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JUNG - La Repubblica.it
Domenica La DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 / Numero 300 di Repubblica l’attualità Le ultime voci delle lingue scomparse MARINO NIOLA cultura Mario Giacomelli, fotografie in versi EMANUELA AUDISIO Jung Libro Il © 2009 STIFTUNG DER WERKE VON C. G. JUNG / W. W. NORTON & COMPANY, NEW YORK, PER GENTILE CONCESSIONE DI BERLA & GRIFFINI RIGHTS AGENCY © 2010 BOLLATI BORINGHIERI EDITORE, TORINO rosso Il lungo viaggio segreto del maestro dell’inconscio in esclusiva per l’Italia spettacoli CARL GUSTAV JUNG Q uando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. (segue nelle pagine successive con un articolo di Antonio Gnoli) LA DOMENICA NUMERO 300 La Domenica di Repubblica è arrivata al numero trecento. Da oggi sul canale digitale terrestre e poi online su Repubblica.it, andrà in onda uno speciale di Repubblica Tv che ne ripercorre la storia. Un documentario che racconta, attraverso interviste agli autori dei servizi, ai collaboratori e alla redazione come nasce un numero della Domenica dall’idea iniziale alla sua realizzazione Lo speciale è stato curato da Giulia Santerini con il montaggio di Giulio La Monica In un taccuino tutta la forza del Boss GINO CASTALDO e BRUCE SPRINGSTEEN le tendenze Eva, Linda e le splendide quarantenni IRENE MARIA SCALISE l’incontro Clint Eastwood, la febbre del nuovo MARIO SERENELLINI Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 la copertina Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant’anni ed è un uomo realizzato: ha “fama, potere, ricchezza, sapere”. Ma all’improvviso incominciano incubi e visioni Maestri apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà per tutta la vita su un quaderno che diventerà il “Libro rosso” Uno stupefacente diario intimo, monumento all’inconscio, testo alchemico di straordinaria ricchezza. L’opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia Appunti di viaggio verso l’abisso ANTONIO GNOLI li anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l’Europa. Pensò di essere pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl? Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell’esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l’arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora l’edizione italiana. Nelle intenzioni di Jung, quel testo — per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana — avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l’epoca moderna aveva tentato di cancellare. Il Libro rosso (o Liber novus) mette il lettore di fronte a due situazioni: gli fa conoscere Jung attraverso Jung; e contemporaneamente lo introduce a un metodo di lavoro che può illuminare la sua vasta produzione. È noto che egli fu allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che l’amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto — proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima — si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall’Associazione psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più di un motivo. C’era, innanzitutto, quella che Jung definì l’ortodossia freudiana e l’eccesso di dogmatismo dottrinario; c’era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale; mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c’era la diversa lettura che entrambi davano dell’inconscio (per Freud all’inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l’inconscio è già definito fin dall’origine); infine il metodo freudiano era soprattutto un’analisi retrospettiva, tendeva cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l’importanza che agli occhi dell’ex allievo assunsero alcuni archetipi: “Persona”, “Ombra”, “Anima”, “Sé”, che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità. IlLibro rossopuò dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l’esistenza di un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra di Nietzsche. Ne concluse che — grazie all’anima — il dio che muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni. Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi frutti più esoterici. D’altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l’immenso talento di chi li ha saputi creare. Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l’abisso della follia senza esserne inghiottiti. G © RIPRODUZIONE RISERVATA Dio nella mia anima draghi nel mio cuore CARL GUSTAV JUNG (segue dalla copertina) ALBERO DELLA VITA Le immagini di queste pagine sono parte integrante del Libro rosso. Ognuno di questi disegni è legato a un sogno iniziatico o una visione di Jung. Si riconoscono alcuni degli archetipi principali: il serpente simbolo della conoscenza, la nave del viaggio di Osiride e del sole, l’uovo cosmico ispirato dai Veda indiani in copertina, il grande albero della pagina accanto o la creatura da incubi qui sopra o scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine». Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’anima umana. Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto la mia anima, bensì un’inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all’anima come se fosse Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 IL LIBRO REPUBBLICA TV Uscirà per Bollati Boringhieri l’11 novembre il Libro rosso di Carl Gustav Jung curato da Sonu Shamdasani (393 pagine, 150 euro) Su Repubblica.it è online una galleria di immagini sul Libro rosso Venerdì 12 novembre alle 20,15 su Repubblica Tv, puntata speciale di Libridine qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo. Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell’anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione. Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà del mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è povera e indigente. La ricchezza dell’anima è fatta di immagini. Chi possiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, per non allevarvi draghi e diavoli in cuore. Traduzione Marianna Massimello (© 2009 Stiftung der Werke von C. G. Jung / W. W. Norton & Company, New York, per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency © 2010 Bollati Boringhieri Editore, Torino) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’attualità Babele DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 Lingue che rischiano di morire, idiomi in via di estinzione, voci che si stanno spegnendo per sempre. K. David Harrison è andato a cercarli in un lungo viaggio attraverso il pianeta dall’Australia alla Siberia al Sudamerica. Ha raccolto un patrimonio di canti, saperi, storie tramandate con vocabolari millenari e sconosciuti Per dimostrare che parlare non significa solo comunicare LINGUA: MONCHAK LINGUA: YOKOIM La famiglia Nedmit Luis Kolisi Padre, madre e due figlie. Vivono nella Mongolia occidentale Parlano la lingua Monchak, considerata a rischio di estinzione Sono meno di un migliaio le persone che la parlano È una delle ultime voci della lingua Yokoim un tempo diffusa in Papua Nuova Guinea Luis scrive e canta canzoni per tramandarla Le ultime parole del mondo MARINO NIOLA Carlo V diceva: usa lo spagnolo con Dio, gni lingua è un angolo di mondo. E le parole non servono solo a comunicare la realtà, ma la creano. Perché tutto ciò che esiste è nel linguaggio e ciò che non è più nominato smette di vivere. Le idee, le emozioni, i sentimenti, le istituzioni degli uomini, ma anche le cose, gli oggetti, i luoghi sono in realtà modi di essere della parola, sedimentati