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AMBIENTE E SVILUPPO: UN COMPROMESSO POSSIBILE

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AMBIENTE E SVILUPPO: UN COMPROMESSO POSSIBILE
Anno 4 Numero 18 Gennaio-Febbraio 2008
Periodico bimestrale gratuito - Tiratura 1.000 copie - Autorizzazione Tribunale di Udine n. 15 del 15 marzo 2005
Segreteria telefonica e fax 0431 35233 e-mail [email protected]
Direttore Responsabile Andrea Doncovio Redattori Manuela Fraioli, Simone Bearzot, Norman Rusin,
Giuseppe Ancona, Lorenzo Maricchio, don Moris Tonso, don Silvano Cocolin, Sandro Campisi, Alberto
Titotto, Silvia Lunardo, Vanni Veronesi, Andrea Folla, Sofia Balducci, Christian Franetovich, Giovanni
Stocco, Marco Simeon, Alessandro Morlacco Progetto grafico, impianti e stampa: Graphic 2 - Cervignano
Centro Giovanile di Cultura e Ricreazione “Ricreatorio San Michele” via Mercato, 1 33052 Cervignano del Friuli (UD) www.ricreatoriosanmichele.org
I DUE VOLTI DEL
PROGRESSO
Intervista al sindaco - p. 3
AMBIENTE E SVILUPPO:
UN COMPROMESSO POSSIBILE
Cesare Paron - p. 4
Paolo Tonello - p. 4
Bruno Morbin - p. 8
Carnevale - p. 9
Ambientalismo: la giungla delle vanità
Il surriscaldamento del clima d’interesse attorno ai temi ambientali ha
aumentato la marea d’informazioni a nostra disposizione sui singoli problemi.
E come ogni mareggiata che si rispetti, anche questa ha portato più danni che
benefici.
Così come i cercatori d’oro della foresta amazzonica, noi cittadini dobbiamo
impegnarci a fondo per distinguere quelle piccole pagliuzze di buona
informazione, nascosta sotto la poltiglia di retorica al servizio delle diverse
correnti politiche ed economiche.
Un esempio? Quello riportato dalla sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann
nel suo prestigioso studio sui meccanismi dell’opinione pubblica. Quando
l’azienda petrolifera Shell, nel 1995, voleva affondare nell’Atlantico del nord la
piattaforma petrolifera Brent Spar, ormai in disuso, in tutto il mondo divampò
la protesta. «L’organizzazione per la difesa dell’ambiente Greenpeace, uno dei
portavoce che indicava la direzione all’opinione pubblica, sosteneva che nella
piattaforma si trovassero ancora 5.500 tonnellate di petrolio», denunciando
tale «politica ambientale folle». Massicce furono le pressioni fatte alla Shell da
parte di politici tedeschi e della Lega per la protezione dell’ambiente; si esortò
persino il boicottaggio dei distributori della multinazionale. «Le minacce sociali
s’intensificarono fino all’uso della violenza»: ci furono minacce di bombe,
un benzinaio ricevette una lettera esplosiva e un distributore fu distrutto da
alcune bombe incendiarie. Alla fine il gruppo fu costretto a tirare in secco la
piattaforma e a smontarla a terra. Poche settimane dopo un’inchiesta rivelò
che lo smaltimento a terra dei rifiuti della piattaforma petrolifera comportava
rischi ambientali superiori del suo affondamento, e si appurò che ...
continua a pag. 2
Viaggio a Cervignano - p. 10
VEDI I DETTAGLI A PAGINA 6
Ivan Bidoli - p. 12
IL PUNTO SU...
AMBIENTE, AMBIENTALISTI E ANTI-AMBIENTALISTI
I grandi quesiti
L’uomo è il responsabile dei cambiamenti climatici in atto? Soprattutto,
esistono davvero tali cambiamenti oppure sono un’invenzione? Che fine ha
fatto il buco nell’ozono? C’è l’effetto serra? L’energia solare e quella eolica
sono alternative possibili? Sì o no a un ritorno al nucleare?
Queste e altre le domande più importanti del nostro secolo: l’ambiente
è ormai la questione delle questioni. Un articolo impostato come “punto
su” dovrebbe presentare una serie di dati da cui partire per un’analisi
dei problemi ad essi correlati, così come Alta Quota ha sempre fatto nei
numeri precedenti; questo, però, è un caso particolare. Sì, perché è semplicemente impossibile fare il quadro della situazione, dal momento che
il mondo della scienza è nettamente diviso in due. Da una parte, i convinti
assertori dell’effetto serra e del disastro climatico in atto, numerosi e agguerriti; dall’altra i cosiddetti “negazionisti”, oggi in continuo aumento
dopo essere usciti allo scoperto dalla censura che ancora negli anni ‘90
gravava su di loro.
Schieramenti opposti, dati contrastanti: l’equazione è ovvia. Cerchiamo
comunque di porre alcune coordinate.
Gli “ambientalisti”: chi sono e cosa dicono
Chiameremo “ambientalisti” - operazione arbitraria ma necessaria, mancando un termine appropriato - tutti coloro che credono nella minaccia
climatica e ambientale incombente sul nostro pianeta. La principale autorità scientifica in tema di riscaldamento globale è il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento climatico (IPCC), creato nel 1988 dalle Nazioni
Unite come organo parallelo ai già esistenti WMO (Organizzazione Meteorologica mondiale) e UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite).
A cadenza quinquennale, il Comitato presenta un rapporto completo sulla
situazione della Terra: l’ultimo è del 2007 ed è scaricabile, in inglese,
dal sito dell’organizzazione. Per sommi capi, i punti da ricordare sono
i seguenti:
• il pianeta è in preda a mutamenti climatici gravi causati, per il 90%,
dall’uomo
• la temperatura del pianeta si alzerà di 2-2,5 gradi centigradi in un secolo
• entro il 2050 si estinguerà il 20-30% delle specie vegetali e animali del
pianeta
• entro la fine del secolo il livello del mare salirà da 18 a 60 centimetri a
causa dello scioglimento dei ghiacciai
• nelle zone umide le precipitazioni aumenteranno del 10-40% e saranno
sempre più violente; nelle zone secche le precipitazioni diminuiranno del
10-30%, provocando gravi siccità
• nel 2020, in Africa, si stimano sui 75-250 milioni le persone che subiranno le conseguenze della siccità
• l’evolversi della situazione dipenderà dalle politiche adottate dagli stati
Scenari apocalittici, come quelli appena descritti, invitano chiunque a riflettere: cosa possiamo fare? Siamo ancora in tempo? Domande, però, che
agli occhi degli scettici appaiono assurde.
I “negazionisti”: chi sono e cosa dicono
Anche questa volta in modo assolutamente arbitrario, chiameremo “negazionisti” coloro che non credono alle tesi degli “ambientalisti”. Esponente
di spicco di questo schieramento è Franco Battaglia, docente di Chimica
Fisica presso l’Università di Roma III e collaboratore de Il Giornale; per
gustare la sua prosa vi rinvio al sito www.galileo2001.it dell’omonima associazione, nata nel 2001 per stornare la minaccia di un inutile spreco di
denaro pubblico - decine di miliardi di lire - nella creazione di commissioni sul presunto inquinamento elettromagnetico, del tutto inesistente.
Fra i soci fondatori, altri personaggi di rilievo, come Umberto Veronesi,
oncologo di fama mondiale ed ex ministro della Sanità, e Umberto Tirelli,
direttore del prestigioso istituto per la cura dei tumori di Aviano. Battaglia, comunque, non si è fermato qui; assuntosi l’onere di controbattere
punto per punto alle affermazioni degli ecologisti, ha fatto, in questi anni,
affermazioni forti:
• l’uomo non ha alcun impatto sull’ambiente: i fattori che influenzano il
clima sono l’attività solare, nonché gli effetti del vapore acqueo e delle
nuvole
• che il clima cambi è nella natura stessa della Terra e a testimoniarcelo
sono, tanto per fare due esempi, quattro grandi glaciazioni e un Sahara
che si estende laddove, ancora nel 5500 a.C., si apriva un’immensa savana
• i movimenti ambientalisti sono delle consorterie che speculano sul nulla per ottenere finanziamenti dagli stati, mentre l’IPCC è un organo creato
dai palazzi della politica, ha pochi reali scienziati al suo interno e dice ciò
che i politici vogliono sentirsi dire
• a smentire l’idea che i mutamenti climatici debbano per forza avvenire
in tempi geologicamente lunghi c’è, fra le tante, una scoperta del 1993,
quando gli scienziati, grazie a una serie di carotaggi, si accorsero che la
Groenlandia aveva subito aumenti anche di 7 gradi nell’arco di soli 50
anni, spesso con drastiche oscillazioni anche di soli 5 anni (e questo ben
prima delle moderne emissioni di CO2)
• l’energia solare è pura utopia: costa troppo e non è produttiva; il nucleare rimane l’unica via perseguibile, la più sicura, la più economica, la
più pulita.
Battaglia argomenta le sue tesi - del resto sempre più diffuse nel mondo
scientifico e di cui egli è solo uno dei portavoce - con una messe di dati
che appaiono inconfutabili. A chi credere, dunque?
Eccessi e follie dell’informazione mediatica
Dicembre 2007. Jay Zwally, climatologo della NASA, annuncia che i ghiacci del Polo Nord si scioglieranno completamente entro l’estate del 2012.
Cioè fra quattro anni! Ma non era il 2050? No, anzi, il 2070... Vi consiglio
di fare un esperimento. Andate su Google e scrivete “scioglimento dei
ghiacci”, affiancando ogni volta un anno diverso: vedrete che vi compariranno sempre nuovi indirizzi internet abbinati alla ricerca! Ora, la cosa è
evidente: in questo tipo d’informazioni, la verità latita.
Bisognerebbe poi riflettere sui dati presentati dall’IPCC, perché, a mio
modo di vedere, il solo fatto di oscillare fra un 10 e un 40% dimostra
poca scientificità. E Al Gore, con il suo film Una scomoda verità? Niente
di personale contro l’ex vicepresidente dell’era Clinton, tra l’altro - cosa
risibile - novello premio Nobel per la pace, ma personalmente ripongo
più fiducia nell’Alta Corte di Londra che, il giorno prima della consegna
del Nobel, dopo aver «esaminato il documentario e confrontatolo con
un’ampia rassegna di studi in materia di ambiente, [...] ha concluso che
“la visione apocalittica” presentata dal film è “politicamente di parte” e
non un’analisi imparziale della questione del cambiamento climatico.
Un’opera […] che contiene una serie di errori fattuali minori, ma pur
sempre di rilievo. Il giudice ne ha citati nove, inclusa la previsione che
lo scioglimento dei ghiacci farà alzare il livello dei mari di sette metri nel
prossimo futuro, mentre “un simile scenario da Armageddon potrebbe
realizzarsi solo nel corso di un millennio”; la tesi secondo cui gli orsi polari stanno affogando nel tentativo di cercare un nuovo habitat a causa del
surriscaldamento del Polo, e le affermazioni che l’esaurimento della corrente del Golfo, la perdita delle nevi del Kilimangiaro, il prosciugamento
del lago Ciad, sono da imputare direttamente all’emissione di gas nocivi. Il
messaggio centrale è esatto, sentenzia il giudice, ma gli errori impongono
che il film, per essere mostrato nelle scuole, debba essere accompagnato
da informazioni più equilibrate» (www.conteadiaversa.it). Curioso: questa notizia è passata quasi del tutto sotto silenzio. Così come il fatto che
Gore sia stato attaccato e sbertucciato da un gruppo di climatologi esperti
sul Wall Street Journal. Ma tant’è.
