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L`oscuro soffitto senza stelle a cura di
A11
238
L’oscuro soffitto
senza stelle
a cura di
Stefano Caracciolo
Copyright © Stefano Caracciolo
Sezione di Psicologia Generale e Clinica della Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università di Ferrara 2007
***
Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1246–8
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 2007
not this troublous
wringing of hands, this dark
ceiling without a star.
non questo tribolato
agitarsi di mani, questo scuro
soffitto senza stelle.
Sylvia Plath (1963) da Boy (Trad. di S.C.)
In Le Muse Inquietanti e altre poesie, Mondadori Milano 1985.
SYLVIA PLATH (1932-1963) Poetessa e Scrittrice
Fotografia di Rollie McKenna (1918-2003)
Indice
Prefazione
di Stefano Caracciolo .......................................................................
9
Delitto o castigo? Un’introduzione
di Stefano Caracciolo ...................................................................... 11
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
di Sergio Molinari ........................................................................... 21
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione
degli antidepressivi
di Stefano Caracciolo ...................................................................... 35
La depressione e la somatizzazione
di Silvana Grandi e Laura Sirri ...................................................... 49
Nuovi approcci nella terapia della depressione:
il Modello Sequenziale Psicofarmacologico
di Silvana Grandi ............................................................................ 59
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
di Stefano Caracciolo ...................................................................... 71
La depressione e il paziente nei Servizi di Salute Mentale
di Ivonne Donegani ......................................................................... 91
7
8
Indice
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
di Stefano Caracciolo ..................................................................... 99
La depressione e il rapporto medico–paziente:
empatia, alleanza terapeutica, costruzione della fiducia
di Stefano Tugnoli e Stefano Caracciolo ........................................ 131
Autori ............................................................................................. 151
Indice delle illustrazioni fuori testo ............................................... 153
Prefazione
Questo volume nasce dalle relazioni sul tema “Depressione e rapporto medico–paziente” presentate e discusse in un seminario tenuto a
Chioggia nel mese di luglio 2006.
Tutti i partecipanti hanno portato una loro diretta esperienza clinica, essendo in prima persona impegnati nel lavoro quotidiano ad affrontare, seppure con metodi, stili e ruoli differenti, il gravoso problema della sofferenza depressiva che coinvolge, prima di tutto, i pazienti, ma riguarda anche i loro familiari, i loro terapeuti e, infine, la
società tutta.
I lavori scritti che ne sono derivati si configurano come un assieme
eterogeneo sul piano teorico, su quello metodologico e negli aspetti
clinici. Ci auguriamo che il panorama complessivo possa fornire al
lettore nuove chiavi interpretative e originali proposte di intervento
medico, psicologico e psichiatrico per i pazienti affetti dalla depressione nelle sue innumerevoli varietà cliniche.
In questo dialogo paritetico fra paradigmi differenti sta, a nostro
modesto avviso, il principale punto di interesse di questi contributi,
che ci ha indotto a pensarne e a proporne una versione, abbastanza fedele allo spirito originale della discussione, e, ci auguriamo, altrettanto
stimolante per altri quanto lo è stato per noi e per tutti i partecipanti al
Seminario.
Un ringraziamento particolare va a Daniele Nanni e Arianna Bracci
di Lundbeck Italia e ad Anna Paola Vistoli di “Il Cerchio”, senza il cui
contributo propositivo e organizzativo questo volume non avrebbe mai
visto la luce.
Stefano Caracciolo
9
10
Indice
Delitto o castigo? Una introduzione
di STEFANO CARACCIOLO
Immaginiamo di poter veder in viso per qualche momento. Raskòl’nikov, lo studente universitario fuori corso, protagonista del celebre romanzo Delitto e castigo, capolavoro di Fëdor Mihailovic Dostoevskij, riprodotto in prima di copertina di questo volume in un disegno
dell’artista contemporaneo Blankas1.
Nella fisionomia immaginaria Raskòl’nikov appare tormentato dalla spinta di grandi ideali ma dilacerato da dubbi febbrili.
