, oltre a richiamare, in questo caso efficacemente, l’attenzione sul
titolo del film e sul carattere del suo protagonista.
Infine, dal punto di vista della resa sonora dello spezzone in esame, il riversamento della
voce di Amendola sullo stesso canale usato per i rumori circostanti rende la recitazione nel doppiaggio più limpida e forte, la voce “sfora” anche nel momento in cui Jake ha in bocca il sigaro. 20
2.2. Jake e suo fratello Joey
Joey: ... he turns his fucking back, they pick up his
arm, he’s dead, they tell him he won the fight. People
went crazy!
Salvy: That shit woulda’ never happened if Tommy
was over there taking care of it. I mean you know
he’s gotta be with Tommy to fight in New York, to get
a title shot, I mean he’s gonna wind up fucking punch
drunk your brother.
Joey: I know!
Salvy: You know?! You gotta make him understand
that it’s the best thing for everybody involved.
Joey I said I know.
Salvy: YOU know, but you gotta make him know,
you gotta tell him, make him understand it.
Joey: Jesus Christ! You wanna stop? When the
fuck you gonna stop with all that stuff. I told you. I
understand everything. He just wants to do things for
himself, that’s all. Hard to understand?
Salvy: It’s because you got a head like concrete.
Joey: You make me laugh! You think it’s easy, why
don’t you talk to him? You know what to say: tell
him!
Salvy: You know I can’t talk to him.
Joey: Well why can’t you talk to him?
Joey:… tre volte l’ha mandato al tappeto. Ha tirato
su il braccio, ma sembrava cadavere e gli han fatto
vincere l’incontro.
Salvy: Non sare… sì non sarebbe successo se
Tommy organizzava la cosa. Si deve mettere con
Tommy se vuole combattere a New York per avere la
chance per il titolo. Se continua così tuo fratello
finisce ubriaco su un marciapiede
Joey: Lo so.
Salvy: Lo sai? Allora gli devi fare capire che è la
cosa migliore per lui e per tutti e quattro.
Joey: T’ho detto che lo so.
Salvy: Tu lo sai, però lo deve sapere anche lui,
diglielo, faglielo capire.
Joey: Oh Cristo santo, che è ricominci? Ripeti
sempre le stesse cose. E gliel’ho già detto, io mi
rendo conto di tutto. E’ lui che vuole fare tutto da
solo. E’ questo il punto, lo vuoi capire?
Salvy: Perché c’ha una zucca al posto del cervello.
Joey: Eh, mi fai ridere. Ti sembra facile? Perché
non ci parli tu? Sai quello che devi dire: diglielo!
Salvy: Lo sai che non ci posso parlare.
Joey: Perché non ci puoi parlare?
19
Il celebre attore, scomparso nel 2001, prestando la propria voce anche ad Al Pacino, Sylvester Stallone e
Dustin Hoffman, ha tributato a molti dei loro film parte del successo.
20
Nel TP, invece, grazie all’uso del sistema dolby nel camerino in cui Jake recita, che si trova a ridosso di una
strada trafficata, si sentono, anche se in lontananza, i motori delle macchine e il suono di un’ambulanza, che rendono
più naturale l’atmosfera sonora del film.
70
Salvy: ‘Cause he don’t like me.
Salvy: Perché non gli sto simpatico.
Joey Yeah, nobody likes ya, you oughta be used to Joey: A lui gli stanno antipatici tutti quanti.
that!
Questa scena è immediatamente successiva alla prima ripresa di un incontro tra Jake La Motta e un
suo rivale, occorso la sera precedente. Rispetto allo spezzone sopra commentato siamo tornati
indietro negli anni. I protagonisti si trovano nel Bronx nel 1948. Nel piano sequenza vediamo Joey,
fratello di Jake, che si sta dirigendo a piedi verso la casa di quest’ultimo, in compagnia dell’amico
Salvy. I due commentano la sconfitta di Jake avvenuta per cause tecniche, nonostante egli abbia
steso al tappeto il suo avversario. 21 Conoscendo il forte ascendente che Joey ha su suo fratello,
l’amico cerca di convincerlo a far pressione su Jake affinché si leghi alla famiglia di Tommy Como,
il boss di una delle organizzazioni criminali coinvolte nel “business” degli incontri di boxe - cui
Salvy stesso appartiene - e possa così essere spinto da un promoter che gli garantisca di battersi
contro avversari seri, al fine di arrivare al mondiale (“to get a title shot”). Uno degli aspetti su cui il
film punta l’attenzione è proprio l’intenso rapporto che unisce Jake al fratello Joey, il quale ricopre
anche il ruolo di suo preparatore atletico e manager. Si tratta di un legame tipico delle famiglie di
immigrati italo-americani che vedono i membri del proprio nucleo familiare d’origine intoccabili e
degni di fiducia assoluta. In realtà nel corso del film il rapporto fra i due verrà distrutto e mai
risanato: Jake accuserà il fratello di avergli rovinato la vita, proprio perché lo ha costretto a vendersi
alla mafia e a non seguire una strada pulita verso il titolo mondiale, come è convinto che avrebbe
saputo fare. Lo sviluppo della trama del film è fondamentale anche per comprendere la scena qui in
esame, che, alla luce del contenuto complessivo dell’opera risulta, a maggior ragione,
fondamentale.
Anche in questo caso iniziamo la nostra analisi comparativa evidenziando alcuni punti del
doppiaggio in cui sono rilevabili problemi di decodifica o resa del TP. All’inizio del dialogo Salvy
risponde a Joey che si lamenta per il risultato negativo dell’incontro dicendo “I mean he’s gonna
wind up fucking punch drunk your brother” tradotto come “Se continua così tuo fratello finisce
ubriaco su un marciapiede”. L’espressione “punch drunk”, oltre al significato comune di “very
confused” ha un’altra accezione, così riportata nel Longman Dictionary of Contemporary English
“A boxer who is punch drunk is suffering brain damage from being hit too much”. 22 Probabilmente
non è stato individuato il senso dell’aggettivo e chi ha realizzato il doppiaggio si è basato sul
significato letterale del termine “drunk /ubriaco”. Possibili opzioni in questo caso avrebbero potuto
essere “rimbambito/rimbecillito di pugni”, come suggerito da alcuni studenti, non essendoci
peraltro difficoltà dovute al sync labiale dato che la ripresa dei due dialoganti non è in primo piano.
Nella parte conclusiva del dialogo si riscontra un ulteriore problema di scelte non congrue
rispetto al contenuto del TP. Nel cercare di convincere Joey, Salvy a un certo punto inizia a
scaldarsi e lo apostrofa dicendogli “It’s because you got a head like concrete”, che nel TA diventa
“Perché c’ha una zucca al posto del cervello”, ovvero l’affermazione viene indirizzata non a Joey,
bensì a Jake. Questo errore viene ripetuto poco dopo, quando Salvy afferma di aver bisogno
dell’intermediazione di Joey per parlare con Jake perché quest’ultimo non lo stima “Cause he don’t
like me” alla quale Joey risponde riferendo la battuta del TA a Jake, invece cha a Salvy, in questo
caso “A lui gli stanno antipatici tutti quanti”.
In un articolo sul doppiaggio e sulle cause di tanti problemi che è possibile riscontrare nella
realizzazione di film in una lingua diversa da quella di partenza, Thomas Herbst sostiene che non
21
Per la precisione, mentre il rivale di La Motta è a terra, suona il gong prima che l’arbitro finisca di contare
fino a 10 e quindi la vittoria viene decretata ai punti.
22
In un sito-web che descrive i trauma subiti da atleti professionisti in diversi sport, con particolare
riferimento al pugilato, leggiamo anche: ““punch drunk” means that continued brain loss has become so severe that the
individual’s brain reserve has disappeared and the fighter is left with only those brain cells upon which basic function
depends” (www.burtonreport.com). In altri siti dedicati alle arti marziali si riporta anche un’altra definizione, cioè
“close to being knocked out but still fighting” (www.martialartsnwes.it).
71
sia sufficiente giustificare sempre scelte “bizzarre” facendo appello alla scusa dei tempi ridotti con
cui molta parte di film per cinema e TV vengono doppiati. Lo studioso riscontra un altro ordine di
difficoltà, a suo avviso più significativo, cioè la scarsa consapevolezza con cui si affronta il lavoro
di traduzione per il doppiaggio e di revisione dello stesso. Molte problematiche appartengono alla
categoria di rese inadeguate o macroscopicamente errate (come nel caso degli esempi sopra
riportati) dovute al fatto che chi lavora al doppiaggio si concentra su una singola scena, proprio per
come è strutturata la catena che porta alla realizzazione definitiva di un film. Gli attori si trovano,
cioè, a recitare brevi spezzoni di dialoghi, magari anche rivisti con maestria da esperti adattatori, e
focalizzano la propria attenzione sulla battuta che doppieranno in quello specifico momento, spesso
perdendo di vista la scena nel suo insieme, o l’intero film come unità testuale completa:
In my view, an approach to translation that is based on the overall sense of the whole film or a
particular scene can help overcome most of these problems. Identifying all the important meaning
elements of a scene […] should lead to natural dialogue if one takes a wider approach which is not
sentence based.23
Si tratta di una ingenuità in cui incorrono molti studenti che frequentano corsi di traduzione i
quali tendono ad evidenziare un approccio verso il processo traduttivo in termini di “sentence by
sentence translation”. Proprio per questo un esempio quale quello riportato nel nostro case study
può risultare particolarmente efficace in un uso a scopi didattici del testo filmico. Alla luce
dell’analisi di questo particolare spezzone durante la discussione collettiva gli studenti hanno
sottolineato come nel caso della versione doppiata, i problemi tra Joey e Jake, che vengono espressi
rispettando tempi precisi e giustificati nello sviluppo della trama del TP, siano anticipati già nelle
prime sequenze della versione doppiata; hanno inoltre rilevato come, pur senza possedere una
competenza particolare nella lingua inglese, la sequenzialità del TA risulta vistosamente incongrua
in diversi punti e il contenuto dei dialoghi si sarebbe potuto revisionare con maggiore attenzione.
Un altro ordine di difficoltà, immediatamente individuato dagli studenti, è quello del
linguaggio edulcorato nel TA rispetto al TP in questa scena specifica. Termini grossolani quali
“fucking back”, “that shit” “fucking punch drunk”, “when the fuck you” inspiegabilmente
scompaiono tutti nell’italiano in questo punto del testo che preserva solo la bestemmia “Jesus
Christ/Cristo Santo”, mentre vengono mantenuti nel caso del veloce scambio di battute che Joey e
Salvy riprendono e concludono dopo un breve stacco sull’interno della casa di Jake.
Joey: I agree with you, he should be with Tommy. If
he’s in a good mood I’ll talk to him What the fuck
you want me to do?
Salvy It’s just, Joey, Tommy tells me every day to
talk you and speak to Jake, to straighten this thing
out, I mean I’m gonna wind up in the middle in this
thing.
Joey: You’re in the middle? I’m his brother! He’s
got me fucking nuts!
Salvy: You’re his brother, if you can’t talk to him,
whose gonna talk to him?
Joey: I’ll talk to him.
Salvy Do watcha can. That’s all. That’s all I’m
askin’ ya. Right?
Joey: All right, I’ll see you tomorrow.
Salvy: Where you gonna be?
Joey: Be at the gym or the other joint. One of the
two.
23
Joey: Lo so anch’io che si dovrebbe mettere con
Tommy. Se è di buon umore ci parlerò. E che cazzo
devo fare?!
Salvy Vedi Joey, Tommy mi dice tutti i giorni di
parlare con te perché tu parli con Jake. E sistemi le
cose. Qua va a finire che ci vado di mezzo io.
Joey: Ci vai di mezzo tu? E io che sono il fratello?
A me m’ha fatto uscire pazzo.
Salvy: Se non riesci a parlarci tu chi ci deve parlare?
Joey: Ci parlerò.
Salvy Fai quello che puoi, non ti chiedo altro
Joey: Va bene. Ci vediamo domani adesso vado.
Salvy: D’accordo, dove ti trovo?
Joey: In palestra o giù al locale.
Salvy: Vengo in palestra.
Joey: D’accordo. Salvo!
Salvy: Sì?
Joey: Mavaffanculo.
Herbst (1996), p. 113.
72
Salvy:
Joey:
Salvy:
Joey:
I’ll catch ya by the gym.
All right... Sal!
Yeah?
Go fuck yourself!!
La soppressione di questo lessico si nota anche in altri parti di testo nel corso del film, benché a
volte, forse per esigenze di compensazione, assistiamo anche a un’espansione e/o a un inserimento
di turpiloquio non presente nel TP, come avremo modo di vedere nell’esempio del dialogo tra Jake
e sua moglie riportato in 2.3. 24
Anche nel caso del dialogo tra Joey e Salvy, così come per il monologo di Jake, si nota l’uso
di forme contratte “would’a never”, “gotta”, “like ya”, “oughta’” tipiche della caratterizzazione
sociolinguistica dei protagonisti nel film e riproposte in forme analoghe in italiano “t’ho detto”,
“glielo’ho detto”, c’ha una zucca”. In generale nel TA è più evidente una resa informale e simile al
parlato più convincente rispetto al monologo iniziale, e forse più facile da ottenere in questo caso,
considerato che il dialogo in esame è costituito da frasi concise e di struttura semplificata. Si
sottolinea, sotto questo punto di vista, anche la resa dell’espressione “got a head like concrete” con
“c’ha una zucca al posto del cervello” che aiuta a ricreare efficacemente l’effetto della lingua
parlata.
Per quanto riguarda l’aspetto dell’interpretazione dei doppiatori nella caratterizzazione dei
personaggi ha giocato anche il ruolo che questi ultimi hanno all’interno del film. Piero Tiberi, voce
di Joe Pesci, propone un’inflessione ricollegabile alle varietà regionali campane, simile a quella di
Amendola/Jake, mentre risulta decisamente più marcata la recitazione di Michele Gammino/Frank
Vincent/Salvy, il cui vistoso accento siciliano rappresenta uno stereotipo che contribuisce a radicare
certe aspettative del pubblico, probabilmente create proprio dalla produzione di film doppiati nel
corso dei decenni. 25 Salvy, inoltre, mentre cammina lungo una tipica strada del Bronx affiancato da
Joey, indossa un completo scuro gessato (anche questo uno stereotipo della rappresentazione di certi
ambienti mafiosi italo-americani degli anni in cui ha luogo l’azione filmica) che spicca anche
perché in contrasto con il pur elegante, ma chiaro, completo di Joey. 26 L’inflessione siciliana,
tuttavia, appare forzata poiché la voce del doppiatore è comunque molto più calda e profonda di
quella dell’originale e soprattutto troppo impostata dal punto di vista della dizione, a scapito della
naturalezza e a favore di uno strano effetto nella recitazione, per cui Salvy assume un tono quasi
supplichevole che non sembra combaciare né con le espressioni facciali, né con il ruolo che questo
personaggio ricopre nel TP. Infine, anche in questo caso, a peggiorare l’effetto dell’atmosfera
sonora del TA si può evidenziare quanto le voci arrivino più pulite rispetto al TP.
2.3 Jake e sua moglie Irma
L’ultima scena che intendiamo analizzare segue, con un veloce stacco quella appena
commentata. Dall’esterno strada si passa all’interno della casa di Jake e Irma (l’attrice Lori Ann
Flax), sua prima moglie, di origine ebrea, nel film. Anche Jake, seduto a tavola a mangiare, esprime
nervosamente le proprie considerazioni sull’incontro che lo ha visto sconfitto la sera prima, mentre
la moglie, in piedi nel cucinino, gli sta preparando una bistecca.
24
Sarebbe utile a questo proposito compiere un’indagine diacronica su un corpus più vasto di film drammatici
il cui doppiaggio è stato realizzato negli anni Ottanta e paragonare i risultati a film doppiati in epoca più recente al fine
di verificare se questa censura del linguaggio forte in parti di testo sia da imputare a una prassi traduttiva in atto in
quegli anni.
25
Castellano (1996), p. 396.
26
Peraltro nella ripresa di questa sequenza, mentre i due percorrono il marciapiede fino all’ingresso della casa
di Jake, compaiono alcuni figuranti in vesti di mamme con bambini, lavoratori impiegati in attività commerciali che si
affacciano sulla strada, i cui abiti dichiarano la povertà delle classi sociali che abitano nel quartiere.
73
Jake: ... I know, I know who’s the boss. The judges
didn’t know, who knows what happened with them,
the people knew. Now you don’t believe me, you
thought I was over there foolin’ around ya? Tell me
the truth. I didn’t go no foolin’ around. That’s in
your mind.
Irma: Yeah, so what?
Jake: That championship belt on me, that’s my
foolin’ around! Is it done?
Irma: No it’s not done.
Jake: Don’t over-cook it, you’re over-cooking it,
it’s no good. It defeats its own purpose. What ya
doing? I just said don’t over-cook it, bring it over.
Irma: You want your steak?
Jake: Bring it over! Bring it over!! It’s like a piece
of charcoal, bring it over here!
Irma: You want your steak?
Jake: Yeah right now!
Irma: Good! Here it is, steak! Can’t wait for it to be
done?
Jake: No I can’t wait
Irma: Here, good! Happy?! Happy?!
Jake: That’s all I want, that’s all I want.
Irma: No more! There!!
Jake: Botherin’ me about a steak! You bothering
me about a steak huh!?
Irma: Yeah!
Jake: Lo sanno tutti... lo sanno chi è il capo. I giudici
non lo sapevano. Quelli non sanno mai niente. Ma la
gente lo sa. Tu credevi che io stavo lì a fare lo scemo
eh? Eh? Credevi che me la divertivo? Dì la verità?
Be’ io non me la divertivo, questo lo pensi tu.
Irma: Eh va bene e allora?
Jake : Se riesco a vincere il titolo mondiale, allora sì
che me la diverto… E’ fatta?
Irma: No non è fatta.
Jake: Non la cuocere troppo, se la cuoci troppo
diventa cattiva, non serve più allo scopo poi ah? Ma
che fai? T’ho detto non la cuocere troppo. La cuoci
troppo. Portamela qua va.
Irma: Vuoi la tua bistecca?
Jake: Portala qua. Portala qua. Sembra un tizzo di
carbone. La vuoi portare o no?
Irma : La vuoi la tua bistecca? Va bene!
Jake: Sì, ma adesso.
Irma: Va bene eccotela qua la tua bistecca, non puoi
aspettare che sia cotta? No?
Jake: No, non posso aspettare.
Irma: Ah sì? OK, contento? Contento?
Jake: … sì so’ contento adesso, so’ contento.
Irma: No! Ancora! Tieni, tieni!
Jake: Rompi le palle pe’ na’ bistecca?
Irma: Eh, bravo!
Jake: Rompi le palle pe’ na’ bistecca? Eh?
Irma: Sì!
Jake ha il viso tumefatto, indossa una canottiera e compie gesti quotidiani che caratterizzano la sua
appartenenza alla comunità italo-americana, per esempio usa una grattugia per aggiungere del
parmigiano sulla pasta che sta per mangiare. Gli elementi dell’arredo scenografico e gli abiti dei due
attori definiscono anche in questo caso la classe sociale di appartenenza: la banale pettinatura di
Irma e il dozzinale grembiule che indossa connotano il suo ruolo di semplice moglie, costretta a
dedicarsi alla casa. I primi piani con cui la donna viene inquadrata, mentre la voce di Jake si
lamenta sia dell’incontro sia, indirettamente, dei sospetti da lei nutriti sulla infedeltà del marito,
dichiarano con eloquenza la frustrazione di Irma che proprio in questa scena si sfogherà, gridando
tutta la sua rabbia repressa, nell’atto di servire la bistecca reclamata da Jake. Questi risponderà con
furia violenta, ribaltando tutto il tavolo, urlando con foga e poi richiudendo la moglie nella stanza
da letto.
In questa scena il contenuto del TP risulta trasmesso in maniera integra, anche se notiamo il
caso della resa un po’ forzata di “Is it done” riferito alla carne con il calco “E’ fatta?” dove
l’italiano forse esprimerebbe lo stesso concetto più naturalmente con espressioni quali “E’ cotta?”,
oppure “E’ pronta?”. Il phrasal verb “fooling around” chiarisce meglio il discorso di Jake nel TP in
quanto contempla i due significati di “to waste time behaving in a silly way”, ma anche “to have a
sexual intercourse with someone else’s wife, or boyfriend etc.” (Longman Dictionary of
Contemporary English), motivando così, lo sguardo di fuoco lanciatogli dalla moglie in un
significativo primo piano. La scelta del dialoghista di tradurre il phrasal verb con “divertirsela”, resa
lessicale sicuramente meno esplicita del TP, appare giustificabile perché permette al doppiatore
Amendola di caricare la caratterizzazione di Jake sfruttando questa come altre espressioni tipiche
del parlato piuttosto efficaci in un simile contesto:
- “Tu credevi che io stavo lì a fare lo scemo?” “Credevi che me la divertivo?”, “Allora sì che
me la diverto”, “Sembra un tizzo di carbone”, “Rompi le palle…”
74
oppure strutture sintattiche che evidenziano l’uso di forme contratte o elisioni
- “Quelli non sanno mai niente”, “Portamela qua”, “T’ho detto non la cuocere troppo” “La
vuoi portare o no?”, “So’ contento”, “… pe’ na bistecca”.
e infine interiezioni tipiche del parlato
- “eh?”, “va”.
Come già anticipato nel precedente paragrafo si nota che in questa porzione di testo la
violenza fisica con cui esplode la rabbia di Jake trova corrispondenza nel TA anche grazie
all’appropriato uso dell’espressione volgare “rompi le palle” che traduce “bothering me”,
decisamente più neutra nel TP.
Riteniamo opportuno concludere la nostra analisi di questa scena con un confronto fra la
resa nel complesso efficace, sia per le scelte a livello linguistico sia per le abilità del doppiatore,
delle battute di Jake rispetto a quelle di Irma. 27 La prima moglie di Jake è decisamente un
personaggio minore all’interno del film, ma l’attenzione con cui Scorsese e i suoi sceneggiatori
descrivono la sua personalità, anche se solo nelle prime scene del film, rende anche questo
character fondamentale nell’economia della storia. La voce di Lori Ann Flax/Irma nel TP è
piuttosto acuta, e diventa decisamente stridula nel furioso scambio verbale con Jake, in perfetta
simbiosi con il nervoso carattere del personaggio e con il corpo minuto dell’attrice che interpreta la
sua parte. La voce della doppiatrice italiana, al contrario, è calma e profonda, più simile a quella di
una femme fatale, in termini di aspettative del pubblico. 28 La sua dizione, come anche nel caso di
Salvy, è ben articolata e si nota anche una sfasatura nelle sue battute in cui alcune rese colloquiali
come “Vuoi la tua bistecca? Eccotela!”, in linea con il personaggio, sono opposte a rese invece fin
troppo formali come “Non puoi aspettare che sia cotta?”, come è stato notato durante la discussione
nel workshop.
Anche in questo nostro ultimo esempio per proporre un’analisi qualitativa del TA è risultato
necessario osservare il doppiaggio attraverso diversi livelli, tutti ugualmente utili per affrontare una
discussione proficua.
3. Conclusioni
L’esame di questo particolare TP ha permesso di sviluppare un discorso su alcune delle
componenti che occorre considerare quando si affronta un’analisi contrastiva nell’ambito di testi
filmici, sia per ciò che concerne la realizzazione di un prodotto doppiato, sia sottotitolato. Per
tornare alle domande che ci siamo posti come premessa della nostra analisi possiamo affermare che
nel caso di questo particolare film la regia firmata da Martin Scorsese non ha garantito al processo
traduttivo una particolare cura nella resa anche di parti significative dal punto di vista del contenuto
del TP. Ai fattori già citati quali elementi che giustificano alcune rese poco efficaci o errate di
porzioni del TP possiamo aggiungere anche il fatto che nella maggior parte dei casi nelle fasi del
doppiaggio di film stranieri non esiste un controllo da parte della casa di produzione del TP, né
dell’autore del film stesso, fatto salvo rari casi, come quello spesso citato dagli addetti ai lavori, di
Stanley Kubrick, che ha sempre preteso di verificare la qualità dei propri film nei paesi in cui questi
venivano doppiati. 29
Le considerazioni sulla caratterizzazione dei protagonisti, svolta non solo su alcuni aspetti
prettamente linguistici, ma anche su altri fattori, quali la scelta delle voci e di elementi tecnici legati
alla resa delle bande sonore, hanno permesso agli studenti di riflettere sulla molteplicità dei
problemi sottesi alla produzione di testi tradotti nel settore multimediale.
Il confronto fra prodotto doppiato e prodotto sottotitolato di un medesimo film (in
particolare nel caso delle lezioni svolte presso la SSLMIT, Università di Bologna) ha inoltre
27
Purtroppo attraverso le nostre ricerche non è stato possibile reperire il nome dell’attrice che presta la voce a
Lori Ann Flax/Irma nel film.
28
Castellano (1996).
29
Comunicazione personale rilasciata da Mario Maldesi, direttore del doppiaggio di grande esperienza che ha
lavorato sui film di Kubrick, 2000.
75
costituito una possibilità di verificare in concreto quali siano le problematiche che si presentano in
questo specifico campo di specializzazione su due livelli diversi (doppiaggio/sottotitolaggio)
offrendo agli studenti spunti di riflessione da acquisire come bagaglio di esperienza sia durante il
proprio curriculum accademico, sia per futuri percorsi di studio o professionali. A questo si è
aggiunta la possibilità di aprire anche una riflessione su alcuni elementi caratterizzanti la cultura
cinematografica di partenza e su alcuni stereotipi su cui si fonda la prassi del doppiaggio nella
cultura di arrivo, grazie ai quali è stato avviato un discorso sui diversi effetti che il TP può produrre
rispetto al TA sui ricettori dei due distinti prodotti.
L’impatto che un testo con componente visiva ha su giovani studenti costituisce un valore
aggiunto che aiuta a sviluppare un discorso complessivo sulla consapevolezza indispensabile per
affrontare l’attività di traduzione in questo come in altri ambiti di indagine. Soprattutto ci è parso
che il testo filmico abbia offerto la possibilità di “vedere” letteralmente le conseguenze che alcune
scelte traduttive determinano sulla ricezione di un prodotto, anche aldilà di una valutazione sulla
loro effettiva qualità, risultato che non sempre si riesce ad ottenere affrontando per esempio TP
letterari o tecnico-scientifici. La discussione e il confronto sui problemi individuati, hanno stimolato
una partecipazione attiva da parte degli studenti che hanno mostrato di apprezzare il percorso
compiuto durante il workshop offrendo spesso il proprio indispensabile contributo critico.
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Siti-Web
www.burtonreport.com
www.martialartsnwes.it
77
ANTONELLO LA VERGATA
Specialismo e divulgazione 1
La tesi che intendo sostenere è semplice e radicale: il linguaggio tecnico è spesso più tecnico
del necessario. Il tecnicismo esasperato non è effetto della necessità di usare un linguaggio preciso;
è figlio, sì, della specializzazione, ma un figlio malformato a causa di una malattia comune a
specialisti e non specialisti, che si può chiamare “complicazionismo” o “difficilosi”. Il tecnicismo
ne è un sintomo, ma le cause sono diverse e più profonde. Nelle pagine che seguono intenderò
dunque specialismo e divulgazione in un senso molto ampio. Per usare termini molto impegnativi,
tratterò dell’etica della corretta comunicazione, ma in un modo molto terra terra. Affermerò che sia
del tecnicismo giustificabile sia del tecnicismo ingiustificabile siamo tutti al tempo stesso vittime e
colpevoli, anche fuori dell’ambito strettamente scientifico-tecnico. Concluderò con un’ipotesi
psicosociologica, se così posso dire, sulle cause del complicazionismo. Non suggerirò rimedi,
perché sono convinto che ci sia poco da fare, almeno nell’immediato: non è possibile raddrizzare le
gambe ai cani; si può solo acquisire una sensibilità individuale alle brutture – che non sono solo
estetiche, come vedremo – e servirsene per fare le proprie scelte (non sarebbe poco); per il resto,
succeda che può.
Il linguaggio difficile e oscuro è oggetto da sempre di esecrazioni e di prese in giro. Per
cominciare, ricorderò una gag di Totò in un film che tutti avranno visto, Totò, Peppino e la
malafemmina. Totò, spendaccione, ha comprato un trattore e lo presenta al fratello Peppino,
contadino parsimonioso e diffidente. “E questo cos’è, il motore?”, chiede Peppino. “Che dici,
ignorante”, risponde Totò, “questo è un apparato meccanico-movimentale”. Bene, quante volte
abbiamo avuto la sensazione che un nostro interlocutore parlasse così, tanto per posare a esperto?