A variegare ulteriormente lo scenario ci sono le previsioni del tempo,
che da qualche anno si sono decuplicate, comparendo addirittura tra il
primo e il secondo tempo di un film! Da Giuliacci a Caroselli, passando
per Eleonora Pedron, è tutto un fiorire di meteorologi e “meteorine” dalle
espressioni ardite, come la «morsa del freddo» o la «colonnina di mercurio», ma soprattutto, invenzione recente, la temperatura «percepita»,
che Dio solo sa come misurare in rapporto a quella reale. E i telegiornali? «In arrivo un’ondata di freddo polare». Dove per “polare” lorsignori
intendono 1 grado sotto zero! «Caldo equatoriale a Roma». E poi scopri
che è luglio inoltrato e che, ma guarda un po’, a Roma ci sono 36 gradi.
«Rischio siccità, possibili danni per miliardi». Appena, però, piove un po’
più del normale, allora subito si passa al piagnisteo: quando tornerà il
sole, colonnello Foglia? La verità è che noi uomini pretendiamo di dominare un fenomeno che per sua stessa natura e portata ci sfugge: abbiamo
la presunzione di attribuire valore dogmatico alle previsioni del tempo
quando invece sono, appunto, solo “previsioni”.
Un’analisi razionale
Naturalmente, non nego che un problema ambientale esista. È fuor di
dubbio che l’Amazzonia sia uno dei polmoni verdi della Terra da preservare. È innegabile che il petrolio sia destinato, prima o poi, a finire. È
evidente che occorre ridurre le emissioni di anidride carbonica. Proprio
per questo insisto sulla piaga della disinformazione, che svia dai veri temi
da affrontare: la salvaguardia dell’ambiente è troppo importante per essere affidata ad incompetenti capaci solo di diffondere allarmismo. Nessuno
ha mai dimostrato la relazione fra attività umane e mutamenti climatici
globali (anche se questo non significa che non esista: la discussione è
appena agli inizi), ma soprattutto è falsa la tesi secondo cui i cambiamenti
climatici non possano avvenire, secondo natura, in tempi brevi.
Sono altri i veri problemi, e tutti a livello locale. In Italia, uno in particolar
modo: le nostre grandi città scoppiano per il traffico e l’inquinamento,
che in luoghi come Torino, Roma e Milano superano tutti i parametri
previsti dalla legge. Bisogna avere allora il coraggio di prendere decisioni
scomode. Se le nostre città hanno la fortuna di essere così antiche, significa che la loro struttura non è stata pensata per le automobili, quindi non
c’è altra soluzione che chiudere completamente al traffico tutti i centri
storici, di qualunque entità e dimensione, attraverso una vera e propria
riappropriazione, da parte dei cittadini, dei loro spazi urbani.
Il nostro paese, però, si dimostra negligente anche nel versante opposto:
l’incapacità di soddisfare a pieno il fabbisogno energetico nazionale e la
penuria di infrastrutture come autostrade e ferrovie, nonché il dissesto di
quelle già esistenti, fanno dell’Italia un paese di second’ordine nel panorama economico mondiale. Uno stato non può essere messo in scacco da
persone che agitano lo spettro dell’ambiente per porre il veto su qualsiasi
cosa: inceneritori, autostrade, ferrovie, ponti, centrali elettriche, dighe.
Rendiamoci conto che il nostro è un paese in cui, il 19 dicembre 2005,
una parlamentare veneziana è riuscita ad ottenere dall’Unione Europea
una lettera di mora contro l’Italia per le «perturbazioni dannose agli uccelli» che causerebbero le paratie mobili del MOSE (per altro ancora
inesistenti). Capito il ragionamento? Venezia e i suoi tesori possono essere
rovinati dalle acque, se non distrutti come nell’alluvione del ‘66, mentre,
che so, le folaghe non possono essere disturbate, anche se le paratie mobili si alzerebbero solo con un livello d’acqua superiore a 110 cm e solo
per poche ore. No comment.
La realtà locale
Anche questa volta, concludiamo con uno sguardo alla nostra realtà. Il cementificio e la vetreria, da una parte, e la linea ferroviaria ad alta velocità
(TAV), dall’altra, sono stati – e sono tuttora – i temi caldi della politica
locale. Comitati, dibattiti, polemiche infinite, ritrattazioni, compromessi:
abbiamo visto e letto di tutto sui giornali. Il problema è: qualcuno di voi ci
ha capito qualcosa? Soprattutto: chi ha ragione? Qual è l’impatto ambientale di queste tre opere? Non esistono ancora delle certezze: cosa preoccupante, perché, al di là degli schieramenti, un accordo dovrebbe essere
preso partendo dai dati di fatto. Il resto sono solo chiacchiere.
VANNI VERONESI
continua da pag. 1
... non vi erano grandi quantità di olio esausto. Questo episodio ci serve
a chiarire la situazione in cui ci troviamo noi oggi, stretti tra la necessità
di svilupparci per sopravvivere e quella di tutelare il nostro già torturato
territorio: spesso la difesa dell’ambiente è un pretesto per ottenere
posizioni di potere e prestigio; chi ne fa le spese alla fine siamo noi.
Spesso tendiamo a percepire come opinione di maggioranza quella più
urlata, più plateale; per poi doverci ricredere.
Ditemi cinico, ma non credo né agli ambientalisti né ai loro
oppositori. Perché entrambi sono partecipi dello stesso spettacolo.
Malati di protagonismo, entrambi utilizzano le stesse armi. Entrambi
contribuiscono ad avvelenare l’acqua del pozzo. In ogni dibattito morale,
sociale o politico ci sono sempre due modi diametralmente opposti di
considerare lo stesso problema. E per sostenere le proprie posizioni
le persone chiamano in causa tradizioni, principi e diritti, omettendo
certi fatti ed evidenziandone altri. L’unica ricetta per questo è: cercare
di affinare la nostra competenza morale per dirimere le questioni,
tenendo ben presente che la conoscenza è la chiave del successo.
Evitiamo però di diventare “scansafaticattivisti”, un neologismo ideato da
James Harkin per indicare quelli che sono convinti di poter cambiare il
mondo senza muoversi dalla poltrona, in un’emorragia di petizioni per
boicottare qualunque tipo di campagna non etica. Ognuno di noi può
agire sui propri comportamenti quotidiani: lo sapevate che sostituendo
70 lampadine a incandescenza con quelle fluorescenti si evita l’emissione
di una tonnellata di anidride carbonica?
Date un’occhiata all’iniziativa di Repubblica:
http://www.repubblica.it/2007/11/speciale/altri/2007ambiente/
introduzione-gioco/introduzione-gioco.html.
NORMAN RUSIN
Per ulteriori informazioni e dati visita il sito
www.altaquotaonline.org
SVILUPPO vs ECOLOGIA?
INTERVISTA
AL SINDACO
PIETRO PAVIOTTI
-Ambiente e sviluppo: oggigiorno esiste un conflitto tra questi
due concetti?
«Si, un conflitto indubbiamente esiste, e lo vediamo tutti i giorni. Ogni
volta che si parla di nuovi investimenti, che si tratti di una ferrovia o di
un’area produttiva, c’è una parte della società che dimostra la propria
contrarietà. Personalmente ho sempre creduto che ai problemi vada trovata una soluzione, uscendo dalle paure e dai dubbi dettati dall’emotività
e passando ad un approccio tecnico e scientifico. Credo sia un modo
di pensare ragionevole e che possa andare incontro alle necessità del
mondo moderno».
-Si parla spesso di sviluppo sostenibile. Questo concetto è applicabile alla realtà?
«La tecnologia e gli sviluppi della scienza ci vengono incontro, da questo
punto di vista. Resta il fatto che una comunità deve avere anche delle
attività produttive, industriali e manifatturiere. Esiste a mio avviso un’etica
della produzione che, ad esempio, mi porta a non guardare con favore
alla delocalizzazione e al trasferimento delle fasi di produzione in paesi
in via di sviluppo. Le ragioni sono note: la manodopera costa meno e i
controlli ambientali sono meno stringenti. Rischiamo però di svuotare il
nostro territorio di possibilità occupazionali, quando potremmo invece
produrre i beni in maniera accettabile grazie alla tecnologia».
-L’ambientalismo corre il rischio di degenerare in “fondamentalismo ambientalista”?
«Noto spesso un atteggiamento troppo estremo da parte di alcuni rappresentanti del mondo ambientalista. Trovo tuttavia che si tratti di un atteggiamento spesso strumentale da parte di membri della società con desiderio
di protagonismo e che ricercano spazi di visibilità. Nel tempo molti temi
sono stati oggetto di strumentalizzazione, dalle antenne per i telefoni fino
ai depuratori, alla TAV e ai rifiuti. Accanto a un mondo ambientalista corretto ve n’è uno che usa strumentalmente questi argomenti».
-In tutto questo, quali sono il ruolo e la responsabilità della politica?
«Quando si fa questo mestiere, bisogna accettare l’idea che vi siano anche
decisioni scomode da prendere e che vanno contro l’interesse di ottenere
consensi. Credo che sia opportuno essere disponibili a fare ragionamenti
con onestà intellettuale e correttezza, ma alla fine è necessario arrivare a
una decisione. Se non si fa nulla, i problemi restano».
- La “coscienza” dell’opinione pubblica sta cambiando? Si sta ripensando ad alcuni temi e ad alcune scelte? Un esempio su tutti,
il nucleare.
«Negli anni, grazie ad approfondimenti ed esperienze, alcune questioni
vengono viste dall’opinione pubblica sotto una diversa luce. E nel momento in cui l’opinione pubblica inizia a rendersi conto di una certa cosa,
anche gli oppositori più intransigenti iniziano a “ragionare”. Gli amministratori pubblici devono però anche dare messaggi chiari su questo tipo
di questioni».
- Si parla spesso di “sindrome di Nimby” riferendosi all’atteggiamento di protesta di residenti e comitati contro la realizzazione
di particolari opere d’interesse pubblico. Secondo una statistica,
tuttavia, risulta che nella maggior parte dei Paesi europei la tensione si è ridotta grazie a migliori strumenti di partecipazione
e consultazione popolare. L’Italia è indietro da questo punto di
vista?
«In Italia abbiamo subito molti interventi dannosi in passato, siamo un
popolo che non si fida. È un problema generale e per risolverlo servono maggiore consapevolezza e senso civico. Tendiamo a rinchiuderci nel
nostro interesse personale
e non riusciamo ad astrarci
all’interno di un interesse
più vasto. Essere buoni cittadini implica una visione
che vada al di là, verso le
necessità di un intero territorio. Oggi invece tutti
affermano che certe cose
vanno fatte, ma nessuno
le vuole. Quindi, accanto
all’aumento di partecipazione da parte delle autorità, va messa anche una
generale disponibilità non
egoistica».