Egli infatti ha compiuto un atto omicida che gli era parso suo dovere compiere in quanto “grande uomo” — si sarebbe detto poi, nietszchanamente, superuomo — e che gli appare invece, dopo, meschino
e brutale, tanto da divorarlo dall’interno, fino alla confessione e da
condurlo, infine, al castigo che lo redime.
Al di là del gioco di fantasia e dei meccanismi di identificazione e
proiezione che lo caratterizzano, potremmo avere l’impressione che il
fiero sguardo del soggetto sia carico del fardello che pesa sulla sua coscienza, in cui l’umore esaltato che sconfina in momenti di lucida e
febbrile agitazione si alterna alla consapevolezza del delitto commesso, di cui si accusa con devastante determinazione ed incrollabile condanna fino alla martellante necessità della confessione.
Ecco allora emergere nella memoria lo sguardo di tanti pazienti depressi, così opaco per la perdita di una speranza, così appannato dal
senso di colpa per delitti mai commessi, così rassegnato all’ineluttabile rovina imminente. La depressione, insomma, introduce ad un viaggio nel cuore degli uomini, che vogliamo intraprendere seguendo Dostoevskij.
1
Blankas è il nome d’arte di Lee Kyung–Jin, nato a Seoul in Corea nel 1975, disegnatore pubblicitario, cartoonist e pittore. La sua home–page è http://blankas.f14.net/. Nel concedere i diritti per
la riproduzione della sua opera l’Autore si raccomanda di mandare un saluto a tutti i lettori.
11
12
Stefano Caracciolo
1. Il nudo cuore degli uomini
Nella notte di Natale dell’anno 1849, Dostoevskij, i ferri ai piedi,
parte per il bagno penale della Siberia: vi scoprirà, secondo una sua
celebre affermazione, “il nudo cuore degli uomini”, il popolo russo ed
il vangelo. Il suo delitto, di cui è consapevole e coraggioso responsabile, è di aver liberamente espresso le proprie opinioni in tema di libertà, sull’onda di letture socialiste, specialmente di stampo utopistico, che erano proibite dal severo regime zarista. Ma quali sono le radici psicologiche di questo “delitto” e della sua espiazione nella storia di
Fëdor Mihailovic?
Nella confusa ed appassionata attività politica di Dostoevskij, che
si limitò con tutta probabilità a vaghi e mai realizzati progetti di insurrezione culturale contro la feroce oppressione poliziesca della libertà
di pensiero2, si può certamente intravvedere, seguendo la ben nota lettura di Sigmund Freud, una reazione di ribellione verso l’autorità, esercitata con ferocia e crudeltà, che non poteva non trarre spunto dal
rapporto con il padre.
In effetti, alla notizia dell’omicidio del padre, uomo debole ma violento e dissoluto, specie dopo la morte della moglie Maria, probabilmente ucciso per mano dei suoi mugiki, affogato nella vodka di cui
era schiavo, Dostoevskij avrà la reazione che conosciamo solo per
bocca di Dmitri Karamàzov: «Sono innocente della morte di mio padre, ma accetto di espiare, perchè avevo voglia di ucciderlo».
Espiazione, quella reale dello scrittore, che si esprime prima di tutto con l’aggravarsi dei suoi attacchi epilettici (aveva avuto la prima
crisi durante il passaggio di un convoglio funebre in una via di San
Pietroburgo). Ma su questo punto è necessario ritornare a confrontarsi
con il fondamentale saggio freudiano sull’argomento, intitolato Dostoevskij e il parricidio, pubblicato nel 19273, partendo dal rileggerne
alcuni passi.
2
Grossman, Leonid P., Dostoevsky; a biography. Bobbs–Merrill, 1975 (trad. ital. Garzanti, Milano 1977).
3
Freud S., Dostoevskij e il parricidio (1927), OSF, Vol. 10, pagg. 517–538, Boringhieri,
Torino 1974.
Delitto o castigo? Un’introduzione
13
2. Dostoevskij secondo Freud
Freud distingue innanzitutto quattro lati all’interno della personalità
di Dostoevskij: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore. La
più interessante delle componenti è quella legata al peccato, ovvero al
delitto, tanto che il peccatore Dostoevskij viene rapidamente assimilato a delinquente, in base ai due tratti psicologici principali che Freud
individua: l’egoismo e la tendenza distruttiva.
