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la tigre e la neve
LA TIGRE E LA NEVE
scheda tecnica
durata: 118 minuti
nazionalità: Italia
anno: 2005
regia: ROBERTO BENIGNI
soggetto e sceneggiatura: ROBERTO BENIGNI, VINCENZO CERAMI
produzione: MELAMPO FILM
fotografia: FABIO CIANCHETTI
montaggio MASSIMO FIOCCHI
scenografia: MAURIZIO SABATINI
costumi: LOUISE STJERNSWARD
effetti: FRANCO VALENZIANO
musiche: NICOLA PIOVANI
interpreti: ROBERTO BENIGNI (ATTILIO DE GIOVANNI), JEAN RENO (FUAD),
NICOLETTA
BRASCHI (VITTORIA), TOM
WAITS (SE STESSO), GIUSEPPE
BATTISTON (ERMANNO), CHIARA PIRRI (EMILIA), ANNA PIRRI (ROSA), LUCIA POLI
(SIGNORA SERAO), FRANCESCA CUTOLO (CARLA), EMILIA FOX (NANCY),
ANDREA
RENZI (DOTT. GUAZZELLI), MARIELLA
VALENTINI
(IMPIEGATA
DELL'AEROPORTO), GIANFRANCO VARETTO (AVVOCATO SCUOTILANCIA)
i protagonisti
Roberto Benigni
Nasce il 27/10/1952 a Misericordia in provincia di Arezzo. Molto presto la sua famiglia si trasferisce a
Vergaio, presso Prato, dove Roberto cresce. Studia dapprima al seminario dei gesuiti a Firenze, che lascia
dopo l’alluvione del '66 e poi all’istituto di economia di Prato. La decisione di tentare la carriera di attore
Benigni la prende nel 1972: a vent'anni, con la sola chitarra per bagaglio, parte per Roma con tre amici Silvano Ambrogi, Carlo Monni e Aldo Buti - con i quali debutta al teatro dei Satiri con la commedia "I
Burosauri" di Silvano Ambrogi. Il primo ruolo cinematografico di Benigni è del 1977, in "Berlinguer ti voglio
bene" di Giuseppe Bertolucci. All’anno successivo risale la sua partecipazione al programma televisivo di
Renzo Arbore "L'altra domenica", in cui Benigni è uno stravagante critico cinematografico. Nel 1979 è il
protagonista del film "Chiedo asilo" di Marco Ferreri. Seguono "Il pap'occhio" di Renzo Arbore e "Il
minestrone" di Sergio Citti. Per il suo debutto come regista bisogna aspettare il 1983, quando Benigni dirige
e interpreta "Tu mi turbi". Da questo momento in poi Benigni reciterà sempre più spesso in film da lui stesso
scritti e diretti. Questo non gli impedirà, tuttavia, di partecipare a "Daunbailò", di Jim Jarmusch, nel 1986, a
"La voce della luna", ultimo film di Federico Fellini, nell’89, e di vestire (nel 1993) i panni del figlio segreto
dell’ispettore Clouseau ne "Il figlio della pantera rosa" di Blake Edwards. Parallelamente, però, Benigni porta
avanti la sua attività di regista e di sceneggiatore (oltre che di attore) di film in cui spesso compare anche la
moglie Nicoletta Braschi. Nascono così nell' '84 "Non ci resta che piangere", in cui gli è accanto Massimo
Troisi, nell’88 "Il piccolo diavolo", interpretato insieme a Walter Matthau (e in occasione del quale comincia la
collaborazione del Benigni sceneggiatore con lo scrittore Vincenzo Cerami), nel '91 "Johnny Stecchino" e nel
'95 "Il mostro"; tutti film che ottengono un vasto successo tra il pubblico italiano. Al successo internazionale
[email protected]
1
Benigni arriva con "La vita è bella", che nel 1999 gli vale l’Oscar come migliore attore. Al film, in una notte
indimenticabile per il cinema italiano, vanno anche altre due statuette: quella per il miglior film in lingua
straniera e quella per la musica di Nicola Piovani.
Filmografia
1977
BERLINGUER TI VOGLIO BENE - soggetto,
sceneggiatura, attore
1978
LETTI SELVAGGI - attore
1979
CHIARO DI DONNA - attore
CHIEDO ASILO - attore
I GIORNI CANTATI - attore
LA LUNA - attore
1980
IL PAP'OCCHIO - attore
1981
IL MINESTRONE - Attori
1982
TU MI TURBI - regia, soggetto, sceneggiatura,
attore
1983
"FF.SS." CIOE'... CHE MI HAI PORTATO A FARE
SOPRA A POSILLIPO SE NON MI VUOI PIU'
BENE? - attore
TUTTO BENIGNI DAL VIVO - soggetto,
sceneggiatura, attore
1984
NON CI RESTA CHE PIANGERE - regia,
soggetto, sceneggiatura, attore
L'ADDIO A ENRICO BERLINGUER - regia
1986
DAUNBAILO' - attore
1988
IL PICCOLO DIAVOLO - regia, soggetto,
sceneggiatura, attore
1989
LA VOCE DELLA LUNA - attore
1991
JOHNNY STECCHINO - regia, soggetto,
sceneggiatura, attore
TAXISTI DI NOTTE - attore
1992
NIGHT ON HEART - attore
1993
IL FIGLIO DELLA PANTERA ROSA - attore
1994
IL MOSTRO - regia, soggetto, sceneggiatura,
attore
1997
LA VITA E' BELLA - regia, soggetto,
sceneggiatura, attore
1999
ASTERIX E OBELIX CONTRO CESARE - attore
2000
FERRERI, I LOVE YOU - attore
2002
FELLINI: SONO UN GRAN BUGIARDO - attore
PINOCCHIO - regia, soggetto, sceneggiatura,
attore
2003
CATERINA VA IN CITTA' - attore
CESARE ZAVATTINI - attore
COFFEE & CIGARETTES - attore
2005
LA TIGRE E LA NEVE - regia, soggetto,
sceneggiatura, attore
Nicoletta braschi
Nasce il 10/8/1960 a Cesena. Dopo gli studi liceali, studia arte drammatica all'Accademia di Roma.
L'esordio è nel 1982 con "Tu mi turbi" di Roberto Benigni, nel ruolo della Madonna. Dopo il debutto lavora in
"Segreti segreti" (1984) di Giuseppe Bertolucci, in "Dawn by Low" di Jim Jarmusch, con Benigni, Tom Waits
e John Lurie. Nel 1987 lavora con Marco Ferreri in "Come sono buoni i bianchi" e nel 1997 è una tenera e
indifesa professoressa in "Ovosodo" di Paolo Virzì. Moglie di Roberto Benigni, i suoi film di maggiore
successo sono quelli diretti da lui, tra cui "Il piccolo diavolo" (1988), "Johnny Stecchino" (1991), "Il mostro"
(1994), "La vita è bella" (1988).
Filmografia
1982
TU MI TURBI - attrice
1984
SEGRETI SEGRETI - attrice
1986
DAUNBAILO' - attrice
1987
COME SONO BUONI I BIANCHI - attrice
1988
IL PICCOLO DIAVOLO - attrice
1989
MYSTERY TRAIN - MARTEDI' NOTTE A
MEMPHIS - attrice
[email protected]
2
1990
IL TE' NEL DESERTO - attrice
1991
JOHNNY STECCHINO - attrice
LA DOMENICA SPECIALMENTE - attrice
1993
IL FIGLIO DELLA PANTERA ROSA - attrice
1994
IL MOSTRO - attrice
1995
PASOLINI UN DELITTO ITALIANO - attrice
SOSTIENE PEREIRA - attrice
1997
LA VITA E' BELLA - attrice
OVOSODO - attrice
2002
PINOCCHIO - attrice
2003
MI PIACE LAVORARE - MOBBING - attrice
2005
LA TIGRE E LA NEVE - attrice
Jean Reno
Pseudonimo di Juan Moreno
Nasce il 30/7/1948 a Casablanca (Marocco). Di origine andalusa, la sua famiglia si trasferisce in Marocco
per sfuggire alla dittatura di Franco e prende la cittadinanza francese. Nel 1968 Juan viene chiamato in
Francia per svolgere il servizio militare e dopo un anno si trasferisce a Parigi per studiare recitazione
all'Accademia d'Arte Drammatica di Stato. Cresciuto ed educato in francese è però in grado di parlare anche
lo spagnolo, l'italiano e un po' di tedesco. Dopo aver lavorato a lungo in teatro e aver fatto qualche
apparizione al cinema, nel 1985 con il film "Subway" inizia il sodalizio artistico con Luc Besson, regista che
più di ogni altro è riuscito a mettere in luce la sua personalità di attore, calandolo nei panni di personaggi
freddi, calcolatori e amorali ma allo stesso tempo vulnerabili e capaci di calore umano. Personaggi che gli
hanno aperto anche le porte di Hollywood, tanto che ora, pur vivendo a Parigi, ha acquistato una casa a Los
Angeles. Molto legato alla famiglia, ha quattro figli, due nati da un precedente matrimonio e due avuti
dall'attuale compagna, la modella Nathalie Dyszkiewicz, sposata nel 1996. Ha dichiarato: "Cerco di star via
non più di un mese alla volta, e quando è possibile porto moglie e bambini con me. (...) Quel che conta di più
per me sono i figli. (...) Preferisco esser ricordato come un buon padre che per le mie presunte capacità
d'attore".
Filmografia
1982
LE DERNIER COMBAT - attore
1985
STRICTEMENT PERSONNEL - attore
SUBWAY - attore
1986
I LOVE YOU - attore
1988
LE GRAND BLEU - attore
1990
NIKITA - attore
1994
I VISITATORI - attore
LEON - attore
1995
AL DI LA' DELLE NUVOLE - attore
FRENCH KISS - attore
1996
MISSION: IMPOSSIBLE - attore
1998
GODZILLA - attore
I VISITATORI 2 - RITORNO AL PASSATO attore
1999
RONIN - attore
2000
I FIUMI DI PORPORA - attore
2001
WASABI - attore
2002
JET LAG - attore
ROLLERBALL
2003
STA' ZITTO... NON ROMPERE - attore
2004
I FIUMI DI PORPORA 2 - GLI ANGELI
DELL'APOCALISSE - attore
L'ENQUETE CORSE - attore
2005
LA PANTERA ROSA - attore
LA TIGRE E LA NEVE - attore
L'IMPERO DEI LUPI - attore
2006
IL CODICE DA VINCI - attore
[email protected]
3
la parola ai protagonisti
Roberto Benigni
Del film si sa già che è ambientato in Iraq all'inizio del conflitto, e poi?
Sono due anni che penso a questa storia, racconta di un poeta, Attilio, che non è proprio
Ariosto, è un poeta alla Benigni, sguazza sui versi. È innamorato della poesia, ma ancor più
di una donna, Nicoletta Braschi, il suo amore però non è corrisposto. Lui è uno che in ogni
granellino di sabbia ci vede l'esplosione della vita, la vede in un sasso come nell'umanità
intera. E sullo sfondo c'è la guerra in Iraq perché oggi occupa le nostre vite, è presente nei
nostri sogni. I riferimenti sono correttissimi, il film è storicamente datato, inizia nel marzo del
2003, proprio quando è partita quella cosa lì potente e insensata, perché sia chiaro: nessun
massacro serve a prevenire altri massacri. Un concetto semplice ma di difficile applicazione
perché, purtroppo, la cosa che più piace agli uomini sembra essere la guerra. Eppure il film
è una commedia, il genere cinematografico più alto e più difficile, e come in ogni commedia
c'è il senso di morte. Lo sconvolgimento c'è in tutte le storie e in questa c'è lo
sconvolgimento dei nostri tempi. Ma il mio non è un documentario, quello che accade è
filtrato con un altro mezzo, ci sono dentro tutte le emozioni del mondo, è una storia poetica.
Tutta la seconda parte del film, molto spettacolare, è ambientata in Iraq, ricostruito in
maniera precisa in Tunisia. Attilio non conosce una parola di arabo, si troverà costretto
combattere la sua guerra personale armato solo di poesia, accompagnato da Fuad, il più
grande poeta arabo vivente (interpretato da Jean Reno, ndr). Ma Attilio sa che lì c'è un
popolo al quale appartiene il cielo stellato. Gli orientali sono inventori di storie, sono gli
occidentali che hanno portato lì la guerra.
La materia è incandescente e rischiosa...
Ho calibrato i rischi di raccontare una storia di questo genere, in cui non c'è distacco visto
che parlo del presente. La guerra, purtroppo, ha sconvolto i nostri tempi. E quando avviene
una cosa così forte bisogna mettercela tutta per affrontarla. Ho obbedito all'istinto della vita.
Non è un tema che ho scelto in modo cinico, non c'è attaccato sopra il cartellino del prezzo.
Piuttosto cerco di dare la sensazione di offrire un regalo.
La poesia vive nelle tragedie del mondo...
È proprio in momenti terribili come quelli che si vivono in Iraq o si sono vissuti a Beslan, che
la parte più profonda di noi viene toccata. I momenti tragici cambiano i nostri sogni e, per
una reazione istintiva, la parte più bella di noi apre le ali mentre precipitiamo e allora
cominciamo a volare. La poesia è dentro non è fuori, un pipistrello è poetico come un
geranio. Senza essere liturgico penso che bisogna contribuire, ognuno con la cosa che è
stato chiamato a fare, a mandare avanti questo potente spettacolo, come faceva mio padre
che la mattina vedeva se le zucchine o i piselli del suo orto andavano bene. Lui dava il suo
contributo come io do il mio facendo cinema. Per me il cinema è la vita.
Com’è nata l’idea di La tigre e la neve?
E’ un film “ad personam”. E’ nato come nascono le cose, non si può sapere. Io ho avuto
l’idea di fare un film su un sentimento di quelli che ti sfasciano. Quando uno ama una
persona al punto da sconvolgere il mondo. E’ un sentimento prepotente, spasmodico.
Come esprimere questo sentimento? Per mesi sono stato come in apnea, non trovavo
niente.
Roberto, perché hai scelto un poeta come protagonista principale de La tigre e la neve?
[email protected]
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Non avevo una vera e propria idea all'origine, ma soltanto un sentimento: avevo in mente
un uomo buffo che trascorre la vita a mettere le parole in modo che se gli batte il cuore a lui
lo deve far battere anche a chi lo ascolta. Fondamentalmente è una storia d'amore il cui
sfondo è la guerra, evocata attraverso situazioni limite come quella del kamikaze imbottito
di medicinali, quella del tip tap sulle mine, quella con gli americani ai posti di blocco ed il
momento della morte dell'amico. Quest'ultima, forse, è la scena più evocativa del film,
perché quando c'è la morte di una persona cara è come se morisse il mondo intero. Non è
un discorso religioso, eversivo o rivoluzionario, sono italiano, quindi cattolico… cioè, più
che altro sono cresciuto sotto il suono delle campane; il mio personaggio, infatti, si rivolge
ad Allah, che in fin dei conti è lo stesso Dio dei cattolici, recitando il Padre Nostro, una
preghiera che apprezzava perfino Maometto. Mi interessava mostrare il dramma visto
attraverso i gli occhi di un artista, per mezzo della sua sensibilità di uomo ed intellettuale.
Ho sempre pensato che un artista sia una specie di sonnambulo che, quando si risveglia,
inciampa nelle sue stesse parole non sapendo che direzione prendere. Per questo ho
pensato ad un poeta come personaggio principale.
E’ un film sull’amore per la vita, dunque non è un film politico, o schierato?
Non è un film ideologico. Certe opere sulla guerra vanno alla testa, questo va al cuore, è
più pericoloso, squarcia, spacca. Infatti si dice “mi ha spaccato il cuore”, non “mi ha
spaccato la testa”. E’ un discorso contro la guerra che spero entri nelle anime, c’è il
tentativo di salvare la vita. “L’amore che vince la morte” è diventata una frase sempre più
vecchia. Distrarre e commuovere è l’unica cosa che si può fare. Il film è sulla forza del
sentimento che è la più eversiva e rivoluzionaria.
E la guerra?
Il protagonista è un ometto che combatte la sua guerra personale: mentre il soldato è seduto sul
carro armato con un mitra in mano lui è seduto su una sedia da barbiere e brandisce uno
scacciamosche. Viene da pensare a quanto sia più eroica la guerra di quell’ometto. La guerra si
può solo evocare, è un discorso indiretto. Non bisogna andare a cercare altri significati. La guerra
è brutta, il messaggio è semplice e chiaro. Attilio ha una voglia di vivere quasi disperata, infatti io a
morire non ci penso proprio, non lo desidero affatto, sarà l’ultima cosa che farò.
Come sono rappresentati i soldati americani?
I soldati sono visti dal punto di vista del poeta. C’è un soldato americano che sorride, ci
sono i soldati del posto di blocco che spingono la bicicletta. Sono persone che si trovano là,
Cassola diceva che i soldati sono disoccupati armati, non si può dare un giudizio. C’è la
pietas nello sguardo sugli americani. Mi piace molto la scena in cui il generale ripete il
nome “Whitman” come fosse qualcosa che arriva da lontano, e abbassa il fucile davanti al
poeta, la poesia ha una forza pazzesca, come il sentimento.
E’ anche un film sulla poesia?
E’ una delle prime volte in cui il protagonista è un poeta, con la sua visione del mondo e
della guerra. La figura del poeta è bella perché è un cittadino qualsiasi. La tecnica della
poesia è una cosa che mi ha sempre affascinato. Cercare le parole, trovarle, metterle
insieme è un lavoro difficilissimo, a volte possono volerci otto mesi a trovare
un’espressione. Con la poesia si inventano delle emozioni. Ad esempio, l’inquietudine, chi
l’ha inventata? La poesia è ghiaccio, numero, al poeta deve battere il cuore ma
freddamente. La poesia è un lavoro enorme.
Quindi la poesia nel tuo film vorrebbe forse salvare il mondo?
Certo, perché la storia è come un sogno, si capisce fin dall'inizio, con il matrimonio tra le
rovine: lui in mutande che esprime tutto il suo amore alla donna dei suoi sogni. Le parole
colpiscono come macigni e arrivano direttamente al cuore. Nel momento topico, però, ogni
volta accade qualcosa che cambia tutto.
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Come si fa a mantenere l’equilibrio tra comico e tragico?
La cosa bella del comico è andare con grazia, leggerezza, forza e ferocia a toccare il
sentimento universale. Nel film ci sono la commedia e la tragedia insieme. Sono gli attori
che danno una credibilità e una verosimiglianza alla commedia. Jean Reno è stato
bravissimo, ha imparato l’italiano e l’arabo degli iracheni con amore.
Cosa ci dici in riguardo ai volti dei poeti che s'intravedono nei sogni di Attilio?
In qualche maniera sono i miti con cui Attilio è cresciuto, gli stessi con i quali ha raggiunto
quella maturità intellettuale un po' folle che gli ha permesso di diventare a sua volta poeta.
Quindi, mi sono reso conto del fatto che quelle belle facce di Borges, Montale, Ungaretti e
della Yourcenar, oltre a ricordare l'alta poesia, sono l'essenza stessa del sogno di cui
parlavamo prima.
Il film sembrerebbe essere un omaggio alla vita e all'amore. Non hai il timore di essere "accusato"
di troppo buonismo?
Io lo definisco un film con l'anima perché è un apologo contro tutte le guerre. Non credo
che sia un film buonista e non è neppure ideologico. Si tratta di un film che va' diritto al
cuore, al nocciolo del nostro pensiero.
In quante sale verrà distribuito il film?
Tutte quelle d'Italia (ovviamente sta scherzando), a parte una a Velletri e un'altra in
provincia di Viterbo. Quelle non me le hanno volute dare, mi sono battuto fino in fondo, ma
ci hanno messo un altro film, probabilmente di gente che paga. Comunque abbiamo
pensato a tutto, abbiamo fatto pure le copie pirata, meglio di quelle che si trovano in giro, e
provveduto a metterlo su Internet (ride).