SIMONE BEARZOT
Due opinioni a confronto sul
delicato tema dell’ambiente e
un’inchiesta su...:
Alta Quota cede la parola ai
protagonisti e propone alcuni
dati di recentissima diffusione
L’ATTUALITÀ IN TEMPO REALE
RAPPORTO APAT (Agenzia per protezione
dell’ambiente e per i servizi tecnici) 2007
“LA PRODUZIONE DEI RIFIUTI IN ITALIA”
I primi dati del Rapporto sono stati divulgati giovedì 8 febbraio e
fotografano la realtà italiana della produzione e dello smaltimento
dei rifiuti, tema caldo delle cronache recenti. Sui gravissimi problemi
di Napoli e zone limitrofe siamo tutti informati quotidianamente
dai mezzi di comunicazione, ma il rapporto APAT si occupa di
questi aspetti solo dal punto di vista dei numeri e delle statistiche;
vediamone alcune.
A) PRODUZIONE DI RIFIUTI
Regioni con maggiore produzione pro capite di rifiuti urbani
nel 2006 (kg per abitante per anno)
1. Toscana: 704 kg
2. Emilia Romagna: 677 kg
3. Umbria: 661 kg
4. Lazio: 611 kg
5. Liguria: 609 kg
Regioni con minore produzione pro capite di rifiuti urbani
(kg/abitante per anno)
17. Trentino Alto Adige: 495
18. Friuli Venezia Giulia: 492
19. Calabria: 476
20. Molise: 405
21. Basilicata: 401 kg
B) SMALTIMENTO DEI RIFIUTI
Regioni con maggior incremento nella percentuale di raccolta
differenziata tra il 2005 ed il 2006 (variazione in punti
percentuali 2005-2006)
1. Sardegna: 9,9 - 19,8 [+ 9,9%]
2. Trentino Alto Adige: 44,2 - 49,1 [+ 5,0 %]
3. Piemonte: 37,2 - 40,8 [+ 3,6 %]
4. Umbria: 21,5 - 24,5 [+ 3,1 %]
5. Friuli Venezia Giulia: 30,4 - 33,3 [+ 2,9 %]
6. Valle d’Aosta: 28,4 - 31,3 [+ 2,9 %]
Presenza di inceneritori nelle regioni italiane
13 in Lombardia
8 in Toscana ed Emilia Romagna
4 in Veneto
3 in Lazio
2 in Piemonte, Puglia, Basilicata, Sardegna
1 in Friuli - Venezia Giulia, Trentino - Alto Adige, Umbria, Marche,
Calabria, Sicilia
0 in Valle d’Aosta, Liguria, Abruzzo, Molise, Campania
INTERVISTA
A MARIO
MATASSI
- Ambiente e sviluppo: esiste oggi un conflitto?
«C’è, perchè è fisiologico ed è diventato anche patologico. È praticamente
inesorabile che ci sia un confronto, meno che debba sempre nascere un
conflitto. Sta all’uomo trovare forme meno divergenti, tentando di non far
prevalere troppo spesso le ragioni dell’interesse, parola che si presta a
mille suggestioni semantiche. Scienza e tecnologia non ovviano sempre
a questo».
- Lo “sviluppo sostenibile” è applicabile alla realtà? «Se è accettabile la definizione della Commissione Brundtland delle
Nazioni Unite (1987), ovvero “Sviluppo che consente la soddisfazione
di bisogni economici, ambientali e sociali delle attuali generazioni senza
compromettere lo sviluppo delle generazioni future” direi proprio di sì,
nonostante i tentativi maldestri di qualcuno».
- L’ambientalismo può degenerare in “fondamentalismo
ambientalista”?
«Il “fondamentalismo ambientalista” è diventato tale anche perchè
l’ambientalismo, nell’accezione più alta del termine, è stato, diciamo
negli ultimi quarant’anni (quelli ai quali posso fare riferimento come
testimone-operatore), destituito, deprezzato, depauperato, quando non
irriso ed escluso dalle decisioni che contavano. Bisognerebbe ricucire
le forze migliori degli schieramenti e dar luogo a un movimento ampio e
incisivo, capace di sottrarsi alle logiche degli interessi di parte. Credo che
sia arrivato il momento, con o senza Grillo».
- Quali sono il ruolo e la responsabilità della politica?
«Ingrato e non sempre remunerativo il compito di chi deve prendere
decisioni di vasta portata (sono sotto gli occhi di tutti i casi più recenti,
locali e nazionali). Colgo, però, in molti politici una notevole pregiudiziale
nei confronti del sapere ecologico e una spiccata attrazione verso quello
economico».
- La “coscienza” dell’opinione pubblica sta cambiando? Si sta
ripensando ad alcuni temi e ad alcune scelte? Un esempio su
tutti, il nucleare.
«Se sta cambiando, non incide. Ha poco peso, perchè rimangono troppe
resistenze e reticenze in quella parte della cittadinanza che potrebbe
avvalersi di una maggior informazione, con gli strumenti opportuni. C’è
troppo scollamento, anche ideologico, tra chi governa e chi è governato;
c’è troppa inerzia, anche qui da noi, in chi potrebbe contribuire a una
crescita culturale, prima di tutto, diversa. C’è poi un’insinuante tendenza
all’indifferenza querula che finisce per ammorbare quasi tutto.
Quanto al nucleare, è inutile invocarlo quando non si è disposti a un
consumo critico, basato sulle regole delle “quattro erre”: riduzione,
riutilizzo, riciclo, rispetto».
- Si parla spesso di “sindrome di Nimby” riferendosi
all’atteggiamento di protesta di residenti e comitati contro la
realizzazione di particolari opere d’interesse pubblico. Secondo
una statistica, tuttavia, risulta che nella maggior parte dei Paesi
europei la tensione si è ridotta grazie a migliori strumenti di
partecipazione e consultazione popolare. L’Italia è indietro da
questo punto di vista?
«Sono arrivato alla conclusione che più della “sindrome di Nimby” siamo
affetti da quella della “cornucopia di Pandora”, che vorremmo sempre
colma e che, invece, tende a svuotarsi per gli eccessi d’uso a cui l’abbiamo
sottoposta. Chi partecipa alla costruzione di un rapporto uomo-ambiente
credibile è ancora minoritario e forse lo sarà ancora per molto, se non
si torna al paradosso di Francis Bacon: “Alla natura si comanda solo
ubbidendole”».
GIOVANNI STOCCO
AMBIENTE E SVILUPPO
SARANNO
I TEMI PROTAGONISTI
DEL PRIMO APPUNTAMENTO DI
CROSSROADS!
VEDI A PAGINA 12
INDUSTRIE E AMBIENTE
CHIMICA ED INQUINAMENTO:
TRA AMBIENTALISMO E SVILUPPO
Controlli pressanti e tecnologie sempre più sviluppate per garantire la
sicurezza dei cittadini della Bassa Friulana. È quanto afferma Alfonso
Nardelli, 48 anni, a Cervignano dal 1990, “chimico puro”, come si definisce
non senza una punta di orgoglio. Il nostro intervistato lavora alla Serichim
R&D Company, che assieme alla Caffaro, alla Spin e alla Sapio costituisce il
panorama chimico-industriale di Torviscosa.
- Quali attività svolgete attualmente a Torviscosa?
«L’attività della Serichim, nata dalla Divisione Ricerca della Caffaro (oggi società
indipendente solo in parte partecipata da Caffaro), consiste nella ricerca e nello
sviluppo di nuove vie di sintesi di composti chimici, e nella loro applicazione alla
produzione industriale, sia per il gruppo Caffaro sia per conto di altre società
nazionali ed internazionali. Oltre a questi servizi, la Serichim si occupa anche dello
sviluppo di processi industriali, dell’applicazione di metodologie analitiche per
migliorare processi esistenti, nonché di analisi e bonifiche ambientali».
- Proprio a questo proposito, vorrei che parlassimo del rapporto tra
chimica e ambiente, con particolare riguardo alla nostra zona.
«Come è abbastanza noto all’opinione pubblica della Bassa Friulana, il problema
più grosso degli anni passati è stato quello della contaminazione da mercurio,
spesso citato come una “bomba ecologica” per l’ecosistema delle lagune di Grado
e Marano. Dagli anni del fascismo la SAICI prima, la Chimica del Friuli e la Caffaro
poi hanno utilizzato questo metallo pesante per la produzione industriale della
soda e del cloro, scaricando i reflui contaminati dal mercurio nei corsi d’acqua,
e contribuendo così all’inquinamento della laguna. Bisogna precisare che, mentre
ciò accadeva, non esisteva una precisa legislazione in materia, né si conoscevano
gli effetti del mercurio sulla salute umana o sull’ecosistema in cui veniva riversato.
Dagli anni 70-80, quando si iniziò a comprendere che l’inquinamento da mercurio
poteva avere pesanti ripercussioni sulla salute umana, le normative ed i controlli
divennero più rigorosi e severi, anche sulla scorta di pressioni più o meno
giustificate da parte dell’opinione pubblica. Ricordo sempre che, fino a non molti
anni fa, percorrendo il fiume Aussa da Cervignano alla foce, alla confluenza con
il canale Banduzzi (proveniente da Torviscosa), il colore dell’acqua mutava da
verde smeraldo ad un poco rassicurante color “Coca Cola”, dovuto agli scarichi
dell’impianto della cellulosa (oggi chiuso). Quella colorazione, causata dalla
massiccia presenza di composti organici, di per sé poco o nulla nocivi, aveva però
un impatto devastante sull’opinione della gente».
- Fin dove è giustificata, allora, la preoccupazione ambientale?
«Possiamo dire che attualmente, in Friuli, non esiste un’emergenza ambientale.
È vero, in parte stiamo ancora pagando le conseguenze di comportamenti
sconsiderati negli anni passati. Un altro esempio: anni fa, vicino ad Udine operava
un’azienda di lavorazioni galvaniche, presunta responsabile della contaminazione
da cromo della falda acquifera. Attualmente, la concentrazione di cromo nelle
acque sotterranee tra Udine e Santa Maria la Longa è a livello di allarme, e pian
piano questo inquinamento potrebbe arrivare anche fino a Cervignano.
Nonostante questo, bisogna dire che negli ultimi anni l’attenzione alle problematiche
ambientali è molto cresciuta, da parte delle autorità, delle aziende e soprattutto da
parte dei lavoratori dell’industria chimica, dei sindacati o dei semplici cittadini del
circondario. Oggi, le grandi aziende chimiche hanno i riflettori talmente puntati
addosso da non potersi permettere neppure il minimo errore. Nella nostra realtà
abbiamo degli esempi quasi quotidiani: al minimo “odore” sospetto iniziano le
telefonate dei cittadini e le visite dei carabinieri. Paradossalmente, credo che il
rischio più grosso per l’ambiente non venga più dalla grande azienda chimica,
quanto piuttosto da comportamenti poco accorti di artigiani o di piccole aziende,
meno visibili e perciò meno controllate».
- Mi sembra significativo. In un certo senso, quindi, c’è un eccesso di
zelo?
«Ti racconto un altro aneddoto: qualche tempo fa, mentre viaggiavo in autostrada,
notai un’azienda dai cui impianti si sollevava un’enorme nube bianca. Sulla
costruzione, un enorme cartello rassicurava la popolazione: “Da queste ciminiere
fuoriesce esclusivamente vapore acqueo”. Erano solo torri di raffreddamento che
emettevano in atmosfera dell’innocuo vapore acqueo: se questo non è eccesso di
zelo…pur di tranquillizzare la popolazione!