In quanto al contrasto che questi elementi presentano nella vita dello scrittore con tratti di bontà e di disinteressata generosità, Freud lo
spiega indicando come, nella sublimazione artistica, la scelta del materiale, ovvero la descrizione di “caratteri violenti, assassini, egoisti”,
indichi la presenza di questi elementi nel carattere di Dostoevskij, dato
anche l’elemento biografico assai forte del “demone” del gioco.
Violento, assassino, egoista. È l’esasperato ritratto del paziente depresso che, seguendo a ritroso la aggettivazione freudiana, parte da un
egoismo totalizzante, che lo porta a concentrarsi totalmente su se stesso perdendo il piacere del rapporto con gli altri e col mondo, e che diviene violento e assassino su se stesso, con il suicidio, ma talvolta anche sugli altri.
È il concetto che Karl Menninger4 rese celebre attraverso la formula “la pistola che ruota di 180 gradi”, in base al quale il soggetto che si
toglie la vita rivolge verso di sé un odio che non può o non vuole scaricare sulla vittima designata.
Freud riconduce dunque il conflitto che scuote la vita di Dostoevskij
ad un attaccamento verso il padre legato, in modo ambivalente, all’odio.
Anche in questo caso si verifica, come Freud descrive, lo sviluppo di un
meccanismo generale nella formazione della personalità per cui:
l’identificazione con il padre finisce col conquistarsi a forza un posto durevole nell’Io. Essa viene accolta nell’Io, ma vi si pone come un’istanza particolare contrapposta all’altro contenuto dell’Io. In tal caso la definiamo col nome
di Super–Io e ad essa, erede dell’influenza dei genitori, attribuiamo funzioni
importantissime. Se il padre era duro di carattere, violento, crudele, il Super–
Io assume da lui queste caratteristiche e, nel suo confronto con l’Io, si ristabi4
Menninger K.A., Man Against Himself, (Or., 1938), Harcourt Brace Jovanovich, London/New York 1963.
Stefano Caracciolo
14
lisce la passività che per l’appunto doveva essere rimossa. Il Super–Io è diventato sadico, l’Io diventa masochistico, ossia in fondo femminilmente passivo (S. Freud, op. cit.)
Nel caso di Dostoevskij, Freud riconosce una disposizione bisessuale così intensa che egli è destinato per tutta la vita, sulla base delle
sue vicissitudini infantili, a «difendersi con particolare intensità dalla
dipendenza da un padre particolarmente duro». Ecco il suo anelito
verso la libertà, che diviene denuncia sociale nei suoi romanzi veristi e
populisti, primo fra tutti Povera gente, ma assume le sembianze della
confessione e poi nella predicazione nella maggior parte dei grandi
capolavori, a cominciare dal Sogno di un uomo ridicolo fino a Delitto
e castigo e ai Fratelli Karamazov5.
Il parricidio, reale o immaginario, è quindi alla base del senso di
colpa in quanto delitto principale e primordiale dell’umanità e
dell’individuo, come Freud ha argomentato in Totem e tabù. Ma è la
libertà che dilania Raskòl’nikov e lo fa confessare, dato che nel romanzo non ha padre, è la libertà del “parricida” Dostoevskij che lo fa
imprigionare dopo aver sofferto le crisi epilettiche e dopo la grazia
dello zar, giunta quando il plotone di esecuzione già aveva puntato le
canne dei 16 fucili sui primi tre condannati petrasevcy (aderenti al circolo dell’attivista politico Petrasevskij). Così si esprime, a proposito
della libertà nelle opere di Dostoevskij, il filosofo Nikolaj Berdjaev:
La libertà può essere arbitrio, capriccio, dispotismo. Può decidersi per il bene
così come per il male, con sovrana indifferenza. Addirittura può rovesciarsi
nell’atto che la nega e l’annichilisce. Tuttavia senza la libertà non c’è niente
che valga alcunché. Che ne è, tolta la libertà, del comportamento virtuoso,
dell’azione nobile, di ciò che suscita consenso e ammirazione? E che ne è del
più struggente oggetto del desiderio, se la sua conquista e il suo possesso non
corrispondono alla gratuità del dono? Ma è vero anche il contrario. Posta la
libertà, è possibile che il lato in ombra di una decisione condannabile riveli
inaspettate ambivalenze e la coscienza, che se ne fa carico, riscatti ciò che altrimenti appare ingiustificabile. Ciò è accaduto, o può accadere, comunque
appartiene all’uomo, che, come Dostoevskij ben sapeva, è sempre al di sopra
6
o al disotto dell’umano. La libertà viene prima del bene e del male .