Possiamo considerare La tigre e la neve più un film di Roberto Benigni o di Vincenzo Cerami?
Vincenzo Cerami ha dato senso alla mia idea iniziale, ma nel film c'è tutto quello che siamo
riusciti a tirare fuori dalle nostre teste. Quando un regista si trova a fare anche lo
sceneggiatore e il produttore, si vincono le primarie e si fanno film "ad personam".
Jean Reno, poi, ha accettato subito la parte quando gli ho raccontato la storia del film, non
ha voluto neppure leggere il copione. E' un grande professionista, pensate che ha imparato
l'iracheno, ripeto, non l'arabo, l'iracheno!
Il protagonista del film è coraggioso; cos'è per lei il coraggio?
Bella domanda, difficile davvero, ci vuole coraggio pure a fare una domanda del genere
(ride). Comunque, credo che il coraggio sia stato anche aver saputo fare un film di questo
tipo: non lirico, ma intimo e che possiede una sua tragicità. Il coraggio è la più alta qualità
dell'uomo, da esso nasce l'epica; in amore ci vuole coraggio. Ci vogliono Ulisse Garibaldi e
Gasparri messi insieme e tutto il coraggio del mondo per innamorarsi (ride). Poi, il coraggio
è anche quello di avere ancora da dire qualcosa su questa guerra, ingiusta come tutte le
altre.
Qual è il momento che la commuove di più?
Il finale per me è la cosa più bella di tutto il film, il momento più alto e pieno di emozioni. Il
riconoscimento è un grande classico della tragedia. Quella dell’agnizione è una scena che
mi fa sobbalzare tutte le membra.
Quanto è importante la musica?
La musica cambia i percorsi di ogni battito del cuore, è il metronomo del cuore. La colonna
sonora di Piovani è un lavoro straordinario.
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La pellicola verrà distribuita in Iraq?
Spero proprio di sì. Le scene ambientate a Baghdad le abbiamo girate in Tunisia, con tanti
consulenti iracheni che hanno mostrato molto interesse per la sceneggiatura. Quindi,
faremo di tutto per farlo vedere alla popolazione.
Nicola Piovani
Nicola, parlaci un po' della colonna sonora, come mai queste musiche così felliniane?
A voi sembrano musiche felliniane? Io spero che questa musica sia benignesca. Questo
film mi ha dato la possibilità di lavorare con la passione, poi tra i tanti regali ho trovato una
meravigliosa canzone di Tom Waits che è nel sogno del film. Lavorare su quel materiale è
stato un vero lusso.
Nicoletta Braschi
Nicoletta, cosa ci dici del tuo personaggio?
Direi che Vittoria è una donna con una sua misura: a volte il suo sentimento trabocca, altre
si trasformerebbe persino in ira, ma esiste una collusione tra lei ed il suo spasimante e lei
sa che, se si mostra infuriata, lui riesce a disarmarla. E' un rapporto complesso, come tutti i
rapporti d'amore, consapevoli o inconsapevoli.
Hai trovato difficoltà nel prepararti? Come ti trovi ad essere diretta da tuo marito?
Beh, io sono un tipo che si abbandona del tutto al regista, mi lascio sempre dirigere, non
solo da Roberto, divento uno strumento in mano al regista, perché penso che un film sia
sempre suo, prima di tutto. Certo, essendo poi anche produttrice della pellicola è ovvio che
di qualche affaruccio con Roberto ho dovuto pur discutere, ma si è trattato, comunque,
soltanto di piccole proposte. E, semmai, il vantaggio di lavorare con mio marito è nel poter
arrivare all'inizio della lavorazione conoscendo già il personaggio, pronta per affrontarlo. La
parte veramente faticosa è stata quella relativa alla ricerca di effetti speciali che
simulassero la vera guerra per le strade di una Baghdad ricostruita fra la Tunisia e gli studi
di Cinecittà. Ci siamo serviti di tecnici che avevano lavorato con Steven Spielberg ed effetti
digitali, per un totale di 40.000 fotogrammi e una durata complessiva di oltre 20 minuti.
recensioni
Maurizio Porro - Il Corriere della Sera, 21 ottobre 2005
Un film sulla poesia, sulla guerra, sulla pace, sull' amore, con un gran preambolo onirico e poi scorciatoie e
qualche furbata bipartisan tra Dio e Allah: Benigni omnia vincit nella vasta scelta dei suoi super io, da Dante
a Charlot. Ma la grande prova dell' attore, con tutta la sua simpatia, è impari a quella del regista-scrittore.
Che è indeciso sullo stile, cita 17 poeti per diventar poetico (Alighieri e Whitman per passare il blocco),
sposta il baricentro sulla Braschi in coma, donna angelicata del dolce stil novo del cinema e sveltisce le
operazioni esistenzial-politiche della morte del poeta arabo amico risolvendo e riaprendo la partita col finale
freudiano a sorpresa. Con scene ispirate (la lezione, il sogno, le mine) e coccolato dai refrain di Piovani, il
racconto ricerca lo stesso iter dal banale quotidiano al cosmico storico di La vita è bella, un capolavoro
irripetibile. VOTO: 6,5
Giovanna Grassi - Il Corriere della Sera, 24 giugno 2005
Non vuole sentir parlare di bollettino di guerra degli incassi del cinema Roberto Benigni, che, all'Auditorium
all'ombra del Cupolone, per la prima volta ha presentato - nell'ambito delle Giornate professionali di cinema
dove vengono proiettati a valanga i prossimamente e i film della prossima stagione agli esercenti delle sale
d'Italia - tante scene di un lungo trailer del film da lui diretto, interpretato, scritto (con Cerami): La tigre e la
neve, dal 14 ottobre in sala con il marchio (Rai) della 01. Dice, sbucando da una quinta e compiendo falcate
meditabonde, sul palcoscenico: « Da quanto tempo non stavo su un palco: mi ci voleva proprio e bando al
[email protected]
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pessimismo. Nella vita, e ilmio film lo racconta in un tripudio, ci vuole amore. Vi racconterò d'amore, di
guerra, di barbabietole, di bietole, di pace... L'amore fa tutto, vince ogni bruttura, regala vita, speranza ».
Incalza: « Il cinema si nutre d'amore e ha necessità di uno schermo e di sedie. Bisogna riempire l'uno e le
altre. Per il mio film tessuto di emozioni che mi hanno tutto squadernato, verrò nelle vostre sale da " padroni
del cinema": sarà sufficiente che mi chiamiate. Ho sempre sognato di fare l'esercente per vedere i film e
portare la gente, tutta, al cinema. Oggi volevo portarvi champagne, torte, dolcetti e, invece, sono a mani
vuote perchè la 01 mi ha detto che siete più dimille. In dono, ho le scene in anteprima di un film che vi farà
innamorare. Ricordandovi che bisogna, con amore, riportare la gente al cinema con lo stesso senso del
meraviglioso di quando, povero, sognavo di diventare amico del figlio di un esercente. Mi acquattavo dietro
lo schermo, in un campo di grano, e vedevo al contrario Ben Hur pensando che si intitolasse " Ruhneb". Che
tempi ragazzi! Ritorniamo alle sale e alle arene piene ». Il nostro surreale poeta delle parole si è visto sullo
schermo proprio nei panni di un autore di versi, Attilio. Alla domanda se mai avesse deciso di chiamarsi così
in omaggio al molto amato e sommo Attilio Bertolucci, non ha nè confermato nè smentito. Attilio Roberto va
a a dorso di un dromedario, corre scapigliato tra gli arabi e i bambini terrorizzati in Iraq. Insegue ovunque e
con alla calcagna Jean Reno, a sua volta poeta arabo, Vittoria Nicoletta Braschi che gli ha rubato il cuore e i
versi d'amore più belli. Lo vediamo in corsa dietro un autobus, su una jeep, tra le esplosioni, nei campi che
scopre minati fermandosi terrorizzato con un piede sollevato come in una comica, tra le dune, nelle case
sventrate. Di fronte a Vittoria Nicoletta misteriosamente vestita da sposa esclama: «Come sono belle le
donne quando hanno deciso di fare, tra poco, l'amore».
Tullio Kezich - Il Corriere della Sera, 5 ottobre 2005
Un applausino subito spento e via. Non credevo alle mie orecchie all' anteprima romana per la stampa di La
tigre e la neve. Lassù sullo schermo, Roberto Benigni si era prodigato per due ore in uno dei più strepitosi a
solo del cinema contemporaneo, tale da giustificare una «standing ovation», e invece niente. Spero e
confido che l' accoglienza del pubblico vero sarà ben diversa. In mezzo ai guai che attraversa l' Italia il solo
fatto dell' esistenza di questo straordinario talento impegnato a spargere buonumore e ottimismo dovrebbe
suscitare un' ondata di gratitudine. Ma pensiamo a come gli americani trattarono Chaplin, il più grande uomo
di spettacolo del XX secolo: perenne oggetto di malevolenza, inquisito dai servizi segreti, costretto a
emigrare. Il paragone è certo sproporzionato, ma quando si parla di Benigni il riferimento al maestro di
Monsieur Verdoux è inevitabile. Attilio è un poeta che ha appena pubblicato una raccolta di versi intitolata La
tigre e la neve, una sorta di clown che vive con la testa fra le nuvole. Ogni tanto gli fanno visita le due figliole
adolescenti, frutto di un matrimonio andato male; ma chi sia la loro madre lo sapremo solo alla fine, è la
sorpresa (forse pleonastica) della storia scritta con Cerami. Sappiamo da subito, invece, che Attilio è
innamorato di Vittoria (Nicoletta Braschi): si comincia infatti con un sogno dove il poeta in mutande si
accinge a impalmare la donna amata davanti a un eterogeneo pubblico in cui figurano Montale, Ungaretti, la
Yourcenar e Borges. Nella realtà, purtroppo, Vittoria non vuol saperne di Attilio, che incontra alla presenza
del comune amico Fuad (Jean Reno), un poeta esule sul punto di tornare in Iraq. Proprio da Bagdad arriva
di notte una telefonata di Fuad con una notizia tragica: Vittoria, che si era recata là per scrivere la sua
biografia, è stata ferita in un bombardamento e sta morendo. Non si può raggiungere la città martire, i voli
sono cancellati, ma Attilio ci riesce ugualmente fingendosi un chirurgo della Croce Rossa. A questo punto, di
fronte all' amata in coma nel lettuccio di un ospedale, il poeta dà vita a una parafrasi cabarettistica di Parla
con lei di Almodóvar. Affrontando le avventure più incredibili, Attilio riuscirà a trovare le medicine per salvare
Vittoria, anche se non la vedrà in piedi perché nel frattempo è stato arrestato. Solo a Roma, qualche tempo
dopo, si verificherà una mezza agnizione che ricorda proprio il finale chapliniano di Luci della città. Al pieno
risultato di La tigre e la neve in cui il tema amor vincit omnia viene sviluppato in chiave comica, si potrebbero
muovere varie obiezioni critiche (vedi l'irrisolto disegno del personaggio di Fuad), ma il film va visto in
omaggio a un Benigni di grande annata.
Tullio Kezich - Il Corriere della Sera, 14 ottobre 2005
Perché il poeta impersonato da Benigni in La tigre e la neve si chiama Attilio? Scommetterei che questo
nome è un omaggio ad Attilio Bertolucci (1911-2000), padre dei cineasti Bernardo e Giuseppe. Fu infatti
quest'ultimo, onore al merito, che lanciò il ruspante comico toscano in scena e sullo schermo; e Bernardo gli
concesse un cammeo in La luna. Sicuramente l'autore di La camera da letto, che a Parma fu un pioniere
della critica cinematografica, avrebbe gradito il devoto pensiero dell'amico dei suoi figli e ritrovato nel
contesto un po' dell'aria di famiglia. Del resto Bernardo mi disse una volta, parlando della disponibilità di
papà Attilio a identificarsi con ciò che vedeva sullo schermo: «Lui si considera, in buona fede, l'autore di tutti
i miei film». Torno a parlare di La tigre e la neve mentre arriva sugli schermi, a conferma della forte
impressione che ha fatto alla maggior parte di noi spettatori dell'anteprima soprattutto per i virtuosismi
chaplineschi del protagonista. Eppure non so sottrarmi alla tentazione di giocare al play's doctor ovvero di
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abbozzare qualche riserva soprattutto a livello drammaturgico. Il che non intende sminuire il brillante risultato
dell'impresa. E spero proprio che Benigni non si allarmi, come fece Fellini di fronte alle critiche di Rossellini
su Lo sceicco bianco. Ricordo che in quel frangente l'autore di Paisà ribatté: «Ma quando su un quadro di
Raffaello c'è un po' di polvere perché non soffiarla via?». Sollevando un paio di misurate obiezioni su taluni
aspetti particolari non vorrei togliere un solo spettatore al film, anzi spero di farne tornare qualcuno al cinema
la seconda volta per il gusto di darmi torto. La tigre e la neve è costruito infatti dall'autore e dal valido collega
di penna Vincenzo Cerami come una scatola a sorpresa. Misuro le parole, per non guastare la festa a chi
vuol scoprire da sé come va a finire. La sorpresa riguarda il rapporto di Attilio con Vittoria (Nicoletta Braschi),
che si rivelerà diverso da come appare sulle prime. Niente di male, tranne che in seguito si viene
configurando un'ulteriore possibile sorpresa, in attesa di vedere se la donna scoprirà chi le ha salvato la vita,
proprio come la fioraia di Luci della città scopre l'identità del clown che le ha ridato la vista. Attenzione, però:
due sorprese sono troppe, una ammazza l'altra. Altra osservazione. A Jean Reno, affascinante nei panni del
poeta arabo Fuad, va riconosciuto l'impegno di recitare in italiano. Ma la sua vicenda, pur fungendo da
contrappeso tragico in un film volentieri sconfinante nella farsa, risulta poco motivata al momento della scelta
definitiva. Forse alcune sue scene sono cadute nel taglio di tre quarti d'ora di film. Ne è conseguito un
impoverimento della contrapposizione fra il pessimismo della ragione di Fuad e l'ottimismo della volontà che
prorompe dall'esuberanza di Attilio. Qui c'era una dialettica da sviluppare alla luce della stoica constatazione
che essere un poeta a Roma o a Bagdad continua a fare una grande differenza. Un occidentale nell'inferno
asiatico può salvarsi gridando "I' m italian!", ma un nativo cosa grida? Nei territori del dolore noi siamo in
transito e loro ci vivono. Un'altra obiezione riguarda proprio la cornice irachena del film, che tra riprese in
Tunisia ed effetti speciali non regge il confronto con ciò che abitualmente offre Hollywood. Nelle situazioni in
cui il nostro cinema affronta situazioni di grosso respiro incombe sempre il rischio delle nozze coi fichi
secchi. E tuttavia basta il momento in cui Benigni di fronte all'amata in coma è tentato di pregare Allah e
recita invece il Padrenostro, quasi inventando le parole, per trasportare il film nei cieli della poesia. Dove
spaziava Attilio (quello vero) e dove la Settima arte raramente perviene.
Paolo D'Agostini - La Repubblica, 15 ottobre 2005
È possibile che una graduatoria dei cento registi più importanti ignorerebbe, nonostante l’Oscar, Roberto
Benigni. Ma che vuol dire? Ogni metro convenzionale con lui salta, è inservibile e ininfluente. Guardando
questo come ogni suo film viene il desiderio di immaginare come uno spettatore degli annienti o Trenta
percepiva un film di Charlot. Non possiamo saperlo, naturalmente, che cosa gli passava nella mente e nel
cuore, e d’altra parte l’ingenuità, la semplicità e l’immediatezza dell’accostamento al cinema di 70, 80 anni fa
non esistono più e sono irrecuperabili. Con un’eccezione: Benigni è forse oggi l’unico che un po’ riesce a
restituirle e riportarle in vita. Benigni, senza retorica, è un vero miracolo.
Prendiamo uno dei momenti più suggestivi ed emozionanti di La tigre e la neve, quando il poeta Attilio
(Roberto), dal capezzale dell’amata moribonda tra i disagi e le emergenze di un ospedale di Bagdad in
guerra, si raccomanda ad Allah ma con le sole parole di preghiera che conosce, il Padre Nostro. Chi altro
avrebbe potuto sostenere credibilmente una scena così senza farsi assediare dall’enfasi o dalla banalità o
dal ridicolo? Solo lui può riuscire a farne una miracolosa sintesi di sentimenti autentici e universalmente
sentiti. Se questa è la parte per il tutto lo stesso discorso vale per l’idea e il sentimento complessivi del film:
la vitalità poetica, fantasiosa, innamorata, in definitiva la fede nella vita, può battersi e forse vincere contro
tutti gli ostacoli e tutte le brutture di cui è capace l’umanità, dà nelle condizioni più ostili e disperate la forza
per non arrendersi e resistere. Togliete quest’enunciazione, diciamo pure questa verità, dalla bocca,
dall’espressione, dalla gestualità, dalla inimitabile conunicativa di Benigni si sgonfierà sotto gli sguardi
scettici o cinici dei più che direbbero: non scherziamo, la guerra vera è un’altra cosa da questa favoletta
(obiezione, sia pur minoritaria, anche autorevolmente sollevata già in occasione de La vita è bella).A lui
invece crediamo. E mettendo da parte ogni considerazione “critica” - la prima delle quali, confermata, è che
Roberto è un regista piuttosto mediocre - non possiamo che ringraziarlo per quello che ci dà.
Natalia Aspesi - La Repubblica, 5 ottobre 2005
La vita è bella anche in Iraq, e il fantasioso ornino che pareva morto in un campo di concentramento per
salvare la sua dama e il suo bambino, scampato per un pelo anche alla trappola di Pinocchio, riappare a
Bagdad, in piena guerra, con tutto il suo fardello poetico e la sua innocente energia, armato, come sempre,
tra bombe e terrore, dell’arma più invincibile e aliena, l’amore. Sono passati tre anni dallo sfortunato
Pinocchio, e finalmente Roberto Benigni presenta il suo nuovo e atteso film, La tigre e la neve, di cui è
regista e protagonista, come sempre.