dal tempo. In questo senso ogni lingua è un’eredità, come diceva Ferdinand de Saussure, l’inventore della linguistica moderna. E ogni lingua che scompare è un patrimonio che va perduto, un pezzo di umanità che tace per sempre. Proprio agli idiomi a rischio di estinzione LINGUA KALLAWAYA il linguista americano K. David Harrison dedica il suo ultimo libro Antonio e Illarion Ramon Condori The Last Speakers: The Boliviani, padre e figlio si tramandano Quest to Save the la lingua che conserva ancora reminiscenze World’s Most EndenQuechua che si parlava nell’antico impero Inca gered Languages, un O l’italiano con la tua amante, l’inglese con le oche affascinante e avventuroso viaggio attraverso le parole che il pianeta rischia di lasciarsi sfuggire per sempre. Dalla Siberia agli altipiani boliviani, dalla Nuova Guinea fino alle isole linguistiche dell’Occidente. Quelle che oggi rischiano di essere sommerse dalla marea montante della globalizzazione e dal suo monolinguismo. Che riduce le voci del pianeta a una cattiva declinazione del- IL LIBRO Si intitola The Last Speakers il libro di K. David Harrison pubblicato negli Stati Uniti dal National Geographic da cui sono tratte le immagini di queste pagine. È un viaggio alla scoperta degli ultimi speaker, “parlatori” di lingue che si stanno estinguendo. Il libro è diventato anche un documentario, The Linguists, selezionato al Sundance Film Festival l’inglese. Una formattazione del pensiero che sacrifica le diversità in nome della praticità. È il paradosso di oggi. Comunichiamo sempre di più, ma le parole per farlo diminuiscono. E così giorno dopo giorno molte comunità adottano le lingue dominanti lasciando morire quelle native. Spesso consegnate unicamente alla tradizione orale, a un passa parola millenario che il rumore della civiltà tecnologica tende a coprire. E non è solo una questione di termini, ma anche e soprattutto di contenuti. Di tutti quei saperi, lessici, tassonomie, sensazioni, storie che altrimenti non conosceremmo. E in questo senso il destino delle lingue è strettamente legato a quello delle specie, le cosiddette biodiversità. Molte ci sono del tutto sconosciute. Come i loro nomi. Saperi botanici, chimici, farmacologici, agricoli, tecniche di caccia, di pesca sparirebbero per sempre con gli ultimi parlanti. Perché non tutto è traducibile. E una lingua non vale l’altra. In questo senso il fatto che l’inglese sia diventato l’idioma del villaggio globale, non è solo un vantaggio, ma un problema. Proprio così recitava il titolo di un importante servizio apparso qualche tempo fa sulla Herald Tribune e dedicato alle derive linguistiche del dominio imperiale americano. Siamo sicuri insomma di poter fare a meno di tanta ricchezza? A questa domanda — che è il leit motiv del libro — Harrison risponde con un secco no. Le lingue a rischio di estinzione si devono e si possono salvare. Cercando di incrementarne il valore, il prestigio, l’appeal agli occhi dei parlanti, ma anche a quelli degli altri. Facendo crescere la quotazione delle cosiddette parlate minori nel mercato mondiale dei linguaggi. Riconoscendo a ogni lingua una sua vo- Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 LINGUA: MURRIN-PATHA LINGUA: KARIM Cyril Ninnal Christina Yimasinant Fa parte della tribù Yek Nangu, vive a Wadeye, nel nord dell’Australia, è un narratore di storie e leggende aborigene Solo 2.500 persone parlano la sua lingua, il Murrin-Patha Di etnia Yimas, vive nella regione del Karawari, in Papua Nuova Guinea. Parla la lingua Karim È una della ultime a conoscerla cazione, una destinazione, una tipicità. Non tutte le lingue possono dire tutto a tutti, ma ciascuna può avere qualcosa da dire. Carlo V, che non riuscì mai a imparare il latino, ma sulla globalizzazione la sapeva lunga, visto che sul suo regno il sole non tramontava mai, diceva che si dovrebbe parlare spagnolo con Dio, italiano Gli indigeni dello stretto di Torres si pongono il problema di tradurre termini come computer con la propria amante, francese con il proprio amico, tedesco con i soldati, inglese con le oche, ungherese con i cavalli e boemo con i diavoli. Forse per salvare gli idiomi a rischio bisogna prendere esempio dagli indigeni dello stretto di Torres, uno dei paradisi dell’antropologia, che si pongono il problema di rendere più contempo- ranea la loro lingua, creando nuove parole per tradurre termini come computer. Un problema che, peraltro, neanche l’italiano ha risolto. In realtà per i Papua come per noi il problema è lo stesso. Quando mancano le parole a mancare è il pensiero. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 CULTURA* È stato il fotografo dei “pretini” e dei gabbiani, ma non solo Lo interessava la perdita, la vita dal basso: la campagna invasa dai trattori, le case crollate dei contadini, i vecchi negli ospizi senza più denti in bocca. Dieci anni fa se ne andava, e ora la sua Senigallia lo ricorda con una mostra, “Piccoli inediti”. Sono alcuni versi e i primi clic trovati dal figlio Simone nella soffitta di casa. Non scarti: “Papà non pubblicava quello che amava” EMANUELA AUDISIO S SENIGALLIA e ne andò alle tre di notte, dieci anni fa. Il 25 novembre, di un anno che non voleva nominare. Lo avevano operato d’urgenza a gennaio, i medici non avevano dato speranze. Tumore. Simone, il figlio, ricorda: «Papà uscì dalla rianimazione e mi chiese di portare la mia macchina fotografica. La mia? Sì, non voleva la sua. Scese dal letto, me la impostò, e me la restituì, dicendo di non toccare niente, neanche il vuoto. Poi si sistemò accanto alla finestra e mi disse: scatta». Così è nato Questo ricordo lo vorrei ricordare. Vorrei, appunto, non voglio. L’umiltà dei desideri, di chi ringrazia per il niente, una fetta di ciambellone da dividere per cena. «Quello che ho avuto di bello dalla vita sono la povertà e le botte che mi ha dato mia madre». Già, lividi veri. Anche se la madre gli confessò che poi andava a piangere al gabinetto. Mario Giacomelli se non aveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapevano raccontare. E riconoscere la guerra in tempi di pace. I segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo. La vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo. Ora la sua città lo ricorda con una mostra, I piccoli inediti. Dieci versi in dieci fotografie, dal 14 novembre al 14 dicembre, alla Galleria Portfolio di Senigallia, a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri, con presentazione di Alfio Albani. Non solo i primi clic, ma anche le parole. Perché a Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. «Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente». Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva il ritmo da Vitelloni, anche se le onde dell’Adriatico erano le stesse, piuttosto come Pasolini si lamentava di una perdita. Anche se le lucciole in collina resistevano. «La campagna è cambiata. È diversa, adesso è una terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina, fa tutto. Non c’è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c’è più gioia in chi lavora, in nessuno», dice a Giorgio G. Neri. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole dietro le serie. Questi inediti, questi provini, scelti tra un centinaio, erano negli scatoloni nella soffitta di casa, dove lui stampava. Non robaccia, non scarti, perché come dice Simone: «Papà non pubblicava quello che amava, lo teneva per sé, aveva paura di non essere capito, nel ’63 voleva addirittura smettere, era rabbioso con il suo lavoro, di notte rom- peva, strappava le foto, le buttava in un cesto. Io da bambino gli facevo da modello, anzi facevo l’ombra, una figura in movimento, ma non riuscivo a stare serio, e lui si arrabbiava. Finché nell’83 esce il libro Il Gabbiano Jonathan Livingston, e lui mi coinvolge, mi chiede: cosa ne pensi? Inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cade nella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sempre allungato, riesce a salvarsi, ma la puzza gli resterà addosso per una settimana. La poesia era la sua spalla creativa, odiava tutto quello che è didascalia, la Cavallina Storna con l’immagine del cavallo che passa, aveva una menta astratta, vedeva le macchie, i segni». Li vede da subito: il padre muore che lui ha nove anni, la madre Libera lavora come lavandaia all’ospizio in cambio di un piatto di minestra, la sorella più piccola viene data in affidamento per un anno perché non ci sono soldi. Mario inizia a disegnare sui tronchi degli alberi. Non cuori, ma croci. A tredici anni diventa tipografo. Segni, ancora una volta: le macchie sui muri, i fili di ferro. «Meravigliosi». Nel ’53 acquista una Bencini Comet 5 e scatta due rullini al mare d’inverno. È la vigilia di Natale. Una ciabatta rotta, una stella di mare, la schiuma delle onde. Resti, per noi. Per lui: L’approdo. Nel ’57 gli pagano (in anticipo) un servizio su Lourdes. Parte, arriva, se ne va, sotto la pioggia. «Mi vergogno, non ce la faccio». Ridà indietro i soldi, anche quelli del viaggio. «C’era un bambino in carrozzella, con le gambe intrecciate, urlava come un gorilla». Lo rimproverano: ma come, hai ritratto i vecchi rotti e sdentati all’ospizio, nella sala d’attesa per la morte. E lui: «Sì, ma quelli avevano vissuto, questi invece no». Giacomelli non è uno spettatore. Va al mattatoio, vede i maialini piangere, e scappa via. Va all’ospizio per tre anni, e non riesce più a mangiare. Ma dopo uscirà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Va in se- GScattiIACOMELLI solo per me minario, sempre per tre anni, curioso dei pretini, «figli di contadini», e butta via tutto. Però a Lourdes torna, con la moglie, per esigenze private, e stavolta fotografa. Spiega Simone: «Nel ’59 era nato Neris, mio fratello, che a pochi mesi dalla nascita ingoia una spilla da balia, ha un principio di soffocamento, con un deficit che lo lascia senza parole». Giacomelli vuole realizzare una serie sui disabili, I miei fratelli, ma non lo lasciano fare. Un anno prima si è rotto una gamba, e a causa del gesso, si è dato alla composizione, a quelle nature morte che giudica male. Nel ’65 inizia a frequentare una famiglia di contadini, ogni domenica mattina d’inverno fotografa sempre la stessa casa fino a quando nel ’95 la casa crolla. Per lui sono Le ragioni del tempo. Nel ’68 conosce Burri che gli piace molto: «Fossi un pittore mi piacerebbe essere lui». Tagli, vuoti, crudezza. Dieci anni dopo Giacomelli è ancora vivo. Usato, conosciuto, imitato. Dice il pittore Leonardo Cemak: «Ha dato a tutti l’illusione che fosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo». Patrizia Molinari, artista: «Ha visto l’incommensurabile in un campo arato, nel volo di un gabbiano, nel viso di un folle in manicomio». Mirko Procaccini, grapich-designer: «Con una macchina fotografica scalcinata ha dato forza e visibilità a un panorama invisibile». Come spiega Ferdinando Scianna ai suoi allievi: «Giacomelli insegna che anche una tipografia di provincia può essere vissuta come una nave di pirati. Ognuno trovi il suo modo». Ricorda Simone: «Mi diceva sempre: quando sarai grande capirai. Non accettava l’ambiente che cambiava, la terra che si disfaceva, la violenza dell’uomo sulla natura. Chiedeva: perché? Ora che ho un figlio di sette anni capisco. Papà non mi ha lasciato foto, ma pezzi di vita, con un vocabolario». Una altro modo per dire: guarda le suture, il male che c’è sotto, non avere paura di abbassare gli occhi. E noi infatti oggi li alziamo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IMMAGINI E VERSI A sinistra: “Colonie - Il pensare respiro”. Sopra: “Paesaggio 0 - In filari disuguali”. Sotto: “Paesaggio 1 - Semina senza raccolto” In basso a sinistra: “Nonna Zia Maria - Nutrita di silenzi”. In basso a destra: “Nudo - Spazio attorno al corpo” Leonard Cemak “Ha dato a tutti l’illusione che fosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo” Ferdinando Scianna “Insegna che anche una tipografia di provincia può essere vissuta come una nave di pirati” € 16,00 Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 Quando Bruce Springsteen, dopo “Born to Run”, iniziò a lavorare a “Darkness on the Edge of Town”, fece la sua più grande scommessa: rischiare il successo appena ottenuto per restare fedele a se stesso. La vinse SPETTACOLI Ma nessuno aveva mai raccontato i dubbi, la fatica, le giornate in sala di registrazione. Ora spunta un quaderno di appunti che non abbandonava mai I taccuini del Boss ‘‘ “Devo alle scelte di allora e a quel ragazzo il rispetto che meritano Ma tanta magia, dolce e importante, è andata momentaneamente perduta, c’è una stagione per tutto” Bruce Springsteen, 2010 Le tenebre e la Terra Promessa GINO CASTALDO otere dell’immaginazione: la Terra Promessa in un quaderno di appunti. Era così quando il Boss si struggeva di dubbi e fervore rock e cercava di capire come gestire il successo che gli era arrivato violento e rumoroso dopo Born to Run, lui che era un ragazzo del New Jersey, fermamente deciso a incendiare il mondo del rock, ma senza perdere quello che lui sapeva essere la sua unica, indispensabile forza: l’attaccamento alla terra, agli amici, a quella realtà da eroi della working class a cui sentiva di appartenere. E allora scriveva, annotava versi, accumulava idee e le riversava su quel quadernone con la copertina blu che teneva sempre pronto, aperto in studio P mentre lavorava con i compagni fidati della E Street Band. Come in una sceneggiatura, ci sono le terre avvelenate, i quartieri dei diseredati, l’idea struggente di una Terra Promessa, le tenebre che incombono ai confini della città. È il notebook di Darkness on the Edge of Town. Fa un certo effetto maneggiare quel libro di appunti di Bruce Springsteen. Certo, è una copia, ma riprodotta talmente bene da sembrare l’originale, con tanto di macchie di caffè, strappi, cancellature e pezzi di scotch che uno tocca pensando siano veri e invece al tatto risultano pura e semplice riproduzione. Ma l’effetto rimane, ed è soprattutto una questione di intimità. In vena di generosa sincerità, in occasione del boxset legato alla riedizione di Darkness on the Edge of Town, (un tesoretto di cd, documentari, live, da far ammattire i fan) a confer- ma di come sia stato un disco cruciale, una boa fondamentale nella definizione della sua identità, ha deciso, o meglio si è lasciato convincere ad accludere anche una copia, perfetta, del quadernone. E a sfogliarlo si vedono i tentativi, i primi versi di Badlands, poi cambiati, le note, le cancellazioni, si percepisce il processo creativo che tormentava Springsteen in quei giorni del 1978, quando la vena punk aveva ammantato la scena del rock di nuove ribellioni, di oscurità (guarda caso il titolo, Darkness...), la sua voglia di costruire un viaggio duro, rigoroso, senza deviazioni. Quel disco è così, una risposta netta, tagliente, più riflessivo di Born to Run, ma egualmente intenso, forse ancora più profondo, immerso nella solitudine di un artista sull’orlo