È chiaramente necessario porre attenzione alla questione ambientale, ma certe
volte si eccede, spesso in buona fede, talvolta anche a scopo di strumentalizzazione
politica. In Italia, la sostenibilità ambientale non va di pari passo con quella
economica: per un’azienda che vuole produrre utili ragionevoli, è ormai
conveniente chiudere gli impianti nel nostro paese ed aprirne di nuovi nei paesi
dell’Est europeo o dell’Asia, dove le legislazioni in termini di ambiente e sicurezza
dei lavoratori sono molto più permissive. Così facendo si sposta il problema, ma il
bilancio dell’inquinamento globale non viene modificato. I Verdi e gli ambientalisti
hanno certamente una responsabilità in questo fenomeno: non è possibile dire
sempre “no” a priori, senza proporre soluzioni alternative. Questo è vero per
l’industria chimica così come per il trattamento dei rifiuti urbani: in Austria e
nei paesi del Nord Europa, patria dei Verdi, esistono termovalorizzatori costruiti
con tecnologie avanzatissime, che dimostrano come sia possibile coniugare
sostenibilità ambientale e progresso. Certo, ci vuole una volontà politica, che in
Italia purtroppo manca».
- Ritornando alla Bassa Friulana, qual è la situazione attuale? Secondo
lei i controlli sono sufficienti?
«Credo di sì. Nella nostra zona esiste il Consorzio di Depurazione della Laguna,
che si occupa del trattamento delle acque di scarico di parecchi comuni della
Bassa Friulana e di alcuni complessi industriali. Il Consorzio esercita per le
industrie anche un controllo a monte, nel senso che non è possibile convogliare
alla depurazione qualsiasi tipo di refluo, ma vengono accettati solo scarichi che
rispettino precisi limiti di concentrazione di sostanze pericolose, costringendo le
aziende a provvedere direttamente ad un primo abbattimento degli inquinanti.
Ai controlli degli organi istituzionali si affianca oggi l’attività di “vigilanza” di comitati
spontanei e di associazioni, tra cui la ben nota Laguna 21, che propongono
soluzioni per migliorare la situazione del nostro ambiente.
Inoltre, ogni qualvolta si insediano nuovi processi industriali, si effettuano studi
dei rischi, simulando le situazioni di emergenza che potrebbero verificarsi e
proponendo le possibili soluzioni per prevenire incidenti. Così, per esempio,
considerando una reazione chimica, si simulano gli effetti derivanti da una perdita
di controllo della stessa in un reattore, e si possono così inserire nel progetto più
sistemi di sicurezza (valvole di rottura, impianti di raffreddamento più efficienti,
etc)».
- E per quanto riguarda il problema mercurio?
«Attualmente, le normative in materia sono piuttosto severe. Come immaginerai,
non è possibile quantificare con esattezza gli effetti del mercurio sull’ecosistema e
sull’uomo, ma da alcuni studi dell’ARPA sui mitili nella laguna di Grado e Marano
non sono state riscontrate sostanziali differenze tra le concentrazioni di mercurio
allo sbocco dell’Aussa-Corno in laguna e in altre zone dell’alto Adriatico, quelle a
Nord di Grado e a Sud dell’Isonzo, per intenderci. Lo stesso fiume giuliano, inoltre,
costituisce una fonte naturale di inquinamento da mercurio, in quanto recettore
del fiume Hidria, nelle cui acque erano riversati i reflui delle omonime miniere, in
Slovenia, dove un tempo veniva estratto proprio il metallo “incriminato”».
- Dunque, dalle sue parole, nulla di cui preoccuparsi…
«È ovvio che tutti noi vorremmo vivere in un ambiente incontaminato. Ci sono
stati anni in cui le aziende hanno pensato solo agli utili, senza curarsi dei danni
che potevano arrecare all’ambiente, ed è innegabile che questo rischio, seppure
in misura minore, esista anche ai giorni nostri. Per come sono impostate la nostra
economia e la nostra vita quotidiana, però, politici ed amministratori dovrebbero
porsi anche un altro problema: quello del rapporto tra profitto industriale e
sostenibilità ambientale. Perché una cosa è certa: non è possibile continuare a
chiudere industrie in Italia».
ALESSANDRO MORLACCO
«IO, DISOCCUPATO PER FORZA»
Intervista a Cesare Paron, ex operaio della S. Gobain
Cesare Paron ha 48 anni, abita a Perteole, è un ex-dipendente della fabbrica
S. Gobain, la cui apertura risale al 1937; al momento è disoccupato.
Abbiamo chiesto la sua opinione riguardo al problema delle fabbriche,
nell’occhio del ciclone quando si parla di inquinamento e ambiente, ma
spesso insostituibile fonte di lavoro.
- Quanto è durata la sua esperienza di lavoro alla S. Gobain?
«Ho iniziato a lavorare lì nel 1995, quindi è stato il mio posto di lavoro per 11
anni».
- Come può descrivere, dal suo punto di vista di ex-dipendente, la
chiusura della fabbrica?
«La decisione è stata presa unilateralmente e di certo uno dei motivi principali è
stata la volontà di togliere un’industria da quello che ormai è considerato centro
di Cervignano. Il problema, a mio parere, è la mancanza di una zona industriale
nella nostra città».
- In che modo la chiusura di una fabbrica cambia la vita dei suoi
dipendenti?
«Di sicuro la chiusura della S. Gobain ha scombussolato la vita di circa 60
persone che lavoravano al suo interno. Alcuni sono riusciti ad arrivare alla
pensione, per età anagrafica, altri hanno dovuto ricominciare da capo e cercare
un nuovo impiego. La fabbrica costituiva una fonte di sicurezza professionale:
per molti gli stipendi erano ormai consolidati dopo anni di impiego, senza
parlare del rapporto di conoscenza e fiducia che si era instaurato con il tempo.
Inoltre la collocazione della fabbrica era una comodità per quasi tutti i dipendenti,
che abitavano a pochi km da distanza, e questo senza dubbio influiva anche dal
punto di vista ambientale (per esempio, la si poteva raggiungere in bici)».
- A proposito di inquinamento, com’era l’impatto ambientale della
S. Gobain? Influiva negativamente sull’ambiente?
«La fabbrica aveva certamente dei difetti, ma ci sono delle normative che, se
rispettate a dovere, rendono l’inquinamento pari a zero, sebbene si trattassero
anche materiali tossici e ci fosse il problema dello smaltimento. È vero, però,
che anche la stessa struttura della fabbrica aveva un grande spazio verde attorno:
spesso noi stessi incontravamo fagiani e lepri prima di entrare a lavorare».
- Cosa ne pensa del tema molto attuale dell’ambientalismo, avendo
provato sulla sua pelle come la chiusura delle fabbriche possa essere
soprattutto un’imponente perdita di posti di lavoro?
«L’interesse per l’ambiente è senz’altro giusto: non abbiamo ricevuto una
buona eredità da chi ci ha preceduto, e andando avanti di questo passo forse
la lasceremo ancora peggiore. Però questo impegno rischia, a volte, di essere
strumentalizzato, mentre a mio parere sarebbe utile trovare una via di mezzo che
possa mettere d’accordo tutti. Ritengo che sia più giusto guardare alle piccole
cose, prima di pensare alle grandi opere: per esempio, privilegiare mezzi
pubblici (che però sono carenti, almeno nel nostro territorio) o bicicletta, e
lasciare a casa di più l’automobile.
Concludendo: visto e considerato che del lavoro abbiamo bisogno e quindi
non possiamo eliminare le fabbriche e le industrie, l’impegno di ognuno deve
guardare a costruirle con rispetto verso il mondo che ci circonda e a nostra
misura, e non con il solo fine del profitto».
SOFIA BALDUCCI
«IL PROBLEMA? L’IMMOBILISMO
DELLE ISTITUZIONI»
Intervista a Paolo Tonello, ingegnere ambientale
Bonifiche ambientali spesso bloccate dalla burocrazia e dai ricorsi.
E intanto l’inquinamento avanza. Abbiamo chiesto il parere di Paolo
Tonello, 33 anni, ingegnere ambientale, impegnato presso la Direzione
Centrale Ambiente e Lavori pubblici della Regione Friuli Venezia Giulia.
La nostra discussione sul rapporto tra ambiente ed ambientalismo parte da
argomenti in parte già affrontati, che vogliamo approfondire dando voce a chi
quotidianamente si occupa di “rimediare” alle piccole o grandi scorrettezze
ambientali. «La nostra attività - esordisce Paolo - consiste essenzialmente
nella bonifica di siti industriali o commerciali che presentino problemi di
inquinamento». «Per fare un esempio - prosegue l’ingegnere - in provincia di
Pordenone il nostro ente si sta occupando di trattare dei terreni inquinati da
tetracloruro di etilene, una sostanza chimica che ha raggiunto anche la falda
acquifera». Paolo ci fa notare che, in questo caso come in altri, c’è stato un
problema di giurisdizione: attualmente, la bonifica è di competenza regionale,
ma prima del 2006 la responsabilità ricadeva sui comuni.
Questo fa sorgere spontanea una domanda: quanto incide, oggi, la burocrazia
sulle politiche ambientali? La risposta di Paolo non si fa attendere. «È una mia
opinione personale, ma non si può certo dire che il Ministero dell’Ambiente
brilli per efficienza: ad ogni emergenza ambientale, si nominano commissari
e supercommissari, ma restano gravi problemi nel definire le precise
competenze. L’attenzione per l’ambiente è certamente nobile, ma non bisogna
dimenticare di definire con esattezza le responsabilità».
Da quanto capiamo, attuando politiche ambientali incaute, si rischia di cadere
in due eccessi opposti: o mettere in pratica una vessazione eccessiva nei
confronti delle aziende, oppure lasciare che le responsabilità si perdano nelle
aule dei tribunali, tra ricorsi e contro-ricorsi. «Il primo caso - riprende Paolo
- è probabilmente quello della Caffaro di Torviscosa, e dell’inquinamento
da mercurio delle lagune di Grado e Marano». La zona, assieme all’area
portuale di Trieste, è considerata infatti “sito di interesse nazionale”, e quindi
controllata direttamente del Ministero dell’Ambiente. Le analisi ambientali in
laguna sono state effettuate dal commissario straordinario per l’emergenza e
non sono state validate dall’Arpa, mentre il canale Banduzzi, i cui fondali sono
contaminati dal mercurio, è ancora sotto sequestro.
Nonostante i risultati apparentemente confortanti di alcuni studi tossicologici,
permane l’incertezza sugli effetti che il metallo pesante possa avere a lungo
termine, soprattutto concentrandosi ai vari livelli della catena alimentare.
«Attualmente - spiega Tonello - nell’area non è in corso alcuna operazione
di bonifica, perché nessuno si prende la responsabilità di intervenire a
sbloccare la situazione. Nonostante ciò, sono in atto controlli e politiche
restrittive nei confronti delle aziende: gli incaricati del ministero hanno
dichiarato pubblicamente che preferiscono ricevere valanghe di ricorsi al Tar,
con l’accusa di vessazione, piuttosto che incorrere nel rischio di un avviso di
garanzia per non aver ottemperato pedissequamente ai loro obblighi».