5
6
Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e Stilistica, Einaudi, Torino 1968.
Berdjaev N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002.
Delitto o castigo? Un’introduzione
15
Ma se la libertà viene prima del bene e del male, l’essere liberi come possibilità di vita al di fuori di una regola viene prima
dell’assoggettarsi — o essere assoggettati — alla regola.
Allora il principio dell’imperativo categorico kantiano, riferito anche alle “massime”, le rigide regole di vita di Kant7, può essere a buon
diritto dileggiato da Nietzsche, che forse per primo definì Dostoevskij
psicologo8, e che afferma, in Al di là del bene e del male9:
Quanto più uno psicologo — uno psicologo è un divinatore di anime costituzionalmente e inevitabilmente tale — si rivolge ai casi e agli uomini più fuori
del comune, tanto maggiore diventa il suo pericolo di restare soffocato dalla
pietà: costui ha bisogno di durezza e di giocondità, più di qualsiasi altro uomo. Il pervertimento, il crollo degli uomini superiori, delle anime di indole
più ignota, è infatti la regola: è terribile aver sempre sotto gli occhi una siffatta regola.
In questo passo di Nietzsche troviamo accostate, come di consueto
scandite in una labile ma trascinante catena associativa di idee, molte
diverse folgoranti intuizioni, attinenti al nostro tema.
La prima è il pericolo di soffocamento del terapeuta, psicologo o
psichiatra che sia, di fronte al dolore e alla sofferenza del paziente depresso. In ciò si allude al limite incerto fra la capacità di vedere la sofferenza depressiva, il crollo, senza provarne la vertigine se non per un
attimo e la capacità di non esserne sopraffatti, fra empatia, compassione ed eccessivo coinvolgimento verso la persona.
Una seconda riguarda le indicazioni quasi tecniche per lo psicologo
di durezza, che potremmo intendere come sincerità, autenticità assurta
a metodo, e di giocondità, in cui possiamo ravvisare invece le capacità
di rimetterne in gioco il “pervertimento”, far ripartire il meccanismo
7
Caracciolo S., Con il cappello sotto il braccio. Il Profilo Psicologico di Immanuel Kant,
Aracne, Roma 2005.
8
«…a parte Stendhal, nessuno mi ha procurato [come D. ] un piacere e una sorpresa maggiori, ecco uno psicologo con cui io mi intendo». Il passo è contenuto in una lettera di N. a
Peter Gast (al secolo Heinrich Köselitz, uno dei suoi più fedeli discepoli) del 13 febbraio
1886, citata da G. Colli e M. Montinari in: Opere di Friedrich Nietzsche, Vol. VI, Tomo II,
Adelphi, Milano 1977.
9
Nietzsche F., Al di là del bene e del male (Jenseits von Gut und Böse, 1886) in Opere di
Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. VI, Tomo II, Adelphi, Milano
1977.
16
Stefano Caracciolo
delle emozioni, nel depresso così pervicacemente ancorate alla tristezza10, di tenere accesa la speranza.
Ma il punto che più appare interessante è la notazione che “il crollo
degli uomini superiori è la regola”.
Chi sono infatti gli “uomini superiori”? Non è proprio il ritratto che
Dostoevskij fa di Raskòl’nikov, e cioè, negli aspetti autobiografici inevitabilmente al servizio della creazione letteraria, di se stesso?