del buio. Il disco è tra i più amati, se non il più amato dai fedelissimi, proprio per la sua integrità, oltre al fat- IL COFANETTO Esce il 16 novembre The Promise: Darkness on the Edge of Town Story Un cofanetto che contiene tre cd: la versione rimasterizzata dell’album e 21 tracce inedite del periodo 1976-78 Tre dvd (o bluray): il documentario di Thom Zimny sul making of dell’album, il concerto di Houston del ’78 e un set d’archivio di quattro ore In più, il facsmile del taccuino di appunti del Boss che illustra queste pagine Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Ore e ore in cerca di una strofa così ho reagito alla buona sorte BRUCE SPRINGSTEEN opoBorn to Runvolevo descrivere come si vive entro i confini ristretti delle piccole città in cui sono cresciuto. Nel 1977 abitavo in una fattoria a Holmdel, nel New Jersey. È lì che ho composto gran parte dei brani per Darkness on the Edge of Town. Avevo ventisette anni ed ero il prodotto dei successi radiofonici del momento. Brani come It’s My Life e We Gotta Get Out of this Place erano intrisi di una precoce coscienza pop. Questo, associato alla mia esperienza personale — lo stress e la tensione della vita che conducevano i miei genitori alle prese con le difficoltà economiche — influenzava la mia produzione. Reagivo alla mia buona sorte. Mi ponevo nuove domande. Mi sentivo responsabile nei confronti delle persone con cui ero cresciuto. Iniziai a chiedermi come affrontare la cosa. All’epoca ero anche in contrasto con il mio ex agente per i diritti e il controllo sulla mia musica. Correvo il rischio di perdere molto del mio lavoro, di quello che avevo realizzato. Tutto questo contribuì alla svolta che la mia produzione ebbe con Darkness. In quel periodo iniziai ad ascoltare seriamente musica country. Scoprii Hank Williams. Del country mi piacevano i riferimenti a tematiche adulte, e io volevo scrivere brani che avessero un’eco. I film che erano sempre stati importanti per la mia attività di cantautore ebbero ancora più impatto su questo album. Mi erano sempre piaciute le tinte forti, i fuorilegge dei B — movies, Robert Mitchum in Il contrabbandiere, e Gun Crazy di Arthur Ripley. Avevo visto di recente per la prima volta Furore di John Ford. Scovavo noir degli anni Cinquanta e Sessanta come Le catene della colpa di Jacques Tourneur. Di quelle pellicole mi attiravano gli uomini e le donne in lotta contro il mondo circostante. Persino il titolo Darkness on the Edge of Town doveva molto al noir americano. Sotto il profilo musicale volevo un disco più snello, meno grandioso di Born to Run. Le sonorità di quest’ultimo non sarebbero state consone ai brani che componevo e alle persone di cui ora narravo. Chuck Plotkin, un discografico di LA, comparve alla fine dell’album e ci aiutò a ottenere un missaggio più incisivo, più moderno. Ci aiutò a mettere a fuoco i brani come altrimenti non saremmo riusciti a fare e ci permise di portare il disco a conclusione. Nel materiale registrato c’erano molte varianti ma tolsi tutto quello che a mio avviso interrompeva la tensione dell’album. Dopo Born to Run volevo che la mia musica continuasse ad avere un valore e fosse radicata in un mondo. Era difficile comporre. Ricordo che passavo ore cercando di tirar fuori una strofa. Badlands, Prove It all Night e Promised Land avevano tutte un ritornello ma poche strofe. Ero in cerca di un’atmosfera intermedia tra lo spirito fiducioso di Born to Run e il cinismo degli anni Settanta. Volevo che i miei nuovi protagonisti si sentissero logorati, invecchiati, ma non sconfitti. In ogni brano era sempre più vivo il senso della lotta quotidiana. Era molto più difficile inserire la possibilità della trascendenza o di una qualche redenzione individuale. Era quello il tono che volevo tenere. Mi mantenevo volontariamente alla larga da qualunque evasione dalla realtà e calavo i miei personaggi nel bel mezzo di una comunità sotto assedio. Passarono settimane, mesi addirittura, prima di arrivare a qualcosa che mi sembrasse valido. I brani presero corpo lentamente, strofa dopo strofa, pezzo dopo pezzo. I titoli erano pesanti: Adam Raised a Cain, Darkness on the Edge of Town, Racing in the Street. Adam Raised a Cain utilizzava immagini bibliche per evocare l’amore e l’acredine tra un padre e un figlio. Darkness on the Edge of Town esprimeva l’idea che lo stimolo a intraprendere una trasformazione individuale spesso si trova quando si arriva al limite delle forze. In Racing in the Street l’idea era fare da ponte tra le canzoni sulle corse in macchina degli anni Sessanta e l’America del 1978. Per personalizzare Racinge gli altri titoli dovevo infondere nella musica le mie speranze e le mie paure. Altrimenti i personaggi suonano falsi, e resta solo retorica, parole vuote di significato. Gran parte della mia produzione è autobiografica sotto il profilo emotivo. Devi tirar fuori le cose che hanno un senso per te se vuoi che lo abbiano per il tuo pubblico. Così i tuoi ascoltatori sanno che non è un gioco. La strofa finale del disco, Tonight i’ll be on that hill, stasera sarò su quella collina, indica che i miei personaggi sono sì incerti sul loro destino, ma saldi, determinati. Arrivato in fondo a Darkness avevo scoperto la mia voce adulta. D to di contenere alcune delle sue migliori canzoni, un’integrità che gli aveva suggerito di scartare pezzi clamorosamente belli come Because the Night, affidata poi per fortuna a Patti Smith, solo perché pezzi d’amore in quel disco proprio non potevano entrarci. Tutto questo è raccontato con dovizia di particolari, e molto materiale filmato d’epoca, nel documentario The Promise, the Making of Darkness on the Edge of Town, ovviamente incluso nel cofanetto. Si vedono il Boss e compagni che faticano in studio, che provano, si percepisce perfettamente la compulsiva ostinazione di Springsteen nel cercare di centrare l’obiettivo, di seguire fino in fondo la sua visione, senza deroghe. Anche queste immagini, lavorate poi dal regista Tom Zimmy e montate con materiale nuovo, attuale, le dobbiamo al tipico approccio di quei ragazzi del New Jer- sey. In genere non si facevano riprendere in studio, ma in quei giorni girava in sala un loro amico con la cinepresa. Era un amico, e allora lo lasciarono fare, finché si dimenticarono di lui, e per questo le immagini sono straordinarie, spontanee, naturali. E uno dei protagonisti di questa storia è proprio il quadernone. È lì, campeggia, è amato e temuto dai compagni di lavoro perché contiene l’inesauribile e cocciuta voglia di Springsteen di arrivare in fondo, perché contiene una valanga di idee che vanno provate, vagliate, e in molti casi scartate. E quando il Boss apre il notebook si ricomincia da zero. E ora, in copia, il quaderno è a disposizione di tutti, per capire, per entrare nell’intimità, nel processo creativo del più grande performer della storia del rock. (Introduzione del 1998 a Darkness on the Edge of Town) Traduzione Emilia Benghi © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 i sapori Le prime nebbie, la sera che cade sulle colline, le zolle smosse e i colori dell’autunno. È il periodo Italia gourmet migliore per visitare il fazzoletto di terra piemontese tra Asti e Cuneo e tutte le sue sagre. Per consolarsi della bella stagione finita con tomini, castelmagno, agnolotti e lunghe e riposanti “merende cinoire” l’appuntamento Settimane di passione per gli amanti del tartufo bianco, cui Alba dedica una fiera che si protrarrà fino a metà novembre, tra