L’omino che sorride sempre alla vita questa volta si chiama Attilio ed è un poeta capace di improvvisare, per
le sue due figlie adolescenti,versi di grande :utilità domestica: come «ragno esci dal bagno» oppure
«pipistrello sei tanto bello sulla tua destra c’è la finestra». A Roma insegna poesia all’università, gettandosi
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per terra e gridando agli studenti, «innamoratevi, sperperate l’allegria, trasmettete felicità, fatevi obbedire
dalle parole!». Ha un sogno ricorrente, lui in mutande e canottiera, davanti a un prete ortodosso e tra le
rovine illuminate dalla luna, che sposa la donna amata, Vittoria, vestita di bianco: e tra gli invitati ci sono
Borges e Montale, Ungaretti e la Yourcenar. E Tom Waits col solito cappellino che suona e canta una sua
canzone. Nel sogno, ma anche nella sua vita intrisa di versi, spesso i personaggi parlano con le parole di
D’Annunzio e Majakovskij, di Caproni e Neruda, di Eluard e Tagore, un azzardo che poteva essere molto
antipatico ma che Benigni, e con lui Vincenzo Cerami cosceneggiatore, sanno rendere plausibili e
trascinanti, sorretti dalla musica di Nicola Piovani. Vittoria è naturalmente Nicoletta Braschi , l’amatissima
moglie nella vita, che Benigni s’ostina ad amare anche nei suoi film: qui la spettinata e un po’ arcigna
signora non lo vuole assolutamente, resistendo a un corteggiamento goffo e imp1acabile. Dovunque lei sia
lui c’è, e quando lei si ritrova in corna in seguito a un bombardamento americano in un miserevole ospedale
di Bagdad, anche lì, miracolosamente, lui c’è. Vittoria, che è una scrittrice, era andata laggiù per intervistare
il sommo poeta irakeno Fuad (Jean Reno) ed è lui ad avvertire Attilio. E mentre la Braschi per una buona
parte del film resta in coma, con una certa soddisfazione degli spettatori, non un ostacolo ferma Benigni che
è deciso a salvare l’amata: non l’impossibilità di raggiungere Bagdad che lui raggiungerà, fingendosi medico
della Croce Rossa, non un cammello disubbidiente che lui domerà, non la mancanza di medicine che lui
troverà, non un campo minato da cui si salverà, non il posto di blocco americano dove i soldati lo scambiano
per un kamikaze e da cui si libererà dicendo: «Sono un poeta». Prima ancora di aver visto il film, si è. già
riformato il fronte genericamente anti-Benigni che ha il suo apice nel Foglio, un fronte che odiandolo per
ragioni che non hanno a che fare col cinema, randella i suoi film non con il libero esercizio di critica, ma con
lo sdegno e addirittura il disgusto, sentimenti comunque esagerati per cose di cinema. Oppure annunciano di
non volerli neppure vedere già sapendoli orribili. Si sa che l’attore-regista ha per i suoi esorbitanti nemici tre
grandi difetti: è una celebrità internazionale, con tre Oscar per La vita è bella, che in Italia ha avuto la cifra
record di 7 milioni di spettatori, altri suoi film sono stati in cima agli incassi, in più non è di destra, situazione
imperdonabile per un irresistibile comico di successo ancorché toscano. Già l’avevano inutilmente
sbeffeggiato per aver osato affrontare con il sorriso un tema tragico come l’Olocausto (ma Israele aveva
accolto il suo film con entusiasmo, premiandolo), adesso figuriamoci, Benigni porta i suoi monologhi di
massimo divertimento nel luogo più tragico di questi ultimi anni, l’Iraq devastato dalla guerra. Quindi i suoi
odiatori erano pronti ad accusarlo dì leggerezza, di antiamericanismo, chissà, forse anche di appoggio al
terrorismo. Ci resteranno malissimo. Pensando probabilmente al mercato degli Stati Uniti, i soldati americani,
a parte una sola azione di rastrellamento incruento, appaiono dei bonaccioni che difendono l’ospedale e che
se non abbassano le armi davanti a un italiano, lo fanno per un poeta. La guerra è qui come il campo di
concentramento in La vita è bella: sta sullo sfondo, senza orrore, senza sangue, senza strazio. È la vitalità di
Attilio a cancellare. la realtà: lui salta irrèfrenabile tra bombe e incendi, tra gente che fugge e gente che ruba,
tra carri armati che presidiano le strade e donne velate di nero che corrono nella moschea. In una fatata
scena notturna lui e Fuad stanno seduti sulla testa abbattuta di Saddam, mentre la statua acefala
giganteggia in un paesaggio metafisico che pare appunto un quadro di De Chirico reinventato da Fellini. Non
ci sono cadaveri nelle strade per lo sguardo di Attilio, che sta correndo per la vita dì Vittoria e non ha tempo
di vederli. Ancora una volta Benigni ha bisogno di usare la realtà come una favola: non. una scena ricorda le
immagini spaventose cui ci hanno abituati i telegiornali. E per esempio, evita ogni patetismo scegliendo di
non mostrarci quelle che sono le vittime più rincorse dai telereporter, i bambini: la sola bimba che vediamo,
non è nella polvere e nel fragore della guerra, ma nel quieto giardino di una bella casa mentre sorride e
disegna serena. Un film irrealista, melenso, di buoni sentimenti, opportunista? Forse. Ma in un momento di
diffuso catastrofismo, di paura, do disimpegno e rassegnazione, La tigre e la neve (ahi, alla fine in piena
Roma una tigre attraversa la strada sotto i fiocchi di neve) diventa un messaggio morale necessario: non
perdere mai la speranza, non arrendersi agli orrori, non accettare lo sfacelo, lottare, essere certi di farcela. E
anche pregare, come fa Attilio, recitando ad Allah il Padre Nostro.
Simonetta Robiony - La Stampa, 23 giugno 2005
Massima attesa e massimo disordine per Roberto Benigni, alle Giornate professionali del cinema dedicate
come ogni anno a mostrare a distributori ed esercenti la produzione della prossima stagione. Per lui, farsi
vedere in carne e ossa, dal popolo dei cinematografari che affolla l’auditorio di via della Conciliazione è un
dovere. Se il suo nuovo film «La tigre e la neve», in uscita il 14 ottobre per la 01 della Rai e non per la
Medusa di Berlusca, andrà bene, l’orribile annata potrebbe avere un sussulto e gli incassi potrebbero risalire.
Benigni entra con una delle sue famose corsette con scivolata finale e si lancia in un monologo
apparentemente senza capo né coda, come quelli in cui è specialista, ma che invece tra un passaggio
illogico e un altro, contiene brillantini di verità. «Sarei voluto venir qui da voi, cari esercenti, con torte, fiori,
champagne perchè è a voi che devo il mio grazie. Voi avete le sale cinematografiche, il meglio che si possa
possedere. Quand’ero ragazzino i film erano tutti belli, tanto che bastava scegliere la sala: non si poteva
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sbagliare. Si dovrebbe tornare a quei tempi. Io però allora ero talmente povero che per entrare nel
cinematografo del mio paese senza pagare il biglietto pensai di diventare amico del figlio dell’esercente che
si chiamava Eliseo, era furbo e non ci cascò. Così il primo film che ho visto con le mie sorelle, l’ho visto
d’estate in un campo di grano da dietro lo schermo. Era “Ben Hur” ma io che l’ho visto all’incontrario credevo
si chiamasse “Ruh Ben”. Il mio sogno allora era di avere anch’io una sala per vedere tutto. Non ho avuto la
sala, ma ho fatto i film e questo mio ultimo film è un messaggio d’amore totale. Del resto dalla Bibbia a Totò
si parla sempre d’amore perchè l’amore è la cosa più potente. Ma qua ce n’è di più che altrove perchè si
mischia alla guerra, alla pace, agli inseguimenti, alla poesia, alle barbabietole. È un amore così forte che
quando si vede ci si innamora: il microfono si innamora, le scarpe si innamorano. Perfino Calderoli potrebbe
innamorarsi e sarebbe un peccato perchè poi dovremmo castrarlo. Questo mio film, per me, è veramente
bello: accarezza lo spirito e fa venir voglia di tornare al cinema a vedere altri film. Del resto in un cinema ci
sono solo due cose: lo schermo e le sedie e bisogna riempirle tutte e due». Di «La tigre e la neve», il perfido
ufficio stampa della 01 manda le immagini solo alla fine di un promo lunghissimo in cui viene sciorinata tutta
la richissima distribuzione che questa società della Rai ha messo in cantiere per il 2005-2006. Si vede
Benigni in mezzo al deserto, Benigni che saltella su un campo minato, Benigni che monta su un cammello, e
poi Nicoletta Braschi, splendida come non mai, che lo rimprovera, Nicoletta Braschi in abito da sposa su un
tram, Nicoletta Braschi a cui Jean Reno dice: «Come son belle le donne quando hanno deciso di far l’amore
tra poco». La storia, scritta con l’amico Cerami, racconta di Benigni-Attilio De Giovanni, poeta senza fama,
preso da insana passione per Nicoletta Braschi-Vittoria che lo respinge senza pietà. Lui non si arrende
anche se il risultato sperato non arriva. Finiranno in Iraq, in mezzo alla guerra, dove Benigni che non ha mai
toccato un’arma dovrà imparare a difedersi ma dove stringerà anche amicizia con il grande poteta arabo
Jean Reno. Il film, escludendo l’Iraq per motivi ovii, è stato girato tra gli studi di Papigno vicino Terni e le oasi
della Tunisia più meridionale.
Maurizio Cabona - Il Giornale, 5 ottobre 2005
La vita è bella, anche in coma, dice Roberto Benigni, lasciando da parte le fiabe di Collodi (Pinocchio) e
tornando a quella di Cerami, suo sceneggiatore di fiducia, con La tigre e la neve. E fa bene; fa meglio ad
intuire che due ore di film - da solo o con la moglie - sono troppe per lui. Cosi arruola un attore francese
d’origine italiana, Jean Reno, e ne fa un arabo credibile e simpatico che dà il colpo d’ala al film. Infatti La
tigre e la neve comincia nella Roma universitaria sfondo da Moretti più che da Benigni -, dove Benigni
imperversa, ma decolla nella pseudo-Bagdad del 2003, costruita fra Monastir (Tunisia) e Terni (Umbria),
dove lui trova Reno a contenerlo, come nel Piccolo diavolo trovava Walter Matthau. Dopo le lauree
conferitegli da atenei in cerca di pubblicità, è lecito che Benigni si veda cattedratico. Ma i suoi «numeri»
abituali, attribuiti a un docente di letteratura, seppur poeta, in un’aula di Roma III, nemmeno di Firenze o
Pisa, sono logori. Invece nel dramma di Bagdad bombardata, invasa, peggio, affamata da dodici anni
d’embargo, la farsa benigniana trova il giusto elemento di contrasto. La trasferta non avviene per filantropia
o pacifismo, ma per amore. Per tutto il film, il nostro improbabile docente universitario rincorre infatti una
saggista (Nicoletta Braschi), che gli si nega. E sempre per lei va in Irak, dove lei è arrivata per scrivere di un
poeta locale (Reno), rimanendo ferita sotto un bombardamento: in coma, ha bisogno di medicine che li non
esistono e che occorre reinventare, a cominciare dagli ingredienti, su consiglio di un vecchio farmacista. È
nella cerca di farmaci e bombole d’ossigeno che la vena chapliniana di Benigni dà il meglio e il film è più
originale. Che la gente muoia in guerra si è visto troppe volte al cinema; non s’era ancora visto quanta ne
uccida l’embargo. Abilmente Cerami collega la carenza di tutto, ma soprattutto di medicine , col momento del
posto di blocco statunitense : Benigni ci arriva in moto, carico di ciò che ha avuto dalla Croce Rossa italiana,
e viene scambiato per un guerrigliero suicida. Anziché sparargli a vista o col cannocchiale, come a un
Calipari qualunque, i militari lo lasciano andare, commossi di scoprire che è un poeta: da un lato ciò fa parte
del clima di fiaba del film; dall’altro, dell’esigenza di esportare il film negli Stati Uniti. Chi si fregia dell’Oscar
non mette sullo stesso piano americani di oggi e tedeschi di ieri.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero, 5 ottobre 2005
Charlie Chaplin ci mise un’eternità per imparare a parlare (accadde nel Grande dittatore, 1940, undici anni
dopo l’avvento del sonoro). Roberto Benigni invece ha cominciato subito e non si è fermato più. Dal dialetto
è passato all’italiano, dall’autobiografia sottoproletaria di Cioni Mario è approdato a Dante, che conosceva a
memoria. E dopo Dante ha deciso di annettersi una bella fetta di poesia del Novecento nel modo più
semplice ed efficace possibile: “rubando” le parole di Montale e Ungaretti, Majakovskij e Hikmet, D’Annunzio
e Tagore, Caproni, Neruda e molti altri ancora, per incorporarle ai dialoghi di La tigre e la neve. Perché
“incorporarle”? Non solo perché quei versi, o quei commenti al comporre versi, sono perfettamente fusi nella
sceneggiatura di Benigni e Cerami, ma perché per un comico il corpo è tutto, come per uno scrittore lo è la
parola. Così Benigni - prima sfida - diventa un poeta un po’ buffo che vive in un mondo tutto suo e dunque
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parla, sogna, ama, insegna, usando in tutta naturalezza parole degli autori citati e magari dell’amato Paolo
Conte, che anche senza musica funziona benissimo. Ma guardandosi bene dal rinunciare alla sua natura
profonda, che è appunto assolutamente, genialmente comica. Guardatelo quando si presenta all’altare in
mutande e calzettoni per sposare la donna dei suoi sogni - e infatti è proprio un sogno, costellato di
presenze illustri (appaiono Montale, Ungaretti, Borges, la Yourcenar) e di sublimi versi d’amore, ma
regolarmente interrotto da eventi triviali o magari da un incidente (l’amata lo ha respinto e nel sogno diventa
un grottesco canguro che fugge a balzelloni). Guardatelo cacciare un pipistrello entrato nella stanza delle
figlie parlandogli pacatamente in rima. O impartire ai suoi studenti una lezione sulle trappole del poetare che
è insieme un numero esilarante e un vero corso di letteratura (torna in mente La vita è bella: «Stinco etrusco,
piede italico, gamba romana...»). Naturalmente trasformare un corpo (comico) in una voce (poetica) è
impresa acrobatica. Di solito il comico è di per sé poetico (Chaplin, Keaton, Totò, Tati) o non lo è affatto
(Sordi). Ma Benigni ama le sfide, ormai lo sappiamo, tanto che qui se ne concede addirittura due. E dopo
aver dato vita a un poeta-comico, lo spedisce nell’inferno di Bagdad per salvare la sua amata, ferita da una
bomba e rimasta in coma mentre intervistava il grande poeta iracheno Fuad (Jean Reno). Comincia così la
seconda parte, la più fragile ed azzardata, quella in cui il gioco si fa scoperto e la posta più alta. Ma basta
vedere come Benigni invade, letteralmente, l’inquadratura della Botteri in diretta da Bagdad per ricordarci
che non siamo al Tg, siamo in un film comico. E il protagonista si incaricherà di sovvertire tutti i passaggi
obbligati del cinema o della tv di guerra, dal kamikaze al campo minato, dai saccheggi alle famigerate armi di
distruzione di massa (una paletta scacciamosche). Con parentesi semplicemente irresistibili (la voce di
Claudio Villa che canta granata) alternate a eccessi di sentimentalismo (quel cielo stellato su Bagdad...) e a
sterzate drammatiche del tutto ingiustificate in questo contesto. C’è un sospetto di calcolo, perché è lo
stesso schema sperimentato ne La vita è bella; ma se è già difficile ribaltare le icone della Storia, c’è
addirittura da scottarsi a toccare la più incandescente attualità. Si capisce che Benigni cercasse una cornice
estrema per questa fiaba in cui i sentimenti sconfiggono le peggiori avversità ( omnia vincit amor ).
Nondimeno la scelta dell’Iraq appare abbastanza strumentale, e all’epilogo italiano si tira un sospiro di
sollievo. Quando Benigni riuscirà a costruire tutta una storia (o una non-storia) contando solo sulle sue forze,
senza cercare alibi o scudi altrove, farà finalmente il grande film che ci aspettiamo.
Gloria Satta - Il Messaggero 23 giugno 2005
Benigni sullo schermo saltella su un campo minato, caracolla sul cammello, si ritrova atterrito in mezzo a
spari ed esplosioni, è circondato da carri armati e soldati, insegue in mutande nella notte Nicoletta Braschi
(«ma perché mi stai sempre intorno?») che fugge a bordo di un tram. Benigni dal vero, sul palco
dell’Auditorium di via della Conciliazione, regala agli esercenti uno show dei suoi, dice «questo è un film che
fa innamorare, se lo vede Calderoli va a finire che bisogna castrarlo quando esce dal cinema», e la platea
viene giù dagli applausi. Il cinema sarà pure in crisi, gli addetti ai lavori piangono sul crollo degli incassi ma
l’arrivo di Roberto Benigni, che si scomoda per accompagnare il trailer di La tigre e la neve, regala un
sussulto di entusiasmo alle Giornate professionali del Cinema. E’ la prima volta in assoluto che si vedono le
immagini di questo nuovo film, ovviamente attesissimo, girato nel segreto totale tra Roma, Papigno e le oasi
tunisine, e pronto a sbarcare nelle sale il 14 ottobre con la liturgia degli eventi epocali non foss’altro perché
la “01” ne distribuirà ottocento-mille copie. «Questo film è un messaggio d’amore: c’è tutto, c’è vita, morte,
amore, pace. Ma il messaggio più potente è quello che fa venire voglia di andare al cinema. Perché il cinema
è fatto di due cose: lo schermo e le sedie, e bisogna riempirle tutte e due», dice Roberto, saltellando sul
palco. Nel film, sceneggiato con Vincenzo Cerami, interpreta Attilio, poeta innamorato di Vittoria (la Braschi)
ma non ricambiato. E tra una peripezia e l’altra, la loro storia verrà travolta dalla guerra in Iraq. Dove avviene
l’incontro con un poeta arabo. E’ Jean Réno che, mentre infuria la violenza, filosofeggia: «Il mondo è
cominciato senza uomo e senza uomo finirà», mentre Attilio gli risponde: «Ma io amo talmente la vita che
anche da morto mi ricorderò di quando ero vivo». Roberto ha chiuso il suo breve show alle “Giornate”
inneggiando ai bei film di una volta, quelli che vedeva da bambino «quando sognavo di diventare esercente
che è il mestiere più bello del mondo perché si possono vedere tutti i film che si vogliono. Ho cercato di farmi
amico il figlio dell’esercente del mio paese, Eliseo, che però non ci cascava...così con le mie sorelle
restavamo fuori dalla sala perché non avevamo i soldi del biglietto. Il primo film che ho visto era Ben Hur,
d’estate in un campo di grano dall’altro lato dello schermo, con il titolo scritto al contrario. Così per me è
rimasto per sempre Ruh Neb ».
Valerio Caprara - Il Mattino, 5 ottobre 2005
Asfissiato da soverchianti attese, ricoperto di baci promozionali e invocato come salvatore della patria
cinematografica (come avvenne, in effetti, nell'anno santo de La vita è bella), Roberto Benigni rischia di
arrivare nudo alla meta. Deciderà il pubblico a partire da venerdì 14, quando La tigre e la neve esordirà nel
campionato dei botteghini dopo la partita a porte chiuse giocata ieri con la Nazionale dei giornalisti: del resto,
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i miracoli della sala buia non solo sono possibili, ma sono altamente auspicabili in uno scenario presidiato (si
fa per dire) dagli «autorini» accreditati soprattutto dal proprio ombelico. L'ex toscanaccio cavallo pazzo ha
forse per questo limato le note caratteristiche, dirigendo e interpretando una favoletta buona per tutti i palati,
generosamente spesa nell'attualità -la tragedia dell'Iraq, strumentalizzata a destra e a manca per biechi
interessi di parte - ma in sostanza tesa a onorare elementari temi melodrammatici come la bellezza della
poesia e l'invincibilità dell'amore romantico. Nonostante i credits di tutto rispetto -la scrittura di Vincenzo
Cerami, le musiche di Nicola Piovani, la partecipazione straordinaria del cantante Tom Waits, persino gli
effetti visivi in digitale della UBIK di Milano - sulla trama c'è infatti poco da elucubrare. Il poeta e professore
Attilio è perdutamente innamorato di Vittoria/Nicoletta Braschi, che lo respinge pervicacemente anche
perché sta scrivendo la biografia di Fuad/Jean Reno, squisito lirico iracheno esule a Parigi e in procinto di
tornare nel proprio paese. È il marzo del 2003, l'ora in cui un intellettuale si sente in dovere di condividere col
suo popolo i tormenti della guerra scatenata contro Saddam Hussein: peccato che la ragazza lo insegua a
Baghdad e ben presto si ritrovi moribonda in ospedale, vittima di un trauma cranico subito durante i
bombardamenti dell'Alleanza. Detto fatto, lo scombinato Attilio si precipita in quell'inferno deciso a
recuperare a tutti i costi l'oggetto del suo inestinguibile desiderio... Cosa può aspettarsi lo spettatore,
legittimamente disinteressato alle bolle d'accompagnamento critico? Innanzitutto un Benigni che, vuoi a
causa dell'età vuoi a causa del congegno drammatico, occupa il ruolo con stupefatta malinconia, gestualità
contenuta e letteraria rotondità di linguaggio: non a caso, più che alla irriverente e debordante marionetta de
Il mostro o Johnny Stecchino, il personaggio può raccordarsi alle fortunate letture dantesche televisive. Poi
c'è l'evidente sbilanciamento nei confronti della Braschi, che da complice spalla si è trasformata in
coprotagonista, una sorta d'icona della Donna Amata che è costretta a mostrare tutti i limiti di una gamma
d'espressioni fisse. Un difetto che finisce col riguardare anche le altre presenze, più o meno volenterose
(come nel caso di Reno) o addirittura stridenti (come nel caso del vecchio alchimista iracheno), mentre i
brani, per così dire, d'azione bellica non vanno al di là della pantomima di servizio. I sogni & bisogni
benigneschi - come del resto qualche battuta riuscita e qualche situazione surreale - hanno sempre una loro
aggraziata originalità, ma stavolta sono subissati dalle citazioni poetiche che arruolano Borges e Montale,
Hikmet e Caproni, Neruda ed Éluard e chi più ne ha più ne metta, per poi distribuirli a mano libera
nell'insistito contrappunto tra l'ammiccante, lo scontato e il superfluo. L'impronta dell'autore, in definitiva,
emerge nel sincero, vitalistico e in fin dei conti coraggioso buonismo che filtra i ringhiosi dibattiti sulla guerra,
vista «semplicemente» come negazione dell'amore e antitesi della poesia: tra un omaggio a Charlot soldato,
un altro a «Napoli milionaria!» e un altro ancora a Kusturica, il buffo sconcerto del protagonista si decide
così, finalmente, a renderne uno anche a Benigni.