Altro esempio, preso, purtroppo, dal mondo della scuola, il luogo in cui si dovrebbe
imparare a leggere e scrivere. E’ tratto da una vignetta di Altan – una delle più alte coscienze morali
dell’Italia contemporanea – a proposito delle famigerate schede che furono introdotte tempo fa al
posto dei voti. Vista la pagella del figlio, un signore dai modi molto diretti va dall’insegnante e gli
dice: “A professo’, qua ce sta scritto che mi fijo ‘presenta uno spiccato livello de appropriazione
lessicale non disgiunto da un adeguato bilanciamento fra uso attivo e uso passivo delle risorse
linguistiche formali e contenutistiche, pur nell’incostanza – affatto prevedibile nell’età di
transizione attraversata dal discente in oggetto – della gestione critica della partecipazione alle
attività comuni e del livello progressivo di attenzione richiesto per slatentizzare le potenzialità del
soggetto.’ Nunn’ho capito se je devo mena’ o no”.
Procediamo. A conclusione di un comunicato di Banca Intesa elencante i nuovi tipi di conto
corrente offerti ai clienti: “Contestualmente saranno storicizzati i prodotti già in essere”. Vuol dire: i
tipi di conto che non sono compresi nell’elenco saranno conservati per i vecchi clienti che li
possiedono già, ma non saranno disponibili per i nuovi clienti. Il termine “storicizzare” ha un
significato tecnico in certe discipline; una sua ritecnicizzazione non ne esporta il significato preciso
in una nuova area, ma produce una complicazione al quadrato. Prova ne sia il fatto che, senza la mia
traduzione, non si sarebbe capito niente. E’ comunicare questo?
Andiamo avanti. Da un verbale dei carabinieri: “Il soggetto generalizzato in oggetto”.
Nessun hegelismo particolare. Vuol dire: la persona (il soggetto) di cui si danno le generalità alla
voce “oggetto” del presente verbale.
Ultimo esempio di questa prima serie. Telefono ad una ditta. Mi risponde una segreteria
automatica. Se ho “un apparecchio telefonico in multifrequenza”, dice, devo digitare 1, se no 2. Ma
1
In questo saggio ho ripreso e sviluppato alcuni argomenti svolti in due lavori precedenti, ai quali mi permetto
di rimandare: Vergata (1998) e Vergata (2002). Questo saggio è stato già pubblicato in Vergata (2004).
78
se io non so che cosa vuol dire “apparecchio telefonico in multifrequenza” sono escluso di fatto dal
servizio.
E’ ovvio che gli esempi possono moltiplicarsi all’infinito. Sembra che il mondo intorno a
noi sia animato da una frenesia di ricerca della complicazione. E che la complicazione sia camuffata
da precisione e da innovazione non fa che aggravare le cose. Anche qui l’esperienza di ognuno può
fornire esempi a iosa. Ad un certo punto, come per una decisione presa in un convegno nazionale, i
fiorai sono diventati fioristi, i dipartimenti di Zoologia sono diventati dipartimenti di Biologia
animale, quelli di Farmacia dipartimenti di Scienze farmaceutiche, quelli di Filosofia dipartimenti di
ricerche filosofiche (se no come si fa a ricordare al grande pubblico che la filosofia è ricerca?), il
Polo delle Libertà Polo per le Libertà (più preciso, no?) e poi di nuovo Polo delle Libertà (ancora
più preciso), la polizia Polizia di Stato (ma chi ha mai pensato che fosse privata?). In banca da
qualche tempo non c’è più un tetto alle operazioni, ma un plafond; non si cambiano più le valute,
ma le “divise”. Sui treni italiani Chef Express, “la ristorazione che viaggia” non offre fette di torta
(come le abbiamo sempre chiamate tutti fin da bambini, compresi i libri delle elementari che ci
spiegavano le frazioni), ma “tranci di torta” (e vi assicuro che non sono più grossi). Il cronista di
calcio si esalta al “quarto gol personale di Totti” (ma esiste anche il gol collettivo?). Il Consiglio
Nazionale delle Ricerche finanzia “progetti finalizzati”, che sono in realtà “applicativi” (conoscete
un progetto che non sia, in quanto tale, rivolto ad un fine?). Gli economisti parlano
dell’“interscambio” fra l’Italia e gli Stati Uniti (ma scambi che non siano “inter” non sono scambi;
altrimenti dobbiamo concludere, come quel personaggio di Molière, che da ragazzi abbiamo
interscambiato figurine senza saperlo). Negli uffici postali, lettere e raccomandate si chiamano
“prodotti postali”, e le zone degli stessi uffici in cui si possono acquistare cartoni per pacchi, spaghi
eccetera “aree dedicate” (a che cosa? Dedicate, e tanto vi basti). Al telegiornale sentiamo dei “costi
in termini monetari della manovra economica” (per distinguerli dai costi in vite umane,
naturalmente). E in che cosa il manageriale, tecnico, moderno cartello “non operativo” su uno
sportello informa più del vecchio “chiuso”? Ma il grande vincitore di questa nobile gara del
superfluo è la parola “apposito”: “servirsi degli appositi sottopassaggi”, “introdurre la moneta
necessaria (a proposito: quella necessaria no) nell’apposita feritoia”, “premere l’apposito pulsante”,
ecc. ecc. Caso mai qualcuno fraintendesse, e imboccasse il sottopassaggio che conduce alle fogne di
Parigi, o inserisse le monete (anche quelle non necessarie, per generosità) nella buca delle lettere, o
premesse il bottone della camicia… Secondo in classifica il termine “provvedere”: il vigile (anzi,
l’“operatore di vigilanza”, com’era scritto sulle motociclette dei vigili di Montepulciano) non fa la
multa, ma “provvede a elevare contravvenzione”; i carabinieri, tempestivamente sopraggiunti, non
arrestano, ma “provvedono ad arrestare”; nei verbali dei concorsi universitari (cioè delle
“valutazioni comparative”, come si chiamano ora che sono stati resi più rigorosi) la commissione
non apre i plichi delle pubblicazioni inviate, non affigge i risultati, non fa entrare i candidati, ma
“provvede ad aprire i plichi”, “provvede ad affiggere i risultati”, “provvedere a far entrare i
candidati”. Terzi classificati a pari merito i termini “operazione” e “opera”, come nelle frasi
paradigmatiche (quante volte sentite!) “procedono regolarmente le operazioni di voto relative alla
consultazione referendaria” (frase che meriterebbe uno studio a sé), “prosegue l’opera di soccorso
delle vittime…” o “l’opera di spegnimento dell’incendio”.
Da questa serie di esempi si ricava facilmente la morale che ispira questo modo di parlare:
mai dire con una parola quello che si può dire con quattro. Questa sembra una regola a cui tutti si
sentono in dovere di attenersi scrupolosamente. Esempio tratto dal giornale radio: “Il conflitto
armato che ha opposto l’apparato militare britannico all’esercito dei generali argentini” (= la guerra
anglo-argentina per le Falkland). Esempio tratto dall’annuncio dell’altoparlante della stazione di
Bologna (ma che vale per tutte): “Detto treno nella tratta Bologna-Milano non effettua fermate
intermedie” (a che serve aggiungere “intermedie”?). Siamo nella categoria del famigerato “entro e
non oltre” o del “solo ed esclusivamente”.
Ho detto: “tutti”. Infatti, questa morale non vige solo fra telegiornalisti, vigili, carabinieri,
bancari, fiorai, ferrovieri e filosofi: vige universalmente. In molti casi non è possibile tradurre
79
questo linguaggio in lingua umana: è bacato il pensiero, non la forma. Certe cose nascono storte e
non possono più essere raddrizzate: non dovrebbero proprio essere pensate, insomma. I colpevoli
non lo fanno apposta: non sanno quello che fanno. Non parlano male perché non vogliano
comunicare; tutt’altro: credono di essere precisi, moderni, tecnici, efficienti.
Andiamo avanti. Letto in una bacheca su un marciapiede della stazione di Modena (fra
parentesi i miei commenti):
Avviso alla clientela (solo alla clientela?)
Sui marciapiedi delle stazioni (siamo già in stazione: è necessario dirlo?) è tracciato, con segnaletica
orizzontale (poteva essere verticale una segnalazione tracciata su un marciapiede?) di colore giallo, il limite
massimo (poteva anche essere minimo) da rispettare per (per!!) arrivi, partenze e transiti di treni (e che
altro?) e manovre (c’è differenza fra un transito e una manovra, visto che non si può far altro che andare su
e giù per un binario?). Pertanto si invitano i signori viaggiatori (non i loro accompagnatori? ) che sostano sui
marciapiedi (e se camminano? Se stanno seduti non c’è problema) in attesa del treno (solo quelli in attesa?)
a prestare particolare (non un’attenzione normale) attenzione a non oltrepassarla.
Insomma:
Vietato oltrepassare la linea gialla.
Caso inoffensivo, d’accordo, ma chi si esercita così sulle inezie chissà che cosa produce
sulle cose importanti? Quanto siano pericolosi soggetti che si esprimono in questo modo è
dimostrato dallo stesso ente. L’esempio che segue dimostra che chi è capace di eccesso è capace
anche di difetto di informazione. Avviso pendente dai bagagliai dei treni italiani nel febbraio 2003:
CON INTERCITY CARD VIAGGI IN 1° CLASSE
Nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì, dal 3 al 26 marzo, i titolari di Intercity Card viaggiano
in 1° classe su tutti i treni Intercity acquistando un biglietto di 2° classe.
Per usufruire del vantaggio, occorre presentare l’IC Card definitiva plastificata.
Per acquisto biglietti:
Biglietterie di Stazione, Agenzie di viaggio, www.trenitalia.com
Call Center: 89.20.21 (senza prefisso).
L’acquisto è possibile fino a 24 ore prima della partenza.
Come ci si può aspettare da chi usa tante maiuscole e chiama call center un centralino,
questa comunicazione è truffaldina, poiché tace particolari importanti. Voi credete che si tratti solo
di comprare il giorno prima un biglietto di seconda, salire sul treno, andare in prima classe,
mostrare la carta intercity plastificata quando passa il controllore (cioè “il personale viaggiante
incaricato di effettuare il servizio di controlleria”) e viaggiare tranquilli. Errore! Se fate così siete in
regola con la lettera dell’avviso, ma non con quello che l’avviso non dice, come vi insegnerà il
controllore facendovi la multa: perché il biglietto dev’essere acquistato 24 ore prima con una
prenotazione del posto; e se non prendete quel treno su cui avete prenotato non solo perdete il posto
e lo sconto, ma siete considerati viaggiatori senza biglietto. Quello che nell’avviso sul marciapiede
era imbroglio linguistico qui è imbroglio e basta.
Troppo spesso, quando si parla del diritto all’informazione corretta, si ha in mente
soprattutto il difetto di comunicazione: ci si lamenta soprattutto perché non si viene informati
abbastanza. Ma l’eccesso non è meno pericoloso. Tutti sanno che un contratto con una banca o con
una compagnia di assicurazione presupporrebbero la lettura accurata di un testo lunghissimo, non
solo scritto per lo più in caratteri minuti, ma pieno di clausole, perifrasi, tecnicismi, lungaggini,
rinvii a leggi e circolari, insomma una selva di parole che nessuno, nessuno legge da cima a fondo e
si fa spiegare dall’inizio alla fine. Tempo fa, a chi voleva comprare azioni approfittando dell’offerta
pubblica di acquisto dell’ENI o di altri enti veniva dato addirittura un volume (chiamano
vezzosamente “prospetto illustrativo”), la cui lettura era obbligatoria prima della firma! Si sa, la
legge non ammette ignoranza. Ma come sono scritte le leggi in questo paese? Come non possono
non essere scritte da persone che scambiano la precisione con il narcisismo e la superfetazione.
Viviamo in un paese in cui a scuola non si viene abituati alla chiarezza e alla concisione. Quindi il
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burocrate o il leguleio, anche quando non ha intenzioni cattive, anche quando non cerca di
cautelarsi da inconvenienti mediante scappatoie linguistiche e formule ambigue, scrive oscuro per
abitudine: anzi, proprio perché cerca di essere preciso, conformemente ai modelli che la scuola, la
società, i colleghi ecc. gli hanno imposto, mediante vere e proprie pratiche di iniziazione così
efficaci da fargli il lavaggio del cervello e da distruggere il buon senso. Non dimentichiamo mai
quanto sia pericolosa la ricerca ossessiva della precisione ad opera di persone che pensano male.
I gerghi tecnici (ma forse a questo punto sarebbe meglio dire “tecnicistici”) non sono altro
che la ciliegina sulla torta della complicazione, l’effetto cutaneo di una malattia interna mortale.
Quanti di noi sono stati capaci di installare una lavatrice o una televisione o un videoregistratore
solo seguendo le istruzioni del libretto? Quanti hanno imparato a usare un computer senza chiedere
aiuto a un amico passato già attraverso le stesse forche caudine? Si dirà che le istruzioni, come i
“bugiardini” che accompagnano le medicine, sono rivolte agli esperti: tecnici, medici, idraulici,
farmacisti. Ma dove sta scritto che debba essere così?
Ricordo con orrore la prima trasmissione dedicata dalla RAI al computer, nella rubrica
Telescuola (oggi si chiama RAI Educational!). Saranno passati forse vent’anni da quello che
considero un documento storico straordinario. Nello studio erano schierati cinque o sei esperti, in
rappresentanza di marche diverse, ognuno con la sua postazione. Presero la parola uno dopo l’altro
e scaricarono sull’ascoltatore dati sulle prestazioni dei loro strumenti, facendo pubblicità piuttosto
che informazione, e comunque in un linguaggio letteralmente incomprensibile. La presentatrice
restò così sconvolta che farfugliò qualcosa come “Be’, ci rendiamo conto che è difficile spiegare per
televisione a chi si accosta al computer per la prima volta quali straordinarie possibilità offra uno
strumento come questo. Vi invitiamo a seguire le altre puntate di questo programma. Col tempo
tutto diventerà più facile”. Quel programma finì lì. Io devo ancora riavermi dallo spavento, tant’è
che uso il mio PC come una macchina per scrivere, col telefono a portata di mano per chiedere aiuto
ad un amico paziente e bravo. Quella trasmissione è, per usare un termine abusato, emblematica: o
nessuno spiegò chiaramente a quegli esperti che dovevano introdurre al computer gli ignoranti e
non fare i piazzisti o qualcuno glielo spiegò ma loro non capirono niente oppure capirono e si
dimostrarono costituzionalmente incapaci di farsi capire. Comunque fosse, il fallimento fu totale,
perché nel cervello di tutti i colpevoli non c’era un’area specializzata nella funzione
“immedesimarsi nel destinatario della comunicazione”. Mancanza di cultura della comunicazione e
di una tradizione nazionale nella divulgazione, pressappochismo italico, compiacimento tecnicistico
e provinciale di figure sociali emergenti e aggressive, animate da un forte senso di casta: tutto
questo concorre a determinare risultati disastrosi. Il linguaggio dell’informatica scivola troppo
spesso nel gergo degli informatici, un italiese che non ha né i vantaggi dell’inglese né quelli
dell’italiano, che non può essere giustificato con l’esigenza di precisione tecnica, poiché non è
precisione quella che non serve a comunicare, a divulgare, ma a rendere indispensabile la
mediazione dei membri di una corporazione. Il discorso non vale solo per gli informatici,
naturalmente. Ecco un esempio tratto dalla trasmissione Check up (per altro benemerita). Parla un
illustre medico: “Ove la sintomatologia dolorosa divenisse eclatante bisognerebbe predisporre tutte
le procedure finalizzate all’exenteratio”. Vuol dire: “Se il dolore diventa insopportabile, bisogna
asportare”. In che cosa quello sproloquio era più preciso della mia traduzione? In che cosa
l’“assunzione per os” è più precisa dell’“inghiottire”? Ad un convegno ho sentito biologi dire
“ancestori” e “splittaggio” invece di “antenati” e “scissione”. Ho visto tradurre l’inglese template
theory of inheritance con “teoria del templato dell’eredità” (un template è un normografo o
sagoma). Ho sentito in televisione un altro illustre medico dire, nel tentativo di essere più preciso
dei precisi, “l’origine eziologica della patologia”. Ho sentito un ex ministro della Giustizia, uno che
deve esprimersi nel più fetido scartoffiese anche quando ordina un caffè, negare con le seguenti
parole di essersi candidato alle elezioni politiche con un certo partito per vendicarsi di un altro
partito che, quando lui era ministro, aveva avanzato una mozione di sfiducia ai suoi danni:
“L’evento della mia candidatura non è affatto da considerarsi reattivo all’accadimento del voto di
sfiducia”. Come non meravigliarsi che i cittadini sentano come un mondo alieno quello della legge
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o della medicina o della scienza. Una cosa è la difficoltà oggettiva dei concetti e dei termini (senza
la matematica non si capirà mai la fisica quantistica), tutt’altra cosa la scelta di un registro
comunicativo fatto per respingere. Non si tratta di sostituire con perifrasi termini come “RNA
messaggero”, “enfiteusi”, “palindromo”, “traslazione”, “sfigmomanometro” o “elettroforesi”; si
tratta di usarli in un contesto chiaro e accessibile, che concentri la difficoltà dove è necessario. Né, a
ben vedere, ci si può limitare ad auspicare una più diffusa capacità di divulgare. La comunicazione
oscura è inammissibile anche fra addetti ai lavori: chi si abitua al tecnichese e al difficilese ne resta
prigioniero, e il suo cervello si impoverisce. Ne risente la stessa comunicazione fra addetti ai lavori.
Tempo fa “Science” e “Nature” ospitarono dure critiche al modo in cui era scritto un numero
crescente degli articoli sottoposti per la pubblicazione: un linguaggio inutilmente sciatto e
complicato li rendeva incomprensibili agli stessi collaboratori delle due riviste. Vengono i brividi a
pensare come si sarebbero chiamati oggi gli strumenti che Galileo chiamava semplicemente
“occhiale” e, con umorismo che oggi si attribuirebbe ad understatement anglosassone, “celatone”
(una sorta di casco per misurare la longitudine): forse si chiamerebbero “supporti ottici mobili
operativi”.
Da qualche tempo, “fertilizzare” e “fertilizzazione” hanno sostituito “fecondare” e
“fecondazione” nel lessico dei biologi e dei medici, senza nessun guadagno per la precisione, ma
per la sola attrazione dell’inglese, e del piacere di sentirsi moderni. La cosa suscitò a suo tempo la
protesta di Giuseppe Montalenti, uno dei massimi genetisti italiani. L’adeguamento a standard
internazionali di precisione allo scopo di facilitare la comunicazione oltre l’ostacolo delle lingue
non è, né in questo né nella maggior parte dei casi simili, una giustificazione valida. O si crede che
il medico che dicesse “fecondare” in un consesso specialistico sarebbe considerato poco aggiornato
dai colleghi? Se fosse solo una questione della maggior precisione dell’inglese (ma davvero
“fecondare” è meno preciso di “fertilizzare”?), sarebbe più logico sostituire completamente
l’italiano con l’inglese anche nella comunicazione quotidiana fra colleghi. Ma quanti ne sarebbero
capaci? L’Italia è piena di tecnici che non sono in grado di sostenere una conversazione in una
lingua straniera, ma infarciscono il loro gergo di parole straniere che non sanno nemmeno
pronunciare. E comunque, per chi sa che “fecondità” in inglese si dice fertility non dovrebbe essere
difficile tradurre all’occorrenza nell’uno o nell’altro senso. Ma è inutile insistere: qui non è in gioco
la logica, ma fattori di altro ordine: sciatteria, provincialismo, senso di casta, e forse anche una
sopravvivenza di pensiero magico… Nel pensiero magico, dare un nome a una cosa vuol dire
possederla, cambiarle nome vuol dire trasformarla e rafforzarne il possesso.
Un esperto non è necessariamente una persona capace di spiegare. Anzi, spesso non lo è
affatto, e proprio perché è un esperto. Nel suo orizzonte mentale appare naturale quello che al
profano appare incomprensibile; non sente il dovere di uscirne per entrare in quello di chi ascolta e
poi rientrare nel proprio e così via per tutto il tempo della comunicazione, che consiste proprio in
questo “dentro e fuori”. Quando rimane nella propria gabbia, l’esperto crede di comunicare, ma in
realtà officia un rito. Sembra che parli ad un’altra persona, ma in realtà parla a se stesso – come il
peggiore dei poetastri narcisisti – ripetendo una lezione imparata a memoria durante riti di
iniziazione e congratulandosi con se stesso per averla appresa così bene. Parla a sé e ai suoi sodali
mentre parla a voi. E se cercate di far valere il vostro diritto di capire vi dirà: “Questo è linguaggio
tecnico: non ci posso fare niente”. Viene in mente il personaggio della trasmissione “Mai dire gol”,
il nonno telematico, che viveva attraverso il computer e a chi gli chiedeva spiegazioni di quello che
diceva rispondeva: “Ma tu capisci di computer? No? E allora che parli a fare?”
In molti casi il linguaggio non serve a comunicare, ma ad escludere. Michel Foucault (per
altro campione lui stesso del linguaggio inutilmente oscuro) parlava di “meccanismi di esclusione
dal discorso”. Il linguaggio inutilmente, falsamente tecnico è un linguaggio di sopraffazione. Serve
a mantenere il predominio di una casta, nonostante le buone intenzioni di chi lo usa. Al tempo
stesso, i meccanismi di esclusione rafforzano ritualmente un’identità. E’ come se chi parla si
rivolgesse non solo all’interlocutore, ma soprattutto a se stesso, dicendo: “Io appartengo al tale
gruppo, ne parlo il gergo. Poiché parlo così, sono degno di farne parte”. Nei consessi specialistici, il
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linguaggio tecnicistico (non quello tecnico, è necessario ripeterlo?) svolge la funzione, anch’essa
rituale, di rinnovare l’iscrizione al gruppo e di rinsaldare il senso di appartenenza, come nelle
cerimonie religiose che rinsaldano il legame alla comunità degli eletti. In ogni discorso tecnicistico
si può sentire un basso continuo che dice: “Vedete? Sono dei vostri. Merito di essere qui”.
Il linguaggio assicura un’identità al prezzo di molte esclusioni. L’incomunicabilità non
consiste nella difficoltà delle parole, ma nel modo e nello scopo del loro uso. Che cosa lo spirito di
casta abbia in comune con l’ideale del sapere come apertura, partecipazione, collaborazione,
allargamento della base sociale della ricerca è un mistero. Mi rifiuto di pensare che l’aumento delle
conoscenze e della specializzazione comporti inevitabilmente incomunicabilità. Anche perché ne
siamo vittime tutti, e non posso credere che vogliamo restare tali. Ognuno di noi, infatti, è escluso
da decine di comunità, ma per altri versi, in quanto elettore, marito, malato, derubato, acquirente di
beni immobili, titolare di un conto bancario, proprietario di un’auto, ecc., è costretto ad entrare
continuamente in comunità in cui viene subito emarginato e fatto oggetto di violenza da parte di chi
abusa del proprio potere. Anche in campo strettamente scientifico l’incomunicabilità è un male che
colpisce tutti. Entro certi limiti, è un male inevitabile: un paleontologo, uno zoologo e un biologo
molecolare hanno in mente tre cose diverse quando usano la parola “specie”, perché pensano ad
aspetti diversi della stessa realtà, pur affrontando il problema generale dell’evoluzione della vita.
Ma sarebbe ridicolo che ognuno considerasse il proprio punto di vista come il migliore o l’unico.
Quando si parla di divulgazione, s’intende per lo più la trasmissione semplificata delle
conoscenze dallo specialista al profano. E’ un errore: siamo tutti profani in un’infinità di cose, e
tutt’al più siamo esperti solo in qualcuna. La divulgazione riguarda anche il rapporto fra specialisti
di diverse discipline. Davvero c’è chi crede che un etolologo, per il solo fatto di essere uno
scienziato, possa leggere senza difficoltà una rivista di astrofisica? O uno storico contemporaneo un
testo di ermeneutica biblica? I linguaggi settoriali vengono blindati non solo per facilitare la
comunicazione fra i membri del gruppo, ma anche per escludere i colleghi di altri campi. Il dialogo
fra specialisti di discipline diverse somiglia troppe volte ad un dialogo fra sordi, e, come si sa, non
c’è peggior sordo chi non vuol sentire. Le cause di questa sordità sono le stesse che impediscono
l’abbattimento delle barriere: gelosie professionali, concorrenza per i finanziamenti, lotta per
l’egemonia, spirito di casta, presunzione, ignoranza, mancanza di curiosità. Ognuno coltiva il
proprio orticello, perché in quello farà carriera e otterrà una piccola fetta di potere; quindi lascia che
gli altri facciano altrettanto: sembra discrezione, ma è disinteresse; è una tolleranza fondata
sull’intolleranza: “A casa tua comandi tu, ma qui comando io, ed è questo che conta”. E’
l’atteggiamento di chi crede di bastare a se stesso. E’ un’illusione, come tutti siamo pronti ad
ammettere, ma troppe volte dura un’intera vita; e quando s’impara la lezione, il danno arrecato alla
comunità è fatto. Anche se ammantato di rigore scientifico, questo è fondamentalismo, e nessuno ne
è immune. Una situazione del genere si può cambiare solo lentissimamente, e certo non se ci si
limita a invocare ritualmente una “nuova cultura della comunicazione”. Per informarsi bisogna
volersi informare. Per avere bisogna chiedere. L’indifferenza e l’assuefazione sono i nemici
maggiori. I gerghi tecnici di dominio creano indifferenza: è il loro più potente mezzo di difesa. Il
primo, decisivo passo è la diffusione del desiderio di ficcare il naso in casa altrui, accompagnato
dalla faccia tosta di esigere dal padrone di casa che adatti in qualche modo la cucina ai gusti
dell’intruso. Ma prima, naturalmente, si dovrà cominciare dalla propria.
Questa è quindi la prima risposta alla domanda: Che fare? Fare pulizia in casa propria,
esercitarsi già fra le mura domestiche a comportarsi bene in pubblico, fare continuamente ginnastica
intellettuale (e morale), poi uscire e visitare molte case (la curiosità è la madre del sapere) e
pretendere dagli altri lo stesso comportamento. Poi si tratta di ridurre l’abisso che separa la ricerca
dalla divulgazione.
La necessità della divulgazione scientifica era al centro della battaglia culturale dei padri
della scienza moderna. Per Bacone, Cartesio, Galileo la scienza doveva parlare un linguaggio
chiaro, accessibile, scevro da compiacimenti. La produzione del sapere era inseparabile dalla
diffusione del sapere. Leibniz spinse questa convinzione fino ad auspicare la creazione di una
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lingua universale che fosse terreno d’intesa fra tutti gli uomini e ponesse fine alle controversie
scientifiche, filosofiche, religiose, politiche. Il positivismo di Comte sviluppò questa fiducia nella
scienza fino a farne un elemento centrale del suo progetto di riforma spirituale e sociale. Per
esercitare la sua funzione morale e sociale, per compiere il rinnovamento spirituale che è il suo
compito e il suo destino, lo spirito scientifico deve diffondersi. L’istruzione scientifica è parte
integrante del programma positivistico. Comte stesso si impegnò in lezioni popolari e contro lo
specialismo ebbe parole durissime. “Una filosofia direttamente scaturita dalle scienze – scrive nel
Discours sur l’esprit positif (1844) – troverà probabilmente i suoi più pericolosi nemici in quelli che
oggi le coltivano. La principale causa di questo deplorevole conflitto consiste nella specializzazione
cieca e dispersiva che caratterizza profondamente lo spirito scientifico attuale, per la sua formazione
necessariamente parziale”. Un “pericoloso andazzo accademico” sviluppa la vera positività solo in
un settore, lasciando tutto il resto sotto il regime teologico-metafisico o abbandonato a un
empirismo gretto e oppressivo. Per superare le resistenze opposte dall’“intima antipatia”,
dall’“insuperabile avversione a ogni idea generale”, dal “disastroso lavoro specialistico” c’è un solo
mezzo: “un appello diretto e continuo all’universale buon senso, sforzandosi ormai di propagare
sistematicamente, nella massa attiva [della popolazione], i principali studi scientifici idonei a
costruire la base indispensabile della sua grande elaborazione filosofica”. Insomma, contro quella
che oggi chiameremmo una eccessiva specializzazione (Comte dice “professione esclusiva”),
bisogna fare appello all’“educazione universale”. “Il pubblico, infatti, che non vuole diventare né
geometra né astronomo né chimico ecc., prova continuamente il bisogno simultaneo di tutte le
scienze fondamentali, ridotta ciascuna alle sue nozioni essenziali: ha bisogno, secondo la
notevolissima espressione del nostro grande Molière, dei lumi di tutto […] Il pubblico […] avverte
sempre di più che le scienze non sono esclusivamente riservate agli scienziati”. 2 Il pubblico che ha
in mente Comte è l’umanità intera, anche quella futura. Questo spiega il pathos religioso che
avvolge la sua perorazione dell’istruzione universale e lo stretto nesso da lui stabilito fra questa e
l’altruismo, in nome della religione dell’umanità.