degustazioni, vendita e menù dedicati Il 14 novembre, appuntamento con l’asta mondiale al Castello di Grinzane Cavour LICIA GRANELLO n paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche se non ci sei resta ad aspettarti». Difficile raccontare meglio il terroir delle Langhe del langarolo Cesare Pavese ne La luna e i falò. Un insieme di facce, umori, odori, profili di colline e profumi di mosto, nebbie sottili e zolle ruvide, silenzi che riposano il cuore e l’ovattato scalpiccìo dei cercatori di trifola. Una comunità antica, unita nell’inestricabile intreccio di piatti e vini che fanno continuamente il giro del pianeta e ogni volta ne tornano vincitori. Facile come lo spazio di poche sillabe: tar-tufo e ba-ro-lo. Basterebbe questa coppia benedetta dal dio dei buongustai per definire i confini del paradiso del cibo in terra. Fiere, sagre, aste, degustazioni, mercati, raccontano molto ma non tutto il mondo di gourmandise che il fazzoletto ritagliato tra i margini delle province di Cuneo e Asti sa regalare ai suoi abitanti. Certo, il tartufo bianco sa essere seduzione pura, così unica e impalpabile da indurre Ferran Adrià a servirlo affettato in sfoglie soavi, così come natura l’ha fatto, in un ballon per trasformarlo da cibo in profumo. Il barolo non è da meno. La sua storia comincia quando Napoleone, combinando il matrimonio tra Giulietta Colbert e il Marchese Faletti di Barolo, trasforma la giovane parigina in viticultrice. A quel tempo, il vino della zona si chiamava nebbiolo vecchio. Giulietta, amica di Cavour e Silvio Pellico (che morì a palazzo Barolo), fece arrivare dalla Francia le prime botti di rovere, per aggiungere eleganza al rosso da offrire ai dignitari delle corti europee. Ma le Langhe sono molto altro. Anche nelle case più povere, il rito della merenda cinoira(si «U Langhe Luna, falò, tartufi e barolo legge sinoira ed è la merenda capace di allungarsi fino alla cena) sposa il piacere della socialità e un’infilata di ghiottonerie da urlo: tomini di latte crudo, bagnetto verde, acciughe — la via del sale! — salame, salsiccia di Bra, terra-madre dello Slow Food di Carlin Petrini, una scheggia di castelmagno venato dall’azzurro delle muffe. A bagnare le gole, i rossi della zona, dalla sbarazzina freisa in su. Dietro tanta bontà, le facce di chi ha fatto grandi le Langhe, a cominciare dai barolisti duri e puri come Bartolo Mascarello (e oggi da sua figlia Teresa), Beppe “Citrico” Rinaldi, Teobaldo Cappellano, Domenico Clerico, Angelo Gaja (con sua figlia Gaia), più una serie di fratelli vignaioli: Oddero, Ceretto, Conterno... Accanto a loro, il formaggiaio Beppino Occelli, il torronaio Giuseppe Sebaste, l’uomo delle grappe Romano Levi, e poi i cuochi: la famiglia Alciati, Cesare Giaccone, Cesare e Pina Marcarino, fondatori dell’Osteria dell’Unione di Treiso, nelle cui sale nacque “La Gola”, associazione antesignana di Slow Food. Storie antiche che hanno guidato i passi dei nuovi artigiani langaroli, dal mastro birraio Teo Musso al torronaio Alessandro Marengo, fino ad Alessandro Boglione — ristorante del Castello di Grinzane Cavour — altro figlio d’arte (pasticceria Converso di Bra). Per questo, leggere le Langhe non basta, bisogna viverle. Tra un piatto di ravioli del plin e un bicchiere giusto, d’obbligo un brindisi a Pavese e Fenoglio. © RIPRODUZIONE RISERVATA Tartufo bianco Barbaresco Fin dal Settecento, il prezioso Tuber Magnatum Pico – zona di elezione le Langhe, il Roero e il Monferrato – veniva esportato da Alba nelle principali corti europee e considerato una raffinata prelibatezza Sulle colline a pochi chilometri da Alba, tra Barbaresco, Treiso e Neive, l’uva nebbiolo acquista profumi e struttura complesse. Il rosso che nasce da queste terre sabbiose e biancastre è unico per forza e personalità Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 itinerari Figlia di Bruno e nipote di Marcello, i due fratelli che hanno contribuito a costruire il mito delle Langhe da bere, Roberta Ceretto segue alcuni progetti tra cantine di design e il ristorante bistellato “Piazza Duomo”, nel centro di Alba LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Alba (Cn) La Morra (Cn) Monforte (Cn) La capitale delle Langhe è approdo obbligato per i turisti del vino, che riempiono le belle stradine di acciottolato nelle ore serali, dopo aver trascorso la giornata tra cantine e locande del buon mangiare Bisogna arrampicarsi fin qui, per regalarsi il più struggente panorama delle Langhe e per rendere omaggio al monumento al vignaiolo. Non perdete i goduriosi tajarin, i tagliolini al burro e tartufo Il piccolo borgo, battezzato dal castello cinto da mura costruito nel 1028 e sede di una comunità catara, si arrampica tra le vigne sulle colline a nord di Cuneo, in una zona benedetta per il barolo DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE LA TERRAZZA SULLE TORRI Viale Torino 6 Tel. 0173-440741 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa L’ATELIER Borgata Mascarelli 11 Tel. 0173-509849 Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa LE CASE DELLA SARACCA Via Cavour 5 Tel 0173-789222 Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE OSTERIA DEI SOGNATORI Via Macrino 8 Tel. 0173-34043 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro OSTERIA DEL VIGNAIOLO (con camere) Frazione Santa Maria 12, tel. 0173-50335 Chiuso tutto mercoledì e giovedì a pranzo, menù da 30 euro TRATTORIA DELLA POSTA Località Sant’Anna 87, tel. 0173-78120 Chiuso tutto giovedì e venerdì a pranzo, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE LE SPECIALITÀ ALIMENTARI Piazza Risorgimento 3 Tel. 0173-33511 CANTINA COMUNALE Via Carlo Alberto 2 Tel. 0173-509204 BAR BAROLO Via Garibaldi 11 Tel. 0173-789243 Il bello e il buono nati dalla fame CARLO PETRINI autunnoin Langa è sempre una grande emozione, anche per chi ne è abituato. Sali sulla cima delle colline e dai belvedere rimiri a perdita d’occhio pendii, vigne, castelli… La nebbiolina che spesso sale in questa stagione è quasi confortante, pensi al tartufo e al barolo, pensi a Pavese e Fenoglio, ma se conosci un po’ la zona o hai avuto la fortuna di nascervi contestualizzi subito tutto, evochi le osterie, la gente in cantina, i bar di paese e tutta l’umanità che li frequenta. Facce e voci che raccontano meglio di qualsiasi altra cosa un territorio: vizi e virtù, saperi e sapori, modi di essere simpatici o antipatici. Il quadro che ne emerge obiettivamente è davvero bello, e buono. Nonostante «l’improvviso benessere che ha colpito le Langhe», ciò che sosteneva spesso Bartolo Mascarello per stigmatizzare le orde di capannoni e tante altre brutture sorte negli ultimi anni, questa terra generosa ma non certo facile ha mantenuto tutto il suo fascino semplice, un vero condensato di piemontesità. Siamo di fronte a un bello e un buono che non possono passare inosservati, sia per chi si avventura per la prima volta tra le colline, sia per gli indigeni, i quali non è raro che continuino a farsi sorprendere. Il langarolo magari crede di sapere tutto della sua terra, di avere visto tutto ciò che c’era da vedere, poi è sufficiente che svolti in una stradina di campagna mai percorsa, e subito gli si apre uno scorcio del tutto inedito ai suoi occhi, che lo lascia puntualmente a bocca aperta. È terra fortunata la Langa, perché se siamo convinti che il diritto universale al bello e al buono sia la prossima conquista di civiltà, la prossima importante battaglia politica da fare, essa parte senz’altro avvantaggiata. È