Sorprendentemente simili sono gli effetti degli eccessi nell’altro senso: spesso
capita che le bonifiche siano bloccate dal ricorso all’autorità giudiziaria. La
parola di nuovo all’ingegnere: «Questo è il caso, per esempio, della falda
acquifera superficiale a sud di Udine. Nel ’97, analisi sull’acqua hanno
mostrato la presenza di cromo esavalente, un elemento cancerogeno, ma
la ditta di lavorazioni galvaniche indicata come responsabile ha intrapreso
una serie di azioni giudiziarie». «Il problema - prosegue Paolo - è che così
facendo si perdono anni preziosi per le bonifiche, permettendo una diffusione
deleteria degli inquinanti».
Un altro aspetto interessante del problema riguarda l’apertura di nuovi
impianti industriali. Come è noto, nella fase iniziale della procedura il progetto
deve essere sottoposto alla v.i.a., la valutazione di impatto ambientale, dove
sono presi in considerazione gli effetti che la nuova industria potrà avere
sull’ambiente e vengono studiate misure per prevenire le possibili conseguenze
negative. «Paradossalmente - incalza Paolo - da parte degli ambientalisti e
della popolazione c’è un’altissima attenzione verso i nuovi impianti, ma
nessuno pensa all’inquinamento prodotto da installazioni industriali obsolete.
Un esempio? La famigerata ferriera di Servola, che da sola produce una quota
molto rilevante nel computo delle emissioni nocive dell’intera regione, ma che
nessuno si sognerebbe di far chiudere». A nostro parere, l’ostacolo più grande
è l’immobilismo di certe istituzioni, che sulla scorta di pressioni ambientaliste
sembrano costrette a trascurare il bilancio tra rischi e benefici. «Nel nostro
lavoro di bonifica di siti inquinati - conclude Paolo - non ci capita spesso di
suscitare l’interesse degli ambientalisti, interessati più che altro alle grandi
industrie ed ai progetti di nuove infrastrutture. Certo, è giusto sollevare il
problema ambientale, ma non è possibile alzare sempre i toni ed utilizzare
l’arma della magistratura per far valere le proprie esigenze».
ALESSANDRO MORLACCO
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la TAV?
Quando ero ragazzo io non si parlava mai di ecologia, di raccolta di rifiuti,
di inquinamenti. Oggi invece… Quando si presentarono nell’agone politico
i verdi, mi venne da ridere, talmente sentivo ancora lontano da me questo
problema dell’ecologia. Oggi invece…
Oggi tutto diventa problema di ecologia; i consumi sviluppati al massimo creano
un’immensità di cose da gettare e da rifiutare, enormi e diffusi inquinamenti
che colpiscono in vari modi la nostra vita. Il problema è certamente grosso, le
soluzioni difficili, ma non si può smettere di vivere perché ci sono dei problemi!
Eppure c’è qualcosa che non quadra.
Ci si accorge che lo sviluppo dell’uomo richiede sempre anche un conto negativo da pagare e i casi sono due:
o si entra nel compromesso, cercando le migliori soluzioni ai problemi, o ci si ferma e si rinuncia all’ “andare
avanti”. Padre Zanotelli lo dice da molti anni: se ogni uomo della terra volesse vivere come viviamo noi in Europa
e negli Stati Uniti (e ne avrebbero tutto il diritto!), bisognerebbe avere due altri mondi, oltre al nostro. Uno per
estrarre le risorse e uno per depositare tutti gli avanzi del nostro cosiddetto “progresso”. Quale strada scegliere?
Fermarci o andare avanti?
A Trieste c’è la ferriera di Servola che crea inquinamento, ma come si fa a chiudere il posto di lavoro di tanta gente?
Bisogna affidarsi a nuove ricerche: sarà ben possibile trovare la soluzione al problema delle scorie nell’aria!
C’è la possibilità di creare una fabbrica a Torviscosa, ma è un cementificio: inquinamento, non si deve fare! Ma
io dico: il cemento è necessario e da qualche parte bisogna per forza produrlo, oppure dobbiamo accettare di
ritornare indietro e costruire le nostre abitazioni con pietra, calce e mattone.
Forse è possibile trovare dei mezzi per purificare l’ambiente!
Ahi! Arriva la TAV! Le nazioni hanno deciso di far correre questa arteria ad alta velocità attraverso l’Europa: la
fermeremo noi di Villa Vicentina e di Strassoldo? Alternative non sembrano esserci, a meno che non la si possa far
volare o farla correre sotto terra: (ma da noi, con l’acqua a qualche spanna sotto il livello stradale, non sembra
proprio possibile). E allora? Si può sempre andare a passo di cavallo.
Il compromesso sembra l’unica strada.
Non si è voluto il nucleare. È vero, al termine della lavorazione presenta delle sostanze che richiedono molti secoli
per stabilizzarsi. Forse si può fare, ma prima bisogna trovare il sito profondo nel quale stoccare le scorie! Sempre
di compromesso si tratta. La paura qui non è buona consigliera, ma occorre affidarsi necessariamente a dei
tecnici. E se non si fa, occorre ridurre la fame di energia o trovare altre tecnologie meno pericolose, soprattutto
per il futuro.
E i rifiuti? Nessun sindaco è disposto ad accogliere nel proprio comune il sito di una discarica. Meno male che i
nostri scouts, in accordo col Comune, hanno saputo trasformare la vecchia discarica di Cervignano in un luogo
ideale per passeggiate e relax! Oggi abbiamo tecniche di lavorazione dei materiali ben più sicure e sofisticate di
ieri per garantire una vita sana per tutti, che è un bene sommo.
Qualche anno fa si è molto parlato dell’inquinamento elettromagnetico. Era semplice terrorismo, o si tratta
di vero pericolo? E perché oggi nessuno ne parla? Si può benissimo superare il problema non usando e non
mettendo in vendita i telefonini. Potrebbe essere anche utile e bello, ma è possibile?
Due cose, comunque, si devono fare: 1) affidare alla ricerca la semplificazione dei problemi: avere meno scorie e
rifiuti, più tecnologia che affronti seriamente i problemi; 2) che ognuno di noi, per quanto è capace, semplifichi
al massimo la sua vita.
Credo che la paura, comunque, non sia una buona consigliera. Non ti pare?
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Graphic 2 - Cervignano
a cura di Andrea Folla
di Marco Gerin
Menù di Pasqua per 4 persone
Antipasto:
Ovetti di quaglia profumati con cappuccina
Ingredienti:
16 uova di quaglia,
200 g d’insalata cappuccina,
Una tazza di maionese,
2 cucchiai di panna montata,
4 cucchiai di succo d’arancia,
sale, pepe bianco e noce moscata (facoltativa)
Procedimento:
Rassodare le uova di quaglia, sgusciarle e tagliarle a metà.
Lavare bene l’insalata, asciugarla con cura e tagliarla a
striscioline molto sottili, disporla su di un piatto da portata
creando una specie di praticello. Sopra, distribuire i mezzi
ovetti di quaglia suddivisi quattro a quattro e disposti come
petali di fiori. Incorporare delicatamente la panna montata
alla maionese, diluirla con il succo d’arancia filtrato al colino.
Insaporirla con il pepe bianco e regolare il sale, metterla in
una salsiera e accompagnarla all’insalata.
A piacere, spolverare le uova con della noce moscata.
Primo:
Trofie al verde di Miramare
Ingredienti:
400g di trofie (in alternativa pennette)
150 g piselli (vanno bene anche surgelati)
4 piccole zucchine
Uno scalogno
Uno spicchio d’aglio
Un cucchiaio di prezzemolo tritato
Un cucchiaio di basilico tritato
Olio,sale e pepe
Procedimento:
Pulire e lavare le verdure. Scottare i piselli in acqua bollente
(che recupereremo per cucinare la pasta) per una decina di
minuti. Far soffriggere nell’olio l’aglio e lo scalogno tritati.
Unire i piselli sbollentati, le zucchine tagliate a rondelle, 2
cucchiai di acqua, il sale, il pepe e le erbe aromatiche.
Mantenere caldo il sugo e cuocere la pasta, unire il tutto e
servire caldo.
Secondo:
Agnello con carciofi
Ingredienti:
1 kg di agnello in pezzi
50g di prosciutto crudo
6 carciofi puliti e tagliati a spicchi
1\2 cipolla
Uno spicchio d’aglio
1\2 bicchiere di vino bianco
Sale pepe e olio
(per il brodo vegetale va bene anche il dado)
Procedimento:
Tritare aglio, cipolla e prosciutto e rosolarli in olio, unire
l’agnello (già tagliato a pezzi uguali) e farlo dorare. Bagnare
con il vino, lasciare che evapori, poi aggiungere i carciofi.
Salare e pepare e lasciar cuocere a fuoco medio bagnando
di tanto in tanto con il brodo. A cottura ultimata spolverare
con un ciuffo di prezzemolo tritato e spruzzare poco succo
di limone.
Sorbetto alla mela verde
Si prepara direttamente in dei bicchieri da vino rosso molto
capienti: 2 palline di gelato alla mela verde o vaniglia e una
spruzzata di calvados.
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Sito dell’omonima associazione onlus, presente in regione dal 1990 per
promuove il sostegno ai celiaci ed alle loro famiglie sui problemi dietetici
e psicologici inerenti la celiachia e sensibilizzare le strutture politiche,
amministrative e sanitarie sulle problematiche ad essa correlate. La celiachia
è un’intolleranza permanente al glutine, sostanza proteica presente in avena,
frumento, farro, kamut, orzo, segale, spelta e triticale.
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programmi in corso e una serie di video relativi a missioni o presentazioni.
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Sito italiano interamente dedicato al mondo del cinema. Suddiviso in canali
tematici, fornisce informazioni, novità e recensioni sui films in uscita.
Dessert:
Dolce di ricotta al caffè
Ingredienti:
500 g ricotta
Una tazza di latte
100 g zucchero
3 tazzine di caffè forte
2 bicchierini di rum
4 biscotti di pasta frolla sbriciolati
Un pezzetto di cedro candito a pezzettini
Per guarnire: caffè in chicchi interi
Procedimento:
Rendere spumoso il composto ottenuto con 500 g di ricotta
ed una tazza di latte. Amalgamare 100 g di zucchero, 3 tazzine
di caffè ben forte, 2 bicchierini di rum, 4 biscotti di pasta
frolla ben sbriciolati, un pezzetto di cedro candito ridotto
a pezzettini. Distribuire il tutto in 6-8 tazze da macedonia o
in coppe, guarnire con chicchi di caffè interi e collocare in
frigorifero. Va servito freddo.
www.oliviero.it
Interessante negozio on line dedicato al settore dell’abbigliamento sportivo.
È un buon sito per quanto riguarda attrezzature e tempo libero.
www.cites.org
Cites è un accordo internazionale tra i governi: si tratta della Convenzione
sul commercio internazionale delle specie in via d’estinzione di flora e
fauna selvatiche. Il suo obiettivo è quello di garantire che il commercio
internazionale di animali e piante selvatici non minacci la loro
sopravvivenza.