Queste parole suonano oggi ancora più utopiche di allora. Oggi siamo costretti a sostituire
quella certezza con una fioca speranza, ma anche con un’esigenza ancora più forte di quella
certezza.
Per Comte la divulgazione era un compito della filosofia. La filosofia positiva era di per sé
antispecialistica, consistendo nel coordinare i fatti e le osservazioni, nello stabilire nessi tra i
fenomeni e leggi generali, nell’ordinare le conoscenze, sempre relative, in una visione globale.
Come Comte aveva previsto, le critiche vennero anche dagli scienziati: il grande fisiologo Claude
Bernard, per esempio, gli rimproverò di assegnare al filosofo la specialità di non avere specialità.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e l’illusione di una filosofia universale – rinata di volta
in volta sotto le vesti dell’enciclopedismo, del materialismo dialettico o del neopositivismo –
sembra svanita per sempre. Non è detto che sia un male. Comunque sia, la specializzazione si è
accentuata talmente che non esistono più scienziati universali. E se ci sono tentativi, ad esempio, di
una teoria universale della materia, si tratta di imprese così astrattamente matematiche da aver perso
ogni legame con l’immaginazione sensibile e con l’“universale buon senso”.
Pochi autori hanno analizzato le conseguenze psicologiche ed esistenziali dello specialismo
inevitabile della scienza moderna e della sovrabbondanza di informazioni e di occasioni di
conoscenza tipiche del mondo contemporaneo con l’acutezza di Georg Simmel. In un saggio del
1907, Concetto e tragedia della cultura (1907), Simmel definiva la cultura come la “via dell’anima
a se stessa”, un cammino che parte dal soggetto, percorre la molteplicità delle forme e degli oggetti
della cultura e ritorna al soggetto, modificato e arricchito dall’averli incorporati in sé. Il viaggio
dev’essere compiuto, poiché la cultura non può essere mera emanazione del soggetto, ma comporta
ad ogni passo il pericolo dello smarrimento. La quantità degli oggetti è illimitata, mentre è limitata
la capacità di ricezione del soggetto. La molteplicità degli oggetti e delle forme della cultura è tale,
2
Comte (1985), pp. 93, 95-96.
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le loro ramificazioni tante che non potremo mai percorrerle tutte; in quanto oggettivi, essi seguono
una logica autonoma, che non è quella del soggetto; per cogliere a pieno i frutti di ognuna sarebbe
necessaria una vita intera. Dobbiamo rinunciare a molte fonti di arricchimento, forse alle più vitali e
consone alle nostre esigenze; oppure ci smarriremo nei sentieri laterali che si diramano ad ogni
passo. Fra gli estremi dello smarrimento e della rinuncia si compie la tragedia inevitabile della
cultura; ma in questa tragedia consiste la sua grandezza. La tragedia deve compiersi, pena il
solipsismo. In questo e in altri saggi Simmel rifletteva sul fatto che la modernità complica sempre
più lo scenario: l’aumento crescente di dati, informazioni, occasioni di conoscenza, stimoli,
esperienze, possibilità di godimento, “la smisurata specializzazione” che ovunque procede con
“demoniaca inesorabilità”, sballottano l’uomo contemporaneo fra la sovreccitazione e la nausea da
eccesso, fra il desiderio di fuga e l’insensibilità protettiva.
La riserva di spirito oggettivo che cresce a perdita d’occhio pone al soggetto delle esigenze,
risveglia in lui delle velleità, lo abbatte con il sentimento della propria inadeguatezza e della propria
miseria, lo inserisce nell’ordito di rapporti complessivi, alla cui totalità egli non può sottrarsi senza
riuscire tuttavia a dominarne i singoli contenuti. Nasce così la tipica situazione problematica
dell’uomo moderno: la sensazione di essere circondato da un’infinità di elementi culturali che per
lui non sono certamente privi di significato ma, fondamentalmente, neppure significativi: in quanto
massa, essi hanno qualcosa di soffocante, dato che l’uomo non può assimilare interiormente ogni
singolo contenuto, ma neanche rifiutarlo a cuor leggero se questo appartiene, per così dire,
potenzialmente alla sfera della sua evoluzione culturale. 3
Poiché la tragedia deve compiersi, e la vita non è vita senza la cultura, bisognerà affrontarla
virilmente, senza cedere alla disperazione. Ognuno sceglierà il suo modo di farlo. Ma proprio i due
pericoli opposti dell’indifferenza e della dispersione, della stanchezza e dell’eccitabilità
superficiale, del “vicolo cieco” e dello “svuotamento della vita interiore” rendono più urgente la
necessità della divulgazione, l’elevano anzi a compito sociale primario, a dovere dell’intellettuale.
La comunità del sapere deve diventare una comunità di traduttori e divulgatori, di mediatori e
messaggeri, di incompetenti curiosi e comunicativi.
Altrimenti… Le conseguenze sono già sotto gli occhi di tutti. L’ignoranza scientifica nel
nostro paese raggiunge livelli inconcepibili. Un sondaggio rivela che due italiani su tre considerano
rischiose e inutili le biotecnologie agroalimentari solo perché non sanno di che cosa si tratta: per
esempio credono che i pomodori naturali non contengano geni, mentre quelli transgenici sì. Né in
matematica le cose vanno meglio, se non è stato sommerso da una risata universale un Presidente
del Consiglio che annunciava come qualmente in sette mesi del suo governo gli arrivi dei
clandestini fossero diminuiti del 247%. Le difficoltà con i centesimi di euro dimostrano che molti
italiani non sanno fare addizioni e sottrazioni (e perciò si meritano gli arrotondamenti perpetrati da
bottegai e altri furbastri). Siamo un paese di automobilisti che non sanno come funziona il motore a
scoppio, ingurgitiamo tonnellate di medicine senza sapere che cos’è la tavola periodica degli
elementi, usiamo il computer senza sapere che cos’è una numerazione binaria. Quanti sanno fare
con carta e penna, non dico mentalmente, una divisione a due cifre? Si può essere fruitori entusiasti
della tecnologia senza sapere nulla della scienza che c’è dietro.
La scienza diventa sempre più complessa e impervia non solo al profano. La
specializzazione crescente determina nello specialista un’ulteriore chiusura nella propria specialità,
e nel profano la tentazione sempre più forte di cercare altrove compensi e soluzioni: arte, letteratura,
filosofia, religione, politica, ma anche magia, astrologia, pseudoscienze; oppure attività meramente
tecnico-pratiche, quelle in cui “non si pensa” e le cose “si prendono così come sono”, senza tante
complicazioni. Il divario crescente fra ricerca e cultura media rende sempre più difficile il controllo
da parte dell’opinione pubblica e favorisce le reazioni istintive. L’ignoranza aggrava il disinteresse
e la diffidenza.
3
Simmel (1985), p. 209.
85
E’ accettabile la prospettiva di circoli sempre più specialistici e sempre più isolati gli uni
dagli altri e dal resto del mondo? Fin tanto che la parcellizzazione del sapere procede inevitabile,
c’è una sola via da seguire: istruire e divulgare, o, in altri termini, coinvolgere un sempre maggiore
numero di cittadini, se non nella ricerca, almeno nella consapevolezza di che cosa e come si ricerca.
Bisogna investire nell’istruzione e nella divulgazione scientifiche quanto nella ricerca. In
proporzione, gli insegnanti devono essere pagati quanto i ricercatori. Senza istruzione e
divulgazione, intorno alla scienza e alla tecnica ci sarà sempre indifferenza e diffidenza. I loro
risultati saranno usati come meri beni di consumo (come i gadget e i farmaci) o rifiutati come
trappole pericolose.
Purtroppo, nel nostro paese molti scienziati hanno guardato con fastidio e alterigia non solo
ai filosofi che se lo meritavano, ma a chiunque, anche nelle loro stesse file, mostrasse interesse per
gli aspetti filosofici, storici, epistemologici, etici della propria disciplina. Anche nella scienza, gli
incompresi sono quelli che non si sanno esprimere. Nell’intera nostra tradizione culturale non c’è il
culto della chiarezza. Non è sentito come un dovere civile il parlare tutte le volte che è possibile al
pubblico più vasto possibile. Chi scrive per divulgare è considerato inferiore a chi fa ricerca. Il
paese del burocratese, del politichese, del sindacalese non è il terreno ideale per la circolazione
delle idee e delle informazioni. Ma qui il discorso si allarga troppo: non è possibile partecipare
criticamente, combattivamente ai fatti della cultura senza lottare per la partecipazione a tutta la vita
politica e sociale del paese. E questa, per chi non lo avesse capito, è una conclusione politica, non
linguistica o filosofica.
BIBLIOGRAFIA
Comte (1985)
Comte, A., Discorso sullo spirito positivo, tr. it. di A. Negri, Roma-Bari, Laterza, 1985
Simmel (1985)
Simmel, G., Concetto e tragedia della cultura, in La moda e altri saggi di cultura fìlosofica, trad. it. di M.
Monaldi, Milano, Longanesi, 1985
Vergata (1998)
Vergata, A., Scienza, tecnica e fondamentalismo, in “Bollettino filosofico”, Dipartimento di filosofia,
Università della Calabria, 14 (1998), pp. 127-134
Vergata (2002)
Vergata, A., Scienziati, politici, cittadini, in “Rivista di filosofia”, XCIII (2002), (fascicolo monografico
Cultura scientifica e politica della ricerca, a cura di C.A. Viano), pp. 239-261
Vergata (2004)
Vergata, A., Specialismo e divulgazione, in Bioetica e mass media. Le questioni della privacy e della buona
informazione, a cura di M. Balistreri e S. Pollo, Milano, Guerini, 2004, pp. 193-211
86
MARCO CIPOLLONI
Il Secolo d’Oro delle traduzioni o la nascita di un “nación traducida”:
il mercato della mediazione linguistico-culturale nella Spagna del secondo
Settecento e dello Entresiglos
1. Una “nación traducida”
Ramón de Mesonero Romanos, nel 1842, scrive nel suo “Semanario Pintoresco Español”
(serie periodica di bozzettistiche riflessioni costumbristas):
nuestro país, en otro tiempo tan original, no es en el día otra cosa que una nación “traducida”.
Questo bilancio, perentorio e trasparente solo in apparenza, rappresenta, per l’argomento del nostro
incontro di oggi, un verosimile punto di arrivo (cronologico), ma noi cercheremo di rovesciare la
prospettiva, utilizzandolo sia come falsariga che come possibile punto di partenza (logico).
Il primo passo può essere rappresentato da due domande.
La prima domanda, per la quale cercheremo una risposta nella nascita e nel funzionamento
semiprofessionale di un mercato spagnolo della traduzione “giornalistico-editoriale” nel secondo
Settecento e nel cosiddetto Entresiglos, formula una questione storica e particolare: davvero la
Spagna del 1842 era una nación traducida e, se sì, a partire da quando, in che modo, in che misura e
in virtù di che tipo di nation rebuilding lo era diventata?
La seconda domanda, che utilizzeremo come spunto per formulare alcune ipotesi
comparative, ha una portata più metodologica e generale: è davvero possibile diventare una nación
traducida e, se sí, cosa significa diventarlo, in termini di identità e nazionalizzazione?
Detto in altri termini, utilizzeremo il caso spagnolo per riflettere sulle relazioni tra nazioni
(cioè Europa delle nazioni, concerto delle nazioni, Restaurazione) e traduzioni (cioè Europa delle
traduzioni, invenzione e costruzione dello spazio culturale europeo occidentale, di quello
mitteleuropeo e della cosidetta Europa orientale). Si tratta, lo anticipiamo, di una relazione che
attraversa un ventaglio di atteggiamenti che vanno dalla contrapposizione (traduzioni come veicolo
di cosmopolitismo, per cui traduzioni versus nazioni) ad una quasi identità (tutte le nazioni, in
quanto invented traditions, sono e non possono essere che traducidas, per cui traduzioni = nazioni).
Forti di queste anticipazioni, possiamo ora tornare a riflettere sui meccanismi linguistici e
sulle implicazioni culturali della nostra citazione di apertura. Lo schema retorico-ideologico
contrappositivo che soggiace alla formulazione di Mesonero Romanos (scandita dalle opposizioni
“nuestro país” versus “otra cosa”, “en otro tiempo” versus “en el día”, “original” versus “nación
traducida”) può infatti fornirci, come anticipavo, una eccellente falsariga.
a) “nuestro país” versus “otra cosa”
E’ il tema dell’identità culturale, percepito e rappresentato non come risultato di un processo
e di un portato relazionale, ma come “dato” oggettivo e reificato: l’uso della parola “cosa” è
desemantizzato — otra cosa = altro —, ma non del tutto: otra cosa vale “altro”, ma suggerisce
anche “cosa d’altri”, proprietà altrui, il che, applicato a sé o al mito di sé, induce e amplifica la
convinzione, solo in parte fondata, a) che “nuestro país” equivalga a “cosa nostra” e b) che la
Spagna sia o si senta invasa e trasformata in terra di conquista, in cosa e casa di genti e idee venute
da fuori. L’identità è vissuta come un patrimonio da tesaurizzare e museificare (una tradizione, un
“bene culturale”), restaurandolo e preservandolo da epidemie e contagi (purismo linguistico,
assolutismo, culto delle tradizioni, purezza etnica e religiosa, limpieza de sangre, marchi D.O.C.,
etc.), e non come il frutto di uno scambio (al punto da identificarsi con esso): lingua come
strumento di comunicazione, relativismo, analisi comparata delle tradizioni, anche religiose,
ibridazione e manipolazione, identificazione dei prodotti non con la loro origine, ma con le varie
forme della loro fortuna, traduzione inclusa.
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Il valore della traduzione cambia in modo radicale a seconda che ci si collochi nell’una o
nell’altra prospettiva. Nel primo caso si tratterà di una pratica pericolosa (in potenza inquinante e
discutibile nei metodi e negli obiettivi), accettabile solo in quanto strumento da applicare per ridurre
e neutralizzare quanto più possibile le alterità e le novità davvero inevitabili.
Nel secondo caso si tratterà invece di un contributo irrinunciabile alla fabbrica dell’identità
collettiva, quando non addirittura del luogo deputato alla continua ridefinizione di sé e dell’altro da
sé. Tra la restaurazione fernandina e l’epoca in cui scrive Mesonero Romanos, dopo che le due
prospettive avevano sperimentato una lunga coesistenza e diverse utopie di componenda entro i
contraddittori palinsesti della ilustración española, la prospettiva puristica e patrimonialista aveva
guadagnato terreno su quella relativista e universalista, consentendo una rilettura molto selettiva sia
delle polemiche sulla traduzione scritta (gli afrancesados!), sia delle peculiari consuetudini
traduttive (ritraduzione, adattamento, plagio) che in Spagna si erano sviluppate sul mercato librario
e giornalistico-editoriale del secondo Settecento e del cosiddetto Entresiglos. 1 Il risultato di questo
approccio selettivo da un lato perfeziona la metamorfosi del cattivo traduttore in un tipo da bozzetto
letterario costumbrista e dall’altro ne generalizza la figura, lasciando intendere che il cattivo
traduttore è colui che meglio incarna lo spirito di un’attività di per sé censurabile, in quanto canale
di ibridazione, cavallo di Troia e veicolo di contagio di forestierismi e mode straniere (nel campo
della poesia, del teatro e del romanzo, ma anche dell’arte militare, della scienza, del pensiero, etc.).
Un bilancio meno prevenuto dei dibattiti e delle pratiche che in materia di traduzione si
erano imposte all’attenzione e avevano fatto opinione nei cento anni precedenti evidenzia una
traiettoria storica molto più articolata, incardinata su un ideario neoclassico che ha come referente,
sia tecnico che linguistico, il caso delle traduzioni dalle lingue classiche (in particolare dal latino) e,
di conseguenza, la riproposizione in ambito traduttivo della tradizionale dottrina della aemulatio
(con ampi margini di intervento delegati a colui che, traducendo, serve l’originale, ma lo fa
entrando in competizione con esso e con il dichiarato obiettivo di “migliorarlo”).
L’identificazione della traduzione col tipo bozzettistico del cattivo traduttore è in effetti il
risultato di un percorso composito, in cui contraddittorie circostanze di breve periodo (quali la
dipendenza strumentale da circuiti di committenza ideologicamente preorientati, le proscrizioni
politiche e le restrizioni materiali — sia censorie che di distribuzione e mercato) si sono innestate su
modelli a dir poco impegnativi e su un trend di indubbia popolarizzazione del fenomeno,
conseguenza di un duplice passaggio.
Dapprima le traduzioni passano dalla sfera progettuale dei circoli riformatori
dell’assolutismo illuminato (dove la pratica traduttiva veniva legittimata, ma serviva a poco, perché
quasi tutti sapevano leggere e scrivere in latino, francese, inglese e italiano), alla sfera panflettistica
della propaganda protonazionalista (rivoluzionaria e controrivoluzionaria, napoleonica e
antinapoleonica, liberale e fernandina), di cui è destinataria una sorta di élite allargata (più
intellettuale che borghese), portatrice di una soggettività sociale lacunosa, contraddittoria e
intermittente, in bilico tra civismo e comunitarismo, valori e interessi. Questo segmento della
società, che la restaurazione trasforma da potenziale mente in fragile corpo della propria deficitaria
statualità, si identifica, almeno in Spagna, più con i riti di autoidentificazione e consumo
intellettuale di una embrionale opinione pubblica che con gli albori di una vera e propria sfera
pubblica e/o di una società civile davvero articolata e responsabilmente partecipativa.
Esaurita la spinta polemica del triennio liberale e consolidatisi i circuiti della restaurazione,
la traduzione passa così dalla sfera panflettistica del nazionalismo progressista e della propaganda
ideologica alla retorica tradizionalista, bozzettistica e di costume, di un nazionalismo conservatore
molto sensibile alle esigenze di bottega di una redditività economica collegata al successo di generi,
come il teatro comico e il romanzo, fin troppo rispondenti ai calcoli commerciali di un’editoria
“tipografica”, interessata a utilizzare traduttori e traduzioni come strumenti per rifornire in fretta il
mercato accelerando i tempi e riducendo all’osso i costi e i rischi d’impresa (in questo nuovo
1
Per un buon panorama storico ed una serie di pertinenti case studies si può segnalare la miscellanea curata da
Francisco Lafarga (Lafarga (1999)).
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scenario la traduzione è indispensabile, ma viene guardata con sospetto e concepita in modo molto
target oriented, come veicolo di adattamento del prodotto importato alle esigenze del mercato
locale, oltre che come tecnica idonea per intercettare e soddisfare in modo rapido e redditizio la
crescente domanda di romanzi e commedie stranieri).
Il passaggio dai riti di aristocrazia civile del riformismo carolino (basati sulla honra legal, le
Accademie e l’associazionismo culturale degli Amigos del país) alle pratiche commerciali del
preromanticismo costumbrista non è diretto.
Tra la stagione di coloro che sognavano di trasformare “nuestro país” in “otra cosa”, e il
momento di chi invece si identificava con la contrapposizione tra i due ambiti (cioè con la
celebrazione patriottica dell’uno e la demonizzazione dell’altro in quanto alieno) si colloca, anche
per il mercato della traduzione, un perido molto interessante, caratterizzato dalle “urgenze” (di
tempi e di toni) della panflettistica rivoluzionaria (epoca di Carlo IV), dalle convulsioni
dell’invasione napoleonica e dalla Peninsular War e del trienio liberale e, infine, dalla seconda fase
della restaurazione fernandina. Gli esili e i contatti generati da questa fase di precarietà e instabilità
generano un quadro schizofrenico, in cui la domanda di mediazione linguistica e culturale cresce a
dismisura, mentre l’offerta si disarticola (per gli esili, le censure, le proscrizioni, etc.), collocando ai
margini del mercato (o addirittura al centro di circuiti di nicchia e dunque sostanzialmente fuori
mercato) buona parte delle migliori competenze, vuoi perché residenti all’estero, vuoi perché
ostinatamente legate a settori (quali la saggistica e la divulgazione scientifica) in cui la crescita della
domanda è tutt’altro che vorticosa e molto più condizionata dalle permanenti diffidenze degli
apparati censori. Questa situazione, combinandosi con le crescenti fortune della narrativa e del
teatro sul mercato interno spagnolo, finisce per lasciare spazio e occasioni di attività ad una
disoccupazione intellettuale di livello sociale e culturale relativamente modesto. Si tratta di un ceto
debole e ricattabile, composto in gran parte di aspiranti professionisti delle lettere, senza prestigio e
senza mezzi. Membri di una protobohème portatrice di una professionalità poco e male riconosciuta
e peggio o per nulla tutelata, questi piccolo esercito di penne in vendita costituiscono il corpo
inurbato di un gremio solo potenziale, disorganizzato e atomizzato, spesso costretto a difendere la
propria nicchia di committenza accettando di lavorare con ritmi frenetici, rispettando i tempi
(sempre più brevi) e i compensi (in genere bassi) imposti al mercato dagli spietati meccanismi della
concorrenza sul prezzo (cioè sui costi) tra i differenti tipografi. Ne risulta, sociologicamente, specie
a Madrid e Barcellona, la formazione di un ambiente di paradossale scapigliatura preromantica
invece che premodernista, legata ai caffé letterari, al teatro comico e al mondo della farándula e del
teatro leggero almeno quanto la scapigliatura italiana lo sarà al mondo dell’Opera lirica.
Questa trasformazione del mercato, che sposta gli equilibri e gli orizzonti di attesa del
professionismo paraletterario verso il gusto popolaresco e le atmosfere da sainete della città e della
notte, genera sul mondo delle traduzioni un momentaneo scompenso i cui effetti costituiscono la
base storica tanto del mito delle cattive traduzioni, quanto del tipo del cattivo traduttore.
Nell’esilio gesuitico prima e in quello liberale poi il mercato e la preparazione linguistica,
metalinguistica e interculturale dei traduttori erano migliorati molto. Fuori dalla Spagna, sia dallo
spagnolo che verso lo spagnolo, si traduce di più e nel complesso si traduce meglio di prima, cioè
partendo da una migliore e più diretta conoscenza sia degli originali, che delle lingue straniere. Il
rapporto che questi “stranierizzati” sviluppano con la propria lingua comincia anche a includere
echi del rapporto che, soprattutto a Londra, si sviluppano tra le comunità di esuli liberali spagnole e
ispanoamericane, posto che gli uni e gli altri cooperano alle stesse iniziative pubblicistiche ed
editoriali e costituiscono l’ossatura di uno stesso pubblico potenziale. In Spagna, per contro, l’esodo
forzato di gran parte degli intellettuali più interessati alle problematiche della mediazione linguistica
e culturale apre spazi di professionismo a molti “nuovi traduttori”, cioè ad intellettuali di seconda
categoria e di paradossale provincialismo, le cui mediocri prestazioni, oltre ad alimentare il mito e
poi il tipo del cattivo traduttore, modificano in modo sostanziale obiettivi, tempi, metodi e orizzonti
di aspettativa implicati nella produzione, nella circolazione e nel consumo delle opere tradotte. Il
moltiplicarsi di liberi adattamenti, refundiciones e plagi ha un duplice effetto:
89
– da un lato riduce, occulta e offusca la radicale estraneità dell’opera straniera,
coinvolgendola in un processo di ambigua naturalizzazione che, in realtà, la sradica e la ricolloca
entro le complementari convenzioni dell’esotismo idealizzato e della tradizione inventata (come la
lingua del doppiaggio, anche quella della nazione tradotta è il risultato di un compromesso tra
neutralizzazione e nazionalizzazione, in virtù del quale, l’identità dell’alterità viene al tempo stesso
idealizzata e negata);
– d’altro canto il risultato, per definizione “transitorio”, di questo compromesso
nazionalizzatore suscita il risentimento dei puristi, che hanno vita fin troppo facile nel sottolineare la
composita inautenticità di un necessario artificio.
Alla traduzione si richiede di nazionalizzare e popolarizzare il prodotto, e al contempo si
nega a tale prodotto la qualità di autenticamente autoctono e popolare. Il mercato lo vuole e lo
consuma perché altro e borghese, ma non vuole consumarlo come altro e borghese.
Assumendo fome bozzettistiche e caricaturali, l’atteggiamento di purismo demagogico della
nascente “cultura nazionale” nei confronti del fenomeno riflette una duplice condanna (degli
“stranierizzati” per ragioni ideologiche e dei “nuovi traduttori”, per la loro impreparazione),
esprimendola con toni di sempre maggiore diffidenza. Sono molto frequenti in materia di
traduzioni, metafore militari come “invasione”, “occupazione”, “tirannia”, tutte volte a orientare il
dibattito verso una lettura non solo nazionale, ma legittimista, esplicitamente collegata alla memoria
collettiva della campagna napoleonica del 1808, traumatico capolinea di un secolo di
afrancesamiento.
b) “en otro tiempo” versus “en el día”
La cronologia reale del fenomeno (con le diverse fasi cui si è fatto cenno, la prima più
teorico-politica, la seconda segnata dalle convulsioni rivoluzionarie e la terza legata agli equilibri
della restaurazione) viene deliberatamente ignorata da Mesonero, in favore di una lettura che sceglie
di disegnare l’identità della letteratura nazionale spagnola a partire dalle sue radici medievali e
barocche, trasformando il Settecento in sciagurata parentesi e mito negativo, contro i cui perversi
effetti era opportuno procedere con una logica di restaurazione culturale e confessionale pienamente
in linea con i retrivi capisaldi della politica fernandina.
La dimensione di comparazione cronologica suggerita dal testo di Mesonero è il perfetto
specchio di questa operazione di rimozione del secolo della traduzione (il Settecento) dalla
coscienza collettiva della nación traducida (una rimozione i cui effetti di lungo periodo possono
essere facilmente misurati ancora oggi nel mito del Settecento come secolo “poco spagnolo”, nello
scarso spazio che il Settecento ha, in Spagna e all’estero, sia nei manuali di letteratura e storia
culturale, sia nel panorama generale della formazione universitaria degli ispanisti). La locuzione “en
otro tiempo” non rinvia infatti ad un’età dorata di buone traduzioni, ma ad un’età dorata di poche o
nulle traduzioni, cioè ad’un epoca di autarchia e autoconsumo letterario legata ad una violenta
idealizzazione dei cosiddetti Siglos de Oro, cioè, in sostanza, alla costruzione del mito barocco e
teatrale della Spagna medievale e alla reinvenzione scenica, cerimoniale e cavalleresca della società
militante e cristiano-feudale degli ordini, utilizzata come fonte di legittimazione per la monarchia
delle caste e degli statuti di limpieza de sangre. Da questa Spagna metaidealizzata (nel senso che
idealizza una idealizzazione), che bastava a se stessa e che, di conseguenza, aveva poco bisogno di
traduzioni, si passa, di botto, a quella che vive “en el día”, cioè alla Spagna del 1842, snaturata e
traviata da un secolo di traduzioni e aperture al mondo esterno. Il programma restauratore è
implicito: si tratta (o si tratterebbe, se fosse possibile) di tornare quanto prima alla supposta purezza
delle supposte origini, smontando, in modo da non lasciarne pietra su pietra, il secolare castello
della nación traducida.
c) “original” versus “nación traducida”
Se non che, ed è il punto centrale dell’intera questione e della peculiare “hidiosincrasia
nacional” che ne deriva, in Spagna ancor più che altrove, non c’è davvero altra nazione che quella
90
tradotta. Nonostante gli echi ruralisti e di fondamentalismo ecologico che a volte ne accompagnano
la retorica (basti pensare all’abuso del tema delle radici nel discorso nazionalista, o, per converso, al
sottotesto di autenticità identitaria che caratterizza la rivendicazione di marchi doc o la propaganda
agrituristica), la nazione moderna è, in Spagna come e più che altrove, un OGM e un prodotto
importato (in gran parte dalla Francia e, in minore misura, dall’Inghilterra). La dimensione
“original” che “en otro tiempo” caratterizzava “nuestro país” non è che un mito apocrifo, il risultato
di una manipolazione della memoria operata e promossa da una élite storica concreta e legittimata
in nome e per conto di un soggetto, la “nación” appunto, che ha cominciato ad esistere, in bene e in
male, proprio nel vilipeso secolo della traduzione e in gran parte per effetto delle traduzioni. Persino
la mitica fiesta nacional, la festa taurina, destinata a catalizzare ricorrenti polemiche tra
neocasticistas ed europeizzatori, riceve la sua forma da una “ri-forma” del Settecento, perfezionata
nello Entresiglos (una riforma che introduce e sistematizza, con manuali e scuole di tauromachia, la
pratica del “toreo de a pie”). La “nación traducida” di “en el día”, risultato di un secolo di traduzioni
e di reinvenzione delle tradizioni è dunque un soggetto paradossale, che rinnega la propria storia di
riforme e di rivoluzione (di traduzione e di traduzioni) per rivendicare come propria una originalità
ideomatica che, vera o falsa che sia, era comunque federativa e imperiale e che, proprio per questo,
precede e non prepara la nascita di una “nazione”, che, senza i Borboni, gli afrancesados, gli
afamados traidores, la Pepa e i liberali non avrebbe potuto essere restaurata, per la semplice ragione
che proprio non ci sarebbe stata.