Valerio Caprara - Il Mattino, 15 ottobre 2005
Da ieri in tutte le sale (almeno quelle che hanno dribblato lo sciopero), La tigre e la neve farà senz'altro
discutere il pubblico. Un fatto positivo, s'intende, perché sino a ora hanno cantato solo le sirene dei media:
per coadiuvare le reazioni personali, ci sembra giusto accludere alcune istruzioni per l'uso non ufficiali.
Rassegna stampa. Dopo l'anteprima della settimana scorsa, il panorama critico è assai variegato: un brutto
segnale per Benignaccio, di solito e con buone ragioni (La vita è bella risollevò le sorti del sempre
barcollante cinema italiano) a profusione promozionato. Curiosamente, il dato che ha provocato malcelate
delusioni e stizze è soprattutto l'approccio con cui viene presa di petto l'attualità: troppo buono con i soldati
Usa, troppo generico di fronte al caos iracheno, troppo paternalista nell'evocare i movimenti per la pace?
Tutte note, per così dire, fuori testo, tanto più incongrue quanto più accompagnate dallo stentoreo
ribadimento della statura chapliniana dell'autore/attore. Protagonisti. Anche il folletto irruente e parolacciaro
deve fare i conti col calendario. Forse per questo fa una certa impressione vederlo smarrirsi nel patetico dei
primi piani, piroettare sui temi d'amore con una seriosità inversamente proporzionale alla povertà del
dialogo. Poi c'è lo «scoglio» Nicoletta Braschi, che diventa quasi la protagonista del film e lo costringe a
concentrarsi sui suoi imbarazzanti impacci professionali. Senza contare che Jean Reno, ipotetico
contrappeso tragico dell'andamento allegro, si cala nei panni del poeta arabo con la distratta rassegnazione
di un ingaggio al minimo sindacale. Drammaturgia. La chiave narrativa è il valore universale della poesia
contrapposto all’insensatezza dei conflitti politici particolari: ma accumulare citazioni su citazioni dallo
scaffale migliore del bravo intellettuale non basta a sorreggere una favoletta buona per tutti i palati e
neppure a nobilitare l'abc del cinema melodrammatico popolare. Per di più i brani d'azione bellica, che
dovrebbero risultare purtroppo cruciali, non vanno al di là della pantomima allestita alla buona in set
occasionali. Significati. I sogni & bisogni benigneschi - come del resto qualche battuta riuscita e qualche
situazione surreale - hanno sempre una loro aggraziata originalità, ma stavolta sono distribuiti a mano libera
nell'insistito contrappunto tra l'ammiccante, lo scontato e il superfluo. L'impronta dell'autore, in definitiva,
emerge proprio nella pietra dello scandalo e cioé nel buffo, vitalistico e persino coraggioso sconcerto che
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filtra i ringhiosi dibattiti sulle pene di Baghdad, strumentalizzate a destra e a manca per meri interessi di
parte.
Antonello Sarno - Il Tempo, 30 settembre 2004
All'auditorium di Roma è una giornata speciale. Molto. Già, perché nel tempio della musica oggi, invece, è il
momento del grande cinema, con Roberto Benigni che proprio nel cortile del complesso architettonico
costruito da Renzo Piano sta girando una delle scene-chiave del suo nuovo film «La tigre e la neve», scritto
insieme all'amico Vincenzo Cerami e già attesissimo nelle sale per la fine del prossimo anno. «Ieri abbiamo
appreso della notizia della liberazione delle "due Simone"! - esplode Benigni, contagioso d'entusiasmo - E
così abbiamo applaudito due volte, una per ciascuna, abbiamo stappato due bottiglie ed ognuno di noi ha
bevuto due bicchieri alla loro salute! "Le" Simone... "Simonacce"... le inviterò alla prima del film... Con quel
gesto di togliersi il velo, una tra le scene più cinematografiche, anzi... più "idrauliche"... - scherza l'attore,
sorridendo con tenerezza - che abbiamo visto nella tv degli ultimi tempi. Dietro quel velo che scivola giù dai
loro volti, io ho riscoperto la nascita del firmamento, di un cielo stellato». La scena che Benigni sta girando
all'Auditorium è uno dei punti nodali di tutto il film. Si tratta dell'incontro tra Attilio De Giovanni, questo il nome
del personaggio interpretato dallo stesso Benigni, (cioè un poeta stravagante, come è facile immaginare) e
Vittoria, la donna di cui Attilio si innamorerà perdutamente, non ricambiato. E che ha come sempre il volto di
Nicoletta Braschi, anche produttrice del film insieme a Elda Ferri, mentre le musiche sono di un altro premio
oscar come Nicola Piovani. Nel film, per Attilio, la storia d'amore parte subito male e così, per conquistare la
donna dei suoi sogni, il poeta non si risparmia neppure le situazioni più comiche, anche se i risultati non
saranno quelli sperati. Ma non basta. Un po' come ne «La vita è bella», ad intralciare un amore possibile, si
frappone anche una guerra impossibile, come quella in Iraq. «Una guerra - dice Benigni, stavolta
seriamente - che sembra lontana ma non lo è realmente, perché ha cambiato e sta cambiando il modo di
vivere le nostre vite. Per questo non è casuale che sia nel film. Perché, anche se la guerra resta comunque
sullo sfondo delle storie dei due protagonisti (il terzo è Jean Reno, nel ruolo di Fuad, un poeta arabo ndr) è
comunque ben presente nei loro destini tanto quanto nei nostri». In realtà, proiettato in Iraq a causa di un
evento imprevedibile, il povero Attilio si troverà costretto a combattere la sua guerra personale contro
l'inferno di fuoco e distruzione iracheno, malgrado non conosca una sola parola di arabo e non abbia mai
visto un dromedario salvo che allo zoo. Una guerra che lui combatte con la sua unica arma, la poesia. «Io
credo che ognuno di noi possa combattere la guerra facendo al meglio ciò che sa fare - afferma Benigni Mio padre lo faceva coltivando con tutto l'amore possibile i suoi campi di zucchine e piselli. Io, invece, cerco
di contribuire tentando di fare meglio che posso i miei film. Film come questo. In cui, semplicemente, cerco di
far capire che vivere è un modo di affrontare la vita, anche la più difficile. Ognuno di noi può contribuire con
un verso, un'immagine, uno sguardo od una frase a fermare l'orrore della guerra. Esattamente come nel film
tenta di fare Attilio, il mio personaggio, che infatti è un poeta. Perché è compito dell'artista, almeno
dell'artista, è di continuare a credere nella vita».
Gian Luigi Rondi - Il Tempo, 5 ottobre 2005
Ancora, per Benigni, il pianto e il riso. Sublimati da un fortissimo sentimento d’amore. In una cornice in cui, di
nuovo, ha spazi ampi la tragedia. Nella Vita è bella, un campo di concentramento nazista, in questo film, la
guerra, anzi, una delle più insanguinate di oggi, quella in Iraq. Nella favola, che è anche cronaca — scritta
da Benigni con Vincenzo Cerami — si prende lo spunto da un poeta, che non a caso si chiama Attilio come il
compianto Bertolucci. È esuberante, disinibito, insegna poesia all’università un po’ a modo suo, però è
anche un buon padre di famiglia nonostante le sue bambine, svagato com’è, rischi di accompagnarle a
scuola sempre in ritardo. Nella sua vita c’è un grande amore, per Vittoria, una studiosa di cui si sogna sia di
giorno sia di notte, perso di continuo nelle sue fantasticherie. È sempre respinto, ma lui non demorde così
quando apprende che, per il suo lavoro, non solo è finita a Baghdad ma, essendoci arrivata proprio all’inizio
della guerra, è stata ferita in modo gravissimo, lui non esita e la raggiunge addirittura in motocicletta e poi
perfino a dorso di cammello. Un’impresa, tuttavia, che non si conclude così perché adesso, in quella città
disastrata in cui manca tutto, Attilio dovrà fare i salti mortali per trovare le medicine con cui fare uscire
Vittoria da un coma. Appena ci riuscirà non si godrà la gioia di quella guarigione perché, per un equivoco,
finirà in un campo di prigionia americano. Un lieto fine comunque ci sarà, a differenza della «Vita è bella»,
ma si dipanerà in una cifra che, furbescamente, mirerà alla sorpresa. Tutta l’azione fa perno su Benigni,
attore, sceneggiatore, regista. Specie quando il suo personaggio lo affida a una furia amorosa che lo induce
a compiere le imprese più spericolate e più folli. Trovando sempre, in questa follia, due occasioni in
contrasto tenute regolarmente in equilibrio fra loro: il dramma, affannoso, violento, pronto a percuotere, e la
commedia, spinta a volte, perfino verso la farsa, con giochi, lazzi, scherzi di gustosissimo effetto però ogni
volta nelle misure giuste, perché non vi si infiltrino eccessi. Con la possibilità, per Benigni attore, di cavalcare
il suo film dalla prima pagina all’ultima: ora frenetico, euforico, veemente, ora sommesso, dolente, quasi
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disperato. Con una recitazione che domina tutto con maestria, anche quei dialoghi in cui, intenzionalmente,
si fanno strada i versi di notissimi poeti. Al suo fianco Nicoletta Braschi, come Vittoria, e Jean Reno, nei
panni di un letterato iracheno di cui lei intendeva scrivere la biografia: lo spunto per quel viaggio in Iraq che
irrompe nella favola.
Francesco Bolzoni - Avvenire, 5 ottobre 2005
Il grande segreto che ha accompagnato la lavorazione di La tigre e la neve è, adesso, risolto. Lo stesso titolo
dell’ ultimo, molto atteso, film di Roberto Benigni (che arriverà nei cinema italiani il 14 ottobre) viene chiarito:
è un riferimento a una stampa di Katsushita Hokusai, un rimando analogico (proprio come nella poesia
contemporanea) alla famosa xilografia che descrive una tigre sbucata dalla neve. Fuggita con altri animali da
un circo proprio una tigre, superba ma benevola, compare in una nostra città. Si ferma davanti all’
automobile guidata da Nicoletta Braschi. Fissa negli occhi Vittoria, la ragazza che anima i sogni di Attilio De
Giovanni (Benigni), poeta in proprio e insegnante di poesia all’università. Poi, maestosamente, si allontana,
quasi si dissolve nell’aria. La tigre e la neve è un’opera sincera, riuscita in molti brani, coraggiosa nella
veridica descrizione dell’Iraq occupato, partecipe nell’omaggio alla poesia, l’arte che consente a chi ne è
dotato di percepire la realtà delle cose e di comunicarla gli altri dandole valenza estetica. Attilio De Giovanni
è innamorato sia della poesia che della ragazza Vittoria che, in abito dà sposa, gli appare nei sogni, in una
cerimonia nuziale dove, confusi tra gli invitati, si scorgono poeti famosi del ‘900 italiano; e un altro poeta,
l’iracheno Fuad (Jean Reno), prende parte come personaggio al racconto, prima a Roma e dopo in Iraq. Qui,
per sfuggire alla corte insistente dì Attilio, lo raggiunge Vittoria che su di lui sta completando un libro (non lo
finirà mai dato che, quasi a dirci che la poesia non risolve i mali del mondo, Faud si suicida). La ragazza, a
causa di un attentato, precipita nel coma. Negli ospedali mancano i mezzi per curarla. I modi escogitati da
Attilio per arrivare a Bagdad, le sue avventure e la sua inventiva nel procurare le medicine, il suo
internamento in un campo di raccolta di ribelli sono ricche di annotazioni significative. Ma pur tra lo scialo di
citazioni di poeti, il film manca di necessità poetica, ed è inferiore a La vita è bella, forse non a Pinocchio che
convinse una larga parte di spettatori e chi scrive. Si augura la stessa fortuna, anche per il coraggio di scelte
estreme, a La tigre e la neve che, nel desolato panorama del cinema italiano, si impone favorevolmente
all’attenzione dello spettatore che voglia evitare la solita merce più o meno adulterata. Roberto Benigni
controlla a meraviglia la propria recitazione, meno persuasiva è Nicoletta Braschi. Perfetti gli esterni tunisini
che simulano l’Iraq delle bombe, delle mine, degli ospedali alla deriva, dei posti di controllo sorvegliati da
nervosi soldati americani, della povera gente che vive inquiete giornate.
Raffaella Leveque - Il Mattino, 23 giugno 2005
«Quando la gente uscirà dal cinema dopo aver visto questo film avrà voglia di innamorarsi, persino Calderoli
s’innamorerà a poi bisognerà castrarlo». È un fiume in piena come il solito, Roberto Benigni, arrivato ieri alle
Giornate professionali di cinema per presentare il suo ultimo film, «La tigre e la neve», nelle sale dal 14
ottobre. Nella sala gremita grande attesa per la star italiana più amata, che ha regalato al pubblico un breve
ma esilarante show. È arrivato saltellando, come un burattino e, presentato da Filippo Roviglioni della 01
Distribution, Benignaccio ha conquistato applausi e risate. «È bellissimo stare qui - ha cominciato tutto d'un
fiato - era da tanto tempo che non avevo un palco così grande». E per dimostrarlo lo ha attraversato a grandi
falcate, con passo trionfante. «Siete molto fortunati ad avere dei cinema - ha detto alla platea di esercenti di
tutt’Italia - E vi invidio per quanto questo film è bello e perché avrete la fortuna di farlo vedere nelle vostre
sale», ha continuato, facendo una garbata e ironica propaganda al suo «La tigre e la neve». Un film di cui
non ha mai voluto parlare molto, scritto con Vincenzo Cerami, che racconta la storia di un poeta, Attilio De
Giovanni (interpretato da Benigni), innamorato pazzo di una donna, Vittoria (interpretata dalla moglie
Nicoletta Braschi). Ma il suo amore purtroppo non è corrisposto e così Attilio cerca di conquistare Vittoria nei
modi più stravaganti, ficcandosi in situazioni di tutti i tipi, fino a sbarcare per una serie di coincidenze in Iraq
dove è appena scoppiata la guerra. Pochissime immagini del film, su cui c’è grande riservatezza della
produzione, sono state mostrate al pubblico degli addetti ai lavori: scene di un'enorme bandiera arcobaleno
della pace che si distende sulla facciata di un palazzo, di Attilio-Benigni in Iraq in un campo minato e in
groppa a un cammello. E ancora duetti romantici con Vittoria-Braschi, che compare anche vestita da sposa,
e scambi di battute con l'altro protagonista del film, l'attore francese Jean Reno, che interpreta un grande
poeta arabo. È il poeta che dice all’innamorata una delle battute-chiave del film: «Come sono belle le donne
quando hanno deciso di fare l’amore tra poco». «Spero che lo amerete come l'ho amato io - ha detto ancora
Benigni - ”La tigre e la neve” è un film che non si può spiegare, non si può descrivere, il "fuoco" che c'è
dentro è troppo grande. È un film che parla della voglia di innamorarsi che nella vita è tutto» ha continuato:
«L'amore è l'argomento principale di tutte le grandi storie, dalla Bibbia a Totò. E in questo film c'è tutto
l'amore che potevo provare, ma anche la vita, la morte, la guerra e la pace». Dopo le prime battute sul film,
Benigni ha anche raccontato, con humour spericolato, di quando da ragazzino cercava di fare amicizia con il
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figlio del proprietario del cinema del suo paese solo per entrare gratis alle proiezioni. «L'esercente è il mio
mestiere preferito - ha detto - quando ero ragazzo non avevo i soldi per andare al cinema e con le mie
sorelle cercavamo tutti i mezzi per entrare. Avevo tentato di fare amicizia con Eliseo che aveva un cinema al
mio paese, per entrare a scrocco, ma lui non c'è mai caduto. Aveva capito che era un'amicizia troppo
interessata. Così sono stato costretto ad adattarmi. Il primo film che ho visto è stato “Ben Hur”, ero in un
campo di grano dove si vedeva la scritta del film al contrario. Per me quel film è sempre stato “Ruh-neb”».
«Per convincervi a prendere il film nelle vostre sale - ha quindi detto Benigni rivolto agli esercenti - avevo
chiesto al presidente di Rai Cinema Leone di fornirmi di fiori e torte da regalare, ma lui non mi ha dato
niente. Ma vi assicuro che verrò in tutte le sale in cui mi chiamerete». «Vorrei che si tornasse ai vecchi
tempi, quando si sceglieva la sala dove andare e non i film, perché erano tutti belli» ha concluso prima di
lasciare spazio alle immagini. «Il messaggio più alto di questo mio film è proprio cercare di far tornare nel
pubblico la voglia di andare al cinema. Lo dico sempre: il cinema è fatto da due cose, lo schermo e le sedie,
bisogna riempirli tutti e due».
Gabriella Gallozzi - L’Unità, 30 settembre 2004
Correndo da una sedia all’altra, da una telecamera ad un microfono Roberto Benigni si è offerto ieri alla
stampa, sgambettante come al solito, per una visita del suo nuovo set, «blindatissimo» anch’esso come al
solito. Il luogo è l’Auditorium romano di Renzo Piano e nella cavea la banda dei carabinieri suona - su
musiche dell’inseparabile Nicola Piovani, allegri motivi, destinati a fare da colonna sonora al primo incontro
dei protagonisti: Roberto Benigni, nei panni del poeta Attilio e Nicoletta Braschi in quelli di Vittoria, la sua
amata che, stavolta però, non corrisponde minimamente la passione dell’uomo. Questo non è che l’incipit,
poiché La tigre e la neve, scritto ancora una volta da Benigni con Vincenzo Cerami, è un film che attraverso
la figura del poeta arriva a raccontarci della guerra in Iraq, con tanto di ricostruzioni d battaglie, armi, truppe
Usa, inglesi e persino -racconta lo stesso regista - riferimenti diretti a Bush e Berlusconi, «ma senza fare
nomi». La voglia dì questo film, infatti, dice Benigni, viene proprio da qui. Da questa sorta di volontà di
«neutralizzare» l’orrore della guerra attraverso le «armi della poesia». Così come fece già col film
sull’Olocausto che gli fruttò la gloria planetaria. «Se La vita è bella era un inno alla vita, La tigre e la neve è
un salto fino a Sirio», conferma il regista. Il «salto», l’entusiasmo, la gioia sono, infatti, la «materia prirna» di
cui è costituito il protagonista. «Un poeta che è l’emblema stesso della vita - spiega -‚ che ama persino ogni
più piccolo granello di sabbia e che scova la poesia anche in un lampadario». Un personaggio al quale
Benigni aveva pensato da tempo e che, di «fronte allo scoppio di questa guerra insensata», ha trovato
naturale inserire nel racconto di La tigre e la neve. «A questo film pensavo da due anni - racconta Benigni poi nel marzo del 2003 con l’inizio del conflitto mi sono deciso: questa guerra ormai è entrata a far parte dei
nostri incubi, sconvolgendo le nostre vite. È sempre di più è chiaro che nessun massacro può fermare un
massacro. Allora mi sono detto: cosa c’è di meglio di una commedia per raccontarla? Il personaggio del
poeta ci andava benissimo, così è finito in Iraq, dove grazie alla sua poesia riuscirà a far nascere la vita», in
compagnia di un altro grande poeta arabo che avrà il volto insolito di Jean Reno. Roberto Benigni, infatti, si
dice convinto che di fronte all’orrore delle guerre, «la più antica passione dell’uomo», ognuno di noi può fare
qualcosa «Ciascuno - prosegue - deve continuare a fare quello per cui è chiamato. Mio padre, per esempio,
era un contadino e sapeva far crescere bene le zucchine, lo faccio il regista e cerco di continuare a fare film
al meglio». Poiché - prosegue -«alla base del mio lavoro c’è prima di tutto l’istinto della bellezza e della vita»,
quello stesso istinto cioè che l’ha spinto, come più volte aveva spiegato allora, a portare sul grande schermo
il suo Pinocchio, meno fortunato degli altri film e sottoposto al fuoco incrociato delle polemiche per via della
distribuzione Medusa - braccio cinematografico del premier -‚ subentrata in corsa a Cecchi Gori. Fatto sta
che per il momento La tigre e la neve, la cui uscita è prevista intorno ad ottobre 2005, non ha ancora una
distribuzione, come spiega Nicoletta Braschi in veste di produttrice sottolineando che «le richieste dei
distributori sono molte e ci dispiace non poterle soddisfare tutte».