merito di chi ci ha vissuto, di «chi ha camminato le sue vigne» (per dirla alla Veronelli), di chi ha fatto agricoltura, combattuto, tramandato affascinanti tradizioni o piatti geniali (perché partono tutti dalla memoria della fame, che un tempo qui era di casa). Siamo di fronte alla dimostrazione che un’economia locale, se sa mettere a frutto con giudizio ciò che la natura le ha donato, può ottenere risultati incredibili. Ma ci vuole sempre il senso del limite, perché se in alcuni contesti locali il bello e il buono per tutti devono essere conquistati, in altri vanno tutelati e difesi, non vanno sperperati. È il caso della Langa di oggi. I suoi abitanti devono essere consapevoli dei limiti della loro terra e non chiedere più di quanto non abbia già dato o possa ancora dare. Per esempio la monocoltura della vite a scapito della biodiversità è stata un rischio concreto in anni di grandi successi economici e non basterà una crisi del vino per fermarla. Le generazioni precedenti hanno fatto un capolavoro, quelle attuali dovrebbero saper continuare su quel solco, che era stato tracciato a partire da umiltà, radici povere, un rapporto viscerale con la terra che non solo ha cambiato i tratti delle colline rendendole belle e buone, ma ha forgiato le persone. Loro, che sono la vera ricchezza di Langa. L’ © RIPRODUZIONE RISERVATA Bue grasso Fieno, cereali e crusca per i buoi “dalla coscia doppia”, utilizzati fino al dopoguerra nella campagna di Carrù per lavorare i campi Quando vengono macellati, i buoi hanno quattro anni e pesano fino a una tonnellata Dolcetto Irriverente e fragrante, l’alter ego dei corposi rossi di Langa ha colore rubino vivo, odore vinoso, sapore secco e fruttato. Ben tredici le denominazioni sparse in Piemonte. D’Alba e di Dogliani le più conosciute Nocciola La “tonda gentile trilobata”, protetta dalla Dop, ricca di vitamine e pregiati oli essenziali, ha ispirato alcuni celeberrimi alimenti di Langa, dal torrone alla crema di nocciole, fino ai sempiterni e speciali gianduiotti Torrone Robiola Barolo Cappone Salsiccia di Bra Miele, zucchero, bianchi d’uova e nocciole di Langa tostate per la ricetta esportata da Alba in tutto il mondo, che prevede la cottura della pasta in caldaie a vapore e raffreddamento in stampi di legno Solo latte crudo di capre razza alpina che pascolano libere nei prati di Roccaverano, in alta Langa, per la suadente formaggetta Dop dai sentori aciduli di erba appena tagliata. Esiste anche in versione sott’olio Il re dei vini deve il nome ai Falletti, marchesi di Barolo Undici i comuni di produzione: Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga, Cherasco, Diano, Grinzane Cavour, La Morra, Monforte, Novello, Roddi, Verduno A metà strada tra Cuneo e Mondovì, il paese di Morozzo vanta l’allevamento virtuoso di magnifici galletti castrati nostrani, presidio Slow Food, con fiera dedicata, quest’anno in programma il 12 dicembre Tra i gioielli della tradizione culinaria braidese spicca l’insaccato di carne magra bovina piemontese e pancetta di maiale, unico esempio italiano di salsiccia di vitello Si gusta cruda spalmata sul pane o alla griglia Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Intramontabili DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 Linda Evangelista, Cindy Crawford, Claudia Schiffer, Naomi Campbell: erano al top negli anni Ottanta sulle passerelle, lo sono ancora oggi nella vita Dinamiche e in carriera, ma senza avere l’ansia del tempo che passa. Sono il simbolo di tutte le loro coetanee che fanno la gioia degli stilisti Vestite per piacersi è il fattore “Q” IRENE MARIA SCALISE ome loro nessuno mai. Linda, Cindy, Naomi, Carla, Claudia, Eva, Christy e Helena, le regine della moda anni Ottanta. Oggi splendide quarantenni resistono inossidabili all’avanzare del tempo e alla concorrenza di un esercito di giovanissime, spesso incolori, rivali. Praticamente eterne. Una vita in copertina segnata da cachet di milioni. La bellezza che diventa business. Diventate famose al grido di «sotto il vestito niente», hanno dimostrato che, al contrario, sotto il vestito (griffatissimo) c’è molto: intelligenza, tecnica, calcolo. Gli stilisti le cercano e le ripropongono, icone incontrastate per tante coetanee. Sono le uniche top model che tutti hanno conosciuto per nome e cognome: Linda Evangelista, Cindy Crawford, Naomi Campbell, Carla Bruni, Claudia Schiffer, Eva Herzigova, Christy Turlington, Helena Christensen. Bastava citarle per evocarne un particolare: la somiglianza con B.B. di una, il neo di un’altra, il broncio di un’altra ancora. Simboli dell’eterna giovinezza hanno dimostrato di essere ottime imprenditrici di se stesse. Nella vita pubblica come nel privato. Pochissima sregolatezza e molta disciplina. Manager, madri, mogli. Insomma, perfette. Anche il Metropolitan Museum di New York, lo scorso anno, si è scomo- C NAOMI CAMPBELL La venere nera, regina delle cronache mondane, sembra aver trovato la serenità. Dopo anni di avventure turbolente, arrivata ai quaranta, ha finalmente messo la testa a posto con il miliardario russo Vadislav Doronin SPLENDIDE QUARANTENNI AMAZZONE Look da corse dei cavalli quello di Costume National con pantaloni in pelle, giacca bordata di pelliccia e guanti colorati dato dedicando loro la mostra The Model as Muse: Embodying Fashion. Ma la cosa che più stupisce è la capacità di essere ancora oggi desiderate. Stravolgendo una regola aurea, che come per i calciatori, prevedeva per le top model una carriera milionaria ma breve, hanno superato ogni previsione. Tanto splendore non deve suscitare invidia, ma servire da esempio. Le super top non usano, ma soprattutto non abusano, di botox o lifting. Niente facce gommose o zigomi alterati. Nel lavoro sono delle macchine: precise, firmate, lussuose. Ma anche nelle immancabili foto rubate dal privato conservano una certa misura che dovrebbe essere d’insegnamento. Mai una scollatura di troppo, un tacco ridicolo, una trasparenza volgare. Le super modelle insegnano, con la loro freddezza, come fare tesoro del proprio patrimonio genetico. Certo, non tutte hanno quelle circonferenze perfette. Ma le quarantenni di oggi, donne perennemente sospese tra carriera e omogeneizzati (perché spesso hanno bimbi piccoli), riescono a dare agli uomini lezioni di estetica. Complice di questo mantenimento è la disponibilità economica. Le quarantenni, infatti, hanno un budget molto più alto delle trentenni. Una disparità che nei decenni è aumentata: basti pensare che se nel 1975, a parità di impiego, la differenza tra il reddito medio di una trentenne e di una cinquantenne era del 15 per cento ora è salito al 40. Non solo, la stabilità professionale, secondo l’Istat, arriva più tardi: nel 2009 quelli tra i 25 e i 34 anni occupati erano poco più di cinque milioni mentre, tra i 35 e i 44, ben più di sette milioni. Tirando le somme è solo intorno ai quaranta che si comincia a disporre di un buon budget per vestiti, massaggi e parrucchiere. Ma non è ancora tutto. Le quarantenni combattono la lotta di ogni giorno con la consapevolezza di sé. Perché, come ha recentemente dichiarato la scrittrice Erica Jong in visita a Roma, «quello che rende eternamente bella una donna è solo l’autostima». © RIPRODUZIONE RISERVATA PREZIOSO È un anello importante quello di Giorgio Visconti in diamanti bianchi e neri Da indossare e regalare nelle occasioni più significative PRECISIONE È bello, oltre che preciso, il modello Dolcevita Longines con cassa e bracciale in acciaio e