2. Il secolo d’oro delle traduzioni
Con i risultati di questa riflessione, possiamo ora tornare, con molti più elementi per
formulare una soddisfacente ipotesi di risposta, alle nostre due domande di partenza.
a) Cominciamo dalla prima domanda (davvero la Spagna del 1842 era una nación
traducida e, se sì, a partire da quando, in che modo, in che misura e in virtù di che tipo di nation
rebuilding lo era diventata?)
Quando Mesonero Romanos dice che la Spagna del 1842 è (è diventata) una “nación
traducida” è probabilmente sincero, almeno nel senso che ci restituisce in modo attendibile una
percezione e una convinzione che in quegli anni erano abbastanza diffuse (ancorché, come detto,
diversamente valutabili e valutate) nei circoli intellettuali e giornalistici di Barcellona e di Madrid.
Come detto, i “letterati” che denunciano l’inflazione delle traduzioni hanno in mente soprattutto il
teatro comico e il romanzo, che, all’epoca, erano senza dubbio diventati i generi di maggiore
diffusione presso il pubblico. Le opinioni in materia rispecchiano in sostanza l’atteggiamento di
ciascuno verso questi generi. Condanna le troppe traduzioni di romanzi e commedie sia chi per
ragioni di pubblica morale disprezza il romanzo e il teatro comico in quanto tali, sia chi viceversa è
a sua volta autore di romanzi e commedie, e di conseguenza vorrebbe avere maggiori spazi e
migliori opportunità su un mercato editoriale e dello spettacolo in cui le traduzioni funzionavano di
fatto da calmiere dei prezzi, venendo usate dall’imprenditoria del settore come efficace sistema di
riduzione dei costi.
Bisogna inoltre considerare che la domanda era sì cresciuta, ma soprattutto nelle città e
come curiosità per l’Europa, ragion per cui era più che ragionevole che fosse alimentata e
soddisfatta quasi esclusivamente attraverso materiali tradotti. Nella stragrande maggioranza dei casi
si trattava di traduzioni dal francese, che veniva utilizzato molto anche come lingua di mediazione,
con traduzioni da traduzioni verso il francese che rispecchiavano e amplificavano la dipendenza del
mercato culturale spagnolo da quello transpirenaico.
Proprio per questo era facile collegare polemicamente la questione delle traduzioni a quella
nazionale, contrapponendo le fortune commerciali di una “letteratura” straniera connotata come
“leggera” (cioè anche moralmente poco seria) e come “contemporanea” (cioè senza storia) al
recupero sistematico della tradizione letteraria nazionale, avviato non molti anni prima con la
pubblicazione dei corsi di letteratura spagnola di Alberto Lista, punto di partenza di una fortunata
91
strategia di rilettura del passato, incardinata sul romancero, la novellistica esemplare e il teatro
clásico seicentesco de enredo y de honor. Nel passaggio dall’uno all’altro canone letterario, oltre
alle ovvie questioni di genere e di tono, pesa molto anche una consistente riduzione del domaine
littéraire, che passa dalla inclusiva nozione settecentesca di letteratura (da intendere come quasi
sinonimo di scrittura) alla più esclusiva nozione che ancora ci portiamo dietro (e che, collocando al
centro la poesia, la prosa narrativa e la parte “non leggera” del teatro, taglia fuori molte cose che
prima erano sicuramente incluse, come la letteratura scientifica, la letteratura teologica e
devozionale, la letteratura di viaggio, la giurisprudenza, la saggistica non letteraria, la polemistica,
la cosiddetta paraletteratura, il giornalismo, etc.). La ricaduta di questa ridefinizione della
letterarietà sul mondo delle traduzioni è importante, nel senso che specializza e settorializza il
mercato del tradurre (isolando la traduzione letteraria dal resto e riducendo notevolmente la portata
delle questioni estetiche per tutte le traduzioni escluse dal ristretto ambito del nuovo canone
letterario).
Questo processo, relativamente rapido, si innesta, per il periodo che ci interessa, su una
deontologia della mediazione linguistica che pretendeva dai traduttori (specie se letterari) una
libertà di intervento, riformulazione e competizione con l’originale molto maggiore di quella
ammissibile oggi. Se per noi l’etichetta “traduzione letteraria” è se non proprio un sinonimo almeno
un attendibile indicatore di una cura particolare, che quasi si identifica con obiettivi di fedeltà
traduttiva, per il periodo che ci interessa (e che precede e prepara l’accennata ridefinizione del
canone) gli obiettivi della cura erano radicalmente diversi: le traduzioni tecniche erano in genere
fedeli perché poco accurate, quelle letterarie, proprio perché curate e accurate, erano e dovevano
essere “belle e infedeli” (che come noto è l’etichetta con cui è passata alla storia della traduzione la
versione settecentesca italiana dei poemi omerici, realizzata da Vincenzo Monti).
I traduttori del Sette e del primo Ottocento erano insomma più simili a mediatori culturali,
adattatori e risceneggiatori di un soggetto che non a puri e semplici mediatori linguistici.
Utilizzando un meccanismo di analogia con il mercato cinematografico contemporaneo, il termine
di paragone più idoneo non sarebbe il doppiaggio, ma il remake (basta pensare a casi come Nikita,
Tre uomini e un bebé e Abre los ojos), nel senso che, nelle traduzioni letterarie spagnole del Sette e
del primo Ottocento, vengono spesso abbondantemente modificati luoghi e circostanze, codici e stili
(di solito aggiungendo molto), portando avanti una versione integrativa e target oriented della
dottrina della aemulatio (con casi di annotazione, riscrittura, continuazione, etc...). Questo tipo di
pratica, specie nel campo del teatro e del romanzo, investe questioni di autoría, rendendo a volte
labili i confini tra traduzione, adattamento, rimaneggiamento, rifacimento, plagio, rielaborazione
originale di una idée reçue e costruzione di testi originali, ma conformi agli orizzonti di genere del
teatro comico e del romanzo francesi. Questa circostanza avrebbe potuto e in parte dovuto
tranquillizzare i nazionalisti e i fautori della storia letteraria e del teatro nazionali, posto che il testo,
specie quello destinato alla scena, arrivava alla fine dell’itinerario dopo avere subìto tali e tante
modificazioni da risultare ridefinito in senso più che “nazionale” dai successivi interventi di
mediazione operati su di esso per adattarlo ai gusti e alle aspettative del pubblico. Ciononostante, le
corrispondenze tra la formula comica di un autore teatrale di successo come Bretón de los Herreros
e i meccanismi comici dei testi stranieri da lui adattati offriva margini di interpretazione abbastanza
ampi da fornire argomenti tanto a chi lo considerava un nazionalizzatore, quanto a chi lo vedeva
come un agente di contagio esterofilo (in effetti la sua formula nazionalizzava i modelli stranieri e
internazionalizzava la tradizione spagnola).
b) Affrontiamo ora la seconda domanda (è davvero possibile diventare una nación traducida e, se
sí, cosa significa diventarlo, in termini di identità e nazionalizzazione?)
Posto che credeva di esserlo e che si comportava come se davvero lo fosse stata, non è poi
così importante (o almeno non lo è da un punto di vista storico) stabilire in che misura nel 1842 la
Spagna fosse davvero una nación traducida. Lo era in gran parte, e per ragioni comparabili a quelle
per cui lo erano in analoga misura (sia pure con diverse forme e in virtù di specifici meccanismi e
92
circuiti) la totalità delle nazioni del secolo delle nazioni. Si tratta di un problema cruciale sia per la
storia della traduzione che per quella delle traduzioni, oltre che per la storia culturale e delle
mentalità e per la letteratura comparata (sia intesa nel senso francese di storia delle relazioni
letterarie internazionali, della lettura e della ricezione, e che in quello anglosassone di teoria della
letteratura e dei generi).
Traduttori e traduzioni sono e rappresentano per le nascenti coscienze nazionali una realtà
ambigua e problematica, un ibrido di soluzione e di problema. Da un lato aiutano ad addomesticare,
naturalizzare e nazionalizzare ciò che è estraneo. Dall’altro inquinano e minacciano la mitica
purezza e la presunta autenticità di ciò che si suppone proprio e si postula originario. Le nazioni
ottocentesche della restaurazione, “militanti”, “politiche” e “politicizzate” in senso antiuniversalista,
antirivoluzionario e antinapoleonico, non solo sognano di mobilitarsi per conquistare il mondo e
farlo colonialmente proprio, ma identificano se stesse (e l’accumulo delle proprie frustrazioni) con
questo sogno di mobilitazione civilizzatrice, paradossalmente coltivato nel nome del più radicale
“ciascuno a casa sua”. La Spagna del primo Ottocento davvero non fa eccezione, se non per le
amplificazioni quasi caricaturali introdotte in questo cruciale passaggio da una certa discronia (il
mitico ritardo spagnolo, argomento chiave condiviso da nazionalisti ed europeizzatori). Una
discronia che tende a riprodursi e manifestarsi tanto in alcuni tratti di inefficienza della macchina
statuale (la “mater dolorosa” di cui parla Alvarez Junco), quanto in una perdurante propensione al
particolarismo localista e al provincialismo culturale (erudizione, folclorismo, localismo,
costumbrismo, caciquismo).
Tutti questi tratti caratterizzano ovviamente le cinghie di trasmissione del discorso ancor
prima e ancor più che i contenuti e i toni del discorso stesso (riguardano cioè la traduzione e la
lettura ancor prima e ancor più che la creazione e la scrittura).
Concepite e vissute come miti di identità e autenticità originaria e, di conseguenza, portate a
diffondere nello spazio pubblico e pedagogico il profilo solo retoricamente storicizzato di elaborate
ipostasi metaletterarie (niente è meno storico delle storie delle letterature nazionali!), le nazioni
dell’Ottocento affermano il proprio diritto ad autodeterminarsi, cioè a definire e fondare, come se
fosse oggettiva, una propria soggettività collettiva, storica e metastorica insieme. Guidati da élites
composite e cosmopolite, per formazione, sensibilità, interessi e cultura, gli stati nazione
costruiscono la propria autolegittimazione propagandistica attorno all’ideale puristico di una
comunità autosegregata i cui membri percepiscono se stessi e le proprie proiezioni “coloniali” extra
moenia, non sempre e non del tutto in malafede, come il prodotto virtuoso e necessario del
dispiegarsi storico, attuale e fattuale, di un potenziale metastorico postulato a priori.
In questa fantasmatica manipolazione discorsiva, tradizione spirituale inventata, costruita,
legittimata e amministrata in nome e per conto di Dio, della Monarchia e del Popolo, vigenza e
validità, fatto e valore si sostengono a vicenda: la nazione vige perche vale e il suo valore è
dimostrato dal fatto che vige (l’espressione ri-sorgimento nazionale per definire come ri-nascita la
nascita di una nazione è un perfetto specchio di questa logica, che vende una costruzione nuova
come se fosse un restauro e un testo originale come se fosse una traduzione).
Ai margini di questa autodimostrazione, il problema che resta aperto è semmai un altro: la
nación traducida del 1842 non era e difficilmente avrebbe potuto diventare la nazione di tutti. Pur
essendo la traduzione uno strumento democratico e un veicolo di democratizzazione, il secolo della
traduzione era in effetti stato un secolo elitista, di ricambio delle élites e dei progetti di cui i diversi
settori di ciascuna élite si erano via via fatti portatori, traendone elementi di legittimità e
legittimazione sia per la propria ascesa che per la capitalizzazione della propria egemonia, sempre
relativa.
All’ampliamento del mercato culturale non corrisponde un parallelo ampliamento della
cittadinanza politica. Il mercato culturale passivo (il consumo di cultura e intrattenimento culturale)
cresce più in fretta di quello attivo (la partecipazione alla produzione di cultura e intrattenimento
culturale), determinando il passaggio da una aristocrazia, che consuma più di quanto produce, ma,
essendo composta da “uomini di mondo” che sanno le lingue, può importare senza bisogno di
93
mediatori, a una mesocrazia, che consuma molto più di quanto produce, ma, siccome include lettori
linguisticamente illetterati (cioè lettori che non sanno le lingue), necessita di mediazioni e
mediatori.
Il perdurare di questa sproporzione in un mercato che cresce si rispecchia, per quanto
riguarda le traduzioni e l’importazione di usi, costumi e gusti letterari, nella coesistenza di due
fenomeni paralleli: il boom e la satira, cioè l’aumento del numero di traduttori e traduzioni e la
diffusione di stereotipi negativi che fotografano la svalutazione che inevitabilmente si associa
all’inflazione. Nell’interpretazione dei puristi, dei censori e di tutti coloro che si autoinvestono del
ruolo di difensori della pubblica morale, tanti romanzi, tante commedie, tante traduzioni e tanti
traduttori diventano troppi romanzi, troppe commedie, troppe traduzioni e troppi traduttori e
suggeriscono l’idea di cattivi romanzi e commedie, resi accessibili da cattive traduzioni, opera di
pessimi traduttori.
Per tutto il secolo d’oro della traduzione la fonte principale dei testi da tradurre è stata la
Francia e la maggior parte delle traduzioni (anche di opere non francesi) è stata fatta dal francese,
ragion per cui il problema della traduzione spagnola del Settecento può essere collocato in gran
parte (ma non del tutto) nel quadro di una storia delle relazioni culturali ispano francesi (cioè
dell’influenza francese in Spagna e della dipendenza culturale della Spagna dalla Francia, con
afrancesamiento e satire dello afrancesamiento da una parte e sprezzanti “Que doit-on à
l’Espagne?” dall’altra). Uno degli effetti linguistici che derivano dalla combinazione tra il crescente
numero delle traduzioni e il fatto che si traduca in prevalenza da una sola lingua è una certa
gallicizzazione (anche lessicale) dello spagnolo dei traduttori e della prosa spagnola delle
traduzioni, che si allontanano dalla ricchezza espressiva del barocco per orientarsi verso un modello
di eleganza più sobrio e comunicativo. Tutto ciò provoca reazioni non solo nel purismo
lessicografico (pro e contro i forestierismi), ma anche in una sorta di paradossale purismo stilistico
in cui, a seconda dei momenti, la necessità e l’opportunità di una reazione agli squilibri e agli
eccessi del barocco sembrano essere sentite da tutti come urgenza “nazionale”, ma in nome di
ideali tra loro tanto diversi quanto possono esserlo l’equilibrio neoclassico, cosmopolita ed
europeizzatore (fatto proprio dagli ilustrados del secondo Settecento e dagli afamados traidores) e
una progressiva idealizzazione del tradizionalismo popolaresco (che compare con il motín de
Esquilache e trova consacrazione nella vita di corte dell’epoca di Carlo IV e poi nell’insurrezione
antinapoleonica e nella cultura della restaurazione).
La dipendenza del mercato culturale spagnolo dalle forme di quello francese si associa tra
l’altro all’affermazione di Barcellona come centro editoriale di primaria importanza per la
traduzione e la ritraduzione dal francese. Molto prima di diventare la capitale culturale e linguistica
del catalanismo Barcellona ha affermato la propria vocazione di capitale economica e ed editoriale
proponendosi, attraverso il mercato del libro, come centro di irradiazione della nación traducida.
Varrebbe addirittura la pena di riflettere sul fatto che almeno una parte del presunto gallicismo della
lingua della nación traducida potrebbe essere un riflesso, oltre che dell’influenza culturale del
francese, anche dell’interferenza linguistica del catalano. Si tratterebbe insomma di un prodotto
della mediazione linguistica dei numerosi traduttori catalani, la cui lingua materna presenta, rispetto
al castigliano, una prossimità al francese decisamente maggiore (in termini di radici, suffissi,
norme di derivazione e caratteri di stile e morfosintassi).
Qualcosa di analogo è del resto accaduto anche in tempi più recenti con alcuni
americanismi, entrati in uso nello spagnolo peninsulare grazie al boom della nueva novela, favorito,
proprio come quello della nación traducida, dal dinamismo del sistema editoriale catalano che, negli
ultimi anni del franchismo e in quelli della transizione, ha funzionato da potente vettore per la
fortuna europea delle lettere ispanoamericane.
Tra Sette e Ottocento, la nascita e la vigorosa crescita del circuito della traduzione
quotidianizza lo afrancesamiento della Spagna e lo trasforma da fenomeno culturale in fenomeno
commerciale, da progetto ideologico in processo mercantile, da otium a negotium, da obiettivo
politico in investimento protoindustriale.
94
L’identità sociale e commerciale dei traduttori si modifica, configurando per le attività di
mediazione linguistica e culturale un circuito semiprofessionale. La ridefinizione dell’identikit
sociale e commerciale non si accompagna (non ancora) con una parallela ridefinizione dei diritti e
dell’identità personale dei traduttori, tutte cose che rimangono ancora poco definite nei loro
contorni (con frequenti casi di sfruttamento, anonimato, rubricazione per sigle e pseudonimi). Ad
un’ampia gamma di intervento sul testo (in molti casi una co-autoría che va ben al di là dell’attuale
diritto d’autore sulla traduzione) non corrisponde un parallelo processo di personalizzazione della
prestazione. Il traduttore spagnolo del Settecento (soprattutto sulle gazzette) dispone di ampi
margini di riscrittura, ma spesso non ha volto e non ha nome. Operando in incognito o quasi in
incognito, con una identità sociale e commerciale che fa aggio su quella personale, il mediatore
linguistico della nación traducida agisce per davvero in nome e per conto della lingua-cultura del
proprio pubblico. Traduzione spagnola (versión castellana, al castellano, etc.) significa certamente
traduzione verso lo spagnolo, ma in molti casi anche traduzione in Spagna, traduzione fatta per la
Spagna da una competenza e da una sensibilità talmente vicine a qulle della Spagna stessa da poter
quasi essere ascritta all’insieme della collettività ricevente.
In questo senso le traduzioni fatte in Spagna dai “cattivi traduttori” sono facilmente
distinguibili, non necessariamente perché inferiori (anche se spesso lo sono), da quelle che
approdano in Spagna dopo essere state prodotte e stampate nei luoghi d’esilio e che in genere si
caratterizzano per una più diretta e viva conoscenza della lingua d’origine, ma anche per un più
ostinato attaccamento ai protocolli della panflettistica.
In questa fase, fortemente market oriented, il funzionamento del circuito, che per quanto
riguarda il singolo testo abbiamo paragonato ad un remake, trova una equivalenza abbastanza
convincente con l’odierno mercato dei format TV. Il rapporto tra testo di partenza (poco importa se
originale francese o tradotto in francese) e versione spagnola è simile a quello che separa le varie
versioni nazionali dei giochi televisivi a premi o dei principali reality shows. Il tutto viene riscritto
in termini nazionali, sia pure facendo salvo il marchio, la grafica e lo spirito del gioco.
3. Metafore e modulazioni
Gran parte degli argomenti relativi al peso eccessivo delle traduzioni in genere e di quelle
dal francese in particolare (già satireggiate nel corso del Settecento, da Cadalso e da altri) assumono
un significato e una valenza politici ai tempi dell’invasione napoleonica, offrendo ai polemisti del
momento un ampio campo di sovrapposizione tra i due fenomeni: l’occupazione militare viene
comparata all’inflazione delle traduzioni e quest’ultima viene descritta come campagna di conquista
della Spagna e come equivalente di un’invasione (si tratta peraltro di metafore che in genere si
esauriscono in sé, nel senso che non ho finora incontrato paralleli che le sviluppino, accostando per
esempio il rilancio costumbrista alla guerriglia, nonostante siano forti le corrispondenze
iconografiche tra il tipo del guerrigliero e quello del majo).
Un campo metaforico altrettanto frequentato riguarda l’idea del contagio e dello stato
patologico (“infección de la traducción”, “plaga de las malas traducciones”, “fiebre de
traducciones”, “furor traductoresco”, etc.), fenomenologia che, nell’immaginario dell’epoca, si
collega strettamente (come conseguenza) alla simbolica della rivoluzione (spesso stigmatizzata
come furor) e alla presenza della guerra (come evidenziano diverse lamine dei famosi Desastres de
la guerra di Goya).
Tutto ciò può essere facilmente collegato anche agli intensi dibattiti settecenteschi sulla
clinica e sulla psichiatria (di cui è ben nota la ricostruzione di Foucault), tutti ambiti in cui ideali di
conservazione (della salute sociale) e isolamento (degli agenti patogeni) hanno legittimato pratiche
terapeutiche di segregazione che in molti casi hanno anticipato e “tradotto” in pratica la logica
politica del dispotismo illuminato prima e della restaurazione poi.
Anche in virtù delle implicazioni evidenziate da queste metafore di riferimento, l’abuso
delle pratiche traduttive è visto e vissuto, al contempo, come specchio di un retraso e come
strumento di una puesta al día. Il mito dell’aggiornamento delle mappe è spesso evocato per quanto
95
riguarda le notizie (le gazzette) e le traduzioni tecniche (abbastanza sviluppate in settori chiave
come l’economia, la guerra, l’industria, la moda letteraria, etc.), ma ne sono coinvolti anche generi,
settori e fenomeni più di comunicazione che di vera e propria informazione, come le cronache di
viaggio o le canzoni. Le traduzioni sono, da questo punto di vista, uno dei lieviti fondamentali che
consentono al giornalismo spagnolo di superare la fase unipersonale dell’uomo-orchestra, tipica del
secondo Settecento (dove l’autore-editore scrive pubblica e distribuisce tra sottoscrittori noti le
opinioni di quello strano alter ego che è il suo personaggio-pseudonimo), per accedere a dinamiche
di mercato e di collocazione sul mercato più impersonali e polifoniche (se confrontiamo la
situazione descritta dagli studi sul giornalismo di Juan Francisco Fuentes con quella che fa da
sfondo alle ricerche di storia della traduzione di Jean-René Aymes, possiamo misurare in modo
molto empirico e intuitivo la portata del contributo offerto dalla traduzione in questa direzione).
La questione del rapporto tra traduzioni e gazzette, oltre ad essere fondamentale per la
nascita del semi-professionismo di cui stiamo parlando (il professionismo giornalistico e quello
traduttivo si formano in parallelo e spesso si intrecciano strettamente), consente di evidenziare un
altro aspetto cruciale della questione: il secolo delle traduzioni e della nascita della nación traducida
è stato anche il secolo delle polemiche, cioè un periodo in cui la polemica è stato uno dei formati
dominanti del nascente mercato culturale.
In decenni caratterizzati da un quasi permanente incendio panfletario e da discussioni a dir
poco vivaci, le traduzioni oltre ad essere veicolo e strumento dei più vari livelli di scontro
“ideologico” ne sono a più riprese anche esplicito argomento. Le traduzioni sono una moda, ma
anche diffondono mode, consentono alle mode di superare le barriere linguistiche e culturali. Le
traduzioni contribuiscono, attraverso la diffusione dei gusti, alla formazione del gusto. In un simile
scenario, come fanno rilevare gli studi sulla traduzione di ispanisti come Etienvre e Aymes, le
critiche su come si traduce sono in realtà spesso utilizzate per mascherare attacchi relativi a cosa si
traduce. Le malas traducciones infatti non sono quasi mai uno stereotipo tipizzato ed evocato con la
speranza di contribuire a migliorare gli standard di qualità del settore e del mercato e nascondono
quasi sempre un tentativo (in genere privo di vere speranze di successo) di contrastare la crescente
popolarità di determinati generi, limitandone la portata e segmentandone le aree di influenza.
A ben vedere, il problema non sembra essere quello di determinare forme, tempi e circuiti
della comunicazione culturale (un obiettivo “censorio” di cui è possibile registrare un pieno
fallimento nel corso di tutto il regno fernandino e in particolare della cosiddetta “década ominosa”:
1823-1833), quanto quello di controllare (cioè, a seconda degli orientamenti, di limitare o di
favorire) la conversione della comunicazione culturale in elemento di comunicazione politica
(terreno sul quale riprende a svilupparsi, dopo la morte di Ferdinando VII, la contrapposizione tra
conservatori e liberali). Il problema non è, se non per i moralisti più retrivi e intransigenti, quello di
ostacolare la lettura, ma quello di ponderarne le possibili implicazioni in ambito pubblico (cosa
implica il fatto di essere lettori-consumatori di gazzette piene di traduzioni o lettrici-consumatrici di
romanzi tradotti?).
La vorticosa crescita del settore della traduzione determina come è ovvio una temporanea
difficoltà nel mantenere alti gli standard medi di qualità (anche perché produce cambiamenti
importanti circa i parametri di tali standard), ma ha come conseguenza anche una certa abitudine nel
consumo di opere tradotte, disegnando orizzonti di aspettativa sempre meglio definiti. Il cittadino
lettore della “nación traducida” sviluppa con l’andare del tempo un vero e proprio know how da
utente del mercato delle traduzioni. Il surplus di idee e riflessioni prodotto nel corso del Settecento
viene smaltito nel corso del primo Ottocento, che è epoca in questo senso deficitaria, in cui il
mercato si forma, si modifica e cresce in forma disordinata e contraddittoria sotto la spinta di
urgenze diverse, che lasciano relativamente poco tempo e poco spazio alla sistematizzazione. Il
secolo delle traduzioni raggiunge il suo apogeo combinando una pratica mercantile ottocentesca con
teorie e idee di conio settecentesco e ilustrado, la cui vigenza si mantiene, in virtù di una serie di
adattamenti evolutivi, per buona parte della Restaurazione.
96
Indipendentemente dal fatto che li odi o li ami, i lettori di gazzette e romanzi imparano a
riconoscere i gallicismi e ad associarli a scelte e stili di vita collegabili a precisi significati sociali.
La diffusione parallela e spesso congiunta di traduzioni e gallicismi compie, nel corso di questo
processo, un significativo salto di qualità, toccando il controverso tema del rapporto tra fortuna e
moda. L’inflazione delle traduzioni e dei romanzi è sia strumento che conseguenza della loro
fortuna. Questo doppio statuto configura traduttori e traduzioni come gente e cose alla e della moda,
como parte di un ambiente modaiolo, portatore di una paradossale tipicità contemporanea, da
bozzetto antifolclorico. Proprio per questo la figura del traduttore si espone contemporaneamente a
due forme di popolarizzazione in apparenza alternative, ma in realtà vicinissime, quali la moda
stessa e la satira costumbrista della moda (tanto che “costume” e “bozzetto”, due parole chiave della
reazione tradizionalista contro la moda, vengono proprio dal mondo della moda e conservano a
tutt’oggi vigenza in esso).
Il tema della moda ha implicazioni di notevole rilievo anche in termini di libertà e licenza
traduttiva. Tra le varie formule che definiscono gli statuti dell’adattamento e della refundición
figura infatti l’idea di “acomodar” (fare restyling), e addirittura quella di “arreglar a la moda”, dove
moda è in parte sinonimo di maniera e gusto e in parte segnale della progressiva emersione del
significato specialistico che la parola ha ancora oggi.