Toni e Meni
di Luca “snoop” Di Palma
fonte: Bruno Fontana, Cervignano austriaca
di Gennaro Riccardi
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Bruno Morbin (indicato dalla freccia) nella sua
formazione di basket; é il 1947
IL CUORE DELLO
SPORTIVO
È STATO IL PRECURSORE DEL BASKET IN CITTÀ
HA GAREGGIATO AI CAMPIONATI NAZIONALI DI CANOTTAGGIO
SI È ALLENATO CON I MIGLIORI ATLETI ITALIANI
INTERVISTA ESCLUSIVA A BRUNO MORBIN
Classe 1917, 91 anni di grinta e di ricordi e alle spalle una vita da
sportivo. Il signor Bruno mi accoglie in casa sua, dove, sul tavolo della
cucina, ha preparato ritagli di giornale e vecchie foto, a testimoniare
ciò che mi racconta nell’intervista.
cervignanese di questo sport; mi ricordo che ai miei tempi le trasferte
si facevano in bicicletta! Era tutto molto diverso rispetto ad oggi, non
venivamo pagati niente e il massimo era un caffè offerto all’arrivo.
Eravamo un gruppo di ragazzi e il nostro allenatore era un farmacista, il
dottor Gualtiero Morpurgo. Purtroppo con la guerra tutto cambiò, molti
furono chiamati alle armi e non tornarono più e Morpurgo, che era ebreo,
fu vittima delle leggi razziali.
Durante il periodo in cui ero in servizio militare a Bari ho giocato nella
squadra locale, nel campionato di serie B. Le partite mi hanno portato
anche a girare tutta la Sicilia, sono stato a Monreale, a Palermo… Fino
al 1943 ho sempre giocato, non sono mai riuscito a stare fermo. Dopo la
guerra sono ritornato a Cervignano, ho riunito un gruppo di circa venti
ragazzi e ho sistemato il vecchio campo sportivo di via Del Zotto; inoltre,
ho cercato di ricostruire il basket cervignanese, la cui squadra era stata
duramente colpita dalla guerra».
- Ha mai pensato di fare l’allenatore o il dirigente di una squadra
di basket?
«Ho allenato solo una squadra di donne, poi no, non ci ho mai pensato.
Era molto meno faticoso fare il giocatore che il dirigente o l’allenatore».
- Infine, nel 2005, quella che si può definire la sua ultima
impresa sportiva...
«Quell’anno è arrivata anche a Cervignano la fiaccola dei Giochi Olimpici
della gioventù europea che si tenevano a Lignano; io ho avuto l’onore di
percorrere come tedoforo l’ultima tappa in Piazza Indipendenza».
SILVIA LUNARDO
- Nel 2003 l’Unione Nazionale Veterani dello Sport l’ha premiata
come ex atleta. Quali sono state le motivazioni?
«Sono sempre stato uno sportivo, ho iniziato a praticare sport già negli
anni Trenta. All’età di 12 anni ho cominciato a giocare a basket, anzi, quella
volta si chiamava pallacanestro; si giocava in un campo di ghiaia dietro
le scuole di via Roma. Sono stato il primo giocatore di pallacanestro di
Cervignano! Poi ho praticato per 2 anni il canottaggio e, successivamente,
l’atletica leggera, in particolare i 100 metri e il lancio del giavellotto».
- Lo sport l’ha portata a gareggiare fuori dal Friuli, addirittura
a Milano…
«Sì, quando facevo canottaggio. Era il 1932, avevo quindi 15 anni, e
insieme ad altri ragazzi della provincia di Udine sono arrivato a gareggiare
a Milano, all’idroscalo. Mi ricordo che gli allenamenti erano alle 5 del
mattino e si facevano 16 chilometri al giorno lungo il fiume Ausa. Appena
finivo di allenarmi, prendevo la bici e correvo a lavorare a Monfalcone,
alla Solvay, un’industria di solventi».
- Grazie all’atletica, invece, è arrivato a Roma…
«Le mie specialità erano i 100 metri e il giavellotto, che mi hanno portato
a gareggiare ai raduni nazionali di atletica al Parioli, a Roma».
- Lo sport che però le ha dato più soddisfazione è la pallacanestro.
Cosa ci racconta di questa sua passione?
«Come ho già detto, ho iniziato a giocare a 12 anni, mi è sempre piaciuto
lo sport, e la pallacanestro in particolare. Sono stato il primo giocatore
PROGETTO
NELLE GIOVANILI
DELL’ABC BASKET:
IL 3° TEMPO
UN MODELLO DA SEGUIRE,
UNA SFIDA EDUCATIVA:
L’INIZIATIVA DI ADRIANO PALIAGA
Adriano Paliaga, allenatore della squadra under 13 dell’ABC di Cervignano,
ha voluto portare nel mondo del basket la pratica del terzo tempo,
consuetudine già in uso da anni nel rugby e da poco introdotta nel calcio.
Ma di cosa si tratta?
In questo tempo i giocatori non si danno battaglia, ma si danno
semplicemente la mano in segno di rispetto e per congratularsi della
partita, appena conclusa, con il proprio avversario, fra gli applausi dei
tifosi.
Nello specifico del rugby, i giocatori, dopo aver fatto la doccia, si
incontrano e si scambiano regali e pacche sulle spalle, mangiando un
boccone e brindando assieme. Magari proprio contro l’avversario che
per tutta la partita ti ha placcato duro e poi battuto. Nel terzo tempo,
le due squadre diventano una sola: le distanze, non solo geografiche, si
annullano, l’agonismo che le divideva scompare e diventa possibile quella
crescita derivante dal confronto con il diverso che lo sport dovrebbe
sempre promuovere.
Non importa se questo avviene in giacca e cravatta, come dopo una partita
di alcuni tornei prestigiosi, o in tuta fuori da un campetto di serie minore:
il terzo tempo è una vera e propria istituzione di questo sport.
Questa prassi è stata introdotta da due anni nel campionato giovanile
dal coach Paliaga, che ha ideato vari modi per diffonderla. Innanzitutto,
quando la squadra avversaria arriva negli spogliatoi della nostra palestra,
si trova delle caramelle come benvenuto. Prima dell’inizio della partita, le
squadre entrano in campo e davanti al pubblico salutano con l’urlo per
la squadra avversaria, gesto che era già praticato in questo sport negli
anni ’80. Da quest’anno, prima dell’urlo, un dirigente invita ad applaudire
un bel passaggio o un bel canestro, anche se effettuato da un giocatore
della squadra avversaria; inoltre, il mister ci racconta che spesso i primi
ad applaudire sono proprio i giocatori in panchina. A fine partita c’è il
saluto fra le due squadre al centro del campo che rappresenta il vero e
proprio terzo tempo del rugby. Il tutto si conclude, indipendentemente dal
risultato, con un rinfresco offerto dai genitori dell’ABC, oltre che ai propri
figli, anche alla squadra avversaria e relative famiglie.
L’allenatore sottolinea come tutto ciò sia possibile perché, alle spalle dei
suoi ragazzi, ci sono genitori molto disponibili ed affiatati, indispensabili
per la riuscita di quest’iniziativa, e invita tutte le squadre del campionato a
copiare quest’idea, in modo da creare un clima più sereno nel campo da
gioco e fuori, auspicando, inoltre, un contributo dei giornali locali: con
una buona pubblicità, tale progetto potrebbe essere portato a conoscenza
della maggior parte degli addetti all’ambiente. Perché con un po’ di buona
volontà ed impegno, da parte di tutte le varie componenti del mondo dello
sport, si possano ottenere ottimi risultati.
SANDRO CAMPISI
La squadra under 13 dell’ABC di Cervignano
A CARNEVALE...
OGNI SCHERZO VALE!
Festa o pagliacciata:
l’opinione dei cervignanesi
Il proverbiale motto riassume in maniera assai efficace quella che è ed è
sempre stata l’essenza di questa festa popolare, antica quanto misteriosa
e affascinante. Partiamo allora proprio da qui per lanciarci nel nostro
viaggio fra riti antichi e feste odierne, dalle tradizioni locali al nostro
Carnevalfest cervignanese.
Il Carnevale nasce in epoca precristiana, come rito contadino della
stagione invernale teso a propiziare la fertilità dei campi e scacciare gli
spiriti maligni. Tradizioni di questo genere erano già attestate presso gli
Egizi e Greci, con giochi e riti in onore rispettivamente di Iside e Dioniso,
dei della fecondità e del rinnovarsi della vita. Nel mondo romano, feste che
richiamano l’odierno Carnevale erano i Saturnali, dedicati al dio Saturno
- divinità italica delle sementi -, durante i quali avvenivano banchetti
che spesso sfociavano in eccessi. Durante i Saturnali, infatti, tutto era
consentito: in particolare era in uso lo scambio dei ruoli, indossando gli
abiti altrui; gli schiavi, ad esempio, venivano serviti dai padroni e potevano
concedersi ogni libertà. Non mancavano le maschere: la cosa curiosa,
anzi, è che il termine latino per “maschera” era... persona (tra l’altro, di
origine etrusca)!
Con l’avvento dell’era cristiana, anche il Tempo di Carnevale entrò a far
parte delle pratiche liturgiche, come momento essenziale di riflessione e
riconciliazione con Dio in avvicinamento alla Quaresima. Il nome stesso
della festività, pure di origine incerta, pare che derivi dal latino carnem
levare, in relazione al giorno precedente l’inizio della Quaresima, in
cui cessava il consumo di carne. Le origini pagane di questa festa non
si persero però del tutto con l’affermarsi del Cristianesimo: spesso
le tradizioni antiche si integrarono con quelle moderne, altre volte
sparirono senza lasciare traccia. È però attestato che, durante il Medio
Evo e i secoli successivi, la Chiesa continuò a tollerare la presenza
degli antichi riti dei campi, di stampo appunto paganeggiante, già
caratterizzati comunque dall’uso di maschere, con funzione cerimoniale
e di esorcismo della morte, oltre che da un clima di festosa allegria, di
licenza comportamentale e di esagerazione.
Nel corso del Rinascimento, i festeggiamenti in occasione del Carnevale
furono introdotti pure nelle corti europee ed assunsero forme più
raffinate, spesso legate al teatro, al ballo e alla musica. La festa
carnevalesca raggiungerà il massimo splendore nel XV secolo, nelle
strade della Firenze di Lorenzo de’ Medici. Danze, lunghe sfilate di
carri allegorici e costumi sfarzosi segnano una svolta in questa festa,
amatissima nella città rinascimentale.
Oggi il Carnevale ha ovviamente perso la sua carica magica e religiosa di
rito della fecondità della terra, rimanendo una festa popolare percorsa
dal tema dello scherzo e del gioco, precedente il periodo di ascesi
che inizia con la Quaresima. In un certo senso, sono venute meno le
sue reali ragioni d’essere: le sue colorite (e colorate) manifestazioni
esteriori le conosciamo tutti, mentre è ormai scivolato nell’oblio il
nucleo tematico e il reale motivo che avevano portato alla sua nascita.