oro rosa. La cassa è decorata con due file di diamanti che donano luce ICONA È la regina delle borse, la busta matelassé di Chanel. In color tabacco, con mini catena intrecciata, rende elegante qualsiasi abito VERTIGINOSE Tacco a stiletto e triplo cinturino per la scarpa Dior in pelle nera e plateau sul davanti. Da indossare indifferentemente giorno e sera con gonna e pantaloni Praticamente perfetta MASCHERINA Sono avvolgenti e misteriosi gli occhiali Prada con lenti scure Un modello che starà bene a tutte e che protegge totalmente il contorno degli occhi Repubblica Nazionale DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 TATIANA PATIZ Tedesca, apparsa in oltre 130 copertine, ha anche recitato in un paio di film. Dopo svariati stilisti recentemente è diventata testimonial per il brand Marina Rinaldi L’intervista Giorgio Guidotti di Max Mara “Donne consapevoli che puntano alla qualità” a cliente più importante. Per Max Mara la «giovane quarantenne» rappresenta il target più significativo. Una donna consapevole che punta alla qualità. Ma c’è di più. Le quarantenni sono le preferite anche come testimonial. Il presidente della comunicazione del gruppo, Giorgio Guidotti, non ha dubbi: «Noi di Max Mara abbiamo lavorato con le modelle più belle del mondo ma, ancora oggi, le top model che hanno quarant’anni, e che hanno fatto furore negli Ottanta, restano delle bellezze insostituibili». Cosa avevano di più le modelle di quegli anni? «La loro fortuna è stata di diventare delle star alla stregua delle colleghe degli anni Sessanta, come Veruska o Twiggy. Probabilmente tanto successo nasceva anche dal fatto che tra gli Ottanta e i Novanta ci fu l’esplosione mediatica del prêt-à-porter. Erano conosciute per nome dalla gente, come fossero delle rock star». Ma erano davvero così belle? «Indubbiamente erano di una bellezza assoluta e con un forte carisma. Però c’è stato qualcosa di più». Cosa? «Sono state circondate da perfette pierre che hanno insegnato loro come gestire al meglio la propria immagine. Tanto che, ultimamente, tutte le griffe hanno sentito il bisogno di “ripescarle”». Sono state anche abili nel mantenersi nell’aspetto? «Il loro viso è il loro patrimonio e decisamente hanno saputo come curarlo, senza mai abusare nei trattamenti. Hanno poi condotto una vita sana e tranquilla, spesso con mariti e figli. Niente trasgressioni tranne per Kate Moss che però, del gruppo, è la più giovane». Parliamo della quarantenne che compra Max Mara. Chi è? «Per noi, oltre a essere la cliente più importante, è comunque una donna giovane. Una che vuole vestirsi alla moda, con un fisico asciutto, abituata a frequentare le palestre e con più potere di acquisto. Le quarantenni sono la prima generazione femminile che, al pari di mariti e fidanzati, ha sdoganato la palestra o lo sport come pratica abituale». Cosa ci dice di quelle che hanno dieci anni di meno: le trentenni? «Sono anche loro preziose perché rappresentano il futuro, però devono ancora capire la differenza tra qualità e quantità. Diciamo che vanno istruite, dopo anni di low cost, sul fatto che può essere divertente avere nell’armadio una camicia da dodici euro ma non tutto il guardaroba». Torniamo alle super top, hanno dato l’idea di essere anche molto disciplinate... «In verità tutte le modelle sono piuttosto serie. In quel periodo, però, forse ancor di più si è stabilito un confine tra capriccio e professionalità. A partire dall’alimentazione che era molto sana». Ma non punitiva. «Esattamente: le super top non erano scheletriche. Anzi. Diciamo che dopo gli anni Ottanta le taglie sono scese di un numero». (i. m. s.) L CHRISTY TURLINGTON Super top, ancora sulle copertine di molti giornali, sposata con due figli Con Claudia Schiffer e altre colleghe ha fondato il Fashion Café LINDA EVANGELISTA È rimasta famosa per aver dichiarato: «Noi non ci alziamo neppure dal letto, per meno di diecimila dollari al giorno». Un figlio, riservatissima, talvolta fa ancora pubblicità delle griffe più famose CINDY CRAWFORD Scoperta per caso, ex moglie di Richard Gere, è nota in tutto il mondo per il celebre neo al lato della bocca. Ora ha due figli, si occupa di produzione, fa molta beneficenza © RIPRODUZIONE RISERVATA BOZZETTO Un disegno originale di Max Mara per la collezione autunno/inverno 2010 BON TON È un abito per chi ha buon gusto: raso rosa cipria griffato Dolce e Gabbana Abbinato a gioielli minimali e borsa in pelo METROPOLITANA Ha un’anima molto dark la principessa underground proposta da D Squared 2 Giacca a trapezio in pelliccia e giochi di pelle nera CASUAL La mise ideale da indossare tutto il giorno da Gucci: jeans scoloriti, giacca e pullover Il tocco in più: i sandali con fascia larga AVVOLGENTE Il paltò di Max Mara assicura contro i colpi di vento Ideale nelle serate invernali da indossare su abiti eleganti ma troppo leggeri Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 l’incontro Rughe leggendarie, ottant’anni compiuti, cavalca leggero la storia del cinema: “Mi innamorai del grande schermo per caso quando lavoravo in una piscina dove gli attori venivano a nuotare in pausa pranzo”. Poi dentro i suoi film ci ha messo pezzi di infanzia: “Perché quel che abbiamo vissuto ci siederà sempre accanto”. E ora? “Ho addosso la febbre del nuovo. La voglia di imparare mi divorerà fino all’ultimo” Grandi vecchi Clint Eastwood e fosse cinema e non una hall d’hotel, ora ci starebbe bene un flashback o una dissolvenza incrociata per far scivolare la sua figura nell’icona di ieri. Ha fatto la sua apparizione d’improvviso, come nei primi film di mezzo secolo fa, dove non si vedeva arrivare, ma di colpo si trovava lì, nel punto più inaspettato, silhouette in controluce, alta: 1,88? 1,97? Alta. Il reticolo di rughe che gli seghettano il volto e il collo, matura corteccia dentro il cotone giovanile d’una polo pastello, ha ormai omologato a panorama indistinto la caratteristica raggiera di solchi precoci intorno agli occhi, che negli anni Sessanta, nel bagliore del West mediterraneo, era il sigillo dello sconosciuto antico, arrivato da chissà dove, nella neonata frontiera-spaghetti. Clint Eastwood è una somma di Clint Eastwood: lo spilungone di western e polizieschi a raffica («dopo un’opaca gavetta negli anni Cinquanta: era l’era James Dean, mi dicevano che a causa della mia statura avrei potuto fare qualcosa solo dopo i trent’anni») e poi, dal ’71, la serialità di regista e interprete, sempre più personale, inatteso, in un progredire di titoli da Gli spietatia Million Dollar Baby, piogge di nomination e gruzzoli d’Oscar e, nel frattempo, due mogli e sette figli, da cinque donne diverse. Adesso l’attore pare il sequel patriarcale della sua prima maschera (barba stropicciata, mezzo sigaro, cappello affondato sulla fronte), pedina regina d’un gioco stilizzato, con personaggi, ambienti, costumi fissi, come il poncho privato, con la loro muta di cani e gatti, tonnellate di valigie e un corteo demenziale. Un vero show. Hanno immediatamente allestito un bar nel nostro hotel. Dopo qualche bicchiere in loro compagnia, mi sono reso conto che, ai loro ritmi, non avrei potuto resistere a lungo. Richard mi piaceva molto: grande carisma, conversatore brillante, affabulatore eccezionale. Ma si sentiva che, dentro, lo rodeva la disillusione». Con Eastwood si comincia presto a cavalcare la storia del cinema. A ottant’anni, festeggiati nel maggio scorso («per me è stato come compiere di nuovo vent’anni»), nessuna intenzione di mollare. A Parigi, dov’è