Il paradosso dei paradossi, il vero punto critico verso cui convergono molti dei cabos sueltos
che abbiamo fin qui cercato di reanudar, è l’idea della traduzione come “arreglo a la moda de la
tradición”. E’ questa la principale differenza tra i prodotti della tradizione (renitenti ad arreglos e
mode) e quelli del tradizionalismo (prodotti dell’arreglo, della moda e delle traduzioni almeno
quanto tutte le altre diavolerie moderne cui vorrebbero far da antidoto).
Questa lettura del tradizionalismo come moda e come stile e la conseguente lettura della
traduzione come punto cruciale di un maquillage tradizionalista consente di collocare meglio molte
tessere dell’eterogeneo mosaico che compone la figura “inventata” della nación traducida e delle
sue tradizioni. Il nazionalismo tradizionalista, che nel 1842, per bocca di Mesonero prende le
distanze dalla nación traducida è in realtà un effetto (e uno dei più tipici prodotti) della nacion
traducida e delle sue tecniche di elaborazione e diffusione.
Del resto l’idea di una equivalenza tra traducir e arreglar a la moda española non riguarda
solo i singoli testi, ma anche i generi cui questi appartengono. Traducendo testi i traduttori adattano,
naturalizzano e nazionalizzano anche una lunga serie di generi e di tipi testuali, mediando la loro
introduzione sul mercato spagnolo.
Non di rado orizzonti, obiettivi e limiti della modulazione e dell’adattamento vengono
ulteriormente specificati mediante l’introduzione di aggettivi e avverbi, variamente connotati (in
positivo o in negativo). Il caso più interessante (oltre che uno dei più documentati) riguarda
l’aggettivo libre e l’avverbio libremente (usati sia come segnali di apprezzamento che come
argomenti di critica). L’idea che gli arreglos a la moda española possano e debbano essere libres e/o
prodursi libremente comporta (in senso letterale ed etimologico) una serie di significati su cui vale
la pena riflettere.
Il primo referente di questa libertà è ovviamente la superficie linguistica del testo originale
(tradurre libremente significa avere o prendersi licenza di allontanarsi da tale superficie, operando
scelte più libere in nome e per conto del lettore, la cui lettura, però, essendo condizionata da tali
scelte e per effetto di esse, risulta decisamente più orientata e meno libera).
Il secondo referente è la politica: il problema del tradurre libremente indica in questo senso
la libertà di tradurre, cioè la licenza editoriale di scegliere che cosa tradurre, come complemento di
quella linguistica di scegliere come tradurre. La libertà del traduttore rispetto al testo e quella
dell’editore rispetto alla scelta del testo non si implicano a vicenda, ma tendono a comporsi e a
risolversi (meglio o peggio) all’interno del concreto contesto negoziale disegnato da un terzo
referente.
Questo terzo referente che, nella nación traducida e per tutto il corso del siglo de oro delle
traduzioni, rende relativa e concreta la libertà cui fanno riferimento l’aggettivo libre e l’avverbio
97
libremente, non è altro che il mercato: libre e libremente indicano la conformità della produzione e
del prodotto editoriale alle leggi del commercio, alla libera iniziativa degli imprenditori committenti
(editori, gazzettieri e impresari teatrali) e in definitiva ai dettami del libero mercato, il cui gioco, sia
chiaro, si basa su calcoli e previsioni che partono da posizioni di forza relativa fortemente
asimmetriche.
Di questo si lamenta, nel 1836, una recensione di “El amigo de la religión y de los hombres”,
testata che non fa mistero delle proprie nostalgie per i filtri censori della década ominosa:
La introducción de obras impías en España ha sido una especie de contrabando, hasta hace pocos
años. El espíritu mercantil, asociado a la impiedad se ha quitado al fin la máscara (...) y todo se
traduce ya, y se vende libremente .2
La logica economica delle “libere” scelte editoriali è nella maggior parte dei casi di breve
periodo: i committenti delle traduzioni basano le proprie previsioni ed esercitano la propria libertà a
partire da una versione aggiornata del mito lopesco della tirannia del pubblico: il pubblico degli
spettatori-lettori di Madrid e Barcellona e il gusto afrancesado delle novelle, dei romanzi e delle
commedie che questo pubblico predilige, sono gli equivalenti sette ed ottocenteschi del “vulgo”
seicentesco di Lope e della necessità di “hablar en necio para darle gusto”, anche se, rispetto alla
società estamental dei tempi di Lope, le distanze sociologiche e culturali tra emittenti, riformulatori
e destinatari del messaggio si sono ridotte al punto che l’intero circuito si svolge ora entro i confini
di una sola casta, con una ideologia meno aristocratica e un vulgo un po’ meno vulgar.
Anche se in modo convenzionale ed un po’ retorico, tanto la scelta dei generi e dei testi
(ispirata agli editori dal calcolo economico), quanto quella delle parole che li traducono (delegata ai
traduttori) vengono quasi sempre operate e giustificate in nome e nell’interesse del pubblico. Come
molte altre parole che abbiamo incontrato (da moda a libertà), anche interesse e pubblico conoscono
nel corso del secolo d’oro delle traduzioni e con la nascita della nación traducida una significativa
ridefinizione dell’equilibrio tra diverse accezioni possibili. Quando si parla di interessi del pubblico
si allude infatti sia ad un’idea economica (nell’interesse del pubblico significa a beneficio del
pubblico, come con insistenza ripetono tutti i principali gazzettieri, che dichiarano di operare
nell’“esclusivo” interesse del pubblico), sia ad un’idea morale (per il bene del pubblico), ma si
allude anche, in termini di autogiustificazione all’insieme delle cose che il pubblico ritiene
interessanti e per le quali è disposto a pagare. Quest’ultima accezione, che si traduce in domanda, è
un criterio capace di orientare le scelte di traduttori ed editori.
Nel corso del secolo d’oro delle traduzioni si definisce, non solo in termini mercantili, ma
comunque come mercato e attorno al mercato, una sfera pubblica in cui prendono forma e trovano
posto, in parziale competizione tra loro, le complementari nozioni di pubblico e opinione pubblica,
interlocutori virtuali delle nascenti retoriche del populismo e dell’elitismo, traduzioni in termini di
pubblicistica delle maggioranze silenziose e delle minorías selectas in nome delle quali pretendono
di parlare i conservatori e i liberali, che si autoselezionano come portavoce, rispettivamente, dello
spirito comunitario, legittimista e ultranazionalista dell’aldea e di quello ultracivico,
filorepubblicano e cosmopolita della corte.
Inserendo il proprio lavoro in questo scenario, prima e più che come mediatore tra lingue, il
traduttore spagnolo del Settecento e dello Entresiglos conquista e definisce il proprio
semiprofessionismo attraverso una duplice azione: direttamente opera come mediatore con il
pubblico e l’opinione pubblica; indirettamente media tra i diversi settori di un pubblico e di
un’opinione pubblica non ancora pienamente integrati.
Il mercato della nación traducida, disegnato in funzione dei nuovi ambiti della stampa
periodica, del teatro comico, del romanzo e della canzone, misura la propria efficacia sistemica in
termini di aggiornamento, cioè di decalage temporale (passa sempre meno tempo tra la
commercializzazione dell’originale in Francia e quella della sua traduzione in Spagna). Tra le
plausibili conseguenze di questo accorciamento dei tempi c’è anche il perdurare di una minore cura
2
“El amigo de la religión y de los hombres” 9 (1836), p. 19 (corsivo mio).
98
nel lavoro di traduzione (parte delle malas traducciones che i censori dell’epoca imputavano ai
malos traductores dipendono probabilmente dai ritmi e dai tempi di lavoro imposti da un sistema
che costringe anche i buenos traductores a lavorare in fretta e senza margini di revisione e
ripensamento). Dopo la fine della década ominosa la domanda e i compensi crescono, ma le
condizioni (cioè i tempi) di lavoro addirittura peggiorano, per cui il risultato non migliora (mentre il
traduttore settecentesco doveva lavorare molto e in fretta perché era pagato male, quello
ottocentesco viene pagato meglio, ma proprio perché accetta, cioè subisce, una sempre maggiore
rapidità nelle consegne).
Nazione e nación traducida non solo nascono insieme, ma sono una lo specchio dell’altra.
Nonostante la retorica del nazionalismo tenda a demonizzare le traduzioni (la stessa etichetta di
nación traducida è chiaramente despectiva), non c’è dubbio che il mito retrospettivo dell’identità
culturale spagnola deve molto più di quanto non creda all’esistenza (e alla consistenza) che nel
secondo Settecento e nel primo Ottocento ha caratterizzato la nascita e le dinamiche del mercato
semiprofessionale della mediazione linguistica e culturale.
BIBLIOGRAFIA
Lafarga (1999)
Lafarga, F., La traducción en España, 1750-1830: lengua, literatura, cultura, Lleida, Un. de Lleida, 1999
99
ALEARDO TRIDIMONTI
L’industria delle lingue e i mestieri della traduzione.
Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione multilingue e multimediale
1.1 Il malinteso
Generalmente,
? della traduzione si sa:
-
-
?
che è cosa “facile” e “ovvia”, che “basta conoscere le lingue” e “avere il dizionario giusto ”.
Perché tradurre significa semplicemente rimpiazzare delle parole (e delle frasi) di una lingua con
delle parole e delle frasi di un’altra lingua;
che è un male necessario e il committente tentenna nel saldare la fattura a lavoro compiuto;
che si paga a cartella, a parole, a caratteri, all’ora, a byte ...;
che esistono “dei programmi e delle macchinette che costano poco (ed è vero) e che fanno
ottimamente la stessa cosa”. (Molti progressi sono stati compiuto in questo campo, esistono
programmi di traduzione automatica o motori di traduzione che sono in grado di sostituire molto
più velocemente del traduttore umano le parole e le frasi, ma non per questo si può dire che essi
traducono qualsiasi testo o che il prodotto finito che sfornano si possa chiamare traduzione. Vedi
esempio di Eco: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” che viene tradotto con “Il whisky è
servito, ma la carne è andata a male ”; oppure il sito ufficiale del Governo italiano dopo le ultime
elezioni, con i vari membri e le loro biografie che erano state tradotte in inglese (per fortuna con
un traduttore automatico) e che dilettarono gli internauti.
delle incomprensibili o odiate istruzioni per l’uso con le quali ognuno di noi ha avuto modo di
mettere a prova la sua pazienza;
delle esercitazioni (a scopo prevalentemente di verifica della padronanza del lessico e della
grammatica) che si facevano/fanno a scuola o all’università.
del traduttore si sa:
-
-
che è un tipo strano, le cui tariffe sono proibitive;
che è un anonimo dipendente presso un’agenzia di traduzione locale. Più raramente si sa che
può esercitare l’attività come free-lance. Ancora meno si sa che spesso lavora anche per grandi
enti pubblici o privati, multinazionali, agenzie di traduzione che operano a livello internazionale
(GBS, Lion Bridge, Bownglobal, Logos, Gedev, Netword, SFT, Tradutec...);
che è di formazione letteraria e che sicuramente non sa nulla degli argomenti tecnici oggetto della
traduzione. Pertanto, il committente nutre diffidenza nei suoi confronti;
che basta “masticare” un pò le lingue straniere, avere fatto qualche breve soggiorno all’estero o
meglio, essere di madrelingua straniera per essere traduttore.
? Risultato: tranne rare eccezioni, il malinteso sulla vera natura della traduzione, sulla sua
complessità, sui suoi vincoli e sulle sue implicazioni non aiuta a vedere nel traduttore un
protagonista economico e culturale dalle molteplici ed elevate competenze professionali.
A questa situazione, contribuiscono anche altri fattori. Contrariamente ad altre libere
professioni (vedi architetto, medico, ingegnere, avvocato, ecc.), in Italia, il traduttore non può
iscriversi ad un albo professionale per Traduttori, perché inesistente. Chiunque, di fatto, può
svolgere l’attività di traduttore. E il dilettantismo rappresentato dai “traducenti” (che conoscono
male l’una e l’altra lingua ma intraprendono con audacia di sostituire l’una con l’altra) è senza
dubbio la maggior piaga per la traduzione. Tutti gli sforzi per porvi fine attraverso l’approvazione di
una legge sullo statuto professionale del traduttore non hanno ancora trovato ascolto presso il mondo
politico. Esistono solo delle Associazioni di categoria per consulenze, o per l’annuario nazionale al
quale iscriversi come l’ANITI, oppure l’AITI.
Il traduttore non può iscriversi nei ruoli della CCIAA. La circolare del Ministero
dell’Industria n. 3407/C del 9 gennaio 1997 dichiara esplicitamente:
“nel REA non sono iscritte persone fisiche esercenti professioni ‘non protette’ (pranoterapeuti,
consulenti finanziari e tributari, traduttori, ecc.) a meno che non le esercitino a forma di impresa (...).”
100
“All’attività di traduzione e interpretariato si applica il comma 1 dell’art.49 del Testo Unico sulle
Imposte Dirette DPR 22.12.1986 n. 917, trattandosi appunto di attività professionale e non di
terziario e quindi, in assenza di giurisprudenza contraria in materia, l’attività di traduttore e interprete
è soggetta solo alla gestione separata INPS relativa al contributo obbligatorio del 10% e non è
assimilabile alla gestione commercianti.” 1
A parte la mortificazione per la sua persona e per la figura professionale che il traduttore
rappresenta, questo brano potrebbe servire da esercitazione per capire la natura e le difficoltà della
traduzione tecnica.
1.2 Tradurre per dire quasi la stessa cosa. La traduzione come conversazione tra due
facce del personaggio traduttore
“Che cosa vuole dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa
in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, abbiamo molti problemi a stabilire che cosa
significhi “dire la stessa cosa”. 2 La faccenda è che da San Gerolamo a oggi, non abbiamo ancora
idee chiare su che cosa voglia dire tradurre. Sappiamo solo che non significa sostituire una parola di
una lingua con una parola dell’altra, usando un dizionario. Sarebbe troppo bello. La traduzione non è
solo una operazione linguistica, ma è una operazione che implica un insieme di interrelazioni sociali
e culturali, prima di tutto nell’ambito della propria cultura e poi tra le culture straniere. Per questo, i
parametri culturali hanno un ruolo molto importante non solo nella traduzione letteraria, ma anche in
quella tecnica e scientifica.
Nel capitolo Xlll di Problèmes théoriques de la traduction,3 Mounin scriveva nel 1963:
“Pour traduire une langue étrangère, il faut remplir deux conditions, dont chacune est nécessaire, et
dont aucune en soi n’est suffisante: étudier la langue étrangère; étudier (systématiquement)
l’ethnographie de la communauté dont cette langue traduite est l’expression. Nulle traduction n’est
totalement adéquate si cette double condition n’est pas satisfaite”. Vi sono anche altre scienze
umane che sono di grande aiuto come la letteratura, la storia, le scienze del linguaggio,
l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi, la filosofia. Nel 1973, Meschonnic 4 forgiava, nell’ambito
della sua poetica, il concetto di “lingua-cultura” per indicare che una lingua e la sua cultura formano
un tutto indissociabile. La traduzione andava dunque pensata in un ampio contesto culturale che
comprendeva la storia, la letteratura, il linguaggio, la politica. Nel 1984, un’opera di Berman5 colpì
il mondo della traduzione perché dimostrava il ruolo che un intero movimento culturale (in questo
caso quello tedesco) può assegnare alla traduzione. Lo stesso Berman, nel 1995, in Pour une
critique des traductions scrive: “Un traduttore deve conoscere la Storia della traduzione. Un
traduttore senza coscienza storica e culturale è un traduttore mutilato, prigioniero della propria
rappresentazione del tradurre e delle rappresentazioni che veicolano i discorsi sociali del momento”.
Per cultura, intendiamo ciò che Michel Foucault 6 ha chiamato “i modi di essere” di una cultura:
modi di vivere e di pensare comuni a una determinata comunità e che portano gli individui che
appartengono a questa comunità ad agire in certe situazioni sociali in maniera comune. Questi modi
di essere sono importanti perché possono indurre i traduttori a tradurre in un modo particolare e
comune, legato al contesto e ai vincoli sociali che caratterizzano quel momento (a questo proposito,
vedremo più avanti il problema dell’anglocentrismo, in tempi di globalizzazione, di TIC e di
americanizzazione). Il traduttore svolge dunque un ruolo determinante nei confronti della sua cultura
di appartenenza in rapporto con le altre. “Le traducteur n’est pas uniquement prospecteur de
différences, explorateur de territoires culturels inconnus. Il est aussi celui qui, dans sa
reconnaissance de l’autre, change les perspectives de sa communauté, dérange les “mots de sa
1
http://www.aiti.org/infogiuridiche.html.
Eco (2003).
3
Mounin (1963).
4
Meschonnic (1973).
5
Berman (1984).
6
Foucault (1966).
2
101
tribu”, come scriveva Mallarmé nel 1877. Proseguono Delisle e Woodsworth : 7 “Par delà les
décideurs (commanditaires, éditeurs, etc.), par delà la matérialité des textes, (...) il brouille les cartes,
en l’occurence ces cultures, ces valeurs, celles de l’autre comme les siennes propres qu’on voudrait
bordées, délimitées, alors qu’elles sont fluides, mouvantes.” Per Barthes, una lingua la tengono in
esercizio, si sa, i suoi parlanti. Ma non è detto che l’esercizio vocale di una lingua sia il migliore per
la stessa. Più si parla, più una lingua si consuma, si inflaziona ; più si estende il suo uso, più si
riduce il suo lessico. Forse una lingua è “salvata” nella scrittura. Perché quando la si scrive, la lingua
ci impone una riflessione, una scelta e un’attenzione speciale: la riduzione d’immediatezza non
necessariamente nuoce alla lingua. Anzi, le giova.
Da questa panoramica, emergono alcune considerazioni fondamentali: la prima è
riconducibile ai parametri linguistici, storici e culturali che determinano il percepire, l’agire e il
pensare del traduttore che fanno sì che egli non sia un mero ripetitore, ma sia consapevole del suo
ruolo nell’orientamento e consolidamento della propria lingua e cultura di appartenenza. La
traduzione costruisce l’essenza delle lingue e delle culture. 8 Il traduttore destruttura, modella,
ristruttura l’identità della sua cultura e, attraverso i testi tradotti, quella della cultura straniera. La
seconda constatazione è che ogni cultura, qualunque essa sia, non è un tutto statico, rigido, bensì un
insieme variegato e complesso caratterizzato da costanti fluttuanti, in evoluzione. Il cosiddetto
spirito del tempo. Oggi, l’anglofonia globalizzante. L’Europa del futuro sarà un continente di
traduttori o non sarà (un poliglottismo totale è impossibile, eppure, sarà importante capire che cosa
qualcuno dirà in sloveno, perché lo penserà in sloveno, e non sarà lo stesso che pensarlo in inglese).
Se poi pensiamo al mondo... Non è un caso se gli studi più avanzati di traduzione attraverso
computer li stanno facendo i giapponesi e i cinesi, che più di un inglese o di un francese hanno il
problema di capire o di farsi capire. Vorranno forse conquistare il mondo, ma non imponendo la
propria lingua, bensì la propria capacità di tradurre. Lo stesso vale per gli studi di terminologia. Non
a caso, quelli canadesi e belgi sono i più impegnati. In questo inizio del XXl secolo, non possiamo
più comportarci nei confronti dell’Altro come abbiamo fatto nel passato. La terza è che le istituzioni
hanno un ruolo essenziale nella “dignificazione” della traduzione che contribuirebbe, di riflesso, a
elevare lo statuto del mestiere di traduttore. Quarta constatazione: se tradurre ha a che fare non solo
con le parole, ma anche con i contesti, allora nascono le spinose questioni: come calibrare fedeltà
alla lettera e libertà di riscrittura? E’ più importante portare il lettore al linguaggio dell’autore,
ovvero la traduzione deve essere orientata alla fonte, oppure portare l’autore al linguaggio del
lettore, ovvero orientata alla destinazione? Supponiamo, con U. Eco (La Bustina di Minerva, 10
ottobre 1992), che un autore scriva in un articolo, o in un racconto che “Mary era una ragazza che
era più abituata a frequentare via Montenapoleone che il Giambellino”. Se questa frase appare in un
racconto su Milano il traduttore dovrà sforzarsi di far capire al lettore inglese o cinese che cosa vuol
dire – a Milano – andare in via Montenapoleone. Ma supponiamo che egli abbia scritto così tanto
per fare capire ai lettori italiani che tipo è questa Mary, che magari vive in un altro paese. E’ allora
legittimo che il traduttore americano scriva che Mary ci trovava più a suo agio a Madison Avenue
che a Brooklyn (o nel Bronx). Se il suo racconto era un’opera d’arte, il traduttore ha ovviamente
cambiato il testo-fonte, non ha tradotto ma interpretato, si è preoccupato del destinatario. Ma se lo
stesso traduttore avesse dovuto rendere “Quel ramo del lago di Como” non avrebbe potuto scrivere
“Quel ramo del Loch Ness”, anche se traduceva per gli inglesi. In quel caso la traduzione doveva
essere orientata alla fonte. Per Ortega y Gasset9 “nel caso di traduzione orientata alla destinazione,
traduciamo in un senso improprio del termine: facciamo, a rigore, una imitazione o una parafrasi del
testo originale. Solo quando strappiamo il lettore dai suoi costumi linguistici o lo costringiamo a
muoversi dentro quelli dell’autore, c’è propriamente traduzione.” Fra l’avvicinare l’autore al
linguaggio ordinario (del lettore), e quindi impoverirlo, riducendo la sfera della sua originalità al
senso comune, e l’allontanare il lettore oltre se stesso verso il linguaggio creativo (dell’autore),
7
Delisle/Woodsworth (1995).
Cordonnier (2002).
9
Ortega y Gasset (1932-1986).
8
102
Ortega preferisce la seconda possibilità. In questa scelta si gioca infatti la differenza fra “la miseria e
lo splendore” della traduzione.
Per la traduzione tecnica, la situazione è diversa. Essa viene valutata in termini di efficacia
della comunicazione. I documenti di questa natura devono essere progettati e scritti pensando
appunto a chi li legge, agli effetti immediati per il destinatario. L’atteggiamento oggi prevalente
riduce quest’operazione a un fatto puramente linguistico, vincolato a produrre un’equivalenza
testuale e ignora la complessità del lavoro che deve effettuare il traduttore tecnico per riplasmare un
testo in funzione del pubblico che si vuole raggiungere. Vediamo in quale spirito del tempo il
traduttore italiano si trova a dover operare.
1.3 Il potere delle parole e le parole del potere. Il morbus anglicus10
La lingua come grammatica della società. Il dibattito tra Gramsci e Giovanni Gentile sulla
risposta da dare alla domanda: “Come si impara l’italiano?” è alquanto attuale. “Studiando la
grammatica”, rispose Gramsci. Il “laisser-faire dell’idealista Gentile aveva escluso la grammatica
dall’insegnamento nella sua riforma scolastica. “La grammatica non può essere separata dal
linguaggio vivo e lì va studiata. Ma se si smette di farlo a scuola, si perde in democrazia, perché la
lingua resterà un bene elitario”. E’ quel che pensava anche don Milani. Non si trasmette una civiltà,
una cultura, la democrazia con la lingua spontanea. Il mutare dei termini con cui una società esprime
informazioni, rapporti, emotività, ovvero comunica, non può che riflettersi sulla sua struttura. Ed è
proprio sulle sue strutture reali che una lingua cresce. Dietro ogni parola si sente la presenza della
civiltà che gli ha dato forma e che da essa prende forma. In tempi di disgregazione, di separatismi, di
sfiducia e crescente disorientamento, Giovanni Nencioni, presidente della Crusca, nonché professore
emerito alla Normale di Pisa, ammoniva già nel lontano 1992: la lingua nazionale non si può buttare
via come uno straccio vecchio, è la nostra carta d’identità, è una delle conquiste sociali degli ultimi
decenni. Può persino avere effetti riparatori, servire da contrappeso nei confronti del rischio di
disgregazione politica che stiamo vivendo. Non ogni possibilità tecnica e terminologica ha in quanto
tale il diritto di diventare forma sociale perché è anche attraverso l’uso che viene fatto delle parole
che gli uomini orientano il tipo di società e di mondializzazione che si sta delineando 11 . Usiamo
volutamente la parola mondializzazione, e non globalizzazione. Come gran parte degli anglicismi,
questi godono nel nostro paese di una particolare immunità, rispetto e potere di soggezione. In
Francia, invece, le parole nuove, i neologismi, prima di essere naturalizzati ed avere diritto di
cittadinanza, sono sottoposti agli accertamenti di commissioni specializzate di terminologia e di
neologia che operano in collaborazione tra loro: Association Française de Normalisation (AFNOR),
Institut National de la Langue Française (CNRS-INaLF), Académie des Sciences. Tutti i nuovi
termini ammessi vengono regolarmente pubblicati dalla commissione di terminologia, con la loro
esatta definizione e un preciso status. Il traduttore deve tenerne conto. Questo modo di procedere
contribuisce non solo ad un progresso quantitativo e qualitativo nella diffusione dei nuovi termini, a
un invigorimento della lingua, ma anche a dare forma alla società, a rendere più trasparente la
comunicazione. La soluzione non è certo chiudersi a riccio, invocare “l’autarchia linguistica”.
Sarebbe anacronistico, ridicolo, impossibile (vedi i risultati della legge Toubon). Tuttavia, emanare
raccomandazioni e dare l’esempio nella loro applicazione (che non significa rigoroso divieto)
relative all’uso delle parole straniere almeno da parte del mondo della politica, delle pubbliche
amministrazioni, degli enti pubblici e dei responsabili della comunicazione (dalla RAI-TV agli
organi di stampa che fanno sempre tendenza), rappresenterebbe se non altro, un segnale.
Prendiamo l’esempio di black-out. Questo termine è attestato almeno a partire dal 1983 nel
significato di “oscuramento totale di una città o di parte di essa, provocato da un guasto
dell’impianto d’illuminazione”. 12 Nei suoi comunicati l’ENEL scrive “interruzioni dell’erogazione
di energia elettrica”. Forse a causa della sua macchinosità a cui si aggiungono gli usuali motivi
10
Castellano (1988).
Laygues (2003).
12
Rando (1987).
11
103
snobistici, a quest’ultima espressione i giornalisti preferiscono la parola inglese, che ha l’indubbio
vantaggio della brevità anche se manca di quello della chiarezza per chi non conosca bene l’inglese.
Arrigo Castellani ne ha proposto un ottimo sostituto in un suo saggio sull’invasione di termini
anglo-americani: abbuio, deverbale a suffisso zero di abbuiare, “oscurare, mettere al buio”. La
parola italiana ha lo stesso pregio della brevità offerta da black-out e vi aggiunge quello della
maggiore chiarezza e facilità di pronuncia. Ma la comunicazione crea abitudini e “ogni sostituzione,
anche se felicemente trovata o autorevolmente sostenuta, ha bisogno di un tempo più o meno lungo
d’incubazione”, scrive Migliorini nel saggio citato sopra. 13 Solo se l’ENEL, con la sua autorità
tecnica, avesse costantemente adoperato abbuio, questo termine avrebbe avuto buone probabilità di
sostituirsi, prima o poi, a black-out.
Nella sfera del politico, senza riesumare i dibattiti sull’ingegneria elettorale, sul sistema
economico-burocrato finanziario “all’inglese”, l’italianissimo “ministero del Lavoro” è stato di
colpo trasformato in “ministero del Welfare”, un termine che non ha identità perché per metà
appartiene all’italiano e per metà alla lingua inglese e perché parla di Blair e pensa alla Thatcher.
Questa nuova denominazione, è stata poi seguita dall’insediamento di authorities su authorities per
risolvere ogni tecnicality con una social card e una dual income tax. Il tutto, in un tripudio di
premierato, devolution, governance, no tax day, election day, exit poll, question time, road map,
peacekeeping, master plan, spin doctors, time out, I care e altre quotidiane new entry bipartisan dei
nostri governanti, accaniti difensori della cultura e delle tradizioni del Bel Paese, ma di fatto tra i più
anglocentrici d’Europa.