Per questo, la presenza di una festa del genere in una cultura del tutto
diversa da quella in cui era nata può far sorgere spontanea in alcuni la
domanda: «Ma questa chiassosa pagliacciata, che senso ha?». È vero
che il Carnevale sopravvisse nei secoli per la sua dimensione giocosa,
divertente, oltre che per l’affascinante idea di poter essere qualcun
altro tramite una maschera, stuzzicante soprattutto per la fervida
immaginazione dei bambini, ma è anche vero che il Carnevale divide
la critica, “spacca” l’opinione pubblica fra trasformisti-sostenitori e
austeri-denigratori. A pensarci bene, non saprei dire se sono più le
persone che conosco che amano il Carnevale o quelle che lo detestano:
da piccoli, è ovvio, tutti quanti ci siamo vestiti in maschera almeno una
volta, ma da grandi? Alcuni “fanatici” hanno continuato, profondendosi
anche nella creazione di mirabolanti carri allegorici, mentre altri hanno
smesso, sono passati dalla parte dei «troppo grandi o troppo timidi per
fare quelle cose», al massimo presenziando alle sfilate altrui. A questo
punto sarà facile dire che la scelta dipende dal carattere dell’individuo,
dalle personali inclinazioni che ci portano ad amare o meno la festa
dell’allegria sguaiata e dello scherzo sempre permesso; questo è
certamente vero, ma non ci sarà forse anche dell’altro? Non sarà forse
un problema culturale, una perdita o un fraintendimento delle origini
di tutto? Una perplessità di fronte a ciò che non capiamo che ci porta
a rifiutare il Carnevale, mentre una tendenza alla beffa e al gioco ad
accettarlo?
Per vedere cosa ne pensano i nostri concittadini sono andato a interpellarli
proprio durante la tradizionale sfilata, nella fredda domenica di febbraio
che anche Cervignano consacra al divertimento e alle maschere. Ecco di
seguito alcuni commenti che partecipanti e spettatori hanno espresso nel
corso dell’evento.
MARCO SIMEON
Giacomo Zanier, 15 anni:
«Non mi piace per nulla il Carnevale, trovo che
sia una festa sciocca e senza senso. Per meglio
dire, un senso sicuramente c’era in origine, ma
oggi non lo tiene presente nessuno: il senso
sarebbe “schiumarsi” e fare scherzi? Il Carnevale
non è altro che una scusa per poter fare baldoria
in libertà e senza regole, senza nessuno che si
stupisca o abbia qualcosa da ridire».
Una menzione particolare merita il sig.
P. Balli, di San Canzian d’Isonzo, cultore di
ciclismo d’epoca e artefice dell’ottocentesca
bicicletta di legno con cui si è presentato alla
sfilata:
«Per me il Carnevale è soprattutto un’occasione
per esibire i prodotti del mio artigianato, le
biciclette d’epoca che costruisco da solo e che uso
per partecipare a prestigiose sfilate in tutta Italia,
fra le altre quella di Viareggio. Oltre a questo c’è
ovviamente una passione profonda per la festività
in sé, che mi viene da un’antica e forte tradizione
familiare».
Daniela Burba, 16 anni, cowgirl del gruppo esploratori-guide:
«La sfilata è stata meglio di quello che credevo, visto il tempo
inclemente degli ultimi giorni e la conseguente defezione di alcuni
carri importanti. Noi come scout, comunque, vediamo quasi come un
dovere l’adesione al Carnevalfest, e in effetti il contributo dei gruppi
associativi cittadini è fondamentale per dare colore a questa festa,
peraltro assai importante per una città che non offre molte occasioni
di divertimento. Io personalmente amo partecipare alle sfilate, meno
assistervi; tanta gente invece non capisce l’essenza scherzosa e
allegra di questa festa e la snobba completamente».
Giulia Mari, 17 anni, in tenuta da
“Cappellaio Matto”
«Amo il Carnevale perchè è una festa
allegra, e io credo di essere una persona
molto solare. Coloro che lo criticano
lo fanno probabilmente per ragioni
caratteriali, perchè non sopportano
la confusione e le feste pubbliche, o
perchè si sentono a disagio con una
maschera indosso. La manifestazione
è senz’altro positiva per Cervignano;
anche quest’anno, nonostante il tempo
inclemente, l’affluenza di carri e gruppi,
oltre che di pubblico, è stata buona».
Fra gli spettatori d’eccezione ricordiamo gli
immancabili vigili urbani, guardiani efficienti della
sfilata. A titolo personale, dichiarano di non amare
molto la festività, ma, a causa del loro lavoro, sono
attivamente coinvolti nella sfilata:
«È senz’altro un evento molto bello per Cervignano,
tranquillo quanto a ordine pubblico e anche per
la viabilità tutto sommato abbastanza semplice.
L’unico problema è tenere uniti i carri durante la
sfilata: a volte non è facile e si procede a rilento, e
ciò provoca sempre animate proteste».
Daniel Margarit, Muscoli, che ha sfilato con la
moglie e il figlio piccolo:
«Io partecipo alla sfilata con la mia famiglia e
amo moltissimo questa festa, forse perchè ci sono
affezionato: per me la partecipazione alle sfilate è una
tradizione antica. Inoltre è divertente e la creazione
dei costumi può dare molta soddisfazione, se si tratta
di un lavoro ben fatto. Quella di Cervignano, lo dico io
che ho preso parte a molte sfilate in tutta la regione,
è senz’altro una manifestazione ricca e con buone
prospettive di accrescimento. È anche bella per la
sua genuinità, dal momento che i gruppi lo fanno per
passione, senza ricevere un compenso in denaro, come
avviene in altre città».
Fabrizio Facchinetti, 17 anni, il cavaliere nero del carro
“Alice nel paese delle meraviglie”:
«Il Carnevale è bello. Secondo me, inoltre, al giorno d’oggi ha assunto un
significato del tutto particolare: è come uno sfogo di gioia, un divertimento
illimitato, uno dei rari momenti durante l’anno che ci permette di mettere
da parte lo stress e darci alla “pazza gioia”. Riguardo alla sfilata, trovo che
questa sia stata meglio delle precedenti, con un’organizzazione migliore».
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VIAGGIO A
di Vanni Veronesi
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Ci sono persone che segnano per sempre la storia di un luogo,
diventando con esso un tutt’uno inscindibile. È il caso di Luigi
Chiozza e della villa, a Scodovacca, che ne ha preso il nome. Ho
la fortuna di visitarla [>fig.1] a metà dicembre, proprio quando
è in corso una mostra molto interessante intitolata La terra indagata e dedicata ai pionieri della ricerca scientifica applicata
all’agricoltura e all’allevamento in Friuli (vedi in fondo): un percorso che si snoda fra i grandi nomi della chimica ottocentesca,
da Louis Pasteur a Guglielmo Ritter, fino al nostro protagonista,
uno dei massimi scienziati a livello europeo. Ad accogliermi e
a guidarmi sono la dott.ssa Franca Cortiula, la dott.ssa Chiara
Maran e due ragazze assunte per la mostra, Marta Monferà e
Margherita Gimona: un ringraziamento a tutte e quattro è d’obbligo.
Quella che vi apprestate a leggere è una delle storie più affascinanti che ricordi la nostra Cervignano: un tuffo in un passato di
cui dobbiamo andare orgogliosi.
Luigi Chiozza: vita, opere e amicizie
Nato a Trieste il 20 dicembre 1828, Luigi Chiozza [>fig.2a] è rampollo di
una famiglia di grandi imprenditori di origine ligure, trasferitasi a Trieste
nel 1775 attratta dal porto franco. Erano anni di grande sviluppo economico: Trieste, porta d’Oriente e d’Occidente, vedeva arrivare genti da tutta
Europa (e non solo) e, assieme ad esse, le idee e le culture. È in questa
città straordinaria che Chiozza vive gli anni della sua giovinezza, per poi
formarsi nei suoi studi a Milano, Ginevra e soprattutto Parigi, dove ha
modo di lavorare nel laboratorio di Carlo Gerhardt, il padre della chimica
organica. Tornato a Milano nel 1854, diventa insegnante di chimica, per
poi dare le dimissioni dall’incarico quattro anni dopo, in concomitanza
con la morte della moglie Pisana di Prampero. Non è ancora chiaro il
motivo per cui lo scienziato, avviato ad una grande carriera - si sa che
fu il primo a sintetizzare una sostanza aromatica -, volle ritirarsi a Scodovacca, nella villa ereditata dalla madre; di certo, fu una scelta del tutto
meditata e non è casuale che proprio qui egli si sia dedicato a nuovi studi
scientifici legati all’agricoltura. In quei tempi, i campi del Friuli e di gran
parte dell’Europa erano attraversati da terribili malattie, come la pebrina
per il baco da seta (spesso l’unica fonte di sostentamento per le famiglie)
e la tignola, la filossera, la peronospora e l’oidio per la vite: veri e propri
flagelli che hanno falcidiato le piantagioni di gelsi e i vitigni europei. Ma
la situazione non si limitava a questi già gravi disastri: basti ricordare che
nei nostri campi gli aratri erano ancora quelli del XVI secolo, mentre negli
altri paesi era già in uso un aratro molto più pesante, capace di aumentare
la produttività. Chiozza interviene in questa direzione: dimostra che, con
opportuni investimenti, nelle sue campagne le famiglie coloniche sono in
grado di lavorare il doppio dei terreni rispetto a prima, e con maggiori
entrate; usa da pioniere i concimi chimici; è il primo italiano a introdurre
nel nostro paese una trebbiatrice. Nel 1865, inoltre, fonda a Perteole la
prima industria della Bassa Friulana, una fabbrica che oggi rappresenta un
gioiello dell’archeologia industriale: la cosiddetta «Fredda» per l’estrazione dell’amido di frumento e in seguito per la lavorazione del riso, settori
in cui diventa un campione di modernità; durante l’esposizione di Philadelphia (1876), presenta infatti un amido perfettamente bianco tratto dal
mais, accolto con grande favore negli USA e di lì in Francia e Inghilterra
(e non è azzardato pensare che proprio questo brevetto abbia favorito il
grandissimo sviluppo dell’industria americana dei derivati del mais).
Nel 1869, ritrova un’amicizia instaurata negli anni parigini: si tratta del
grande Louis Pasteur [>fig.2b]. Lo scienziato francese era stato inviato dall’imperatore Napoleone III nelle tenute di Villa Vicentina, ospite di
Elisa Bonaparte Baciocchi, per completare le ricerche sulle malattie del
baco da seta: Chiozza capisce che è un’occasione da sfruttare al meglio
e decide di allestire nella villa un laboratorio, dove lavorare a fianco del
grande studioso. I risultati non tardano ad arrivare: individuata la causa
della pebrina, i due riescono a porre le basi per il sistema cellulare di produzione del seme, avviando gli studi futuri alla soluzione del problema.
Chimico, agricoltore, imprenditore: Luigi Chiozza è tutte e tre queste figure. E non solo. Il suo nome compare accanto ad altri grandi progetti:
la costituzione della Società di Cabotaggio cervignanese, la canalizzazione
delle cascate del Reno e soprattutto la straordinaria ferrovia Pontebbana,
opera di altissima ingegneria.
Il 21 maggio 1889 una grave affezione cardiaca lo porta alla morte: ha 61
anni e lascia in eredità, oltre alla villa e alla sua tenuta, un grande patrimonio di conoscenze e di libri (molte migliaia). La residenza [>in fig.3
è riprodotto il vecchio laboratorio] subisce le varie vicende dei suoi
eredi; durante la Prima guerra mondiale, gli Austriaci cercano di salvare
dalla distruzione un buon numero di volumi, trasferendoli a Vienna dove
ancora oggi si trovano, lasciandone comunque la maggior parte in loco.
Poi, anni di alterne fortune, fino a quando, nel 1970, l’intera proprietà
viene acquistata dall’ERSA, che vi allestisce il Centro di educazione professionale per imprenditori agricoli.