Furio Colombo - L'Unità, 5 ottobre 2005
Provate a immaginare questa scena. «La signora Nesma Abdul Razzaq, che ha accanto i due bambini di 9 e
1 2 anni, in uno spazioso pianterreno del quartiere di Khadra (classe media, laurea in economia, come il
marito) racconta: “Stamattina qui sono passati gli insorti. Hanno attraversato la stanza, si sono appostati a
quella finestra e hanno fatto fuoco su un convoglio americano. Nel pomeriggio i soldati americani hanno
occupato il mio soggiorno, voltato i mobili per proteggersi dai colpi e hanno fatto fuoco contro gli insorti che
erano fuori. Poi sono andati via tutti. Ma stanotte o domani mattina ritornano, insorti e soldati, nella mia casa
e in tante altre case. Mi dica lei come facciamo a vivere...”». Sto traducendo da pag. 5 del New York Times
del 3 ottobre (articolo da Baghdad di Sabrina Tavernise). E ho appena visto il nuovo film di Roberto Benigni,
La Tigre e la neve. La scena che ho tratto dal New York Times non c’è nel film, ma appartiene al film, al
modo in cui la realtà, o meglio il senso incomprensibile degli eventi, si trova, neanche tanto nascosto, nella
follia dei poeti. Sanno tutti, ormai, che il film riguarda un poeta, un amore folle e la follia della guerra. La
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mossa di Benigni è tra le più arrischiate. Fa di una piccola privata vicenda d’amore il centro della storia. Anzi,
della Storia. Nel senso che il Destino dipende dall’amore e dalla salvezza di una sola persona. E fa della
guerra una tremenda, sgangherata sequenza di eventi di fondo, una metafora o, meglio ancora, la
rappresentazione della vita. Tu la attraverserai (a piedi, o sul cammello, o rubando un posto in aereo, o
fingendoti un altro, o camminando come un Charlie Chaplin, allo stesso tempo ansioso e svagato, nel
deserto) a qualunque costo, se hai una ragione. La sola ragione che ti induce a non impiccarti di fronte a
quel paesaggio d’orrore, è un filo d’amore che ti tiene ben legato a qualcuno, dunque alla vita. Vorrei che i
lettori che non hanno ancora visto il film di Benigni, restassero, mentre leggono, vicini alla quieta e tollerante
follia della signora Nesma Abdu1 Razzaq di Baghdad, che vede il suo soggiorno attraversato da ribelli e
soldati, mentre cerca di far fare il compito ai bambini. L’ho già detto, lei non c’è nel film. Ma è come un sigillo
di realtà, che viene dato alla storia incredibile del poeta e della tigre da un occasionale articolo di giornale,
che leggo per caso la mattina dopo una visione del film. Nella Tigre e la neve non c’è la guerra nel senso
dell’orrore, dei cadaveri, delle mutilazioni, del sangue con cui la guerra viene patita da chi non c’entra,
dunque da quasi tutti. C’è un paesaggio poeticamente artefatto nel quale entrano ed escono soldati
allucinati, cittadini spaesati, folle di profughi che scappano e tornano, e in alto - quando non ci sono
esplosioni - un cielo da Mille e una notte, con le stelle e la luna. C’è la donna amata che è in uno stato
magico di sospensione: viva o morta? É una fiaba. Ma non la risveglia il bacio. La fiaba si svolge nel
sottoscala di un ospedale di Baghdad, semidistrutto, colmo di degenti che forse sono vivi e forse so no morti,
un solo medico che parla dolcemente arabo e nessuna medicina per aiutare e soccorrere. Non resta che
giacere e aspettare. «Solo Allah vi può salvare» prescrive inaspettatamente il medico a mani vuote, in una
delle poche frasi comprensibili che riesce a dire. E allora il poeta Benigni si inginocchia, guarda il cielo, che è
un soffitto diroccato, si accorda con Dio («Vado, Allah?») e recita il «Padre nostro» dicendo a noi e a se
stesso: «Tanto Allah mi capisce». Benigni, il poeta, ha un suo doppio che è Fuad, il poeta . Uno è italiano ,
l’altro iracheno, ma la differenza conta pochissimo. Intorno a loro Benigni, il regista, costruisce un universo
che solo in parte, solo in apparenza, è fatto di scene italiane di vita quotidiana e scene irachene di vita
sventrata, che però testardamente va avanti e che torna a riprodursi dovunque mentre sparatorie ed
esplosioni continuano. La vera costruzione, che è anche lo straordinario e unico materiale con cui è
fabbricato il delicatissimo edificio di Benigni, è la poesia. Misteriosamente ciascun personaggio apre la bocca
e cita qualcosa di grande o importante o bello o memorabile o consolante o drammatico o notissimo o
sconosciuto, che è stato detto nel mondo che chiamiamo cultura. «Babele», dice il poeta iracheno al poeta
italiano, «è stata costruita non lontano da qui. Da allora tutti sanno e nessuno capisce». Ma la biblioteca di
Babele si è sparpagliata in tutto il dialogo e in tutte le scene del film di Benigni. In esso quasi ogni battuta è
una citazione. E il potere magico della citazione è dì rilanciare ogni frammento di narrazione che. come in
«Mille e un a notte » , potrebbe generarne un’altra e un’altra e un’altra ancora. Nel film le parole, come le
immagini, rappresentano un brulicare di vita senza fine, una tenace e accanita opposizione alla morte che
nega la guerra più di un progetto politico (anche se un gigantesco bandierone della pace precipita in scena
quasi a metà del film). Questo film di Benigni è come la cupola del Pantheon, che non ci dovrebbe essere
ma c’è, che non si poteva costruire, con la tecnologia del tempo, ma ha resistito ai secoli, fatta con materiali
che non si possono usare (diversa consistenza, diverso peso, diversa durata) e tutto è ancora in piedi.
Giustamente nessuno ha tentato finora di fare un film sulla guerra in Iraq. Sentite le parole che una madre
americana ha scritto sulla tomba di uno dei soldati caduti: «Questi fiori possono fiorire per sempre. Ma non
cambieranno il fatto che sei morto per niente». Sentite cosa scrive Bob Herbert, sul New York Times del 4
ottobre: «Nessuno di noi oserà dirvi che bravi e coraggiosi soldati sono morti per incarnare le fantasie
insensate di politici inetti». Non ci sarà Apocalypse Now o Full Metal Racket del vivere e del morire per le
strade e le autostrade irachene. Ci resterà però l’immagine di Benigni poeta che va nel deserto da solo, e
un cammello si affianca e gli fa compagnia (gli animali e la loro dignità hanno un ruolo e un senso in questo
film). Ci resterà 1’immagine del poeta ostinato che tenta di forzare un posto di blocco, imbottito di medicinali
che vuole portare dove manca tutto. La scena è tre volte comica perché, nel codice del film, sappiamo che il
poeta non esploderà e i soldati, benché minacciosi, non spareranno. Perché i soldati sono stupiti o sconvolti
dalla vita che fanno e uno trema fino al rischio di non controllarsi. E perché il protagonista grida: «Sono un
poeta!», sconvolgendo il senso di tutta la sequenza nel film, come nella vita. Improvvisamente appare
l’immagine del poeta Fuad impiccato a una trave della sua casa piena di fontanelle e di fiori, come se la
poesia potesse preservare uno spazio privato dalla distruzione. Ma il corpo senza vita oscilla appeso alla
fune e dice, nel mezzo di un film di speranza: «nessuno è escluso». La magia è dentro di noi. Il suo miracolo
è indurti a salvare altri. Ma non c’è al-cun privilegio o garanzia di salvare te stesso. I soldati vengono avanti
di qua e di là con le armi spianate e i carri armati giganti e non sono né cattivi né buoni, sono esseri umani
sradicati dalla vita come la folla che scappa e che torna, che si nasconde e lavora, che ha tutti i negozi aperti
e possiede solo merci abbondanti e inutili. Le scene sono costruite in modo da rivelare la loro natura di
«set», di ambiente costruito per essere poi demolito. E lo scherzo tremendo che la guerra gioca alle case e
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alle strade vere di un città attaccata: le riduce a un «set». Le puoi distruggere a volontà. La guerra è una
stramba e capricciosa «produzione» dello spettacolo «morte». In questo film-fiaba ogni cosa è esemplare e
rappresenta qualche altra cosa. Il campo minato, per esempio. Quando il poeta, che in modo comprensibile,
naturale, è anche un clown bianco (nella tradizione benevola di Fellini e del Circo) comincia a saltare da un
punto che potrebbe esplodere a un altro, sotto lo sguardo impassibile di un uomo fermo su un mulo (è come
una visione del silenzio di Dio, non dirà mai in quale direzione andare) tu ridi eppure stai col cuore in gola.
Non per il clown, il cui destino è di saltare e - forse - di farla franca. Ma per te. Dove ti porterà il prossimo
salto? E se fosse quello dell’esplosione? Il clown bianco compare all’ inizio, in una splendida sequenza di
cinema, in un dolcissimo incubo con le luci di Magritte, la musica di un jazz estenuato e il fantastico restare
in equilibrio sul niente che solo il clown bianco può avere, nella sua incarnazione timida e mite e cocciuta. E
come una copertina. Guardatela bene. Contiene tutte le immagini e tutte le citazioni che a mano a mano
troverete nello svolgimento del film.
Roberto Silvestri - Il Manifesto, 5 ottobre 2005
Ma dire, come si afferma in La tigre e la neve, titolo un po' cinese del primo «film arabo» di Benigni che «la
guerra in Iraq è inutile», non significa buttare al vento un film d'amore, poetico e commuovente, circolare e
dai congegni narrativi brechtianamente scricchiolanti, per il solo fatto di avere sbagliato un piccolo dettaglio,
per l'uso maldestro di un unico, insignificante aggettivo? Inutile? Una guerra è giusta perché è utile? Ma il
Vietnam non ci insegnò che è utile, e dunque si vince una guerra solo se è giusta? Se per esempio
un'invasione ingiustificata ci permette di ridurre il costo della benzina, rubando più petrolio di prima, è guerra
utile? E visto che la coprotagonista del film, Nicoletta Braschi, svolazza diseducativamente per la «poetica
metropoli veltroniana» alla guida di una fiammante monovolume Fiat, con la benzina che oggi sta
aumentando pericolosamente il «sacrificio dei nostri militari valorosi» sarebbe stato inutile? Ma in che
ambiente, sonorizzato da Nicola Piovani, vivono Roberto Benigni e Vincenzo Cerami, da qualche anno?
Peccato, lui è poeta materialista, a suo agio, come noi, dentro lo slogan «tutto e subito». Ma un tempo lo
declinava per tutti, non per il solo mondo ricco, sia esso a nord che a sud, conosca Walt Whitman o gli
preferisca Adonius. Oggi reagisce al mondo solo con i riflessi appannati di un D'Alema? Ma torniamo
indietro. Perché Roberto Benigni, quando vinse l'Oscar per La vita è bella, non gliene ha dette quattro, in
diretta platenaria all'Impero? Fummo un po' delusi, quella volta. Poi pensammo. Perché è un artista
snodabile come Cretinetti, ma anche un manigoldo eccentrico e visionario come Fellini e Pinocchio, che
lascia ai colleghi nordamericani, padroni di casa, il compito di giudicare i comportamenti del loro governo
(Sean Penn) e dei loro artisti (Kazan) e mette in scena il solo «lato giullare e burattinesco» dei sudditi, come
avrebbe potuto fare, sornione, quel cattivo maestro di Louis Armstrong. Il film in fondo rendeva omaggio a
Roosevelt che, senza Stalin a braccetto, non avrebbe salvato il mondo dal rigor mortis hitleriano. Qui, nel
nuovo film che esce il 14 ottobre in Italia, l'argomento è la poesia nell'epoca Bush jr., come cioé trovare le
parole giuste per esprimere i nostri sentimenti facendo in modo che le altre persone se ne accorgano (come
hanno fatto Godard o Moore) e soprattutto se ne accorgano quelle a cui teniamo di più. Ci vuole dentro una
bomba atomica di felicità, anche per parlare di tragedia... ci ammonisce. Ok. Benigni è Attilio De Giovanni,
sposato con due figlie teenager, che educa come farebbe Clint, portandole allo zoo o al circo, poeta e
docente di letteratura, amico di un magnifico scrittore iracheno a lungo in esilio (Jean Reno), e ex amante di
una bionda collega pannosa inglese dell'università. Attilio infatti adesso ama solo, e follemente un'altra
donna, la mora Vittoria (Nicoletta Braschi), critica letteraria e saggista, e la seguirà in capo al mondo,
cercando di salvarla da morte certa, con ogni mezzo necessario, quando lei rimarrà gravemente ferita a
Baghdad. Senza medicine. Senza niente. Nessun medico iracheno a spiegarci che ci fu un embargo
criminale contro un regime, non meno corrotto e crudele di altri 30. Non vi diciamo chi sia esattamente
questa donna, che lui sogna ossessivamente come solo un reduce dallo studio 5 di Cinecittà può sognare.
Ma un doppio gioco poetico-alchimistico ci conduce a un happy end in rima baciata che è uno spasso. E qui
Benigni gioca, genialmente, a raccogliere il seminato. Tutti i fili narrativi si sono visti, tutta la trama è stata
ancor più «anticipata» del solito, ogni oggetto entrato in campo ha avuto la sua funzione drammatica,
dadaisticamente, dalla bombola d'ossigeno al cammello, dalla collanina al marine «dotato di cuore». Come
in Stupids c'è chi indica di non guardare il dito ma la luna. L'omaggio è fine: a Cardarelli, Eastwood, Montale,
Peter Weir, Ungaretti, Lucia Poli, Merini, Tom Waits, le mille e una notte... il procedimento è formalista,
dunque va, con tatto, sui contenuti, verbali, visive e musicali, dell'argomento «guerra» a alto quoziente di
difficolta (anche i campi di sterminio non erano «rose») e dell'aggressione all'Iraq, coi famigerati posti di
blocco, la ricerca surrealista di armi di distruzione di massa, povertà e paura di massa comprese. Certo non
manca l'arabo ladro, o irritante, o troppo fragile, e le mosche griffe del sottosviluppo. Ma si intuisce, almeno,
che l'Europa ha sottosviluppato il Mashreq. Essere diventato meno platealmente rissoso e ruvido di una
volta, quando tutti tremavano a sentir di un prossimo Benigni in tv, può essere sintomo di saggezza
conquistata, di maggiore violenza di fraseggio e di spregiudicatezza morale, tipica di chi non ha bisogno di
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esibizionismi urlati (come i teppisti mediatici suoi nemici che sudano come cammelli per farsi notare da un
auditel che hanno truccato). Benigni ha forse studiato più intimamente, assieme ai griot di strada, anche i
poeti di corte. Che sono più coraggiosi perché hanno i potenti a portata di mano, e li massacrano a colpi di
«jom», di dignità, come direbbero in Senegal analizzando leggi truffa come le nostre. E non ci fosse quel
dettaglio sciagurato (ma è Benigni a ossessionarci con la scelta parola giusta) sarebbe un gran film sull'amor
cortese, un sonetto in onore della rivoluzione provenzale e trobadorica del XII, che aprì il capitolo, e proprio
grazie all'Islam, dell'illluminismo, della scienza libera e dell'eguaglianza tra uomo e donna. E a poco a poco
diventa opera controcorrente e spaesante, spero che andrà di traverso a molti.
Priscilla del Ninno - Il Secolo d’Italia, 30 settembre 2004
Dopo l’uscita fuori strada di Pinocchio, sfortunata incursione nella favola che è costata al regista toscano
molti soldi e un pizzico di credibilità, Roberto Benigni ci riprova. E rientra in carreggiata desideroso di tornare
a ballerei sentieri del genere “sdrammatico” sperimentato con successo e sublimato con la La vita è bella,
titolo che gli ha portato fortuna al botteghino e ben tre oscar frutto di una consacrazione hollywoodiana
suggellata a suon di lacrime e sorrisi dolce-amari, strappati mescolando amore e morte, commedia e
dramma, vita e guerra. Dunque ieri, in pieno clima bellico, e con una coincidenza di tempi che ha del segno
premonitorio più che dell’episodio fortuito, nelle ore che salutavano il felice ritorno a casa delle due Simone,
(che il regista toscano ha descritto con un’immagine poetica: «quando le ragazze hanno alzato II velo - ha
commentato - è stato come vedere una notte stellata»), Benigni presentava in corso d’opera il suo ultimo
progetto filmico, intitolato La tigre e la neve e, guarda caso, ispirato al tema della guerra.., in Iraq. O meglio,
al racconto delle vicissitudini di un poeta - che ha il suo volto e le sue dinoccolate movenze - follemente
innamorato di una donna Nicoletta Braschi) che, al contrario di quanto accade nella realtà, nella finzione
scenica non ricambia minimamente il suo amore e che, a un certo punto, si ritrova catapultato in Iraq proprio
mentre sta scoppiando il conflitto. E così, ancora una volta nella filmografia dell’autore toscano, un teatro di
guerra diventa scenario di ispirazione poetica, set dì un film da far sceneggiare da Cerami. Musicare da
Piovani. interpretare dall’ex fata turchina Nìcoletta Braschi, magari affiancata da Jean Reno, in questo caso
alle prese con la maschera di Fuad, grande poeta arabo. «Tirare fuori la poesia nella tragedia dell’Iraq è la
cosa più naturale del mondo», ha spiegato Benigni alla platea di giornalisti raccolta nella cavea
dell’Auditorium, uno dei set delle riprese allestiti in questi giorni à Roma, dopo Fontana di Travi, dopo il
carcere di Regina Coeli e il Palazzo di giustizia, e in attesa di partire per la Tunisia dove sarà ricostruito il
fronte iracheno, «Proprio in quelle situazioni che toccano la parte più profonda di noi - ha quindi proseguito quando sentiamo che stiamo per precipitare, allarghiamo le ali. E una reazione istintiva di fronte al dolore di
questi giorni». È forse un percorso narrativo e un input d’ispirazione più si. curo per lui, tornato su sentieri più
familiari e meno ostili, dopo le pericolose escursioni in universi favolistici lontani da raggiungere e difficili da
conquistare. Al cui confronto, magari, persino l’iraq in guerra, con le sue tragedie quotidiane e i suoi orrori
bellici, tra cieli stellati e trincee militari, sarà un territorio meno impervio da perlustrare cinematografìcamente
e rivisitare spettacolarmente...