E chi sono allora, per contrasto, gli “uomini inferiori”? Il capostipite di questa stirpe è certamente il protagonista dei Ricordi dal sottosuolo che si presenta così, da solo, nell’inquietante incipit in cui, come
racconta in una nota lo stesso Dostoevskij, appare come rappresentante di una generazione intera11:
Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver
male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con precisione dove ho male. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene tenga
in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizioso, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina.
(Son colto quanto occorre per non essere superstizioso, ma lo sono). No, non
voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo non vi degnerete di
capire. Be’ ma io la capisco. S’intende che non vi so spiegare a chi appunto
faccia dispetto in questo caso colla mia malvagità; so perfettamente che non
faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro; so meglio di
chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun altro. Tuttavia se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato;
ci ho gusto, possa venirmi male ancora di più!
Se l’anonimo Io narrante, che in parte è Dostoevskij stesso, come
afferma Moravia nel suo saggio introduttivo, in parte è un giovane Raskòl’nikov, non sa spiegare a chi la sua malvagità (aggressività introiettata) faccia dispetto, con il senno — psicoanalitico — di poi noi
siamo in grado invece di ipotizzarlo o, per quanto possibile, di “interpretarlo”: egli fa dispetto a se stesso. Nel suo umore depresso colorato
di ipocondria egli determina una autoaggressione feroce ma non lucida, parlando da quel “sottosuolo” nevrotico, come ebbe a definirlo
10
Vedi a questo proposito il contributo di Sergio Molinari, in questo stesso volume, che
riprende e sviluppa diversi suoi fondamentali lavori sullo stesso argomento.
11
Dostoevskij F.M., Ricordi dal Sottosuolo (Zapiski iz Podolja, 1864), trad. ital. di T.
Landolfi, prefazione a cura di A. Moravia, Rizzoli, Milano 1975.
Delitto o castigo? Un’introduzione
17
Moravia12, che conosciamo bene quando entriamo in contatto con
l’universo della depressione, e che rappresenta un elemento ancora oscuro, un’oscuro soffitto senza stelle, come lo descrisse in una delle
sue più lancinanti liriche la poetessa angloamericana Sylvia Plath, citata in epigrafe, affetta a lungo da depressione ed infine vittima della
propria disperazione.
3. Dostoevskij psicoanalista ante litteram nella lettura di Pasolini
La definizione di Nietzsche di Dostoevskij come grande psicologo
trova poi una serie di ulteriori conferme in tanti successivi contributi
critici, in cui si deve ricordare innanzi tutto quello di Pier Paolo Pasolini, per cui il delitto, tuttora insoluto, della sua barbara uccisione del
1975 ha rappresentato un castigo crudele e supremo delle colpe a lui
attribuite dalla società italiana di quegli anni. Così egli si esprime nel
suo saggio del 1974 su Delitto e castigo, a proposito del delitto di Raskòl’nikov13:
Tale morte in principio non significa nulla. È una morte anagrafica. Eppure
essa era indispensabile perché finalmente qualcosa si sciogliesse dentro il suo
ostinato figlio. Ciò avviene di colpo e senza nessuna ragione. Assomiglia un
po’ a quella che i cristiani chiamano «conversione» o i filosofi zen «illuminazione»: cioè un mutamento radicale che si verifica in un momento qualunque
o addirittura banale. Un dopopranzo, in una pausa di lavoro, sopra uno sterro,
davanti a una grande pianura illuminata da un pallido e tiepido sole, dove,
lontano, sono accampati dei nomadi, il nostro eroe sente di colpo di amare la
ragazza che l’ha seguito: di amarla in modo completo, assoluto, così come
non aveva potuto amare la madre da bambino. Era tanto semplice! Non solo
Dostoevskij ha prefigurato Nietzsche e tutta la cultura nietzschiana, non solo
ha prefigurato Kafka, cioè almeno metà della letteratura del Novecento (basta
infatti togliere la descrizione del delitto iniziale, e lasciare tutto il resto così
com’è: e Delitto e castigo diventa un enorme e convulso processo), ma addirittura ha prefigurato, precorso, preteso Freud. A meno che egli non sapesse
già tutto ciò che Freud avrebbe scoperto. Questa mia non è che un’umile
chiacchierata e un’analisi psicanalitica a braccio; ma potrei però dimostrare,
12
Moravia A., Prefazione a Ricordi dal Sottosuolo, op. cit., 1975.