Il parco
Un’estensione di 16 ettari e una varietà infinita di piante da tutto il mondo fanno del giardino di villa Chiozza il più grande e importante parco
all’inglese del Friuli Venezia Giulia. Oggi è difficile immaginare l’aspetto
originario del parco così come era stato voluto da Luigi Chiozza, poiché
gli alberi e le piante sono cresciuti in modo disordinato; tuttavia, almeno
la fisionomia generale non è cambiata. Non entro nei particolari botanici
più specifici, non avendo la benché minima competenza in questo settore;
mi affido per questo alla piccola pubblicazione offertami dalla dott.ssa
Maran: «Alcune piante furono fatte pervenire addirittura da Parigi: è il
UN UOMO, UNA STORIA:
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CERVIGNANO
OTTAVA PUNTATA
VILLA CHIOZZA
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caso di un esemplare di Sciadopis verticillata di cui non rimane traccia
e della cui esistenza dà curiosa notizia la figlia Teresa, che vale la pena di
ricordare, a riprova dell’amore di Chiozza per la natura: “...pochi giorni
dopo si scatenò un fortissimo uragano e, temendo che la pianta potesse
soffrire, corse a ripararla con l’ombrello e col mantello, rimanendo però
inzuppato fino alle ossa”. Gli alberi importati furono felicemente accostati
a soggetti preesistenti, tipici della flora locale, in particolare di farnia,
carpino bianco ed acero campestre [...]». Nei primi del Novecento e poi
negli anni Trenta il parco subisce alcune trasformazioni: «Nel sottobosco
fu significativa l’introduzione da parte di Piero Chiozza delle violette e
dei crochi che poi, grazie all’ombrosità ed alla freschezza del suolo, si
diffusero notevolmente e tuttora ingentiliscono il parco».
Oggi, a testimoniare ancora il disegno ideale di Luigi Chiozza ci sono i
grandi spazi aperti [>fig.4] alternati a quelli più chiusi e affascinanti dei
boschetti [>fig.5], mentre il piccolo fiume Pulvino scorre tranquillo ad
Est [>fig.6]. Sicuramente originari anche l’enorme sequoia [>fig.7],
vera e propria rarità, e il bellissimo sentiero dei carpini [>fig.8] che
forma uno splendido cannocchiale puntato verso la villa, nonché il grande
canneto di bambù [>fig.9], nel frattempo estesosi in maniera esponenziale e diventato un suggestivo bosco, fittissimo e popolato, come del resto
tutto il parco, da ricci, lepri, caprioli e cerbiatti. Non so, invece, datare
con sicurezza la realizzazione del laghetto delle ninfee [>fig.10]; tuttavia,
era un ornamento che andava di moda nella seconda metà dell’Ottocento,
per l’influenza dei giardini giapponesi. Ritengo ottocentesca, e ascrivibile
proprio al Chiozza, anche la collocazione, nell’altura sopra il laghetto,
dei due frammenti in >fig.11, piccoli resti di età romana forse trovati
proprio qui, durante i lavori per la sistemazione del parco: rientrava nel
gusto dell’epoca porre nei giardini alcune rovine, meglio se coperte dal
muschio e inglobate dalla vegetazione.
Rovine romane, ma anche rovine moderne: della vecchia serra [>fig.12]
resta solo un rudere coperto dal verde, nell’attesa che un restauro adeguato la riporti alla luce. Ottimo, invece, il recupero del vitigno di Refosco
[>fig.13] posto nei terreni dietro la villa: si tratta di uno dei ceppi più
antichi del Friuli, ancor oggi vendemmiato pur nella limitatezza della sua
produzione. Tutto attorno, un lungo recinto racchiude una vasta area popolata dai famosi cervi [>fig.14] che tutti, almeno una volta, abbiamo
visto dalla strada attraversando via Carso: sembrano incuriositi a vedere
il sottoscritto con la macchina fotografica e sono in molti a puntare lo
sguardo verso il mio obiettivo...
La villa
Passando alla villa, mi conviene nuovamente citare dalla pubblicazione
prima ricordata: «L’attuale complesso edilizio è costituito dalla villa, di
probabile origine settecentesca, da un corpo a doppio U, i cui edifici si
affacciano sul cortile posteriore della stessa, e da un villino, posto vicino
all’ingresso di servizio». Nel 1904, durante la ristrutturazione del complesso, «la villa mutò radicalmente aspetto: essa fu rialzata di un piano,
acquistando un carattere che si può definire ‘primonovecentista’, perdendo l’armonia architettonica che caratterizzava la costruzione precedente,
di cui è testimone una cartolina di fine ‘800». Eccola, la cartolina: è la
>fig.15. Comunque la si pensi, però, non si può certo dire che l’attuale
costruzione non sia molto bella, tanto nella facciata quanto negli interni [>fig.16]. Una volta entrato, le mie quattro guide mi accompagnano
lungo le stanze della residenza, illustrandomi i contenuti della mostra,
composta da pezzi provenienti da vari musei locali e altri già qui presenti.
Dagli strumenti usati da Chiozza e Pasteur [>fig,17, fig.18] ai bellissimi
volumi di botanica giapponesi, davvero dei pezzi unici [>fig.19], fino alla
interessante ricostruzione di un laboratorio scientifico ottocentesco: camminare in queste stanze è come fare un salto indietro nel tempo. Infine, il
pezzo forte è all’ultimo piano: la camera di Luigi Chiozza. A voler essere
precisi, si tratta di una ricostruzione, ma tutto il mobilio è assolutamente
originale [>fig.20]: non nascondo di provare una certa emozione, quell’emozione che ci cattura quando ci troviamo davanti alle testimonianze
concrete dei Grandi del passato. Perché Luigi Chiozza era uno di loro.
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La Terra indagata - fino al 20/03/2008
(via Carso, 3 Scodovacca)
Per informazioni:
www.ersa.fvg.it
Telefono: 0431 386711
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EMOZIONI…D’ARTE
Ivan Bidoli è nato nel 1933 nella vicina Fiumicello ed esercita la
professione di pittore designer.
Dal 1962 si è presentato al pubblico, sia in Italia che all’estero, con
numerose mostre personali, ottenendo altrettanti riconoscimenti.
Alta Quota è andato a fargli visita e l’esperienza è stata a dir poco
affascinante. Oltre alla sua gentilezza e disponibilità, una delle prime
cose che balza all’occhio è senz’altro il suo studio: tre grandi stanze
ricche di suoi quadri alle pareti e angoli di laboratorio dove le nuove
opere stanno prendendo forma. Una scritta dipinta sulla porta si nota
subito: «L’arte è un appello a cui troppi rispondono senza essere
chiamati».
Una volta accomodati, il signor Bidoli comincia a presentarci
dettagliatamente alcune sue opere, raccontandoci anche come sono
nate: «Mi piace parlare perché rivivo le stesse emozioni». Così, in
un clima amichevole e nello stesso tempo attraente, abbiamo trovato
risposta alle nostre curiosità.
- Signor Bidoli, ci può dire come è iniziata questa sua passione?
«Ho frequentato il liceo artistico di Venezia, che mi ha fornito tutti i
presupposti e requisiti per poter dipingere. Era la mia passione e l’ho
sempre fatto. Mentre all’inizio mi mantenevo con piccoli lavori, da 25
anni a questa parte esercito la professione vera e propria».
- Ci presenta le sue opere?
«Devo essere emozionato e anche colpito nel cuore per dipingere. Lavoro
su emozioni, mi ritengo un trasmettitore di emozioni. Se provo qualcosa
devo subito “scaricarla” nella pittura. È un concetto per me fondamentale,
che ci tenevo a sottolineare».
- Cosa ci può dire riguardo alla sua tecnica di pittura?
«Mentre le prime mostre collettive dopo il liceo erano incentrate sull’uso
dell’acquerello e della tecnica ad olio, la mia vera personalità l’ho trovata
in quella che tuttora è la mia tecnica: una tecnica che col tempo è stata
perfezionata e che è da tutti riconosciuta come unica. Lavoro a spatola,
uso acrilici e smalti. Inizialmente sovrappongo un primo strato, passo la
vernice e poi ne sovrappongo un altro. Inoltre, mescolo colori per vetro e
lacche, capaci di dare quell’effetto di trasparenza e quegli effetti cromatici
che mi sono caratteristici. Ci vogliono una decina di giorni per ottenere
questo risultato, ma ti garantisco che, alla fine, ne sono entusiasta. Inoltre,
a seconda della luce, le sfumature cambiano. Per esempio, una persona
a cui avevo venduto un quadro, dopo alcuni giorni si ripresenta nel mio
studio e mi dice: “Ogni giorno lo vedo completamente diverso”».
- Quali sono le sue tematiche principali?
«Qui mi dilungo volentieri, l’argomento è fondamentale. Come ti ho detto
prima, devo essere emozionato per dipingere: una cosa deve prendermi
particolarmente. Ti parlo per esempio della gioia della primavera, della
bellezza della donna. Ho dipinto, e ne sono legatissimo, molti personaggi
di Fiumicello di 40 anni fa, ma non quelli famosi e ritratti in fotografia
come il sindaco, la maestra o il medico che sia, bensì quelli “tipici”,
“strambi”, molto spesso gente sola, ma che comunque nella sua felicità
mi dava emozioni fortissime. Ecco, io rappresento la loro personalità: ai
miei tempi si godeva con pochissimo, le gioie e le felicità erano date da
poco, molto poco. Nel mondo di oggi, ormai, ci sono continue pressioni a
comprare, a consumare, ad avere di più, a cercare la firma. Il lusso non fa
godere la vita; anni fa c’era tanta più gioia di vivere. In base a questo, altre
mie opere sono incentrate su momenti di satira della vita odierna, molto
spesso in una specie di confronto e paragone rispetto ad anni fa».
- Dove ha esposto le sue opere?
«Di mostre ne ho fatte parecchie, sia in Italia che all’estero. Oltre a
molti paesi del Friuli, le mie opere sono state esposte anche a Firenze,
Roma, Venezia, Milano, Grosseto, Padova, Bergamo. All’estero a Stolberg
(Germania), Parigi, Barcellona, Siviglia, New York, Bucarest, Hong Kong,
Bangkok, Singapore. Ho viaggiato tantissimo e ho conosciuto molte
culture e posti nuovi. Sono innamorato dell’Oriente, e tra tutti i viaggi
che ho fatto è stata Singapore a colpirmi di più: una città pulitissima,
ordinatissima».
- Qual’è l’ opera a cui è più legato?
«Poiché tutti i quadri che dipingo nascono da emozioni, sono legato a tutti.
In linea di massima cerco di non vendere subito l’ultimo quadro, perché
devo guardarmelo ancora per un po’, essendone ancora sentimentalmente
legato! In realtà c’è un quadro che non venderei mai, a nessun prezzo.
Si tratta di “Filo”, ovvero la rappresentazione di questo personaggio di
Fiumicello che, tanti anni fa, veniva a vangare l’orto».
- Che importanza ha per lei il riconoscimento degli altri?
«Il giudizio positivo di un’altra persona è qualcosa che gratifica, fa piacere
e dà la carica per continuare. Ma io dipingo per me, per le mie emozioni.
Ovviamente, in fondo, c’è sempre la paura che la gente non apprezzi o,
ancora peggio, non capisca quello che dipingo».
ALBERTO TITOTTO
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