Oscar Iarussi - La gazzetta del Mezzogiorno, 14 ottobre 2005
«Giù le armi…È un poeta, un italiano mezzo matto, un maledetto poeta». Il sergente americano è incredulo
ma rassicurato e fa abbassare i mitra alla pattuglia che ha fermato Attilio De Giovanni / Roberto Benigni a un
posto dì blocco nella Baghdad in guerra. Fra i soldatini ce n’è uno nervosissimo, con l’arma traballante che
rischia di sparare a ogni istante. «Così mi viene un infarto» gli urla Attilio, al centro della strada,
completamente imbottito, alla maniera dei kamikaze, di materiale a suo modo esplosivo; farmaci. Ha appena
attraversato le linee per uscire dalla capitale irachena e farvi rientro, su un cammello e a bordo di una
motocicletta scassata, pur di rifornirsi dei medicinali che potrebbero salvare la vita alla sua amatissima
Vittoria, in corna nel letto di un ospedale disastrato. E, questa, senza dubbio la scena più comica, e al
tempo stesso la più drammatica nel ricordo della morte di Nicola Calipari nell’epilogo del caso-Sgrena, de La
tigre e la neve, il nuovo film diretto da Benigni che oggi «invaderà» le sale italiane tre anni dopo il relativo
insuccesso di Pinocchio. E l’ottava regia cinematografica dell’artista toscano, che ancora una volta si avvale
del collaudato sodalizio con lo scrittore Vincenzo Cerami per la sceneggiatura del film, con il compositore
Nicola Piovani e, naturalmente, con la moglie Nicoletta Bruschi nel ruolo di Vittoria, impegnata anche nella
produzione. E il film è dedicato alla memoria di papà e mamma Benigni Luigi e Isolina. Com’è La tigre e la
neve? É un film riuscito, «tondo», sebbene non sorprendente rispetto alla filmografia del Nostro. Roberto è
straordinario nell’interpretare se stesso, ovvero nel dar corpo a una vena surreale ormai tanto raffinata da
apparire «naturale», immersa ancora una volta in un contesto tragico, il teatro bellico iracheno, proprio come
la storia dell’ornino giusto de La vita è bella, premiata con tre Oscar nel 1998, si dipanava nel pieno della
Shoah che costò la vita a sei milioni di ebrei.
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La differenza sta nel fatto che dell’Olocausto venivano allora ribadite le storiche responsabilità del nazismo e
la complicità delle leggi razziali fasciste, mentre la guerra in Iraq viene definita «inutile», senza che il film
prenda posizione alcuna per l’una o per l’altra delle parti in campo. Insomma, siamo lontani dal cinema
militante di Michael Moore con le sue invettive contro il presidente Bush, ma non è detto che la leggiadria de
La tigre e la neve non possa risultare altrettanto efficace nel persuadere il pubblico, incluso quello
americano, dell’insensatezza di una guerra, in cui, recita una battuta del film, l’unica arma di distruzione di
massa finalmente trovata è una retina per uccidere le mosche. Perché finisce a Baghdad il buon Attilio? Egli
è un docente universitario di poesia, e poeta a sua volta, separato dalla moglie e con due figlie adolescenti
alle quali cerca di trasmettere, come ai suoi studenti, il piacere e il dovere del lavorio sulla parola, la segreta
alchimia del «verso che incanta» (leggete i titoli di coda, troverete citata un’intera antologia lirica, oltre a
Sergio Leone e Claudio Villa). Attilio è corteggiato da una collega straniera, che snobba perché a sedurlo
davvero è la protagonista di un sogno ricorrente, Vittoria, che di giorno gli si nega, fugge. Invece nel sogno
Montale e Ungaretti gli sorridono, Borges e Yourcenar umbratili assistono, mentre Tom Waits con
l’inconfondibile suono rauco che un verso rnontaliano consacrò alle colombe, accompagna al pianoforte la
cerimonia nuziale di Attilio e Vittoria in uno scenario onirico a metà fra le terme di Caracalla e un quadro di
Dalì, affollato di comparse e di animali freudianamente metaforici. Vittoria sta scrivendo la biografia di un
poeta iracheno amico di Attilio, Fuad / Jean Reno, da tempo esule a Parigi, che fa tappa a Roma prima di
ritornare sotto il cielo di Baghdad, «il guanciale del mondo», all’indomani della caduta di Saddam Hussein
(siamo nel 2003). La donna lo seguirà per continuare a intervistarlo e completare il suo libro, ma, appena
arrivata in Iraq, resta vittima di una delle mille esplosioni. Avvisato da Fuad, Attilio riesce avventurosamente
a raggiungere Baghdad e, una volta laggiù, si batte per la guarigione dì Vittoria, già data per spacciata, con
un’ostinazione si poetica, ma concreta: trova i farmaci necessari dopo averne fabbricato artigianalmente il
più vitale, si procura una bombola d’ossigeno in un bazar; scaccia i ladri dall’ospedale, fa amicizia col
medico, non disdegna di pregare Allah indirizzandogli un,.. Padre nostro (a Tanto tu, Allah, capisci
l’italiano»). Il finale va scoperto in sala, come il significato del titolo evocativo del prodigio che, unico,
potrebbe schiudere le porte del cuore di Vittoria al suo spasimante. Con La tigre e la neve, Benigni continua
a comporre un suo mosaico sotto il segno della sernplificazione fiabesca del mondo: per lui affabulare
equivale a salvare e a salvarsi, il testo e il contesto sono di volta in volta poco più che pretesti, l’amore e la
poesia non cambiano alla pari della sempiterna Nicoletta. Roberto è una maschera italiana, un folletto tanto
popolare quanto colto, un’ipotesi di candore, cui forse è difficile chiedere di rinnovarsi.
Francesco Norci - La Gazzetta del Mezzogiorno, 5 ottobre 2005
Se c’è una cosa che bisogna riconoscere a Roberto Benigni è il coraggio di confrontarsi, al di là dei risultati,
con le grandi tragedie dell’umanità senza troppo sussiego. Lo aveva fatto con successo parlando
dell’Olocausto in La vita è bella e torna a farlo adesso mettendo la guerra, una guerra attuale e cruenta
come quella che ancora continua a mietere vittime in Iraq, sullo sfondo del suo nuovo film La tigre e la neve.
Ma diciamo subito che 1’Iraq di Benigni è - volutamente - un Iraq da cartolina e la guerra è volutamente una
guerra surreale, come del resto in certa misura lo sono tutte le guerre. Una guerra dove i soldati americani
fanno passare con un sorriso i poeti ai posti di blocco, negli ospedali i medici hanno il tempo di essere gentili
e premurosi e il cielo di Baghdad, anche sotto le bombe, rimane «il cuscino del mondo». La cosa farà
sicuramente irritare molti, come farà irritare la mancata presa di posizione politica del regista (tutti in fondo
sono buoni, americani e iracheni), ma Benigni ha una sua giustificazione: il suo personaggio è un poeta
imamorato, tale Attilio De Giovanni, piovuto nel bel mezzo del conflitto in soccorso della donna amata,
Nicoletta Braschi (e come poteva essere altrimenti?), una biografa del massimo poeta iracheno (Fuad, con la
faccia pesta di Jean Reno). Insomma il suo mondo è quello della poesia e del sogno, non della cruda realtà
e della politica. Non a caso il film si apre con una scena onirica che tornerà più volte: in un prato circondato
da antiche mura romane, davanti a una platea in cui si riconoscono i volti di Montale e Ungaretti, della
Yourcenat e di Borges, Benigni, in mutandoni, calzini e canottiera, porta all’altare la Braschi sulle struggenti
note di You can never hold back spring cantata live dal «compare» Tom Waits. In verità il poeta Attilio, cui
l’amico Ermanno (Giuseppe Battiston) attribuisce un inconscio elementare e primitivo, sogna continuamente
di sposare Nicoletta proprio perché lei, nonostante le sue patetiche insistenze, compresa una cena a lume di
candela con tanto di citazione della celebre battuta «il mondo si divide in due categorie...» di Il buono, il
brutto, il cattivo - lo rifiuta. E quando la donna rimane gravemente ferita in Iraq dove è andata per seguire il
poeta Fuad, Attilio-Benigni si precipita in suo soccorso. Dopo un goffo tentativo di prendere un normale
aereo di linea per Bagdad, lo vediamo a Bassora alle spalle dell’inviata del TG3 Giovanna Botteri darsi da
fare intorno ad un’ambulanza della Croce Rossa, fingendosi chirurgo. Raggiunge la capitale irachena su un
autobus rubato e, una volta al Capezzale dell’amata in coma colpita da edema cerebrale, fa di tutto per
procurarsi le medicine necessarie a riportarla alla stato cosciente: non solo traversa un posto di blocco con
moto rubata, ma riesce anche a farsi dare la spintarella necessaria a ripartire dai soldati americani. Tra una
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battuta e 1’altra rimane senza benzina («in Iraq è il colmo», dice), attraversa senza saperlo un campo
minato, organizza rudimentali bombole di ossigeno, si procaccia uno schiaccia mosche («ho trovato l’arma di
distruzione di massa...»), inonda l’ospedale con le note di Granada di Claudio Villa, si rivolge ad Allah
recitando il «Padre nostro», finché la donna rinviene. In un crescendo di situazioni comico-poetico-surreali,
tra citazioni di Borges e Bunuel, improvvise apparizioni di animali esotici e feroci, con cellulari che squillano
anche sotto le bombe, Nicoletta e Attilio-Benigni si ritrovano finalmente a casa, non solo sposati, ma anche
già separati e con figli. Ma ancora, ebbene sì, Innamorati.
Giorgio Carbone - Libero, 14 ottobre 2005
Il film comincia come tutti i Benigni precedenti. Benigni (qui Attilio come Attilio Bertolucci, poeta famoso e
padre di Bernardo) è innamorato di Nicoletta Braschi che manco se lo fila ( per chi si fosse messo solo ora in
contatto col mondo benignesco riveleremo che Nicoletta, questa arrapantissimo oggetto di desiderio non
assomiglia certamente a Monica Bellucci e manco alla zia di Monica). Lui spasima, ma a lei questo
poetucolo di paese che si ostina a citare Dante e Petrarca nell’era di “C’è posta per te” proprio non interessa.
Non che Nicoletta (qui Vittoria) sia una dura, concreta donna in carriera. Anche lei vive d’aria, cioè dì poesia,
ma tira molto più in alto rispetto alle bassezze, del povero Attilio. Innamorata (in ogni senso) del più grande
poeta arabo, Fuad, sta scrivendo un saggio su di lui. Anzi conta di raggiungerlo al più presto in Medio
Oriente per un incontro ravvicinato. Ariosa, cretina e anche sfigata. Dove si trova il Fuad? Ma a Bagdad,
naturalmente. E in che giorno arriva a Bagdad la cretina? Proprio quello dello scoppio della guerra. Morale,
nel primo bombardamento anglo americano, è proprio la Vittoria a entrare nell’elenco delle prime vittime. La
tirano fuori dalle macerie, se non morta molto lì per lì. E le speranze di guarigione sono pochissime. Le prime
cure gliele forniscono in un ospedale iracheno con attrezzature da guerra 15/18. Per salvarla urgono
medicine che lì proprio non hanno. Niente paura, sta arrivando a spron battuto l’innamorato Attilio che dalle
sue colline toscane ha sentito il rombo dei cannoni. Ora Attilio è un povero bischero con problemi di
sopravvivenza anche a casa sua. Ma la forza dell’amore si sa fa compiere miracoli. E la benevolenza verso il
datore di lavoro degli sceneggiatori è in grado di prodigi anche maggiori. Attilio salverà la sua bella. Non
senza: 1) aver superato innumerevoli posti di blocco (altro che sparatorie tipo Sgrena, gli americani del film
stendono quasi i tappeti rossi al passaggio degli italiani) 2) schivato un imprecisato numero di bombe (la sua
capacita di scansare supera quella di Chaplin in “Charlot soldato”). 3) imparato in minuti tre a cavalcare un
cammello (ma se a casa non gli facevano neanche guidare un motorino). 4) realizzare il sogno dì Vittoria:
incontrare il mitico Fuad (il monolitico Jean Reno, reso ancora più monolite del solito dal fatto di non aver
capito con ogni evidenza un tubo né del film né di quello che Benigni voleva da lui). La fortuna indiavolata di
Attilio smette di brutto quando per un’interferenza nel suo telefonino lo scambiano per un terrorista. Lo
arrestano. Ma pazienza. Vittoria sarà salvata. Certo. Attilio era un filino più contento se, prima di rimpatriarla,
la mettevano al corrente che doveva la sua sopravvivenza proprio al poetucolo. Piacerà a chi preferisce il
Benigni di medie ambizioni, quello che non tira troppo alto (centrando magari il bersaglio nella Vita è bella e
sbagliandolo di brutto in Pinocchio). No, il Benigni di La tigre e la neve è con pregi e difetti ai livelli di Johnny
Stecchino e Piccolo diavolo. Storie d’amore difficile tra lui e Nicoletta, con uno sfondo di maniera (la mafia,
gli esorcismi e qui la guerra). Come nelle opere di cui sopra il divertimento è tanto o poco a seconda dello
spazio dato a Nicoletta sullo schermo. Il piccolo diavolo era uno spasso finché in scena dominava Walter
Matthau e una lagna quando al grande Walter subentrava la piccolina Braschi. Qui per ridere decisamente
dobbiamo aspettare che la signora Benigni rimanga sotto le macerie. Con lei inchiodata alle lenzuola putride
di un ospedale iracheno, Attilio-Roberto può saltellare a ruota libera tra le macerie di Bagdad, duettare col
cammello e Jean Reno (le reazioni dì entrambi gli interlocutori sono analoghe) fare marameo ai posti di
blocco. Per far scendere il livello di ilarità dobbiamo aspettare il finale (col ritorno di Vittoria tra le amate
sponde italiane). Finale che a sentire il Roberto, forse spiacerà agli spettatori americani. Balle. Più
precisamente le ultime balle delle molte raccontate dal Roberto da quando diede il primo ciak alla Tigre e la
neve. Chi ha visto il film nelle varie anteprime delle scorse settimane, avrà avuto l’occasione dì essere tra i
pochi privilegiati. In realtà prima di portare le copie in Italia Benigni l’ha fatto vedere e rivedere ai suoi
finanziatori americani (ma cosa credete, che i sessanta miliardi, di budget li ha abbia erogati la Melampo
produzioni presieduta da Nicoletta Braschi?). I quali finanziatori avranno voluto appurare che neanche un
metro di pellicola potesse risultare sgradito al medio spettatore USA. Con buona pace di tanti compagni di
strada di Benigni, La tigre e la neve è tanto antiamericano quanto un fumetto di Tex Willer (anzi meno,
perché Tex ogni tanto qualche militare yankee carogna lo fa vedere, mentre qui tutti i bonaccioni in divisa
sembra in Oriente per una scampagnata di reduci): Chi volete che tra i reduci vada in crisi per un pacifismo
all’acqua di rose come quello propinato dall’ultimo Benigni?
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Giorgio Carbone - Libero, 5 ottobre 2005
Dino Risi, che li ha conosciuti tutti, ha detto che «i cineasti italiani hanno il cuore a sinistra e il portafoglio a
destra». Tutti nessuno escluso. Roberto Benigni è da escludere meno d’ogni altro. Sulla chiappa destra ha
un portafoglio gonfio così, molto più grosso del muscolo cavo che porta sulla parte sinistra del petto. Una
volta qualcuno mi chiese se era un grande regista. Io risposi, in maniera nient’affatto sibillina, che era un
grandissimo promoter di se stesso. L’anno scorso quando annunciò l’imminente 1avorazione di La tigre e la
neve ebbe il consueto lampo di genio. Il film era ambientato durante la guerra in Iraq. Apriti cielo. I no global
ci cascarono tutti. Robertaccio sparerà a zero su Bush e la sua guerra. Santa ingenuità. Dico santa, ma
l’ingenuità diventa peccato mortale quando il titolare è un adulto vaccinato. aMa intanto con quell’annuncio
Benigni aveva preso due piccioni con una fava. Aveva mobilitato la sinistra, sempre pronta a sostenere il
compagno Roberto anche quando è insostenibile. E intanto vendeva il film a scatola chiusa ai distributori
francesi (com’è noto i francesi prendono tutto basta che parli male dell’America). Ora il film sta per
affrontare il giudizio del pubblico (il 14 sarà in 800 sale). Chi l’ha visto in anteprima è rimasto deluso. Delusi
specialmente i giornalisti di sinistra che s’aspettavano dì vedere raffigurati nel film i militari americani come
una masnada di sanguinari ubriachi che sparano a raffica su Giuliana Sgrena (mancandola. forse perchè
ubriachi). E invece gli yankees del film sono paciocconi, nè più né meno di quelli che alla fine di La vita è
bella accoglievano e adottavano l’orfanello ebreo, fortunoso reduce dallo sterminio. Insomma americani così
“melensotti” non li vedi nemmeno nello sceneggiato più bonario targato Mediaset. Orrore dalla parte sinistra
della platea. Il compagno Benigni è diventato scemo? No, scusate gli scemi siete voi, che avete abboccato
allo specchietto peggio delle allodole. Roberto Benigni, da Misericordia, in provincia di Arezzo, è un
avveduto e lungimirante imprenditore: non apre voragini nel suo portafoglio per far piacere al compagno
Bertinotti. L’imprenditore Benigni fa da vent’anni il regista con un preciso scopo: guadagnare miliardi. E
pazienza se qualche anno dopo non avrà dotte, entusiastiche prefazioni di Oliviero Diliberto nei libri a lui
dedicato. E siccome non fa film a basso budget, ma macchine che divorano miliardi, sa benissimo che
l’unico modo per far tornare i miliardi indietro (possibilmente triplicati) è quello di poter distribuire i film in
America. Col solo mercato italiano i costi non li copre. Non li ha coperti nemmeno con Pinocchio. Che e stato
in Italia per due settimane il film che tutti dovevano vedere. E in America (programmato solo per una
settimana e mezza) il film visto solo da Steven Spielberg. Otto anni fa Benigni conquistò l’America (e l’Oscar)
perchè fece con La vita è bella la gran ruffianata di portare (ancora una volta) in cinema l’Olocausto (filma
l’Olocausto e ogni tuo peccato sarà emendato, come insegna la riabilitazione di Polanski dopo Il panista). In
forza del boom di La vita è bella, Pinocchio è stato acquistato a scatola chiusa in America. E laggiù ha fatto
flop. Gli americani perdonano tutto (anche la tessera di Rifondazione) ma non i flop. Con La tigre e la neve
sono stati chiari. Prima lo vediamo, poi (se ci va bene) lo compriamo. Può darsi che non lo comprino
comunque (Roberto tutto sommato non è mai stato granché come regista). Ma se c’è una vaga possibilità
figuriamoci se l’uomo di Misericordia se la gioca (e con essa una vagonata di miliardi) solo per non aver
trattenuto qualche conato bertinottiano.
Roberta Ronconi - Liberazione, 5 ottobre 2005
Il folletto cresce, invecchia persino, ma non cambia. Roberto Benigni presenta la sua Tigre e la neve con il
solito incontenibile entusiamo con cui ha presentato i suoi precedenti film. Tutte creature del cuore,
dell'anima, delle passioni. Quelle che hanno fatto storcere il naso a parte della sinistra e non solo, che
l'hanno eletto per alcuni a grande conciliatore, buonista si dice, paciere di conflitti non sanati. Ma certo non
per questo le sue parole d'amore per l'ultima opera-figlia si contengono. Anzi, sgorgano a versi ed
endecasillabi come zampilli inesauribili, non si fa a tempo a digerirne uno che di nuovo egli ti imbocca.