stato nominato comandante della Legione d’onore, ha girato una parte di Hereafter, thriller telepatico con Matt Damon e la deliziosa Cécile de France, che il 4 dicembre chiuderà in anteprima europea il Torino Film Festival. Tra un’onorificenza e un omaggio (a Lione, al primo Festival Lumière), è ora al lavoro su Hoover, con Leonardo DiCaprio nel ruolo del controverso di- Sergio Leone mi ha tenuto a battesimo nei suoi western perché costavo meno di James Coburn: lui venticinquemila, io quindicimila dollari, oggi bazzecole FOTO KEVIN SCANLON - REDUX / CONTRASTO S PARIGI che, secondo un promo spagnolo, il pistolero solitario avrebbe comprato di tasca sua, indossandolo nei tre anni della “trilogia del dollaro”, dal ’64 al ’66, senza mai farlo lavare: scaramanzie d’attore. Vero, Clint Eastwood? Ride: «Sergio Leone mi ha fatto trascorrere una delle più belle stagioni della mia vita, non solo cinematografica. Non mi attendevo da lui western epocali, alla John Ford. Il suo temperamento era portato alla parodia, in perfetta sintonia con lo spirito degli anni Sessanta: per questo mi piaceva. Il sense of humour di Ford era di marca irlandese, quello di Leone, acutissimo, veniva dritto dall’opera lirica. Dovessi indicarne una specialità, direi la simpatia, la capacità di divertire, di raccontare in modo straordinario le barzellette». Barzellette sono spesso le sequenze degli spaghetti-western: il “triello” de Il buono, il brutto, il cattivoo, in Per un pugno di dollari, lo scherzaccio («Mira al cuore, Ramòn: al cuore!») al personaggio di Volonté, in risposta alla battutaboomerang «Se un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto». Anche a lei, suo attore-feticcio, Leone aveva destinato una barzelletta, ormai di culto: «Clint ha due espressioni: col cappello e senza cappello». Eastwood sorride: «Era, da bravo comico, anche molto cinico». Leone era sbalordito anche dalla sua apparente apatia: sullo schermo (come nella serie tv Usa Rawhide, da cui l’aveva ripescato e dove, secondo lui, «non parlava nemmeno, camminava e basta») e nella vita quotidiana, quando, con tutti i suoi centimetri, lei riusciva a infilarsi in una Cinquecento, dormendo rannicchiato come un gatto, e ne usciva, stirandosi e alzandosi lentamente, per raggiungere il set. «Erano anni di risparmi e di guadagni scarsi. Leone, dicono, mi ha tenuto a battesimo nello spaghetti-western perché costavo meno di James Coburn, lui venticinquemila, io quindicimila dollari, oggi bazzecole. Ma, una volta arrivato in Italia, nel 1963, non ho tardato a mimetizzarmi nella colonia romana, allora fiorente, che a Roma popolava Via Veneto. Nottate scatenate, in tutta tranquillità: nessuno che mi riconoscesse, perché non ero nessuno. Godevo del privilegio dell’anonimato, assaporando il meglio, senza l’inconveniente paparazzi, della vostra Dolce Vita». Anche da star, non ha mai esagerato: «Mi è sempre bastato il minimo necessario, negli spostamenti come nei film. Nel ’69, per Dove osano le aquile, sono sbarcato sul set, in Svizzera, in jeans e con quattro sacche. Richard Burton ed Elisabeth Taylor sono arrivati su un jet rettore dell’Fbi. «Ho la febbre del nuovo, mi divorerà fino alla fine la voglia di continuare a imparare, com’è stato per John Huston, che ha girato il suo ultimo, meraviglioso film, The Dead, su una sedia a rotelle e con la bombola d’ossigeno» (... e l’infermiera con cui di tanto in tanto faceva l’amore, come precisa Bertrand Tavernier nei suoi Amis américains). «La passione per il grande schermo mi si è accesa per caso, ma adesso non mi lascia più. Poco dopo i vent’anni lavoravo in una piscina, dove tanti attori venivano a nuotare nella pausa pranzo. Ne avevo già conosciuti molti durante il reclutamento per la guerra di Corea nei due anni, ’50 e ’51, in cui ero stato assegnato a Fort Ord, in California. È così che mi sono avvicinato al mondo del cinema. Allora, ero più attratto dalla musica, l’altro mio pallino, insieme al golf. Volevo seguirne i corsi a Seattle, infatuato com’ero di Charlie Parker — che nell’88 avrei celebrato in Bird — di Dizzy Gillespie, Bill Evans, Thelonious Monk e, naturalmente, John Coltrane, le cui ballate nel disco con Johnny Hartman sono state la vera sceneggiatura dei Ponti di Madison County, realizzato nel ’95 con Meryl Streep: quella musica è sempre stata sottesa ai nostri dialoghi, parlava per noi». Inevitabile tornare a Leone, ma anche a Don Siegel, il suo regista-padrino nella saga Callaghan: «Sergio è stato tra i primi ad assegnare alla musica un ruolo centrale e a sfruttarla appieno, specie per far salire allo spasimo la tensione prima degli scontri. Don Siegel aveva trasferito quel sistema direttamente alle immagini: stringeva il campo visivo e subito dopo lo dilatava, come per un relax dello schermo». Nei Ponti di Madison County, dove gli slanci del cuore sono frenati e vinti dalle responsabilità familiari, dal richiamo della sicurezza domestica, trionfa una costante del suo cinema: la sospensione drammatica tra l’inseguimento di un ideale e il bisogno di stabilità, quasi d’immobilità. Dilemma che le deriva da un’infanzia sballottata, da un passato precario? «Credo di sì. Da piccolo, non ho goduto d’un vero focolare. A fine anni Trenta, in piena crisi economica, mio padre, con solo un paio d’anni di liceo alle spalle, s’arrabattava come rappresentante, vendendo azioni. Vendere azioni durante la Depressione era come smerciare tartine di caviale nel deserto! Per tale dedizione suicida mio padre era continuamente costretto a spostarsi: per dieci anni buoni, siamo stati le trottole della California. Quando finalmente, con la ripresa economica, anche la mia famiglia si è stabilizzata, ero io che avevo cominciato a fare la mia vita, senza fissa di- mora». Di qui l’altra costante, il tema dell’erranza? Nei suoi primi film da regista, il protagonista è sempre in viaggio, magari metaforico: nel ’73, Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio nel ’76, Bronco Billy o Honkytonk Man nell’80 e ’82: «Honkytonk Man, ambientato negli anni Trenta, rimanda al periodo in cui mio padre suonava la chitarra in un complessino, mai in un’orchestra, nei paraggi di Los Angeles. È un film, come Bronco Billy, su gente che vive esistenze immaginarie, assorbita da quel che vorrebbe essere, timorosa di non mostrarsi all’altezza del proprio sogno, una volta avverato. C’è molto della mia infanzia in quei film, e forse in tutti gli altri: quel che abbiamo subìto e vissuto ci condizionerà sempre, ci siederà sempre accanto». Siamo quel che abbiamo fatto di noi, diceva Truffaut ripetendo Sartre, a partire da quel che gli altri hanno fatto di noi: «Ecco perché, se uno non s’è mosso d’un dito da un posto, potrebbe essere sconvolto da un cambiamento. Se ha trascorso i suoi primi vent’anni con le stesse persone, avrà difficoltà ad ampliarsi l’orizzonte. Ma è questo che io avrei preferito: il mio sogno sarebbe d’essere vissuto in una borgata sperduta senza mai spostarmi d’un millimetro, finendo per conoscere tutti alla perfezione. Sarei probabilmente diventato uno del tutto diverso, sarei stato... chissà?». Uno venuto da chissà dove? «Ancora? Ma è da mezzo secolo che sono l’uomo venuto da chissà dove! Alla mia morte, scriveranno: Era arrivato da chissà dove e ora vi ha fatto ritorno. È partito com’era venuto». E qui ci vuole una dissolvenza incrociata o un bel flashback. Con un pizzico di jazz. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ MARIO SERENELLINI Repubblica Nazionale