Pasolini P.P., Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo, in Saggi sulla Letteratura e
sull’Arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, pag. 1976, Milano, Mondadori, 1999.
13
Stefano Caracciolo
18
in un saggio documentato, come in Delitto e castigo ci sia un numero impressionante di espressioni «esplicitamente» psicanalitiche. Ciò mi riempie di una
sconfinata ammirazione, pari almeno a quella che sento per la impareggiabile
«sceneggiatura» del romanzo.
Ha ragione Pasolini a nostro avviso, ed è un delitto che una sorte
crudele gli abbia impedito di scrivere quel saggio documentato che ci
fa intravvedere nelle sue note critiche.
Né ci illudiamo di poterlo fare in questa sede, anche se non possiamo esimerci dal ricordare le parole che lo stesso Dostoevskij lasciò
scritte in uno dei suoi taccuini, citate da Bachtin:
Mi chiamano psicologo: non è vero. Io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè raffiguro le profondità dell’anima umana14.
Ma, in una accezione modernamente psicoanalitica, questo è proprio ciò da cui parte ogni psicologo che descrive da “realista nel senso
più alto”, ovvero attraverso un metodo scientifico, i meccanismi più
profondi della mente umana.
4. I sogni di Dostoevskij secondo Louis Breger
Alle ripercussioni delle vicissitudini familiari di Dostoevskij sulla
sua vita e sulla sua opera è stato dedicato un saggio di grande interesse, che ha ripreso, a partire specialmente da Delitto e castigo, le interpretazioni di Freud sullo scrittore. Ne è autore Louis Breger, psicoanalista e docente di Psicoterapia psicoanalitica al California Institute of
Technology a Pasadena (USA)15.
Da studioso del sogno, Breger colloca il vertice del suo punto di
osservazione nella struttura onirica di Delitto e castigo, concepito come “una serie collegata di sogni” (a shared series of dreams).
E proprio il racconto di un sogno di Raskòl’nikov precede il suo
delitto, in cui si vede come un ragazzo, giovane e innocente, che osserva con orrore un contadino ubriaco picchiare selvaggiamente un
14
15
Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, p. 82.
Breger L., Dostoevsky, the Author as Psychoanalyst. University Press, New York 1989.
Delitto o castigo? Un’introduzione
19
cavallo fino ad ucciderlo. Ed è Raskòl’nikov stesso che interpreta il
sogno come un segno che anche lui dovrà uccidere la vecchia usuraia,
inutile come quel cavallo, con la stessa ferocia.
Il precursore nella realtà di questo sogno è un ricordo giovanile di
Dostoevskij che appare centrale nella genesi della sua personalità e carico di conseguenze sulla sua opera: il ricordo di un cavallo battuto
selvaggiamente da un corriere di posta, episodio visto a 15 anni, poco
dopo la tragica morte della madre per tisi, di cui circa 40 anni più tardi
lo stesso scrittore annotava:
C’era del metodo e non solo irritazione — qualche cosa di precostituito e
provato in lunghi anni di esperienza — e la terribile frusta che si sollevava di
nuovo e di nuovo per abbattersi sulla testa del cavallo […] Questa scena disgustosa è rimasta impressa nella mia memoria per tutta la mia vita. […]
Questa piccola scena mi è sembrata, per così dire, emblematica.
Secondo Breger questa scena si è mescolata, negli anni successivi,
con molti e sovrapposti elementi della vita e dei pensieri di Dostoevskij, tanto che egli, rivivendola, si identificava contemporaneamente
in se stesso ragazzino come osservatore, nel corriere crudele e nel cavallo picchiato, così come Raskòl’nikov nel suo sogno “inventato” si
sente contemporaneamente il ragazzino, il contadino ubriaco e il cavallo picchiato a morte.