L'uscita del nuovo attesissimo film del regista premio Oscar non vi sfuggirà. Anzi, siete voi che non gli
sfuggirete, pure se voleste. Esce venerdì prossimo in più di 800 sale italiane (01distribuzione per
Raicinema), praticamente tutte «a parte una a Viterbo e un'altra in un paesino vicino che non ne hanno
voluto proprio sapere. Abbiamo provato a pagare ma niente, danno un altro film, non mi ricordo il titolo», ci
scherza Benigni. Il film inizia senza mezzi termini. Il regista-interprete in mutande che entra in una chiesa
bombardata dove un officiante ortodosso sta celebrando un matrimonio: il suo. Tra il pubblico, i profili di
Montale, Ungaretti, Borges, Yourcenar. Amici dello sposo, presumibilmente, che nella storia si chiama Attilio
(Benigni) e di mestiere fa il poeta. Del poeta ha tutte le caratteristiche o, se vogliamo, gli stereotipi: è
smemorato, pasticcione, disordinato, ritardatario, sempre con la testa da un'altra parte. Ma ha anche una
vita normale, una ex moglie dalla quale supponiamo sia divorziato, due figlie che gli toccano per turno un
giorno ogni tanto e una donna nel cassetto dei sogni. Una sconosciuta, ma non proprio. Una donna che
Attilio tortura con i suoi pedinamenti chissà da quanto tempo. La ritrova ancora una volta ad una lettura del
comune amico Fuad, poeta iracheno. Fuad (grande Jean Reno) è in partenza per Bagdad dove si annuncia
a giorni l'attacco americano. La donna, Vittoria (immancabile Braschi), lo segue per poter completare il suo
libro, biografia dell'amico poeta. Uno scoppio improvviso per la strada e Vittoria finisce in ospedale in
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condizioni gravissime. Ed è così che Attilio si ritrova tra i fuochi della guerra armato, per salvare la donna dei
sogni, solo dei suoi versi e del suo incontenibile amore per la vita che lo spinge avanti anche quando tutto
sembra perduto. Attlio-Roberto, da poeta, può tutto. Dinanzi a lui si aprono i ceckpoint e sorridono gli
americani con mitra a vederlo combattere la sua piccola guerra di uomo innamorato. Gesti che potrebbero
far sussultare, se non fosse, il tutto, una trasposizione poetica, uno sguardo non sulla realtà ma sulla
massima finzione, quella poetica. «L'amore che vince sulla morte, è questo il senso del film, e non
bisognerebbe mai smettere di dirlo. Il sentimento è la forza più eversiva che esista, da sempre». Lo racconta
così, il suo film, Benigni. E si rifiuta di definirlo buonista: «Al contrario. E' a tratti feroce, mostra la morte di un
uomo. E poi non sono i film che salvano il mondo, però ci consolano. Vedere una bella storia d'amore, in cui
ci sono miriadi di scintille e scoppi intorno non credo si possa tacciare di buonismo». Risponde con ondate
di parole Benigni alle domande più o meno ovvie dei giornalisti. Ma l'unica cosa che vuole dire è che lui è un
poeta e così vede il mondo. E da poeta vorrebbe salvarlo con la forza dei sentimenti. Il messaggio è
semplice, univoco. Ma inaspettatamente non arriva e non è facile analizzare le ragioni, di questa
comunicazione che manca il bersaglio. Ogni cosa è al suo posto ne La tigre e la neve, la teoria del racconto
segue il percorso già segnato, felicemente, da La vita è bella. Eppure la follia creativa che lì tutto sublimava
nell'empatia e nella commozione, qui si ferma sul ciglio di un'attesa negata. Il ciclo della narrazione compie il
suo intero periplo, attraversando senza inciampi l'oggi di Roma e l'oggi di Bagdad, il sogno e la realtà, il
mistero e il suo disvelamento, l'amore per la vita e il dolore per la morte. Come un meccanismo ad
orologeria, la storia avanza in un vortice di movimento che però restituisce staticità. Come una grande
semina su un campo crepato dalla siccità, come un concerto senza armonia, come un canto senza voce,
come un'esplosione d'amore non ricambiato. Non è questione di buonismo, ma di un solipsismo - o
solitudine? - che Benigni tenta di mascherare nell'abbondanza di gesti ed eventi e grandi trovate (ci sono
anche quelle. La parodia del kamikaze, il balletto sul campo minato) che illuminano il carrozzone senza
riuscire a macherarne la natura. La tigre e la neve è un canto d'innamorato, sì, ma privo dell'oggetto
d'amore. A meno che non sia il poeta stesso.
Mariarosa Mancuso - Il Foglio, 15 ottobre 2005
Ora che i due prestigiosi intellettuali Umberto Eco e Michele Serra sono scesi in campo per intervistare
Benigni - sull’Espresso e sul Venerdì di Repubblica – la strategia promozionale è completa. E finalmente
chiara nei suoi obiettivi. Primo: parlare di tutto tranne che del film, inteso come manufatto che dovrebbe stare
in piedi da solo, senza il puntello delle buone intenzioni. Secondo: convincere gli spettatori che se non
amano La tigre e la neve, o magari ne escono infastiditi, sono cretini refrattari al richiamo della poesia.
Terzo: stabilire che Nicoletta Braschi è una grande attrice, a prescindere dal fatto che ha una sola
espressione dalla prima all’ultima scena, quando è in coma profondo e quando risorge. Umberto Eco
chiacchiera con Benigni a Cinecittà, dopo una precisazione autobiografica fatta apposta per evitare il
giudizio sull’opera. Scopriamo che Eco, all’uscita da una proiezione, ha difficoltà a dire se il film gli è piaciuto
oppure no. Deve dormirci sopra una notte, poi raccontarlo a qualcuno per chiarirsi le idee. Metodo collaudato
con L’avventura, e mai più abbandonato (se vi viene voglia di obiettare che le pellicole di Antonioni sono
totalmente prive di una trama narrabile, è perché eravate distratti quando a scuola spiegavano la semiotica).
Michele Serra intervista Benigni “in requie davanti a un piatto di spaghetti al pomodoro”, mentre i giornali sul
tavolino accanto scaraventano La tigre e la neve nel “calderone fumigante del dibattito”. Il Serra-pensiero è
all’opposto dell’Eco-pensiero: all’uscita dalla sala lo spettatore si trova nella migliore condizione per parlare
del film (forse perché poi se lo dimentica). Scatta subito la guerra sul numero delle citazioni poetiche: “Eco
ne ha riconosciute solo quattro o cinque, ma ce ne sono molte di più”, spiega il comico, e giureremmo che
mentre lo dice ha il ditino alzato, fiero di aver inventato il cinema con le note a fondo pagina. Poiché ormai
abbiamo appiccicata addosso l’etichetta di partito anti-Benigni, ci siamo presi la briga di leggere le recensioni
osannanti. Sorpresa: quasi tutte esaltano il comico e stendono un pietoso velo sul film, segno che la
strategia ha funzionato perfettamente. Se avete deciso di vederlo – magari per verificare che è perfino
peggio di come lo abbiamo raccontato –andateci preparati. La prima scena uccide. E fa rigirare Fellini nella
tomba.
Giacomo Vallati - L’Avvenire, 30 settembre 2004
Cosa può fare ognuno di noi contro la guerra? «Ciò per cui ognuno di noi è stato chiamato alla vita. Mio
padre, ad esempio: lui era un contadino. E contro la guerra lui poteva badare che le zucchine venissero su
bene. Così io, che faccio il regista, devo cercare di fare dei buoni film». La tigre e la neve, dunque, è la
zucchina di Roberto Benigni. Quanto, cioè, il grande autore toscano sta cercando di fare contro la guerra in
Iraq. Con paragone da poeta (ma riferimento, forse non inconsapevole, ai «talenti» evangelici) Benigni non
dimentica d'essere un entusiasta della vita. «Così due anni fa pensai a una favola: quella d'un poeta che del
mondo ama tutto, anche i sassi; che perfino in un granello di sabbia vede un'esplosione di gioia». Scoppiato
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il conflitto iracheno, quel dramma ha finito per sovrapporsi molto naturalmente alla favola; e ora sul set a
Roma, come già in La vita è bella, Benigni cercherà di far ridere commuovendo; di raccontare la tragedia in
forma di commedia. «Operazione rischiosa, certo: tanto più riguardo questo conflitto, ancora in atto e sempre
più drammatico. Ma è proprio quando la tragedia ci circonda, che abbiamo maggiore bisogno di poesia; è
proprio quando il male ci aggredisce che, per reazione, dobbiamo tirare fuori il bene». Innamorato pazzo, ma
non corrisposto, della bella Vittoria (Nicoletta Braschi) l'inesauribile poeta Attilio De Giovanni allora le
proverà tutte, pur di conquistarla, cacciandosi così in ogni sorta di guai e finendo addirittura sotto le bombe di
Bagdad. «Ma anche lì saprà guardare alla realtà con occhi da poeta. Perché per Attilio ogni persona vale
tutte le persone del mondo». Soprattutto in guerra. «Nella guerra vera. È proprio del conflitto scoppiato nel
marzo 2003, infatti, che io parlo; è proprio della situazione presente, anche senza mai nominare Bush o
Berlusconi, che io tratto. Fino a descrivere nella seconda parte del film autentiche scene di battaglia».
Troppo intelligente per nascondersi possibili paragoni, o consimili rischi, con La vita è bella, Benigni non sa
trattenere comunque l'entusiasmo per questa nuova sfida: «La commedia è il modo migliore per affrontare la
tragedia. E quando un tema è forte bisogna avere il coraggio di rischiare, seguendo il proprio istinto. D'altra
parte nessuna generazione quanto la nostra è stata educata alla pace. Ed è proprio a questo sempre più
ampio sentire comune, che si rivolge La tigre e la neve». Una felice coincidenza ha voluto che, proprio
durante le riprese romane del film, si è aggiunta la notizia della liberazione delle due volontarie italiane.
«Quando hanno alzato il velo dal volto è stato come l'aprirsi d'un firmamento di stelle - s'entusiasma Benigni
- e allora, in onore di Simona e Simona, noi abbiamo cominciato a fare tutto doppio. Abbiamo applaudito
applaudito, ci siamo abbracciati abbracciati, ci siamo baciati baciati, ci siamo sentiti felici felici». E tanto per
non smentirsi rifà (da par suo) la scena del velo: infila la testa sotto la giacca, e la tira fuori sorridente.
Incorreggibile Benigni: solo lui può permettersi di trasformare la realtà in favola il dramma in commedia. «Se
il cinema può aiutare a cambiare le cose? Accidenti, se lo può! Può farci dire: eccoci qua! Siamo vivi! E
sappiamo parlare di pace! Non è già questo un miracolo?».
Gabriele Parpiglia - Panorama, 9 settembre 2004
Roma, lunedì 30 agosto: a palazzo di giustizia, anzi al Palazzaccio come lo chiamano i romani, si svolge un
processo particolare. L'avvocato Scuotilancia è nervoso. Il suo assistito, Attilio De Giovanni, non s'è ancora
presentato in aula. Il penalista afferra il telefono. Grida: «Attilio, corri, corri! Ti stiamo aspettando al... tuo
processo. Giudici, abbiate pazienza. Nell'attesa, perché non ci beviamo un caffè?». Stop. Detta così non
sembra la scena di un vero processo. Infatti questo è stato il primo ciak del film La tigre e la neve di Roberto
Benigni. Girato lunedì 30 agosto nel monumentale palazzo di giustizia di Roma, dalle 8 alle 17.30:
Panorama, sia pure clandestinamente, ha preso parte alla prima giornata di lavoro. Nel film, scritto ancora
una volta con Vincenzo Cerami, il comico toscano interpreta Attilio De Giovanni. Mentre l'avvocato
Scuotilancia non è altro che Gianfranco Varetto, attore teatrale e amico di Benigni. La pellicola fa discutere
prima di essere stata girata: la sua uscita è prevista per Natale 2005. E la storia è immaginifica, nello stile del
regista. Panorama è riuscito a ricostruirne il copione nelle sue parti essenziali e a delineare il ruolo degli
attori. Anche se alcune scene del film restano ancora top secret. Attilio è un poeta innamorato della lirica che
decide di trasferirsi in Iraq per provare a raccontare la guerra in modo diverso. A fargli compagnia in questo
viaggio c'è Vittoria (Nicoletta Braschi), giornalista incaricata di scrivere la biografia del poeta. Purtroppo la
loro presenza in Iraq coincide con l'inizio del conflitto. Vittoria si ammala e i medicinali che servono per
curarla non ci sono. Così Benigni-Attilio, che di arabo non conosce una parola, che i dromedari li ha visti solo
allo zoo, e che l'unica arma che ha preso in mano nella sua vita è una penna biro, è costretto a combattere
la sua guerra personale per recuperare i farmaci. Facendosi scudo solo con la sua poesia, lotta in
quell'inferno di distruzione. Ma... c'è un ma: mentre nel film il poeta si dibatte per salvare la sua amata,
Vittoria conosce e s'innamora di uno scrittore iracheno di nome Fuad. Interpretato dall'attore francese Jean
Reno. A questo punto restano molte domande. Come finirà il film? Perché la scena iniziale si svolge in
un'aula di tribunale? Chi è la tigre del titolo? E la neve? Di certo, Panorama l'ha scoperto, i protagonisti non
moriranno. Così come non morirà l'amore di Attilio per Vittoria quando lei gli preferirà Fuad. La tigre non può
che essere Attilio, un poeta che, col disarmante sorriso a cui Benigni ci ha abituati, riuscirà nell'ordine: a
procurarsi la medicina, a salvare Vittoria e a raccontare gli scandali che i rumori dei fucili «offuscano»
durante la guerra. La neve che si scioglie di fronte a un nuovo amore, invece, non può che essere Vittoria.
Pare che Nicoletta Braschi, per interpretare questo ruolo, abbia evitato di prendere il sole per tutta l'estate. In
ogni caso al primo ciak Braschi, che è anche produttrice del film, si è presentata in tenuta sportiva, jeans a
vita bassa, magliettina a maniche corte e una pelle candida, di chi il mare non l'ha visto neppure da lontano.
Diverse saranno le location da utilizzare. La prima settimana a Roma. Dopo aver girato in un'aula a palazzo
di giustizia, il set si trasferisce prima alla Terza università in via Ostiense (dove Benigni girerà una scena con
alcuni studenti), poi all'Auditorium. Per quanto riguarda gli scenari di guerra, si è pensato di ricostruirli in
Tunisia. Gli interni saranno girati ai primi di ottobre a Papigno, una località umbra in provincia di Terni. Dove
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Benigni ha girato Pinocchio. Gli attori arruolati per La tigre e la neve sono per lo più artisti provenienti dal
teatro e poco conosciuti al grande pubblico. Tra questi anche un'attrice londinese di nome Emilia Fox, 30
anni, biondina e dal corpo esile. A parte il nome, Nancy, nulla si sa del suo ruolo. Di insoluto rimane anche
un ultimo quesito. Benigni, nei suoi ultimi film, ha riservato una dedica a qualcuno di speciale. Questa voltà
chi sarà il prescelto? Qualcuno pensa a Luigi Benigni, il padre dell'attore, scomparso venerdì 27 agosto,
proprio alla vigilia del primo ciak.
Stefania Berbenni - Panorama, 6 ottobre 2005
Il primo ad accorgersi che l’uomo era imparentato con la poesia fu Federico Fellini. Chiamò Roberto Benigni
per La voce della luna, gli cucì addosso il personaggio di un vate inutilmente innamorato, randagio di notte
per le campagne e incline a seguire le orme di Giacomo Leopardi che colloquiava con la Luna alla stregua di
una confidente sentimentale. Dopo quel film, intricato, onirico e molto lirico, il regista della visionarietà e
l’attore comico furono, a modo loro, inseparabili: si chiamavano quasi ogni giorno, una battuta, un saluto, un
verso. Del nocciolo umano di Benigni Fellini era arrivato al midollo, alla polpa (la poesia), difesa dalla scorza
picaresca. E per Benigni fu catarsi ed epifania insieme (anno 1990): gli toccò farci i conti con quel midollo,
esibirlo, Scelse Dante, il poeta sommo. Quando in tv lesse il Trentatreesimo canto del Paradiso, l’audience
superò i 15 milioni. Alle recenti Notti bianche romane piazza del Campidoglio era gremita per ascoltare
l’amore assoluto e sbagliato fra Paolo e Francesca (Quinto canto dell’Inferno). Usata a mo’ di giubbotto
antiproiettile, o bozza di un accordo diplomatico di pace, la poesia salva Benigni nell’Iraq di Saddam
Hussein. E armato di versi quando va a Baghdad per rivedere Vittoria (Nicoletta Braschi), letterata saputella,
impermeabile ai suoi slanci amorosi. La donna è in coma, vittima di un trauma cranico causato da un
bombardamento angloamericano, solo una medicina introvabile, capace di assorbire l’edema, può sottrarla
da fine certa. Attilio, poeta (Roberto Benigni), farà di tutto per procurargliela. Carri armati, posti di blocco, fili
spinati e un cammello usato come mezzo di locomozione, perché di benzina non ce n’è più, nel paese del
petrolio. La storia, scritta dall’attore-regista in coppia ancora una volta con Vincenzo Cerami, è la trama
all’osso di La tigre e la neve, nuovo film del toscano. È costato 30 milioni di euro, arriverà in 800 sale italiane
il 14 ottobre, dopo aver avuto 16 settimane di lavorazione, 12 di preparazione e 20 di postproduzione. Girato
fra Roma, Papigno (la sede della Melampo, la casa di produzione) e Tunisia, La tigre e la neve ha le
musiche di Nicola Piovani, già Oscar per La vita è bella, e una canzone scritta apposta da Tom Waits che la
esegue nella scena iniziale. La tigre è il film più atteso della nuova stagione invernale, avara di titoli italiani
(niente Gabriele Muccino, né Matteo Garrone, Nanni Moretti e altri). C’è già chi è pronto a sparare su
Benigni (l’articolo a pag. 280), sport nazionale dai tempi di La vita è bella (1999), quando il triplice Oscar, il
successo internazionale e la cifra stilistica del film (buonista, leggera per un tema tragico come l’Olocausto)
irritò una fetta di intellettuali e di pubblico. Tre anni dopo Pinocchio fu preso di mira con la ferocia di chi
debba far pagare un conto pregresso (il film rimane, comunque, irrisolto e ambizioso). Cosa succederà con
La tigre e la neve? Di nuovo partirà la mitragliata critica, salvando forse il Benigni protagonista e seccando il
Benigni sceneggiatore e regista? Se qualcuno si aspetta la pellicola a effetto, con grandi scene, rimarrà a
bocca asciutta: La tigre è un film soprattutto di parola, pensato per suscitare sorrisi, riflessioni, palpiti, E un
one man-show perché c’è quasi sempre Benigni sullo schermo, stralunato Candide catapultato nella
violenza irachena, Piccolo principe precipitato in trincea. La sua estraneità alle miserie del mondo, l’altrove
costante in cui si rifugia (la poesia, l’amore) sono il cuneo col quale si apre un varco in un presente, ai suoi
occhi più assurdo, astratto, incomprensibile di un testo in sanscrito. Eppure, si ritrova a dire: «A me piace
esserci (al mondo, ndr). Sono sicuro che anche da morto mi ricorderò sempre quand’ero vivo». A giugno, nel
presentare agli esercenti il trailer di La tigre e la neve promise: «Quando lo si va a vedere ci si innamora.