L’anglofilia è un fenomeno insidioso per l’equivoco di fondo che lo accompagna e che in
qualche misura lo genera. Essa viene considerata quasi un sinonimo di modernità: un governo o
un’amministrazione che si rinnovano non possono che esprimersi con termini inglesi, altrimenti
danno la parvenza di non essere al passo con i tempi. E così si attinge in modo sempre più paranoico
a costrutti ed elementi lessicali inglesi, non solo in ambiti settoriali e specialistici, ma anche quando
si deve denominare unità amministrative, servizi, programmi di azione. Lo Stato pare snobbare le
risorse offerte dalla propria lingua nazionale a tutto vantaggio dei global nicknames. Anziché
progettata e scritta pensando al basso, al destinatario, la comunicazione sembra concepita pensando
all’alto, come per evitare un disturbo al manovratore. L’orientamento che tende ad affermarsi
potrebbe condurre, se non adeguatamente contrastato, alla sostituzione del vecchio “burocratese”
con un nuovo linguaggio non meno opaco e ingannevole del precedente e l’azzeccagarbugli di
manzoniana memoria continuerà a perpetuare l’imbroglio allo sprovveduto di turno con magiche
formule di importazione. Cos’altro se non questo complesso di provincialismo cronico può
giustificare la sostituzione del tradizionale servizio clienti con l’astrusa formula customer care,
oppure il buon vecchio centralino con l’“efficientissimo” call center? I mass media fanno da
megafono a questo trend con il loro quotidiano load di target, trailer delle prossime puntate, share,
people meter (per l’auditel!), audience, privacy, top, ground zero del ragionamento, counseling del
comportamento alimentare, drop down, fall out, blown up, follow up, born down, outing coraggioso,
outlet, del tutto shakerato, feedback, versione soft, nick, jetlang, home page, set up, black-out, make
up, loudspeaker, smart card, supportare, bypassare, flashare, mixare, lookologo, vipperia,
snowboardista, stagista, superstore, fitwalking, body artista, rating, leasing, franchising, forecast,
pool car, jump service, e via dicendo senza dimenticare il ricco repertorio dell’internettese, del junk
e del trash in ogni ambito.
E le nostre periferiche realtà ne percepiscono l’eco. Anche qui, di riflesso, è come se ci
fossimo espropriati da soli, oppure come se una coscienza diffusa suggerisse: date un nome inglese
alla vostra attività commerciale, alla vostra professione, ai vostri prodotti, o altrimenti si penserà che
siete dei pataccari. Vi è veramente bisogno di un project manager? Non basterebbe un semplice
capo progetto? E se le aziende, invece che account manager ricercassero responsabili commerciali,
forse troverebbero un maggior numero di candidati da esaminare. Quanti sanno con certezza che
13
Migliorini (1990) (vedi sezione I.4, Purismo e neopurismo).
104
cos’è un trust di cervelli, che lavoro fanno un promoter o un sales group leader? E un back office
assistance? Oppure un process ingeneer, un content manager, un security officer, un project
auditor, un publisher? Perché workshop anziché laboratorio, part-time job e non lavoro a tempo
parziale, attachment invece di allegato, zippare invece di comprimere (se zippiamo un pò, ci stiamo
in sei in macchina), resettare invece di reimpostare, (il tempo di resettarmi e poi sono tutta tua),
scannerizzare invece di scandire, downloadizzare invece di prelevare o scaricare, shiftare invece di
spostare (per favore, shiftatevi un pò più a sinistra, se no non riesco a passare) e chi più ne ha più ne
metta. Per finire come quella vecchietta che piomba in farmacia per protestare: “Come faccio a
comprare tutte queste medicine senza racket?”
Una lingua sempre più bastarda dunque, lievemente snob, spocchiosa, e anche un po’
ridicola. In L’inglese. Lezioni semiserie, Beppe Severgnini, commenta e avverte: “Non sono
preoccupato per l’integrità della lingua però mi spaventa il ridicolo e gli italiani hanno una
vocazione nazionale per il ridicolo”. Malgrado queste rassicurazioni, di fronte alle dimensioni del
fenomeno forestierismi, viene da chiedersi: solo moda, oppure sintomo di qualche cosa d’altro?
Perché mai uno deve usare l’inglese quando non lo sa e quando, soprattutto, esiste già una più che
dignitosa versione italiana? Quanti si accorgono della formidabile mutazione in atto alla quale
stiamo assistendo? E sono in grado di gestirla?
“The Independant” (e non “La Padania”) del 20 marzo 2003 è giunto a parlare di inglese
“linguicida”, chiedendosi retoricamente: “Non è un genere ancora più sinistro del colonialismo che
noi praticavamo cento anni fa? Non troppo tempo fa, noi prendevamo le loro materie prime. Ora noi
invadiamo le menti, cambiando lo strumento primario col quale essi pensano: la “loro” lingua.
Il libro-intervista con Tullio De Mauro curato da Francesco Erbani e intitolato La cultura
degli italiani (Laterza, 2004) è ricco di dati sorprendenti e allarmanti a questo proposito e ci aiuta a
capire meglio il back ground del fenomeno in atto. Se l’istruzione pubblica riflette il livello culturale
d’un paese, nel nostro, è lo specchio fedele di una grave minorità rispetto al resto dell’Europa. E i
dati che De Mauro esibisce, sono perentori. Da noi, gli analfabeti completi sono più di due milioni,
ma ad essi vanno aggiunti quasi quindici milioni di semianalfabeti. E altri quindici milioni di
cittadini rischiano di diventarlo! E con queste credenziali ci concediamo l’illusione della patacca
degli anglicismi. Come l’elettricista dell’angolo che chiama il suo negozio Elettrical Shop
(sbagliando anche l’ortografia, ma chi se ne accorge?). L’importante è essere trendy. “A un
paleoanalfabetismo, eredità del passato”, dice De Mauro, “si è accumulato un neo-analfabetismo
fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico”. In Italia possiede il diploma di scuola
superiore il 42% della popolazione adulta, di fronte a una media europea del 59%. Solo il 9% degli
italiani adulti possiede una laurea, di fronte a una media europea del 21%. Da un indagine che un
istituto specializzato, il Cede, ha condotto su un campione della popolazione risulta che il 5% dei
nostri connazionali adulti non sa leggere il primo e più semplice dei questionari che gli vengono
proposti. E un 33% arretra di fronte a frasi appena un po’ complicate. Come meravigliarsi allora che
i due terzi della popolazione italiana non leggano mai né un libro né un giornale, ma siano
aggiornatissimi in materia di calcio e dianglicismi? Trilussa 14 ne’ L’incontro de li sovrani, già ci
mostrava allo specchio:
Bandiere e banderuole,
penne e pennacchi ar vento
un luccichio d’argento
da bajonette ar sole,
e in mezzo le fanfare
spara er cannone e pare
che t’arrimbombi drento.
14
Ched’è? Chi se festeggia?
E’ un Re che, in mezzo ar mare,
su la fregata reggia
riceve un antro Re.
Ecco che se l’abbraccia,
ecco che lo sbaciucchia;
zitto, chè adesso parlano…
Trilussa (1935).
105
- Stai bene? - Grazzie; e te?
E la Reggina? - Allatta.
- E er Principino? - Succhia
- E er popolo? – Se gratta.
- E er resto? - Va da sé…
- Benissimo! - Benone!
La Patria sta tranquilla;
- annamo a colazione…E er popolo lontano,
rimasto su la riva,
magna le nocchie e strilla:
- Evviva, evviva, evviva… E guarda la fregata
Sur mare che sfavilla.
Inguaribile popolo, sempre ossequioso verso l’invasore e incantato di fronte al fascino del “luccichio
d’argento”. L’altro rischio è che, in questo “luccichio d’argento, in mezzo a le fanfare che
festeggiano il Sovrano straniero sulla fregata nel mare che sfavilla”, il dominio del linguaggio scritto
e parlato diventi privilegio di una élite, un nuovo mandarinato, dove “er popolo, lontano, rimasto
sulla riva, se gratta e er resto va da sé”. Qualcuno dei futurologi americani ha detto che, per esistere,
una società, ha bisogno che almeno un settimo della popolazione sia competente. Il resto può essere
formato da puri consumatori dei mezzi di comunicazione.
1.4 Marketing terminologico e economia politica della traduzione. Il traduttore: ultimo
cavaliere errante della parola
Quando il termine straniero non è scelto per necessità inderogabile o per scrupolo di precisione,
ma piuttosto per conformismo a mode linguistiche, per comoda trasposizione di espressioni tratte dal
gergo specialistico, per subordinazione delle esigenze formali agli imperativi della rapidità e anche
per scarsa sensibilità linguistica, non solo è fuori luogo, ma ostacola sensibilmente la
comunicazione, al punto che le parole perdono significato.
Il traduttore tecnico, come l’autore di atti amministrativi in senso stretto, che producono
effetti giuridici diretti e immediati per i destinatari, deve tradurre pensando a chi legge. La sua
traduzione deve essere orientata alla destinazione. Occorre sfatare un luogo comune: sfoggiare il
proprio repertorio di forestierismi, non è né indice di bravura, né di efficacia dal punto di vista della
comunicazione.
Il traduttore non deve mai dimenticare che un testo tradotto è un testo originale che deve
vivere di vita propria nella nuova lingua. Il traduttore è un redattore e, come tale, deve essere in
grado di creare contenuti di qualità, fruibili e leggibili come testi originali. Egli deve reagire con
vigore contro il pigro e avvilente adattamento a orecchio, con effetti grotteschi, oppure contro il
lasciare in inglese la terminologia tecnica e settoriale nonché i sintagmi. Soprattutto nel campo
dell’informatica, delle nuove tecnologie, della comunicazione e della finanza dove sembra che non
esistano più professioni né operazioni o prodotti con un nome italiano.
Per tornare ai nostri Sovrani, ad onor del vero, va detto che gli anglicismi in genere sono
oggetto di abbondanti studi ed attenzioni. Da qualche tempo si registra anche in Italia una rinnovata
attenzione per il fenomeno della neologia in particolare di origine anglofona. Presso l’Accademia
della Crusca è stata istituita la CLIC, Commissione per lo Studio della Lingua Italiana
Contemporanea, che tra gli obiettivi ha anche quello di studiare possibili sostituzioni, pur con tutte
le cautele necessarie, di parole inglesi con traducenti italiani. Tuttavia, se si vuole evitare un puro
esercizio di stile, un semplice elenco di proposte, magari ingegnose, è necessario calare il problema
della traduzione o dell’adattamento dei forestierismi in un quadro di riferimento complessivo che
tenga conto dello statuto sociolinguistico del forestierismo nella lingua d’origine e quella d’arrivo.
Non bisogna dimenticare il principino che succhia, ovvero, i falsi anglicismi, i quali vengono
sempre più spesso utilizzati in italiano, ma o non sono debitamente considerati nei dizionari, o le
loro definizioni sono spesso fuorvianti. Di conseguenza, la presenza di tali parole potrebbe anche
diventare un ostacolo all’internazionalizzazione dell’italiano poiché i falsi anglicismi sono portatori
di significati spesso diversi e/o distanti dagli etimi inglesi da cui si suppone traggano origine. Come
106
scriveva Beccaria,18 “Noi siamo spesso più inglesi degli inglesi (…) Usiamo falsi anglismi che
nessun inglese sognerebbe di usare”. Esempio:
Una stagista fa tremare la Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più potente del mondo,
rischia l’impeachment perché si è reso colpevole non di tradimento, corruzione o crimini vari, ma
semplicemente una love affair con una stagista . Love affair è, un eufemismo: i mass media parlano di
sex gate.19
Chiamare stage (termine francese, ma pronunciato come in inglese stage il quale ha tutt’altro
significato. Misteri di sinergie!) il periodo di tirocinio è molto di moda. Vi aggiungiamo il suffisso
“ista” ed ecco una nuova attività professionale: lo stagista presenta lettere credenziali e, senza colpo
ferire, come il look manager (ovvero curatore d’immagine, ovvero acconciatore), è ammesso nella
categoria in cui si trovano il barista, il dentista, il giurista, ecc. La stampa anglofona ha sempre
chiamato la ormai famosa stagista “intern” e non trainee, termine esatto, corrispondente a stagiaire
in francese.
Altri esempi: l’aggettivo inglese sensibile che viene tradotto con sensibile”, che in italiano
ha un diverso significato. L’espressione obiettivo sensibile (cha ha un ché di sensuale, di erogeno),
andrebbe sostituita con obiettivo critico. La parola exciting significa entusiasmante, oppure
coinvolgente, emozionante, interessante; molto raramente eccitante. Il significato dipende dal
contesto, eppure la parola viene sempre resa con eccitante, anche nel doppiaggio dei film. Idem per
designer che significa progettista e non disegnatore come ci si ostina a tradurlo. E via discorrendo.
Un atteggiamento aperto nell’uso delle parole straniere che consente di assimilare ciò che è
necessario affinché la lingua continui ad aggiornarsi senza degenerare Non solo è inevitabile, ma
anche benefico. Come già diceva Machiavelli, nel 1515, in “Dialogo intorno alla nostra lingua”, “le
lingue non possono essere semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue; ma quella
lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accettati all’uso suo, ed è sì
potente, che i vocaboli accettati non la disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella
reca da altri lo tira a sé in modo che par suo”. 20 . Solo che, come sentenziava Ippocrate, ogni
medicina è veleno ed ogni veleno è medicina; tutto sta nelle dosi. Infatti, Machiavelli non si accorse
che, già a partire dal 1510, il latino era avviato al declino, spodestato dalle lingue volgari, la cui
diffusione era accelerata dall’introduzione della stampa in Europa. Un po’ la situazione dell’inglese
di oggi con Internet e la traduzione automatica.
Per tornare al traduttore, parafrasando Calvino21 quando descrive il Sig. Palomar che fa la
coda in un negozio di formaggi, a Parigi, possiamo dire che c’è un rapporto reciproco tra parola,
individuo e società, tra termine e traduttore. “Non è questione di scegliere il proprio formaggio, ma
di essere scelti. C’è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo
cliente”. E’ come se, in un alone di complicità viziosa, ogni parola aspettasse di scegliere il suo
cliente, “si atteggiasse in modo d’attrarlo con gelosia, come se riconoscesse in lui colui che sa
apprezzare quei doni che la natura e la cultura hanno tramandato per millenni e che non devono
cadere in mani profane, o al contrario si sciogliesse strumentalmente in un arrendevole abbandono
esteriore, come sui divani di un bordello”. Il traduttore deve essere guidato dalla consapevolezza che
dietro ogni parola c’è la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da essa prende forma.
Sempre più spesso, i calchi o prestiti semantici e sintattici si cristallizzano in moduli “pronti
all’uso”, causando un impoverimento nelle scelte terminologiche e stilistiche e tendendo a
standardizzare, e in ultima analisi a erodere, non solo la qualità della traduzione, ma più in generale,
a accelerare il depauperamento delle risorse linguistiche e culturali. Questo fenomeno è contrastabile
solo con un uso attento della lingua. Purtroppo, in presenza di una totale inerzia da parte degli
studiosi, delle istituzioni, le parole non hanno più uno status preciso. E il traduttore ne è spesso
18
Beccaria (1992).
Tracce, n° 4, marzo 1998, Servizio di traduzione. Commissione Europea.
20
N. Grandi, Università degli Studi Milano Bicocca, citato in “La Repubblica” del 2 ottobre 2004.
21
Calvino (1990).
19
107
complice, dimenticando che, in quanto parola e scrittura, la traduzione non è mai una operazione
neutrale.
Italo Calvino, introduce la terza delle sue Lezioni americane intitolata “Esattezza” con queste
parole:
La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul
piatto della bilancia dove si pesano le anime. Quella piuma leggera aveva nome Maat, dea della
bilancia. Il geroglifico di Maat indicava anche l’unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone
unitario, e anche il tono fondamentale del flauto”.
“Esattezza” significava, per lui, soprattutto tre cose: “un disegno dell’opera ben definito e ben
calcolato; l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili (in italiano esiste l’aggettivo
“icastico” che non esiste in inglese); un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa
delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. E prosegue:
Sento il bisogno di difendere dei valori che ad altri potranno sembrare ovvii perché mi sembra
che il linguaggio venga sempre più usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne trovo un
fastidio intollerabile. (…) A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità
nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste di linguaggio che si manifesta
come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare
l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte
espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non
m’interessa qui chiedermi se le origini di questa epidemia siano da ricercare nella politica,
nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione
scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse
solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio.
(…) Ma forse l’inconsistenza non è nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la
vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio
né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica
difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.
E, aggiungiamo noi, della traduzione. Fruttero & Lucentini gli fanno da eco, fornendoci uno
straordinario e toccante ritratto del traduttore.
Il problema del traduttore è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro,
forse ancor più dell’autore. A lui si chiede (...) di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro
una lingua, vale a dire u’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. (...) Gli
si chiede di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare
(...). Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorge di lui
(...) un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un
tozzo di pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il
traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura.22
1.5 Localizzazione e traduzione
La globalizzazione comporta, da un lato l’internazionalizzazione di un prodotto o di un
servizio e dall’altro, la sua localizzazione. I “développeurs”, ovvero coloro che hanno il compito di
realizzarlo, procedono in maniera tale che esso sia il più neutro e il più generico possibile per
consentirne la adattabilità ai molteplici contesti locali. Ogni prodotto deve essere accessibile a tutti,
ma allo stesso tempo adattato ai diversi mercati locali. La localizzazione, (anche questo un conio
dall’inglese localization) è l’adattamento linguistico e culturale dei contenuti in lingua straniera,
affinché possano essere fruiti da utenti che parlano un’altra lingua e che vivono in un altro contesto
culturale.
22
Fruttero & Lucentini (2003). “Ultimo cavaliere errante...”. Le parole di Fruttero & Lucentini hanno almeno
quel fascino e quel potere magico che non riesce a suggerire l’equivalente “free lance”, ovvero mercenario al soldo di
chi meglio paga. Ancora una volta, come per globalizzazione, localizzazione..., ci troviamo di fronte non solo a un
problema linguistico, ma anche di grammatica sociale, di cultura, di modo di vivere il mondo.
108
Localizzare un prodotto vuole dire adattarlo alla cultura del paese di destinazione. E’ un processo
assimilabile alla traduzione da cui si differenzia per l’approccio, ma anche per onerosità, complessità
e dimensioni. La figura del localizzatore ha finito così per assumere caratteri di elevatissima
specializzazione che richiedono continui investimenti in tecnologie e formazione. La complessità del
processo ha anche imposto, in alcuni casi, figure del tutto nuove. Tuttavia, nel nostro paese, canali,
mezzi e strutture sono ancora insufficienti o “inadeguati” non solo tecnico, ma anche culturale e
linguistico. 23
La localizzazione linguistica e culturale non è nata spontaneamente da un desiderio da parte delle
imprese di promuovere le lingue e le culture minoritarie, per il bene degli abitanti del posto,
nell’ambito di una battaglia che punta a fare prevalere la cultura locale su quella globale e di
mercato, nel senso antropologico della parola. L’obiettivo è proprio quello di vendere, di vendere
sempre di più. Per questo, si ricorre alla tecnica del camaleonte: sotto parvenze locali, si presenta un
prodotto straniero, che si cerca di piazzare in un determinato luogo o mercato. La terminologia,
perno dell’attività di localizzazione, rappresenta una componente essenziale al servizio di questa
operazione commerciale.
La terminologia, come la localizzazione obbediscono sempre più agli imperativi dei prodotti
commerciali.24 In questo marketing terminologico, il traduttore deve essere molto accorto su come
avvengono i transferts linguistici e culturali.
ll
Traduzione e nuove tecnologie produttive
2.1 La traduzione automatica e la scrittura in macchinese
Che cos’è la traduzione automatica? La TA è una pratica che non richiede nessun
intervento umano. Viene definita come l’applicazione dell’informatica a testi di una lingua naturale
di partenza verso una lingua di arrivo.
Portatrice di grandi speranze negli anni ’80 e oggetto di enormi investimenti, la TA è stata
poi per un certo tempo messa in secondo piano a vantaggio della traduzione assistita da PC, –
tecnicamente più realistica –, per poi ritornare protagonista grazie ad Internet che consente agli
strumenti della TA di farsi un’idea del contenuto delle pagine scritte in un’altra lingua. Ma, a parte
la funzione di sgrezzamento della comprensione, utile per coloro che vogliono avere una idea
generica sul contenuto del testo, la TA dimostra la sua efficacia solo in certe condizioni di
normalizzazione e di coerenza dei testi di partenza. Infatti, perché un testo sia traducibile da una
macchina, questo deve essere scritto in maniera tale da essere capito da una macchina per poi essere
da questa tradotto.
Citiamo l’esempio riportato da Sebastiano Messina sul quotidiano “La Repubblica” dell’ 8
dicembre 2001 e intitolato “Palazzo Chigi inventò l’inglese”. Nelle biografie ufficiali dei ministri
pubblicate sul sito del governo www.governo.it, si poteva leggere che l’on. Marzano è un ordinary
professor (!!) , “autore di circa 150 pubblicazioni sui problemi dell’economia” che diventava in
inglese “author of approximately 150 banns on the problems of the economy (banns: parola di
lessico religioso adoperabile solo per le pubblicazioni di matrimoni). Roberto Castelli, dopo
trent’years of job in company, si è candidato in un collegio a cavallo delle province di Lecco e
Bergamo” diventa in inglese senator in the college to horse of the province of Lecco and Bergamo.
Paolo Bonaiuti, “è portavoce del presidente Berlusconi di Forza Italia”, tradotto is megaphone of the
president Berlusconi and Italy Force (ovvero del Battaglione Italia). Rocco Buttiglione, “….sotto la
guida del Prof. Augusto Del Noce di cui diverrà assistente ed amico”, diventerà in versione tradotta:
23
24
Gruppo L10 N, Rimini, settembre 2002.
Quiron (2003).
109
under the guide of prof. the August of the walnut of which he will become assistant and friend. Della
signora Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione si leggeva: Lady Joy Brichetto, it has two sons. Il
suo “piano aziendale” è diventato slowly of reorganization. Altero Matteoli, ministro dell’ambiente,
viene presentato come minister of the Atmosphere. La Lega del ministro Bossi, anziché league è
diventata alloy, cioè una lega metallica come il bronzo. A lui non hanno tradotto né il nome né il
cognome, ma la sigla Varese, la sua città: era Va, è diventata Goes. Lucio Stanca risultava
amministratore dell’università milanese Mouthfouls, ovvero del sostantivo gastronomico Bocconi.
Non solo, ma il suddetto ministro has covered loads with president of IBM e ha lavorato near the
center of IBM Italy. Evidentemente, per tradurre, basta un dizionario o uno di quei programmi che
fanno tutto da solo! Da questi esempi, si può vedere chiaramente quali sono ancora i limiti di questi
programmi di traduzione automatica e riflettere su quali caratteristiche deve avere il tipo di testo da
tradurre in automatico. Stile e struttura rigorosamente controllati, frasi corte e standardizzate,
linearità, monosemia, trasparenza, assenza di ogni forma di ambiguità, uso solo di termini contenuti
nei dizionari della macchina e sempre con lo stesso senso, economia di unità di informazione da
tradurre o localizzare e dunque forte economia di senso, loro totale identificazione da parte della
macchina… Anche qui, sintomo o rappresentazione ideologica? In un contesto caratterizzato da
produzioni ipermedia, sarebbe interessante conoscere più in profondità queste nuove modalità di
transfert associate all’internazionalizzazione e i loro risvolti culturali. Già negli anni ’70, Georges
Mounin25 avvertiva:
Vedremo degli scrittori con velleità di diffusione mondiale, che scrivono in macchinese;
elimineranno in anticipo il nome ricercato, l’aggettivo insolito, la costruzione rara che potrebbero non
essere accettati dalla macchina”. Come diceva Paulo Rònaï, traduttore ungaro-brasiliano della
Comédie Humaine di Balzac in portoghese, “ognuno si adegua molto in fretta allo stile
mecatraducibile.
Questo tipo di linguaggio controllato, la cui stesura comporta molti vincoli, è soprattutto
utilizzabile nell’ambito di documentazioni tecniche particolari, sufficientemente corpose per
giustificare l’investimento. Il più noto, e forse anche il più efficace dei sistemi di TA è quello usato
in Canada per la traduzione, dall’inglese verso il francese e vice versa, dei bollettini meteorologici.
Questi rappresentano un corpus chiuso, molto limitato e con frasi standard. Altro caso di utilizzo: in
fase di pre-traduzione oppure a volte, per trovare il termine tecnico appropriato. Una accurata fase di
revisione è comunque d’obbligo per rendere il testo d’arrivo leggibile. Ma soprattutto è per gli utenti
di Internet che questi motori di traduzione sono utili. Infatti, su Internet, circa il 75% dei siti web
sono in inglese. Il resto se lo spartiscono il francese, il tedesco, lo spagnolo… L’accesso a tutta
l’informazione è possibile solo se si conosce una moltitudine di lingue. Ed è in questo contesto che
un programma di traduzione acquista tutto il suo valore. Diventa uno strumento che permette non
solo di capire un testo scritto in una lingua che non conosciamo, ma soprattutto di capire
istantaneamente senza dover ricorrere ad un’altra persona.
? Da Gutenberg a Internet. Geopolitica della traduzione automatica
Confrontando la rivoluzione che rappresentò l’invenzione della stampa per la società del
secolo XVI, quella del telefono per il secolo XIX e l’avvento della traduzione automatica nella
società di Internet del XXI secolo, vorremmo azzardare una previsione, anche se a prima vista
assurda. Con l’aiuto di Jacques Attali,26 ripercorriamo brevemente la storia di alcune invenzioni
epocali per misurare meglio le enormi trasformazioni che sconvolgeranno i rapporti internazionali
nei prossimi tre decenni.
Alla fine del secolo XV, la stampa ebbe un ruolo determinante nell’indebolire in maniera
clamorosa e inattesa il potere della Chiesa cattolica sulle menti e dell’Impero Romano Germanico
25
26
Mounin (1976).
Attali (1981).
110
sui corpi. La Riforma, il Rinascimento, i nazionalismi, lo spostamento del potere politico verso le
Fiandre e l’Inghilterra sono cominciati con Gutenberg.
Alla fine del secolo XIX, l’invenzione del telefono ha accompagnato e accelerato lo
spostamento del centro economico e politico del capitalismo dall’Europa verso l’America. Altri
cambiamenti geopolitica sono stati accelerati da altre invenzioni nelle comunicazioni, come il
telegrafo oppure il cinema. Con sempre una stessa costante: coloro che sanno di più vogliono poter
decidere di più. Anche a costo della violenza.
Internet rappresenta una rivoluzione tecnologica di portata ancora maggiore, perché il Web,
rappresenta solo la punta emergente di un vasto processo di cambiamenti in atto: abbattimento dei
costi di produzione, di trasporto, di stoccaggio di tutte le informazioni che porterà a dover ripensare
interamente le relazioni tra gli individui, le aziende e le nazioni. Come tutte le rivoluzioni
tecnologiche precedenti, Internet comincerà col rafforzare i poteri costituiti. Quando la stampa
apparve, i grandi intellettuali dell’epoca, i futurologi, tutti coloro che teorizzavano, furono
interrogati dai due poteri dominanti di allora, ovvero la Chiesa cattolica e l’Impero Romano
Germanico per sapere se questa nuova tecnologia potesse servire i loro interessi oppure nuocere. Al
Papa venne risposto che, con la stampa, la Bibbia sarebbe stata accessibile a tutti e, di conseguenza,
il suo potere, in quanto potere religioso si sarebbe esteso. Stessa risposta fu data al Santo Impero
romano germanico. Con la stampa, l’accesso a libri scritti in latino sarà possibile per tutti, e a un
costo molto basso. In tal modo, tutti quei piccoli dialetti o lingue volgari di poco conto che
continuano ad esistere in Europa (francese, castigliano, tedesco…) spariranno. Con il risultato che ci
troveremo di fronte ad un’Europa unita intorno al latino e alla Chiesa cattolica. La Storia ci ricorda
che, trascorsi alcuni decenni, le cose non andarono esattamente così.
Primo risultato: è vero che, 30 anni più tardi, la diffusione della Bibbia conobbe un grande
successo, ma la gente si era anche resa ben presto conto che ciò che era scritto nella Bibbia non
aveva molto a che fare con ciò che la Chiesa cattolica dell’epoca andava predicando. Questo ha
avuto indirettamente un ruolo determinante nello sviluppo della mente critica, del movimento verso
il protestantesimo e il ritorno della stessa Chiesa verso un atteggiamento più cauto.
Secondo risultato: non solo si è stampato la Bibbia, ma anche altri testi. A partire dal 1485,
verrà stampata la prima grammatica del castigliano, una grammatica italiana, una grammatica
tedesca e, solo un po’ più tardi, una grammatica francese.
Terzo risultato: A partire del 1510, il latino sarà in via di sparizione, anche dai testi ufficiali
dell’Impero Romano Germanico. In compenso, il nazionalismo attecchirà sempre più.