Senza l’amore si è tutti morti ma appena c’è l’amore tutto si muove». Più di Cupido, protagoniste del film
sono le Muse: rime, versi, poemi, l’intera sceneggiatura ne è cosparsa. Attilio cita Dante, così come Fuad,
l’amico poeta arabo (interpretato da Jean Reno), si rifà al Dante d’Oriente, Omar Khayyam. Benigni e
Cerarni hanno chiamato Jorge Luis Borges, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Marguerite Yourcenar
come comparse eccellenti: appaiono nella prima scena, quella del matrimonio (solo sognato) di Attilio con
Vittoria. Fra gli invitati ci sono i quattro grandi della parola, in immagini di repertorio. Sono invece presenti,
solo con i loro versi, Cardarelli, Tagore, Neruda, Hikmet, Majakovskij, D’Annunzio, Caproni, Lamarque,
Conte, Broch, citati ora da Attuo, ora da Fuad. In un paese come l’Italia, che sembra aver riscoperto la
poesia (un dato per tutti: a sorpresa, le raccolte liriche proposte dai due massimi quotidiani hanno superato i
4 milioni e mezzo di volumi venduti), La tigre e la neve potrebbe rilanciare il discorso sulla indispensabilità
della poesia per l’umano sopravvivere. Lo fece anni fa Josif Brodskij, Nobel russo, in un libro meraviglioso,
Fuga da Bisanzio (Adelphi), raccolta di saggi. Uno di questi titola: Un’immodesta proposta. Perché, si
domanda Brodskij, la poesia tocca solo l’1 per cento della popolazione? Risponde: non è la sua natura a
tenerla lontana dalla gente, ma la sua «fruibilità». Così il grande poeta e prosatore immagina liriche
riprodotte sui cartocci del latte (magari al posto dei volti dei desaparecidos che svettano sui contenitori
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americani), libri in vendita ai distributori della benzina, nei supermercati, ma a prezzo simbolico, quasi fosse
un investimento della nazione per rendere i propri cittadini migliori. Ca!cola l’ingombro dei volumi sulla
mensola di casa, dà consigli alle case editrici. Strologa, ragiona, propone, animato da un’unica convinzione:
che sì, la poesia sia a noi indispensabile.
Aldo Fittante - Film Tv, n. 42, 18 ottobre 2005
Furioso come una tigre e candido come la neve. Che poi è il polline di primavera che cade su Roma e
sull’amore che può tutto, come la poesia. Per Roberto Benigni la vita continua a essere bella, al punto che si
ricorderà, da morto, di quand’ero vivo. Come sempre nel suo cinema, il poverismo e il vuoto delle immagini
sono riempite dal Senso e da una verve attoriale che non ha connotazioni comiche uguali, forse, nel mondo
intero. Basterebbero le esilaranti scene della lezione all’università, della sedia da barbiere, della maschera
da sub o quella dell’appartamento, quando Attilio De Giovanni (un doppio omaggio poetico a nomi che
recitano da soli) tenta di riconquistare la sua Vittoria, in un tripudio di candele, gag alla Billy Wilder e finale
buono brutto e cattivo, o - ancora - del finto kamikaze al check point iracheno (le medicine al posto delle
bombe), per giustificare un film che denuncia tutti i (suoi) limiti e deflagra tutta la carica surreale dell’artista
toscano. Insomma Benigni è Benigni, nel bene e nel male. Un po’ grillo parlante e un po’ clown, un po’ Fellini
(soprattutto nell’incipit/sogno, dove appaiono in una partecipazione davvero straordinaria Montale, Borges,
Ungaretti e Yourcenar, che diviene tormentone, con Tom Waits che canta You Can Never Hold Back Spring)
e un po’ Charlie Chaplin, schiavo d’amore (quel tram con la sua adorata che scappa dentro al cinema di
Michalkov) e schiavo di se stesso, ma comunque vitale e sbrindellato, saltimbanco e giullare, professore che
vorrebbe insegnare - prima di ogni cosa -la voglia di mettercela tutta per guarirsi e guardarsi dalle malattie
dell’uomo. Certo, la figura di Fuad manca di spessore intellettuale e non ha forza romantica e Nicoletta
Braschi non è Anna Magnani. Certo, i personaggi di contorno sono sfocati e sbiaditi, come già nella Vita è
bella e nel Piccolo diavolo. Ma, appunto, Benigni è Benigni, riempie o crede di riempire ogni spazio del
proprio immaginario. A volte riuscendoci genialmente, a volte uscendone con le ossa rotte. Come se fosse
lui il primo a non credere di essere dentro ai suoi sogni, di essere lui il sogno di se stesso.
Alessandra De Luca - Ciak, n. 10 ottobre 2005
Lo spunto che ha generato il film lo spiega bene Roberto Benigni: «Non c’è stata nessuna idea all’origine,
ma solo un sentimento. I protagonisti sono portati dal sentimento, che è la forza più bella del mondo, la più
eversiva e la più rivoluzionaria. Questo film nasce dal desiderio di fare un film candido come la neve e
furioso come una tigre». Dopo l’orrore dell’Olocausto Benigni si cala in un nuovo inferno. Un luogo che tanto
somiglia a quello immaginato dal Sommo Poeta, ma che ci rimanda a uno degli angoli più caldi e tormentati
della terra: l’Iraq. Il 14 ottobre arriva infatti sugli schermi, prodotto dalla Melampo e distribuito dalla 01,
l’attesissimo La tigre e la neve in cui Benigni, ancora una volta affiancato da Nicoletta Braschi, veste i panni
del poeta Attilio (come Attilio Bertolucci?), uno che nuota tra i versi e sguazza tra le terzine, lasciando tutto il
mondo fuori dalla porta. Ma è innamorato di Vittoria, una studiosa di letteratura che di lui non ne vuole
proprio sapere e che, impegnata a scrivere la biografia di Fuad, il più grande poeta iracheno, se ne va a
Bagdad proprio alla vigilia dello scoppio della guerra. Vittima di uno dei primi bombardamenti
angloamericani, Vittoria finirà moribonda in un fatiscente ospedale della città mentre Attilio, precipitatosi in
Iraq tra i medici della Croce Rossa, comincerà proprio al fianco di Fuad (Jean Reno, che recita in italiano e in
arabo) la sua guerra personale per trovare i farmaci necessari a salvare la vita della donna che ama. Lo
vedremo danzare tra le bombe, correre come un folletto tra campi minati e case sventrate, attraversare posti
di blocco e cavalcare quei dromedari che ha visto solo allo zoo. Lo sentiremo citare Dante e Montale,
Cardarelli e Majakovskij, Tagore e Neruda, ma anche affermare al cospetto di una Vittoria vestita da sposa:
«Come sono belle le donne quando hanno deciso di fare, tra poco, l’amore». E lui che nella vita si è fatto
scudo solo con la poesia e che usa come unica arma la penna biro, tradito da uno squillo improvviso del suo
cellulare e scambiato per un soldato nemico, verrà fatto prigioniero dalle truppe dell’Alleanza, mentre Vittoria
farà ritorno a Roma finalmente guarita, ignara che a salvarle la vita è stato il suo bizzarro innamorato che
compone versi. Per scrivere la sua nuova febbricitante avventura costata 30 milioni di euro e girata tra
Roma, gli studi di Papigno a Terni e la Tunisia, dov’è stato ricostruito l’Iraq, Benigni ha scelto ancora
Vincenzo Cerami. Ma tra i suoi numi tutelari ci sono da una parte Clint Eastwood, Jim Jarmush e Sergio
Leone, dall’altra Borges, Montale, Ungaretti e la Yourcenar, protagonisti di una “straordinaria partecipazione”
nella scena onirica che apre il film. E se la colonna sonora è sempre firmata da Nicola Piovani, Benigni ha
ritrovato sul set a quasi vent’anni da Daunbailò l’amico Tom Waits che canta You Can Never Hold Back
Spring composta per il film insieme a Kathleen Brennan.
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Claudia Mangano - Mucchio Selvaggio, novembre 2005
Seppur con qualche semplificazione, si può dire che esistono un prima e un dopo nella carriera di Roberto
Benigni. Di certo lo spartiacque è segnato da La vita è bella con il suo premio Oscar e con la successiva
beatificazione del regista ad opera dei media. Da allora è diventato un santo laico, sinistroide ma non troppo,
ed è entrato di diritto nel gotha del cinema autoriale italiano. Quando un anno fa presentò alla stampa La
tigre e la neve, la scelta di ambientarlo in Iraq fece subito discutere, tanto più che in quegli stessi giorni, dopo
la morte di Enzo Baldoni, da lì facevano ritorno le due volontarie sequestrate, Simona Torretta e Simona
Pari. La scelta del set, il momento storico e la concomitanza di eventi generarono inevitabilmente più di
un’aspettativa sul taglio della pellicola. Aspettative frustrate. La tigre e la neve è una storia d’amore, né più
né meno, con evidenti velleità poetiche combinate a sketch prevedi-bili. Affilio è un poeta e ama, non
riamato, Vittoria (Nicoletta Braschi), una studiosa di letteratura alle prese con la biografia del poeta iracheno
Fuad (Jean Reno). È l’inizio del 2003, la guerra è alle porte e Fuad vuole tornare nel suo paese d’origine.
Vittoria lo segue e rimane vittima di un incidente, priva di conoscenza. Attilio riesce a raggiungerla nel
fatiscente ospedale di Baghdad e qui fa di tutto per salvarle la vita: fabbrica da sé le medicine, le procura
una bombola a ossigeno, attraversa campi minati e posti di blocco. Vittoria riesce a guarire senza sapere chi
sia stato il suo benefattore perché nel frattempo viene fatto prigioniero dall’esercito americano. Prima che
giunga il lieto fine si fa in tempo a cogliere l’artificiosità di certe soluzioni narrative e la prevedibilità di scene
che si ripetono sempre uguali, sia nelle dinamiche sia nelle ambientazioni. Benigni poi strizza l’occhio al
mercato americano e si avventura nelle insidie del politicamente corretto, concedendosi pure una deriva
“disneyana”: se i soldati americani sono tutti bonaccioni con i nervi un po’ scossi, allora si può anche recitare
il “Padre Nostro” rivolgendosi ad Allah. Viene il sospetto che esista un confine tra semplicità poetica e
semplicismo calcolato e che superare tale linea non sia frutto di cieca ingenuità.
Claudio Carabba - News Settimanale, n. 21 12 ottobre 2005
Balla, balla il burattino, volteggiando, con il suo corpo agile ed elettrizzato, nel campo minato. Gli arabi,
prima infuriati e poi stupiti, hanno cercato di avvertirlo, gridando e gesticolando. Ma lui, che è un poeta
vagabondo, senza quiete né testa, non ha capito gli avvertimenti. E ora danza come un acrobata su un filo
logorato. Sono scene come questa, in cui Roberto Benigni libera il suo talento e mostra quel tocco di classe
in più, che l’hanno reso un caso unico nel cinema italiano degli ultimi trent’anni (o poco meno). Essendo
consapevole del suo non piccolo genio, l’attore-autore ha affrontato esercizi sempre più impegnativi nella
maturità. Dopo la memoria dei lager e dell’Olocausto (nella Vita è bella) è venuta la rilettura del Pinocchio
collodiano, a mio avviso per niente riuscita, ma certamente segno di un’appassionata ambizione. E ora ecco
i dolori e il dramma dell’Iraq contemporaneo, con questo La tigre e la neve, che sarà lanciato dal 14 ottobre
con un effetto valanga (800 copie nelle sale), sì come capita ai probabili campioni di incassi. Il soggetto,
scritto come sempre insieme a Vincenzo Cerami, era (è) ad altissimo rischio. Si parla degli strazi della
guerra e dell’ansia di pace, di poesia e di amore assoluto: c’è poco da scherzare. Già i trailer di
presentazione non sono stati ben impostati: troppa Nicoletta Braschi (l’adorata compagna di vita e di lavoro),
sorridente e ieratica come una Madonna in trono. Lo spettatore che non condivide questo dolce culto deve
combattere un vago senso di irritazione. Nel film però, dopo un primo tempo romano maledettamente statico
e sentimentale, aperto da un sogno angelico cullato dalla voce cavernosa di Tom Waits, le cose vanno un
po’ meglio quando si entra nella zona dei combattimenti, anche perché la Braschi (fuggitivo fantasma
amoroso) viene ferita gravemente durante un bombardamento americano su Baghdad. Restando per un
pezzo in corna, risulta meno molesta. Roberto, poeta appassionato (il personaggio si chiamo Attilio e il nome
è un omaggio a Bertolucci padre), parte per zone assai pericolose alla ricerca delle medicine indispensabili,
facendo strani incontri. Finalmente non parla più con lei, ma con cammelli testardi e soldati yankee nervosi.
E consolida la sua amicizia con un altro poeta (iracheno), interpretato da Jean Reno: un duro che, con la
faccia da gangster che si ritrova, prometteva di regalare una stravagante corposità al personaggio e invece
pian piano affonda perdendosi nelle lodi delle meraviglie del creato. E, insieme a lui e a Roberto-Attilio, si
perde tutto il film. A differenza dei “falchi”, antipatizzanti anche per motivi ideologici (Panorama la settimana
scorsa ha raccolto un bel mucchietto di stroncature preventive), sono dispiaciuto e spero di sbagliarmi (altri
magari si commuoveranno): ma La tigre e la neve mi sembra un racconto inerte, retorico e ostentato nel suo
inno alla gioia di esistere. E come se Benigni, dopo il trionfo della Vita è bella e le ripetute letture del
Paradiso di Dante, volesse amare tutti e da tutti volesse essere amato. Così nel suo Iraq da presepio tutti
sono buoni, i soldati americani (se fanno paura con le armi spianate, è solo per inesperienza) e gli abitanti di
Baghdad, con gli angelici dottori in testa. La storia, scandita dall’affannosa ricerca delle medicine per salvare
la povera addormentata, scorre lenta e prevedibile, salvo una piccola (lieta e rassicurante) sorpresa nel
finale. C’è la guerra certo, ma sembra che non ci siano conflitti, tensioni, corpi o anime straziate. In questo
magma zuccherato, persino un tragico suicidio perde di senso e d’intensità. L’ottimismo invade anche
l’aldilà. «Sono contento di essere nato. Mi piace così tanto esserci: sono sicuro che anche quando sarò
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morto mi ricorderò di quando ero vivo», mormora Attilio con un luminoso sorriso davanti a un cielo
magicamente stellato, annullando con un colpo di spugna l’angoscioso dolore degli spettri condannati
all’eterno rimpianto. Senza ritmo e senza frenesia come regista, Benigni purtroppo è un protagonista
pietrificato, una maschera inespressiva. Soltanto quando si dimentica di questo presente da letterato
missionario e libera senza paura la perduta comicità da folle burattino senza fili (nel già citato balletto fra le
mine e nella fermata buffa al posto di blocco), l’attore ci fa intuire che le sue elettriche virtù non sono
scomparse, che volendo potrebbero risorgere lampeggiando. Il momento comunque resta difficile e
pericoloso. Probabilmente i grandi comici sentono più degli altri i fatali movimenti del tempo. Con l’avvicinarsi
della senilità, forse temendo di restare vincolati nella gabbia dei clown, tendono a volare più alto e a rendere
più severo il loro stile. Prendiamo un modello assoluto, che sicuramente Roberto tiene nella mente e nel
cuore, come Charlie Chaplin. Non che il maestro della Febbre dell’oro da giovane non narrasse di folli amori
o giocasse leggero (basta pensare alla lucida “socialità” di Tempi moderni). Ma il linguaggio era quello del
comico, persino quando affrontava la minacciosa ascesa di Hitler (Il grande dittatore): Charlot, il vagabondo,
era il suo doppio meraviglioso, Nel dopoguerra il quasi vecchio Chaplin (era nato a Londra nel 1889), manda
in pensione (uccide) il suo personaggio; un po’ perché troppe atrocità sono avvenute nel mondo; un po’
perché, passata la cinquantina, non ha più voglia di passeggiare con la bombetta e il bastoncino. Ma la
creatura della sua amarissima svolta, avvenuta quando le macerie della seconda guerra mondiale erano
calde, l’assassino disperato di Monsieur Verdoux (1947) è l’irata incarnazione (la vittima e il carnefice) di un
pianeta crudele, non il messaggero di una impossibile, o peggio stucchevole, assoluzione generale. La
sensazione è che Benigni (classe 1952), arrivato intorno a cinquant’anni, abbia sentito, non ingiustamente, il
bisogno di mescolare i toni, e di accentuare il lato drammatico della sua ispirazione: riuscendoci alla grande
con La vita è bella, ma poi naufragando in un gelido manierismo (Pinocchio). Adesso La tigre e la neve
conferma questa fase di estro calante. Resta la speranza di uno scatto furente nel futuro prossimo. Non da
buffone (non lo è mai stato) ma da genio saltante: se il tempo dei giochi allegri, non innocenti, da “piccolo
diavolo”, è finito, sarebbe bello che il ragazzo di Vergaio scompaginasse di nuovo lo spartito, ci facesse
riconoscere il segno dell’antica rabbia.
Callisto Cosulich - Avvenimenti, 14 ottobre 2005
Il percorso narrativo de La tigre e la neve sembra la fotocopia di quello che Benigni praticò ne La vita è bella:
primo tempo esplicitamente comico nella chiave un po’ surrealista, che caratterizza la personalità del mimo
toscano; secondo tempo bruscamente drammatico a causa del violento irrompere della storia nell’ordito della
pellicola. Ne La vita è bella l’orrore dell’Olocausto; ne La tigre e la neve l’inferno iracheno. Gli attori
protagonisti sono gli stessi Roberto Benigni e Nicoletta Braschi; ma con i ruoli invertiti. Ne La vita è bella la
vittima era Benigni, nella parte dell’ebreo Guido Orefice, spedito in un lager col figlioletto Giosuè; la Braschi
era la moglie “ariana”, che decideva di propria volontà di seguire la sorte del marito. Ne La tigre e la neve, a
misurarsi con la morte, è la Braschi, nella parte di Vittoria, scrittrice che si reca a Bagdad per intervistare un
poeta arabo, conosciuto a Parigi, tornato in patria all’esplodere della guerra, per condividere la sorte del suo
popolo. Vittoria rimane vittima di un attentato suicida che la manda in corna; Benigni, nella parte di Attilio,
insegnante e poeta, che trabocca d’amore per lei, sebbene non sembri corrisposto da uguale sentimento,
alla notizia di quanto le è occorso, decide, costi quel che costi, di recarsi al suo capezzale. Il primo tempo
funziona a meraviglia, addirittura meglio di quello de La vita è bella. Benigni compare come clown bianco,
che vive sognando e sogna vivendo, nutrendosi di poesia, elargendo poesia alla Braschi, che sembra
indifferente; un clown che si ritrova in situazioni impossibili e tuttavia ideali per dare corpo ai propri
sentimenti. Il secondo tempo, invece, va in panne. A nostro avviso per molti motivi, tranne quello che
abbiamo sentito trapelare, sia in conversazioni private, che in alcune recensioni, e che appare con inusitato
anticipo sulla uscita del film: la mancata condanna degli invasori americani, che nella vicenda rivestono un
ruolo marginale e neppure “antipatico”. Al contrario. E stato notato con malcelato orrore, che un marine, di
stanza a un posto di blocco, quasi si commuove alla scoperta che Benigni non è un kamikaze, ma un poeta
italiano capace dì citare i versi di Walt Whitman; un marine, che in fondo è personaggio non dissimile da
quell’ufficiale tedesco, patito dell’enigmistica, che ne La vita è bella stravedeva per Benigni, capace di
risolvergli i più ardui indovinelli. I motivi sono altri: l’amour fou che si trasforma in carità infermieristica; la
poesia che diventa mera dizione poetica; il comico che si riduce al ruolo di “fine dicitore”. Per non parlare del
finale a sorpresa, dove si scopre che eravamo di fronte a una storia simile alla vicenda raccontata ne I giorni
dell’abbandono, anche in questo caso a ruoli invertiti. E si esce con la spiacevole impressione che si sia
usata la tragedia irachena a pretesto per parlare d’altro: per narrare una storia privata di relativa importanza.
Al contrario di quanto accadeva ne La vita è bella, dove la storia d’amore liberava la maggiore tragedia dello
scorso secolo dalla visione documentaria, fotografata o ricostruita anche troppe volte, per offrirne una
visione più ampia e permanente. Ripetere con eguali risultati lo stesso meccanismo per una tragedia che ci
vede tuttora in mezzo al guado, si è dimostrata impresa impossibile.
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