In conclusione, vediamo che una innovazione che doveva rafforzare i poteri centrali,
unificare, di fatto, involontariamente, è stata creatrice di diversità.
Per tornare alla traduzione automatica, Internet provocherà la diversità delle lingue e favorirà
la localizzazione nel senso linguistico e culturale del termine. Quello che non è riuscito con il
traduttore umano, forse sarà possibile con il traduttore automatico.
Ogni volta che si è creduto che una invenzione oppure una innovazione che hanno a che fare
con le tecnologie della comunicazione avrebbe rafforzato il potere costituito, si è verificato, di fatto,
che esse lo hanno indebolito, decentrato, creando occasioni di diversità. Citiamo il caso del
grammofono. Edison, l’inventore, pensava che il suo strumento sarebbe servito unicamente per
consentire ai direttori di teatro di contrastare gli scioperi degli orchestrali! Bell, uno degli inventori
del telefono, pensava che il suo apparecchio dovesse servire prevalentemente ai dirigenti per
trasmettere ordini ai loro dipendenti nelle aziende senza doversi scomodare.
In questo periodo di fantastica accelerazione dei processi tecnologici dell’informazione,
dobbiamo osare allontanarci dagli schemi di sviluppo che abbiamo in mente e trarre la lezione dagli
errori di valutazione compiuti nel passato al momento dell’invenzione. Gli attuali assetti linguistici
subiranno inevitabilmente enormi sconquassamenti. Riuscirà l’inglese, latino ai tempi di Internet, a
difendere i poteri esistenti mentre, storicamente, le tecnologie della comunicazione hanno
puntualmente contribuito a sostituirlo? Una cosa è certa: la macchina per tradurre accelererà la
diversificazione.
111
2.2 Traduzione assistita da PC o CAT Tools (Computer Assisted Translation Tools):
Si tratta di una sorta di dialogo tra uomo e macchina, che consiste nel proporre al traduttore,
con l’aiuto di strumenti informatici, dei suggerimenti di traduzione mentre esegue il suo lavoro. I più
importanti di questi strumenti gestiscono:
-
-
da un lato, la terminologia specifica del settore oggetto della traduzione: il computer, tramite un
motore di traduzione, scannerizza ogni parola ed espressione del testo di partenza, le analizza, per
poi cercarle nel dizionario incorporato tra le centinaia di migliaia di forme e fornire una proposta
di traduzione che il traduttore può accettare o rifiutare. La velocità è estremamente rapida: 1
pagina a secondo!
dall’altro, le memorie di traduzione, che sono una sorta di serbatoio di testi già tradotti e
memorizzati che forniscono al programma i suggerimenti per la traduzione, ovvero delle tavole di
equivalenze tra testo di partenza e testo d’arrivo. Par fare ciò, il programma divide il testo da
tradurre in segmenti. Nel momento in cui il traduttore accetta come valida la proposta di testo in
LA, il programma memorizza il segmento di partenza e il segmento di arrivo in quanto
equivalenti linguistici. Se il segmento di partenza dovesse riapparire nel testo (le ripetizioni sono
frequenti nei testi tecnici), il programma ripropone allora automaticamente la traduzione messa in
memoria. Qualora si dovesse aggiornare la versione di partenza di un testo già tradotto, il
programma riprende automaticamente le parti già tradotte e segnala al traduttore gli elementi
nuovi o modificati.
I loro vantaggi sono indubbi:
- consentono il riutilizzo automatico delle traduzioni già in memoria;
- garantiscono la coerenza delle traduzioni;
- garantiscono il rispetto della terminologia in uso;
- possono ridurre notevolmente i tempi di lavoro;
- consentono di elaborare glossari completi per ciascun cliente.
?
Quando si ricorre alla traduzione assistita da PC?
Se l’utilità della Traduzione assistita da PC appare ovvia a livello di principio, non bisogna
però perdere di vista il fatto che la sua efficacia varia in funzione della tipologia di testi da tradurre,
che l’istallazione richiede investimenti elevati e che la sua redditività non è immediata, poiché i
dizionari e le memorie richiedono tempo per potersi arricchire. E’ conveniente ricorrere alla
traduzione assistita quando si ha a che fare con testi longevi, suscettibili di diversi interventi nel
corso della loro esistenza.
Come per la TA, perché la Traduzione assistita da PC sia utile, il testo deve possedere certe
caratteristiche:
-
-
omogeneità terminologica: lo stesso termine deve essere sempre usato con lo stesso senso; uno
stesso oggetto o azione deve essere sempre designato dallo stesso termine;
omogeneità fraseologica: una stessa idea, una stessa azione devono sempre essere descritte in
maniera identica, utilizzando la stessa punteggiatura;
frasi corte e semplici: aumentano la probabilità di ripetizioni e diminuiscono la probabilità di
ambiguità.
Un brevissimo accenno alle origini della traduzione automatica. Come avvenne poi anche per
i laboratori linguistici, per Internet, lo scopo della ricerca e degli investimenti era di natura militare.
Essa è stata pensata come modo per imporsi, per rafforzare il potere esistente in periodo di guerra
fredda.
2.3 Traduzione e taylorismo informatico. I mestieri della traduzione al tempo delle industrie
delle lingue
Poiché i mercati si sviluppano, si trasformano, si diversificano, orientano, condizionano,
determinano le scelte delle specializzazioni (settore finanziario, economico, medico, giuridico,
112
ludico, informatico... a seconda del momento storico), di riflesso, anche la traduzione e i
professionisti del settore ne subiscono i contraccolpi. Essi cambiano, evolvono, si diversificano. Ed
è per questo che si parla sempre di più di mestieri della traduzione.
In paesi come la Francia, per esempio, in alcune università, esistono specializzazioni (DESS)
in “Traduction et industries de la langue” (il cui obiettivo è quello di formare degli specialisti della
traduzione nell’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione), in
“Traductique et gestion de l’information” (che prepara ai nuovi mestieri della traduzione, della
redazione, dell’elaborazione e gestione di documenti professionali a carattere internazionale), in
“Ingénierie multilingue” (che prepara alle professioni di analista e responsabile di prodotti
informatici destinati all'acquisizione e al transfert delle conoscenze).
Tra gli insegnamenti in programma, troviamo, – a parte ovviamente la linguistica descrittiva
e testuale, la terminografia, la lessicografia, le scienze della documentazione e la gestione
dell’informazione, i sistemi di traduzione assistita, i nuovi supporti informatici e le esercitazioni di
traduzione da e verso 2 lingue straniere di testi di natura giuridica, economica, tecnica –, la
normalizzazione terminologica, la semantica cognitiva, la semiotica dei testi specialistici, l’analisi
concettuale, le strategie di transfert dei saperi e la modelizzazione del destinatario... Inoltre, accanto
al tradizionale traduttore o interprete o agli esperti in sottotitolaggio, in doppiaggio, gli adattatori, ai
vocalizzatori, vi sono i tradattatori o specialisti in traduzione audiovisiva (legati allo sviluppo del
multimedia, del DVD, dei videogiochi, dei prodotti informatici, dei giochi e spettacoli televisivi,
ecc. con le loro particolari esigenze di mercato), i localization engeneer, i localizzatori delle
interfacce utente, i localizzatori della documentazione elettronica, i localizzatori di applicazioni web,
i clonatori di siti web, i professionisti dell’usabilità dei siti web, i mediatori linguistici e culturali, i
revisori, i redattori tecnici multilingue (all’origine, il redattore tecnico era un tecnico con buone
capacità di scrittura. Oggi, è un professionista della scrittura capace di capire e rendere
comprensibile ciò che è tecnico. Il redattore tecnico ha una cultura tecnica non specifica. Non
essendo né ideatore di un progetto, né ingegnere, egli possiede il distacco necessario per sostituirsi
all’utente e trattare in maniera ergonomica le informazioni essenziali), i terminologi, i responsabili
QA (Assicurazione Qualità), i sistemisti, i responsabili di progetto...
Oltre ad assistere ad una mutazione professionale quasi continua, nonché ad una progressiva
industrializzazione del settore, assistiamo anche, – e questo è evidente nei grandi gruppi che
operano su scala nazionale o multinazionale –, ad una razionalizzazione del lavoro, basato sulla sua
divisione, sulla produzione in serie, sulla riduzione dei tempi e sull’abbattimento dei costi, sulla
massima produttività.
Il documento da tradurre viene consegnato alla grande impresa di traduzione, la quale lo
affida a un project manager che “smonta” il prodotto e assegna a diverse figure professionali delle
mansioni specifiche e gestisce il coordinamento tra le varie fasi del processo di fabbricazione.
Prima fase: la pre-traduzione, per capire di che cosa si tratta, individuazione della
terminologia tecnica, ricerca documentaria, lavoro con i motori di traduzione, i dizionari elettronici,
i sistemi di TA, le memorie traduttive per giungere alla stesura veloce di una prima bozza e
concentrarsi sull’esattezza e la precisione dei termini. Seconda fase, redazione e messa a punto
fraseologica localizzata. Terza Fase: messa in forma o su supporto, con l’inserimento di grafici,
immagini, conversione nel formato richiesto. Quarta fase: post-editing, revisione, controllo della
qualità. Esattamente come in una azienda, con la differenza che il traduttore è un vero specialista
dell’argomento trattato, poiché si concentra più sullo sforzo della localizzazione che su quello della
traduzione. Per esempio, per tradurre un contratto, il traduttore deve essere un giurista e conoscere il
diritto delle due lingue per poter localizzare e non solo tradurre, e dunque poterli adattare in
funzione del diritto di ogni paese. E questo vale per qualsiasi testo, come vedremo più avanti con gli
esempi di problemi che pone la traduzione tecnica. Chi sceglie, è il traduttore umano e non la
macchina informatica. Il traduttore specializzato non ha solitamente una formazione tecnica. Il suo
campo rimane prevalentemente quello della lingua e il suo lavoro consiste nel tradurre il testo, nel
113
modo più fedele e naturale possibile, attento al fatto che la sua versione tradotta conservi tutta la sua
leggibilità e tutta la sua logica.
Troppo spesso ci si dimentica che, per fare una buona traduzione tecnica, occorre saper
sfruttare tutte le potenzialità della lingua. E’ dunque importante che il traduttore tecnico sia prima di
tutto un buon redattore. La qualità della lingua è considerata come un segno essenziale della qualità
della sua professione. Egli deve fare grandi sforzi per limare la sintassi, a caccia di deviazionismi
semantici o di abuso di neologismi. Preservare la lingua, strumento del suo lavoro, è suo dovere.
Non vi è dubbio che il professionista della traduzione sta vivendo una vera e propria rivoluzione
culturale, ma il buon traduttore è comunque una sorta di ecologista della lingua, anche se assistito
dalla tecnologia.
2.4 L’ingegnere della comunicazione multilingue
Il traduttore tecnico e il localizzatore fanno parte di un settore industriale tra i più avanzati
che richiede continui investimenti in termini di conoscenze, tecnologie e formazione. In quanto
fornitore di prestazioni, egli deve essere in grado di fabbricare un prodotto o di fornire un servizio
che devono possedere tutte le caratteristiche che rispondono alle attese di quel prodotto, di quel
mercato o di quel servizio in un contesto diverso da quello in cui sono nati. La padronanza della
lingua è dunque solo una tra le tante abilità che deve possedere il traduttore. In certi ambienti, si
parla di traduttore tecnico inteso come tecnico traduttore. Un vero e proprio ingegnere della
comunicazione multilingue.
Non ci si improvvisa traduttore professionale. Alla stregua del pilota che necessita di un
certo numero di ore di volo prima di ottenere il brevetto che lo autorizza a volare, il traduttore, prima
di essere riconosciuto come un professionista (o per lo meno considerarsi come tale o pretendere di
fare valere la sua qualifica professionale), deve avere tradotto almeno un milione di parole, ovvero
avere fatto almeno 2-3 anni di job training.
Inoltre, occorre avere ben presente che quelle che fino a 4-5 anni fa potevano essere delle
specializzazioni, sono oggi delle competenze di base di cui non si può fare a meno. E lo stesso vale
per il futuro: ciò che oggi sembra una specializzazione di punta diventerà competenza di base fra
pochi anni! Contrariamente ai comuni cliché, quella del traduttore è una professione estremamente
dinamica e rischiosa che lo obbliga a mettersi continuamente in discussione.
Un traduttore si identifica:
a) per le sue coppie linguistiche: A = lingua madre; B = L2 e C = L3
Le remunerazioni dei traduttori per una determinata lingua sono inversamente proporzionali
al numero di traduttori che traducono da/verso quella lingua. Per questo, è importante conoscere
anche lingue rare, parlate in paesi a forte attività economica come la Cina e il Giappone.
b) per la lingua dalla quale traduce
In teoria, verso la sua cultura e la sua lingua materna ovvero da B > A (dalla lingua straniera
verso l’italiano nel nostro caso, ovvero “traduzione passiva”). E’ quanto avviene nelle grandi
istituzioni internazionali o aziende multinazionali. Ma la selezione è severissima. Allora, occorre
fare i conti con la realtà locale, il cui mercato (in generale costituito da piccole aziende) ragiona con
criteri più terra a terra. Il traduttore è un po’ un “uomo-orchestra” piuttosto che un “dirigente
d’orchestra”. Chi è in grado di operare con più lingue (di solito 3) e nei due sensi (passiva e attiva),
ha indubbiamente maggiori possibilità d’impiego rispetto a chi è bravo solo nella traduzione passiva.
Non per questo, la qualità e la professionalità nella pratica della traduzione sul territorio locale, per
un’azienda, uno studio di avvocati o un'agenzia di traduzione possono essere trascurate. Al
contrario! Quello del traduttore è di per sé, comunque ed ovunque, un mestiere molto esigente e
delicato, dove l’incompetenza e il ridicolo non perdonano. Rimane sempre vero che è preferibile
conoscere molto bene una lingua straniera piuttosto che diventare superficiale e mediocre in varie
lingue. A conferma di questo, ricordiamo che rari sono i cosiddetti bilingui in grado di redigere con
114
la stessa qualità professionale nei due sensi. Una perfetta conoscenza della lingua materna e spiccate
capacità redazionali sono imprescindibili per una comunicazione efficace e una buona resa a livello
di lavoro. E’ sottointeso che i soggiorni, o meglio, le esperienze di lavoro all’estero in settori
portanti sono indispensabili per diventare un buon traduttore.
Quali lingue i futuri traduttori dovrebbero studiare per avere migliori prospettive
professionali? La combinazione con migliori prospettive sembrerebbe essere l’inglese + una lingua
diffusa (francese, tedesco, spagnolo) + una lingua molto poco diffusa (a condizione che il volume di
scambi con questa lingua sia importante e produca un giro d’affari interessante anche nel settore
della traduzione) come ad esempio, il cinese, il giapponese, appunto.
c) per la sua o le sue specialità o approfondita conoscenza di determinati settori
Per il traduttore, possedere una competenza tecnica ad alto livello in un settore portante
(informatica, telecomunicazioni, finanza, giuridico) può, a volte, risultare più redditizio che
acquisire una competenza linguistica nuova. Una prestazione specializzata è più valorizzata di una
prestazione che non richiede nessuna specializzazione particolare. Inoltre, più la specializzazione
aumenta, più rara è la concorrenza, e più il potere contrattuale è alto.
Il traduttore professionista qualificato è un agente economico e tecnico insostituibile. Il suo
intervento è sempre economicamente redditizio, in maniera diretta o indiretta, a corto o lungo
termine. Solo la traduzione negoziata al ribasso o sottopagata, rischia, col tempo di rivelarsi un
boomerang. Le prestazione di alta qualità non sono mai in svendita.
?
Che cosa pretende dal traduttore colui che gli commissiona una prestazione di
traduzione?
che egli:
- sia professionale e affidabile e che il prodotto traduzione sia di qualità. Essa deve essere:
- vera;
- trasparente e conforme agli usi linguistici e culturali della comunità destinataria;
- ergonomica;
- compatibile con la difesa degli interessi del committente;
- conosca perfettamente il suo ambito di competenza, il prodotto di cui tratta il documento da tradurre;
- dimostri buone capacità di redazione, ovvero che padroneggi lo stile, la fraseologia, la terminologia
specifica e che sappia adattare il testo specialistico di partenza ai modelli redazionali nella lingua d’arrivo nel
rispetto della conformità, della leggibilità e dell’usabilità del prodotto, ovvero la sua conformità agli schemi
mentali legati alla cultura del fruitore al fine di convincerlo;
- sappia utilizzare gli strumenti informatici del caso.
Tutto questo, per una ragione molto semplice: la prestazione del traduttore deve essere redditizia,
contribuire a fare vendere i prodotti e dunque a portare profitti nelle casse del committente. Per
questo la qualità non è negoziabile.
lll
115
3.1 Competenze che deve possedere un traduttore professionista nell’era delle comunicazioni27
Translation is the process of converting written text or spoken words to another language. It requires that
the full meaning of the source material be accurately rendered into the target language with special
attention paid to cultural nuance and style.28
Come descritto con passione da Fruttero e Lucentini, tradurre significa riprodurre un determinato
messaggio in un’altra lingua trasmettendone in modo accurato il significato e presentando
particolare attenzione agli aspetti culturali e stilistici. Per fare questo, il traduttore deve possedere:
a) competenze linguistiche e culturali
- ottima conoscenza della lingua e cultura di partenza;
- elevata qualità linguistica nella lingua di arrivo e elevata conoscenza della relativa cultura;
b) competenze di natura traduttiva e redazionale
- capacità di analisi e di produzione testuale in genere (ovvero redazionali);
- capacità di cogliere l’articolazione del senso nel testo di partenza;
- capacità di rendere correttamente, agilmente (e anche con eleganza se necessario), il
senso nella lingua d’arrivo senza snaturarlo;
- capacità di passare da una lingua all’altra senza interferenze linguistiche;
- capacità in genere di gestire e di trattare l’informazione;
c) competenze metodologiche
- capacità di analizzare le diverse situazioni di traduzione;29
- capacità di documentarsi sull’argomento trattato nel testo per capirne il senso
(consentono di ovviare ad alcune difficoltà nella comprensione del testo di partenza);
- capacità di ritrovare i dati lessicali e terminologici essenziali per risalire al termine o
all’espressione appropriati;
d) competenze disciplinari
- conoscenza sufficiente di una o due discipline (finanza, informatica, diritto, economia ...)
per poter tradurre i testi di queste discipline;
- capacità di tradurre testi correnti in varie discipline;
e) competenze tecniche
- capacità di usare le nuove tecnologie;
- capacità di dominare le tecniche di comunicazione.
E’ appunto a causa delle competenze multidimensionali che i semplici bilingui, anche se “perfetti
bilingui” o i madrelingua espatriati non sono necessariamente buoni traduttori. E’ per questa
“multidimensionalità” che la formazione professionale dei traduttori all’università prevede non solo
corsi di lingua, ma anche corsi di tecnica della traduzione, di metodologia nella ricerca documentaria
e terminologica, di informatica, di economia, di diritto, corsi sui linguaggi settoriali... Detta così, il
traduttore dovrebbe essere una vera e propria enciclopedia vivente. Questo, ovviamente, non è
possibile. Allora, che cosa deve fare il traduttore per potere comunque svolgere in maniera
onorevole il suo lavoro? Egli deve ridurre la sua ignoranza.
Formare un traduttore significa insegnargli a imparare. La traduzione è uno dei pochi
mestieri dove si è pagati per ridurre la propria ignoranza, in maniera sistematica e continua. Questa
lenta acquisizione delle conoscenze rappresenta, tra l’altro, uno degli aspetti più gradevoli del
mestiere, dove la routine intellettuale, che è la peggiore di tutte, difficilmente attecchisce. Ma questo
atteggiamento richiede dal traduttore una curiosità sconfinata e soprattutto un grande rigore
27
Roberts (1981).
Esselink (2000), p. 4.
29
“Nessuno può pretendere di tradurre con ragionevoli probabilità di successo se non sa PER CHI (per quale
pubblico) e PER QUALE SCOPO (per quale uso del suo testo) si effettua la mediazione” (Gouadec (1990)).
28
116
intellettuale. Non vi è argomento che, prima o poi, un traduttore non sia portato ad affrontare
nell’esercizio della sua professione. Però, una volta acquisito il metodo giusto, egli è in grado di
affrontare tutte le situazioni che gli si presenteranno. La ricerca di informazioni, ovvero le tecniche
di documentazione rappresentano un elemento centrale della sua attività. Purtroppo, uno dei punti
deboli del nostro sistema di formazione è lo scarso livello di padronanza della lingua madre (ovvero
dell’italiano), l’esitante efficacia redazionale da parte di molti aspiranti traduttori. E questo comporta
il dover fare i conti con difficoltà non preventivate, perché nella mente della gente, traduzione è solo
conoscenza della lingua straniera.
3.2 Stazioni di lavoro per il traduttore tecnico
Il traduttore è, per forza di cose, un “informatizzato”. L’evoluzione dei mercati è tale che
l’informatizzazione completa della postazione di lavoro è diventata una necessità per qualsiasi
traduttore. La rivoluzione annunciata da Mac Luhan si è fatta sentire anche nel mondo della
traduzione:
- la rete diventa il mezzo per ricevere e inoltrare le traduzioni;
- la traduzione è un’attività di informazione e di comunicazione; più nessuna attività di
comunicazione è concepibile senza la padronanza delle tecniche e delle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione: editor di testi, automazione d'ufficio che comprende la documentazione
elettronica e la grafica, l’ambiente di sviluppo, gli strumenti di traduzione assistita, di localizzazione
e di QA (Assicurazione Qualità). Di seguito, una breve carrellata.
?
stazione di lavoro per il traduttore (vedi Trados Translator’s Workbench, una delle più
diffuse)
?
programmi di videoscrittura, micro-editoria: FrameMaker, PageMaker, Interleaf,
QuarkPress,
formati SGML, HTML, XML.
* gestione di memorie di traduzione: Base Access; Trados; Wordfast; Déjà Vu:
http://www.atril.com; Startransit, WordFisher: http://www.wordfisher.com; SDLX;
IBM Translation Management; (per maggiori dettagli, vedere:
http://foreignword.com/fr/Technology/tm/tm.htm )
* sistemi per la gestione di banche dati: Acquarius: http://aquarius.net; Aleph:
http://www.aleph.com; Infomarex: http://www.infomarex.ie/;
* banche terminologiche, dizionari e glossari elettronici bilingue: Babylon: http://babylon.com;
(per maggiori dettagli, vedere: http://foreignword.com/fr/Technology/other/other.htm )
Eurodicautom:http://eurodic.ip.lu/cgi-bin/edicbin/EuroDicWWW.pl ; Allwords:
http://www.allwords.com; Merriam-Webster online: http://www.m-w.com/,
Logos Wordtheque: http://www.logos.it); Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e
Traduttori di Forlì: www.sslmit.unimbo.it, sezione terminologia;
* programmi di concordanze e corpora: Wordsmth Tools è uno strumento creato appositamente
per studiare il comportamento delle parole nei testi. I programmi principali di Wordsmith sono:
Wordlist, Concord, KeyWords;
* Wordlist: permette di elaborare, una volta selezionati tutti i testi del corpus, la lista di tutte le
parole che compaiono in essi, in ordine alfabetico o di frequenza. E’ possibile richiedere la lista delle
parole prese singolarmenete, oppure di clusters a due o più parole. In seguito, tali liste possono venire
salvate come file di testo e rielaborate in momenti successivi. Eliminando tutta una serie di elementi
grammaticali (articoli, preposizioni, avverbi, congiunzioni, ecc.) che sono presenti in abbondanza in
qualsiasi testo, ma che non hanno nessun valore al fine di uno studio del lessico specifico, la wordlist
potrà essere letta più facilmente.
Questo programma è particolarmente utile, perché la lista di frequenza, che evidenzia le parole più
ricorrenti, rivela il tipo di terminologia che viene utilizzata nei testi appartenenti a una stessa tipologia. Le
wordlist sono dunque uno strumento prezioso per avere un’idea complessiva del tipo di lessico che una o più
lingue utilizzano in testi paragonabili.
Sempre legato alla frequenza di una parola nel testo, il programma KeyWords permette di individuare le
parole chiave, ovvero quelle più ricorrenti in un dato corpus.
117
Per studiare il comportamento nel contesto della frase dei termini specifici più ricorrenti che sono stati
individuati, si utilizza Concord. Questo programma permette infatti di specificare una search word che
opererà in tutti i file di testo del corpus selezionato, presentando alla fine una lista di concordanze nella quale
si potranno reperire le varie collocazioni della parola inserita. In questo modo è possibile osserva un termine
in tutti i contesti in cui esso appare, e determinare sia con quali parole e categorie grammaticali esso è più
frequentemente associato, sia le sfumature di significato che esso può assumere a seconda del contesto nel
quale si inserisce. Queste informazioni sono fondamentali per poter trovare l’equivalente di un termine nella
lingua di arrivo, e soprattutto contribuiscono a garantire l’affidabilità di una traduzione.
Wordsmith Tools: http://.liv.ac.uk/~ms29287, Wordexpert: http://www.myteam-software.com;
*programmi di traduzione automatica: http://www.systransoft.com; http://lant.be/; www.translateonline.com, www.reverso.com; www.infinit.net;
http://babel.altavista.com/translate.dyn; http://www.freetranslation.com;
traduttore automatico inglese-italiano: Ait 2.12 scaricabile attraverso:
http://foreignword.com/fr/Technology/other/other.htm
* mailinglist: Intralinea: http://www.intralinea.it/mailinglist.htm
Biblit: http://www.biblit.com;
* in genere, egli deve conoscere e sapere adattare qualsiasi nuovo prodotto a funzioni specifiche.
Certe traduzioni specializzate come la localizzazione di software o di siti web richiedono livelli di
competenze in ingegneria linguistica, informatica, gestione, marketing, comunicazione.
Utilizzando validi strumenti di ricerca, è possibile affrontare la traduzione di un determinato
testo con l’adeguata preparazione e di conseguenza con una maggiore sicurezza ed ottenere una
qualità più elevata, guadagni di produttività in un contesto dove i tempi di consegna sono sempre più
serrati.
La creazione di corpora di confronto permette di ottenere informazioni sugli usi linguistici
generalmente non reperibili nei dizionari, in particolar modo quelle relative alla frequenza e tipicità
di determinati usi. Tuttavia è necessario tener presente che i corpora, come tra l’altro tutti i CAT
Tools, pur costituendo un valido strumento di ricerca e un’ampia fonte di informazioni e di aiuto,
non possono essere considerati come una fonte indiscutibile di soluzioni definitive, ovvero come la
garanzia di ciò che può o non può essere detto e scritto in una determinata lingua. Per i tecnicismi
contenuti nei testi, essi possono essere di grande aiuto perché ci facilitano la ricerca dei possibili
traducenti. Ma, in ultima istanza, è la professionalità, la competenza linguistica, culturale e la
perfetta padronanza dell’argomento da parte della persona che traduce che, in ultima istanza,
determinerà la qualità e l’efficacia del materiale tradotto.
3.3 Problemi che pone la traduzione di testi tecnici
Per cogliere meglio la specificità della traduzione tecnica e le difficoltà che comporta,
prendiamo in esame alcuni esempi:
1) Testo medico: Rieducazione degli arti inferiori per la funzionalità della rotazione interna, calcagno varo,
parte anteriore del piede addotta.
Correzione attiva: contrazione degli elevatori e degli eversori del piede, deambulazione sui talloni, appoggio
unipodale.
2) Testo giuridico: Il Procuratore dell’appellante ha così concluso: Ogni contraria istanza, eccezione e
deduzione disattesa e reietta, con vittoria di spese, competenze ed onorari di causa
1) in via pregiudiziale, dichiararsi la nullità della sentenza di I grado e dell’intero giudizio per
nullità della notifica dell'atto di citazione;
2) in subordine e sempre in via pregiudiziale, ritenersi il difetto di legittimazione attiva della
ditta....
3) Testo commerciale: Fatte salve per il Committente tutte le condizioni pattuite in sede di definizione
dell’ordine, la Fornitrice si riserva in qualunque momento la facoltà di valersi (anche solo temporaneamente
e parzialmente) di forme di servizio e/o di intermediazione commerciale-finanziaria, quali appunto il
118
Factoring, il Leasing ed altri anche nuovissimi sistemi per la gestione totale o parziale dei pagamenti e/o del
contratto.
4) Testo tecnico-meccanico: Sollevatori elettroidraulici predisposti per l’installazione incassata nel
pavimento. Sollevatori per allineamento con sedi per piatti rotanti e piattaforme oscillanti. Perfetta
sincronizzazione dei cilindri indipendentemente dalla ripartizione del carico. Dispositivo di appoggio
meccanico ad inserimento automatico e disinserimento pneumatico, a garanzia della massima sicurezza in
fase di stazionamento. Valvole di sicurezza nei confronti di sovraccarichi e rottura di tubi idraulici.
5) Testo turistico: Il tartufo: misterioso, raffinato e un pò ruffiano. I modi tradizionali per utilizzarlo sono
semplici e vanno pretesi: affettarlo direttamente sopra le tagliatelle al burro caldissime o al risotto cotto in
brodo di carne e fatto stringere con un uovo sbattuto. Oggi, il grande attentato alla cultura del saporeprofumo del tartufo, giunge dall’olio tartufato con il quale viene dato un “aiutino” sintetico anche a quelle
specie che sono insipide. L’immaginario collettivo, da cui non è estranea una consolidata letteratura, vuole
che sia cibo afrodisiaco, un viagra naturale, che apre insperate porte al piacere. Ben venga. Allusivamente
diceva Pietro Aretino che le cortigiane lo danno in abbondanza agli amanti anziani “che hanno buona
volontà ma triste gambe” e pensiamolo pure anche noi, che in quella “grattatina dell’estasi”, a detta di
D’Annunzio che quanto ad alcove non era secondo a nessuno, messa sopra il piatto sia davvero efficace. In
fondo nella vita conta anche questo.
6) Testo pubblicitario: Per l’amica che si aggiorna costantemente, legge molto; per la sorella single,
curatissima, che si piace e vuole piacere; per la nonna “sprint”, campionessa di tennis e nuotatrice provetta;
per l’appassionata di bellezza, informatissima sulle ultime creme e sugli ultimi preparati cosmetici; per la
cognata con due bambini e poco tempo per sé stessa, ma tanta voglia di rimanere giovane. Per tutte loro, la
straordinaria sorgente di bellezza.....
I problemi che incontriamo di fronte a questi testi possono essere categorizzati in problemi
linguistici, problemi culturali e problemi pragmatici. Per risolverli, il traduttore deve ricorrere a tutte
quelle competenze e a quel “savoir-faire” precedentemente presi in esame.
- I problemi linguistici sono connessi sia al testo specifico da tradurre che agli aspetti sistemici
delle lingue in cui si lavora. Fondamentalmente si possono distinguere in problemi terminologici e
morfosintattici. L’essenziale dell’informazione da comunicare risiede nel termine e nelle locuzioni
che gli sono proprie: nozioni che non riusciamo a capire, che necessitano di un bagaglio di
conoscenze specifiche, di un vocabolario tecnicistico. Ma sarebbe un errore voler identificare la
lingua di specialità con il lessico settoriale (terminologia), trascurando le peculiarità sintattiche, la
struttura di questi linguaggi. Se così fosse, basterebbe consultare buoni dizionari o glossari bilingui
per risolvere i diversi problemi di traduzione. E poi ci sono i traduttori automatici che potrebbero
svolgere un lavoro perfetto in questo campo. Oltre alle nozioni espresse, la lingua dei documenti
tecnici rappresenta da sola una difficoltà per il traduttore. Sono appunto le particolarità sintattiche
che conferiscono il particolare stile, l’uso di costruzioni specifiche, di un linguaggio formale.
- Tra i problemi pragmatici, citiamo quelli cognitivi che danno luogo alle difficoltà traduttive più
comuni. Esse variano a seconda del livello di conoscenza dell’argomento specialistico da parte del
traduttore. Ad essi, si aggiungono i problemi socio-retorici che riguardano le diversità delle norme
relative al registro oppure alle aspettative di lettura legate a convenzioni diverse a seconda delle
tipologie testuali.
- Tra i problemi culturali rientrano invece le difficoltà di traduzione legate ai termini che si
riferiscono ad aspetti e situazioni tipici della cultura di partenza e che quindi richiedono adattamenti
nella lingua e nella cultura di arrivo. Il testo di partenza è un prodotto della cultura di partenza, che,
in quanto tale, funziona in quella determinata cultura. Analogamente, il testo di arrivo deve
funzionare nella cultura di arrivo. Tutto dipende dalla competenza e dall'abilità del traduttore.
119
lV
4.1 Approccio metodologico
Decalogo del traduttore30
? Principio n° 1: Non si traduce per capire, ma prima si capisce per poi tradurre .
Lettura profonda, analisi, individuazione delle problematiche, ricerca documentaria e
terminologica.
La traduzione è un atto di comunicazione che consiste nel superare gli ostacoli linguistici e culturali
per garantire che un determinato messaggio arrivi al suo destinatario che non ne capisce la lingua, né
ne condivide la cultura, affinché sia da lui immediatamente capito. Tradurre significa dunque capire
per farsi capire.
Ma, il Sig. de la Palice avrebbe fatto rimarcare che, per capire, bisogna che ci sia qualche
cosa da capire. Viviamo in tempi di frenesia da produzione. Non tutti i testi da tradurre sono
coerenti, logici, razionali. E la qualità di una traduzione dipende anzitutto dall’autore del testo da
tradurre.
• Principio n° 2: Non si traduce una successione di parole, ma un messaggio di cui
si è prima capito il senso.
Infatti, tutte quelle parole che corrispondono tra una lingua e l’altra, cessano il più delle volte
di corrispondere tra un testo e l’altro. Uno dei compiti del traduttore è appunto quello di stabilire
equivalenze di senso tra i due testi. Contrariamente a quanto si suole credere, i testi tecnici, in
questo, non sono diversi da quelli generali o letterari.
? Principio n° 3: Il senso di un enunciato non è la somma dei significati delle singole
parole in successione e prese singolarmente.
? Principio n° 4: Il processo della comprensione inizia con la decodificazione le parole,
prosegue con l’identificazione dei significati i quali, combinati alle conoscenze culturali,
consentono di cogliere il senso di un enunciato e di valutare la dinamica di un testo.
? Principio n° 5: Solamente una seria ricerca documentaria e terminologica consente di
capire veramente ciò di cui si parla e di come se ne parla (vedi corpora paralleli).
L’approfondimento della ricerca documentaria va tarato secondo il livello di familiarità che il
traduttore ha con l’argomento da trattare.
Non vi sono in sé argomenti più o meno difficili di altri. Tutto è in funzione del nostro livello
di conoscenze dell’argomento. Il traduttore, comunque, si deve limitare alle ricerche necessarie
ma sufficienti per effettuare la sua traduzione, evitando perdite di tempo.
30
Durieux (1988).
120
? Principio n° 6: Durante la fase di riformulazione, il traduttore si sforza di rendere nella
lingua d’arrivo ciò che egli ha capito nel testo redatto in lingua di partenza, indipendentemente
dalla sua forma e dalla sua struttura. Più egli ha dimestichezza con l’argomento da tradurre
e più egli possiede la terminologia e la sintassi specifica che lo caratterizza, più il testo da
lui prodotto sarà leggibile ed efficace.
Se applichiamo quanto detto all’estratto della circolare del Ministero dell’Industria citata poc’anzi,
ci accorgiamo che: REA, persone fisiche, professioni non protette, il comma, Testo Unico, Imposte
Dirette, DPR, attività professionale e non terziario, gestione separata INPS, ecc. sono sì delle
parole che fanno tutte parte di una lingua che ci accomuna, ma il rapporto che ognuno di noi
intrattiene con esse, il grado di confidenzialità, di comprensione, ovvero la capacità di traduzione
intralingua legata generalmente alla nostra appartenenza sociale, alla nostra formazione
culturale…ci distingue, ci avvicina o ci allontana, ci fa sentire più o meno estranei.
? Principio n° 7: Non solo il traduttore si destreggerà con la L2 con tanta più facilità ed
efficacia quanto più egli saprà di che cosa si parla, ma anche in che termini e con quale
dinamica se ne parla. Cogliere il contenuto informativo di un testo non è sufficiente.
Occorre anche individuarne l’articolazione logica.
? Principio n° 8: La traduzione è un susseguirsi di prese di decisioni. Il traduttore è
condannato a operare delle scelte che devono sempre essere motivate. Non basta affermare
qualcosa; occorre dimostrarlo!
• Principio n° 9: E’ estremamente importante che il lettore-utente percepisca il documento
a lui destinato come naturale, con le stesse caratteristiche di una redazione diretta e non
come traduzione, che sa di “ingessato”.
Per giungere a ciò, il traduttore deve prima operare un transfert culturale (adattamento) e solo
dopo un transfert linguistico. La sostituzione visibile di forme e codici (linguistici e non) è
preceduta più in profondità da:
? modalità di analisi o di interpretazione di concetti
? una organizzazione del discorso
? tecniche e logiche di presentazione
? una sostituzione meno visibile di modi di pensare e di schemi mentali
? Principio n° 10: Ogni arricchimento del bagaglio di conoscenze del traduttore avvenuto
nell’ambito dell’approfondimento di un argomento specifico rimane valido per molti altri
argomenti. Non vi sono scomparti stagni tra i vari settori delle scienze e delle tecniche. Il suo
bagaglio di conoscenze deve essere composto da una somma coerente e dinamica di
informazioni.
121
La teoria, in tale contesto assume un’importanza relativa.
The heart af translation theory is translation problems (...); translation theory broadly consists of, and
can be defined as, a large number of generalizations of translation problems.31
E’ con la pratica, “sur le terrain” e con la grande dimestichezza con le lingue e le culture di lavoro
che si impara ad affrontare gli innumerevoli problemi e a trasmettere con naturalezza ed efficacia il
senso.
4.2 Organigramma del percorso del traduttore
1. PRE-TRADUZIONE
analisi del materiale da tradurre
? Una lettura “delicata e fine”,32 destinata a essere socialmente condivisa
Prima di passare all'analisi vera e propria del testo di partenza è opportuno soffermarsi sulla fase di
lettura. Il traduttore infatti è prima di tutto un lettore, ma un lettore molto particolare, la cui lettura
“profonda”, globale ed insieme dettagliata, è orientata alla traduzione:
-
una prima lettura globale tesa a definire lo scopo, la tipologia testuale, il contesto socio-culturale,
ecc.;
una lettura intensiva tesa a individuare le informazioni che devono essere trasferite in lingua di
arrivo;
una lettura per individuare i segmenti testuali problematici per la riformulazione.
Per esperienza, spesso un traduttore professionista impara a comprimerle in due fasi, o addirittura in
una sola: “interpretazione del testo di partenza finalizzata alla restituzione del suo senso ad altri”,
dunque, completamente orientata alla traduzione. Si tratta quindi di “una lettura non come atto
privato ma destinata ad essere socialmente condivisa”. 33 Il fine ultimo di questa lettura non è
l’interpretazione del significato, ma l’identificazione di quali aspetti del testo privilegiare durante il
processo traduttivo (contenuto cognitivo, intenzionalità, situazione, forma superficiale, destinatario,
ecc.) alla luce della macro-strategia che il traduttore si prefigge di seguire per adattare il testo di
arrivo alla sua nuova situazione comunicativa.
31
Newmark (1988), p. 21.
Arcaini (cur.) (1995).
33
Cortese (cur.) (1996), p. 238.
32
122
2. PRE-TRANSFERT
Interpretazione affinata del testo, sua articolazione logica, ricerca dell’informazione
necessaria per una completa comprensione, programmazione delle strategie più adatte per
risolvere le varie problematiche riscontrate, per adattare il testo di arrivo alla nuova situazione
comunicativa, ricerca documentaria sull'argomento, analisi fraseologica, ricerca terminologica,
dinamica del testo...
Il traduttore non può operare in modo efficace se non domina perfettamente il senso di ciò
che egli deve tradurre.
Ciò significa che egli deve conoscere e capire non solo il contenuto letterale, ma anche tutti
i presupposti (in particolare in termini di obiettivi dell’autore) nonché tutte le implicazioni
del materiale.
Occorre dunque che, quando il materiale da tradurre tratta di un prodotto o di un argomento
che il traduttore non conosce bene, egli trovi, con l’aiuto dei CAT Tools, di Internet, oppure
consultando fonti varie, appropriate e veloci, i mezzi per capire perfettamente l’integralità del
materiale da tradurre.
? Traduzione semantica e traduzione comunicativa
Le macro-strategie da adottare affinché la comunicazione non risenta negativamente del
passaggio da un sistema culturale all’altro e che facciano fronte alle difficoltà traduttive di vario
genere e di diversa complessità che il testo di partenza può presentare, appartengono, secondo
Newmark, a due macro-categorie: la traduzione semantica e la traduzione comunicativa.
Si tratta di due diversi approcci traduttivi, che ripropongono la dicotomia tra “sourciers” e
“ciblistes” (già accennata all’inizio) a seconda che l’accento venga messo sull’aspetto comunicativo
e formale del testo di partenza o di quello in LA.
Nella traduzione semantica il traduttore, tenendo conto soltanto delle restrizioni sintattiche e
semantiche della LA, cerca di riprodurre l’esatto significato contestuale dell’autore, mentre in quella
comunicativa, egli cerca di produrre sui lettori della LA lo stesso effetto prodotto dall’originale su
quelli della lingua di partenza.
Adottare l’approccio comunicativo significa anche che il traduttore si prende la libertà di
modificare il testo in LA, migliorandolo laddove la sintassi non sia scorrevole o vi siano ambiguità
di ogni genere (a meno che queste non siano volute e non siano funzionali alla trasmissione del
messaggio).
Per quanto a livello teorico le due posizioni possano sembrare inconciliabili, nella pratica
della traduzione tecnica, è frequente un’alternanza dei due approcci. Di volta in volta, il traduttore
deciderà, a seconda del testo di partenza, come procedere, scegliendo l’approccio migliore ed
avendo egli sempre ben presente che il suo compito è principalmente quello di fornire agli utenti dei
testi tradotti degli strumenti di lavoro che siano di una assoluta chiarezza.
? Ricerca documentaria e/o ricerca terminologica?
Solitamente, quando si parla di traduzione, si tende a mettere l’accento sulla tecnicità del
lessico e/o della fraseologia. Con il risultato che le difficoltà della traduzione tecnica sembrano
ridursi alle difficoltà inerenti all'uso di una lingua di specialità.
123
E’ vero che essa ha un ruolo importante, però, è solo un aspetto tra tanti altri. Infatti, la
metodologia messa in atto per eseguire la traduzione di un documento tecnico va ben oltre la
semplice ricerca di termini o modi di dire. Più che di natura terminologica, i veri problemi della
traduzione tecnica sono di natura nozionistica. Da qui la necessità di procedere ad una ricerca
documentaria che aiuti il traduttore a capire l’argomento trattato.
? Condizioni necessarie
La ricerca documentaria non è un ingrediente obbligatorio per la traduzione di un testo
tecnico. Anzitutto, occorre valutare la necessità di procedere a una ricerca di questo tipo. I criteri da
considerare non sono assoluti e non dipendono dal testo in sé. Essi dipendono dalla tecnicità
dell’argomento e dall’esperienza del traduttore. Non vi sono argomenti che, più di altri giustifichino
una ricerca sistematica. Il criterio da utilizzare, di natura molto relativa è che la necessità di
procedere ad una ricerca documentaria dipende dalla relazione che esiste tra il traduttore e il
testo da tradurre.
Che si tratti di un traduttore principiante oppure di un professionista, la procedura sarà
sempre la stessa: metodica per essere efficace. L’unica differenza è che un traduttore esperto, per la
sua dimestichezza con la procedura, sarà molto più veloce, ma senza per questo bruciare alcune
tappe. Più la somma delle conoscenze di cui dispone è scarsa, più la ricerca documentaria deve
essere: seria, estesa, approfondita. Estesa, in modo da ricoprire i vari aspetti dell’argomento,
approfondita, in modo da consentire una effettiva comprensione dell’argomento. Egli deve
individuare velocemente ciò che serve per un bisogno puntuale, evitando di perdersi in voluminosi
documenti o in una miriade di siti internet. Il suo metodo si articola secondo due direzioni: dal
generale al particolare, dalla volgarizzazione all'informazione specializzata. Un pò come le bambole
russe. Occorre seguire e portare avanti la catena di interrogazioni fin quando tutti gli elementi
espliciti o presupposti dell’informazione del testo da tradurre, integrati tra di loro in un insieme
strutturato, siano anche nella mente del traduttore chiari ed integrati. Ciò porta a formulare un altro
criterio per la ricerca documentaria: occorre mirare a un sistema di autonomia. A partire dal
momento in cui il traduttore ha acquisito le conoscenze necessarie per ricostruire un insieme di
informazioni strutturato, i cui elementi sono interdipendenti e formano un tutto organizzato, si può
dire che egli è giunto a uno stadio di comprensione sufficiente per tradurre.
La consultazione di corpora paralleli consente non solo di capire meglio l’argomento
oggetto della traduzione (poiché a volte, nella lingua straniera, viene affrontato sotto angolazioni
diverse), ma consente anche di:
- familiarizzarsi con la lingua tecnica usata in quel settore specifico
- individuare la terminologia specifica di quell’argomento in contesto
- elaborare delle schede terminologiche o dei glossari funzionali.
3. PRE-TRANSFERT
riformulazione del testo, stesura della bozza
Il traduttore cerca di riformulare nella LA ciò che ha capito dal testo in LP,
indipendentemente dalla forma e dalla struttura di quest’ultimo. La sua preoccupazione, a questo
stadio, non è quella di sapere se usare un aggettivo laddove nel testo originale inglese veniva usato
un avverbio, ma bensì di rendere il senso del testo originale rispettando l’uso nella LA, essendo
l’uso che, in ogni lingua, determina la formulazione. E’ solo dopo aver tradotto non solo il contenuto
informativo, ma anche il tono e il livello di volgarizzazione che il traduttore avrà assolto al suo
compito.
124
4. TRADUZIONE – TRANSFERT
Editing interattivo, tappa fondamentale del processo traduttivo
Una volta che il traduttore ha verificato e preparato il materiale, definito le opzioni di
traduzione, acquisito i saperi che gli mancavano per capire perfettamente il materiale da
tradurre, che si è accertato dei modelli, dei termini e delle espressioni che utilizzerà e che ha
predisposto la sua postazione in maniera funzionale (programmi, collegamenti...), la fase di
transfert può iniziare. Il processo di transfert corrisponde alla ricomposizione di un materiale
nuovo, i cui contenuti, forme e formulazioni sono adatti al nuovo pubblico.
5. POST-TRANSFERT
Controllo della qualità: riletture, correzioni e revisioni.
In traduzione, il ridicolo uccide e la qualità non è negoziabile!
Una volta tradotto il materiale, il traduttore deve verificare che tutto ciò che doveva
essere tradotto lo è stato effettivamente e che il risultato è conforme:
?
alle regole dell’uso linguistico: corretto, leggibile, chiaro, accessibile, trasparente;
?
alla qualità linguistica, stilistica, redazionale: verificare che tutto ciò che riguarda
la lingua (ortografia, grammatica, sintassi, terminologia, fraseologia), lo stile e le
formulazioni è corretto, omogeneo e conforme allo scopo;
?
alla qualità tecnica, semantica: verificare che tutto ciò che riguarda il contenuto
(dati, informazioni, ragionamento, cronologia, logica...) è giusto, vero, corretto e conforme
allo scopo;
?
ai principi di convergenza tra il materiale di partenza e il materiale prodotto:
corrispondenza dei sensi, delle finalità, degli obiettivi, dell'impaginazione...
In pratica, occorre distinguere da un lato la rilettura, dall’altro la revisione. Durante la
rilettura, si notano le anomalie, ma non si interviene sulla traduzione, mentre, la revisione
corregge o ritocca la traduzione. Quando la traduzione è particolarmente complessa, varie
riletture e/o revisioni sono necessarie.
6. POST-TRANSFERT
messa in forma o su supporto
Inserimento di grafici, immagini, elementi particolari
7. POST-TRANSFERT
consegna del prodotto
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l’interprétation et de la traduction: de la théorie à la pratique, Delisle, J., Ottawa, Ed. de l’Université
d’Ottawa, 1981
Scarpa (2001)
Scarpa, F., La traduzione specializzata – Lingue speciali e mediazione linguistica, Milano, Hoepli, 2001
Scavetta (1992)
Scavetta, D., La metamorfosi della scrittura, dal testo all’ipertesto , Firenze, La Nuova Italia, 1992
Schena/Snel Trampus (cur.) (2000)
Schena, L./Snel Trampus R.D. (cur.), Traduttori e giuristi a confronto. Interpretazione traducente e
comparazione del discorso giuridico, Forlì, Clueb, Biblioteca della Scuola Superiore di Lingue Moderne per
Interpreti e Traduttori, 2000
Severgnini (1992)
Severgnini, B., L’inglese. Lezioni semi serie. Milano, Rizzoli, 1992
Spina (1997)
Spina, S., Parole in rete , Firenze, La Nuova Italia, 1997
Trilussa (1935)
Trilussa, Cento Apologhi di Trilussa, Verona, Mondadori, 1935
Ulrych (1992)
Ulrych, M., Translating text. From Theory to Practice, Rapallo, Cideb, 1992
Visciola (2000)
Visciola, M., Usabilità dei siti web, Apogeo, 2000
Zanettin (2001)
Zanettin, F., Informatica e traduzione, in Monacelli, C. (cur.), Traduzione, revisione e localizzazione nel
terzo millennio: da e verso l’inglese, Milano, Franco Angeli, 2001
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NOTA SUGLI AUTORI
ADELE D’ARCANGELO (Teramo, 1963) è lettrice di Lingua Inglese presso l’Università Statale di
Milano ed insegna Traduzione Specializzata Inglese/Italiano presso la SSLMIT di Forlì (Università di
Bologna). Tra le sue pubblicazioni vanno segnalate le traduzioni italiane di poesie, teatro e prosa di autori
britannici contemporanei, tra cui Samuel Beckett, Alan Bennett e Steven Berkoff.
GIOVANNA BUONANNO (Napoli, 1965) insegna Lingua Inglese (II anno) e Traduzione Lingua
Inglese presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Fra i suoi lavori, nel campo della traduzione e degli
studi shakespeariani, vanno menzionati: Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij , Venezia, Marsilio, 1992
(traduzione dall’inglese in italiano); Shakespeare’s Early Reception and Translation in Italy, Modena, Il
Fiorino, 2002.
MARCO CIPOLLONI (Roma, 1962) è professore ordinario di Letteratura Spagnola presso l’ateneo
modenese. Numerose sono le sue pubblicazioni nel campo della traduttologia (saggi sulla traduzione e lavori
di traduzione), oltre a quelle di iberistica. Da segnalare: José Luis Romero, Le città e le idee, Napoli, Guida,
1989 (traduzione dallo spagnolo in italiano); Due traduzioni per una polemica: Léon Felipe e Borges
traduttori di Whitman, in AA.VV. Scrittura e riscrittura: traduzioni, refundiciones, parodie e plagi, Roma,
Bulzoni, 1995, pp. 171-186; Lingue di celluloide: la traduzione del cinema spagnolo in Italia; la Spagna e lo
spagnolo nel cinema italiano e nel film multilingue, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997.
CESARE GIACOBAZZI (Serramazzoni [Modena], 1956) è professore associato presso l’Università
di Modena e Reggio Emilia, dove attualmente insegna Civiltà dei Paesi di Lingua Tedesca. Nel campo della
germanistica vanno citati i suoi seguenti lavori fondamentali: La storia risvegliata. Il Barocco nella Trilogia
di Danzica di Günter Grass: le forme, le funzioni, gli esiti, Bologna, Pàtron, 1993; Introduzione
all’esperienza del senso. Didattica della letteratura e coscienza ermeneutica, Bologna, CLUEB, 2000;
L’eroe imperfetto e la sua virtuosa debolezza. La correlazione tra la funzione estetica e la funzione
formativa nel Bildungsroman, Modena, Guaraldi, 2001.
DEMETRIO GIORDANI (Roma, 1955), dottore di ricerca dell’École des Hautes Études en Sciences
Sociales di Parigi, insegna Storia dei Paesi Islamici presso l’ateneo modenese. Da segnalare le sue seguenti
traduzioni: Abd Al-Rahmân Al-Sûlamî (932-1021), Introduzione al Sufismo (2001) (traduzione dall’arabo in
italiano); L’inizio e il ritorno di Ahmed Sirhindi (2003) (traduzione dall’arabo e dal persiano in italiano e
francese); Appunti per un Commento alla Sûra CII (1992) + XCIV.
HANS HONNACKER (Bonn [Germania], 1966) si è laureato in italianistica con una tesi sull’Orlando
Furioso all’Università di Firenze nel 1996. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Freie Universität
Berlin nel 2000 e ha tradotto vari saggi della critica tedesca sulla letteratura italiana. Attualmente insegna
Traduzione Lingua Tedesca all’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni si ricordano:
Der literarische Dialog des primo Cinquecento. Inszenierungsstrategien und ‘Spielraum’ (Baden-Baden,
Koerner, 2002) e Die italienische Übersetzung von S. Haffner, Geschichte eines Deutschen: Probleme und
Kuriositäten (in corso di stampa).
ANTONELLO LA VERGATA (Cosenza, 1954), professore ordinario, insegna presso l’ateneo
modenese Storia della Filosofia e Storia della Scienza e della Tecnica in Età Moderna e Contemporanea. Le
sue pubblicazioni, nel campo della storia della scienza e filosofia ed anche della traduzione, sono ormai circa
un centinaio il che, ovviamente, rende impossibile citarle tutte. Vanno almeno menzionate due traduzioni
capitali: Thomas Henry Huxley, Evoluzione ed etica, a cura di A. La Vergata, Torino, Bollati Boringhieri,
1995; George S. Rousseau, La medicina e le Muse, traduzione ed introduzione di A. La Vergata, Firenze, La
Nuova Italia, 1993.
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EMILIO MATTIOLI (Modena, 1933), già professore ordinario di estetica all’Università di Trieste.
Oltre a importanti studi sul Sublime e su Luciano di Samosàta (Luciano e l’Umanesimo, Bologna, Il Mulino,
1980), Emilio Mattioli ha pubblicato molti saggi sulla traduzione fin dal 1965, fra gli altri: Introduzione al
problema del tradurre, apparso sulla rivista “Il Verri”, 19 (1965), in cui venivano discusse e criticate
posizioni teoriche allora molto diffuse come quelle di Benedetto Croce o Roman Jakobson; Contributi alla
teoria della traduzione letteraria (Palermo 1993), Per una critica della traduzione (“Studi di estetica”, 14
(1996) e Ritmo e traduzione (Modena, Mucchi, 2001), La traduzione letteraria (“Il confronto letterario”, 39
(2003), pp. 171-179) in cui Mattioli tira le somme delle sue riflessioni sulla traduzione, proponendo, sulla
scia di Henri Meschonnic, una poetica della traduzione. Altre iniziative importanti di Mattioli sono la
creazione e la direzione della più importante rivista di traduzione letteraria in Italia, “Testo a fronte”.
FRANCO NASI (Reggio Emilia, 1956) si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna. Dal 1998 al
2001 è stato Visiting Lecturer alla University of Chicago. Attualmente insegna Letteratura Italiana e
Traduzione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tradotto e curato opere di estetica e teoria
letteraria di S.T. Coleridge, W. Wordsworth, J.S. Mill, e raccolte di poesie di Roger McGough e Brian
Patten. È curatore della raccolta di saggi Sulla traduzione letteraria. Figure del traduttore – Studi sulla
traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001 ed autore di Stile e comprensione. Esercizi di critica
fenomenologica sul Novecento , Bologna, CLUEB, 1999 e Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del
tradurre, Milano, Medusa, 2004.
ALEARDO TRIDIMONTI (Sarsina, 1949) insegna Traduzione Italiano-Francese presso la Scuola
Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì – Università di Bologna e, presso l’ateneo
modenese, Mediazione Francese. Si segnala il suo recente lavoro sulla politica linguistica dell’Unione
Europea: Europa: la vecchia signora che ama leggere romanzi d’amore ovvero La memoria dimenticata ,
MEP Model European Parliament, 2001.
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TITOLI GIÀ PUBBLICATI IN QUESTA COLLANA
Nr. 1: Massimiliano Spotti, Constructing native speakers to be in the multilingual
classroom. A case study of the discourse of a monolingual primary teacher in Belgian
Flanders (2004)
Nr. 2: Maria Chiara Felloni, Il plurilinguismo istituzionale all’interno dell’Unione
Europea (2004)
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