Il riferimento più ampio cui Breger perviene, in seguito a molte e
numerose considerazioni, rimanda al ricordo della propria madre, al
tirannico rapporto con il padre e alle successive sofferenze di vita.
L’immagine del cavallo battuto diviene così l’emblema dell’intera vita
di Dostoevskij.
5. Chi è dunque Raskòl’nikov?
Espresse fino al parossismo troviamo dunque in Raskòl’nikov le
velleità del superuomo e le paure dell’uomo del sottosuolo, l’orgoglio
della volontà di potenza e la mortificazione della propria inferiorità.
Mettendo in scena i suoi personaggi, Dostoevskij non mette in scena
solo la propria anima; anche la coscienza del lettore è chiamata a interrogarsi, costretta a pronunziarsi, a valutare, a decidere. Il romanzo
Stefano Caracciolo
20
polifonico non esclude nessuno: ognuno ha il diritto di esprimere la
propria verità. E Raskòl’nikov è Dostoevskij, come lui è indebitato,
come lui mette in gioco la sua vita, come lui deve elaborare la sua
colpa ed espiare.
Quale è infine la colpa dei malati di depressione? Di quale delitto si
sono macchiati? Da dove nasce la loro sete di punizione, talora così
efferata ed implacabile dal condurli al suicidio?
Può dare risposta a questa domanda la ricerca psicobiologica, identificando geni e proteine che regolano l’umore?16
Può un dato scientifico tradursi in una tecnica efficace?17
Può una tecnica efficace essere applicata in modo appropriato e
condiviso dalla comunità medica internazionale?
Può l’applicazione appropriata di questa tecnica prescindere dallo
sguardo del paziente e dello sguardo del medico nel loro incontro, secondo la accezione che ci ha mostrato Michel Foucault?:
Per i nostri occhi ormai frusti, il corpo umano definisce, per diritto naturale,
lo spazio d’origine e di ripartizione della malattia: spazio le cui linee, i volumi, le superfici e i cammini sono fissati, secondo una geometria ormai familiare, dall’atlante anatomico18.
Ci aspettiamo di poter costruire assieme al lettore un percorso esplorativo per una serie, almeno provvisoria, di risposte a queste domande, attraverso i diversi contributi a questo volume, ricordando
Sigmund Freud:
Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune col quale gli uomini si influenzano tra loro.
16
Manev H., Manev L., Nomen est Omen: do antidepressants increase P11 or S100A10?
Journal of Biomedical Discovery and Collaboration, 1:5, 2006.
17
Arroll B., et al., Efficacy and Tolerability of Tricyclic Antidepressants and SSRIs Compared With Placebo for Treatment of Depression in Primary Care: A Meta–Analysis. Annals
Fam Med, 3:449–456, 2005.
18
Foucault M., Nascita della Clinica. Una Archeologia dello Sguardo Medico. (Ed. Or.
1972), pag. 15, Einaudi, Torino 1998.
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente1
di SERGIO MOLINARI
Sono passati ormai molti anni — si era agli inizi degli anni Novanta
— da quando ho introdotto la concezione delle oscillazioni M–D. Riprendendo ora il tema a distanza di tempo, e dopo averlo rielaborato in
altre occasioni, mi trovo ad un tempo un po’ eccitato e un po’ preoccupato: nel mio linguaggio “oscillatorio” potrei dire che mi trovo in uno
stato di oscillazione media m–d. Questa mia introduzione, una tra le
tante possibili, ha la finalità concreta di familiarizzare fin dall’inizio con
uno dei punti più salienti della mia concezione: la distinzione, pur grossolana, tra oscillazioni M–D e oscillazioni m–d. Le maiuscole alludono
a oscillazioni affettive molto ampie, tendenzialmente estreme e derivano dall’incontro, nella mia esperienza clinica, con il mondo delle psicosi maniaco depressive, o stati contigui. In questo senso, legittimamente,
M stava per mania e D stava per depressione, e l’espressione “oscillazioni M–D” sembrava particolarmente pertinente.
Se le oscillazioni M–D sembravano mettere in scena le massime
espressioni affettive del Piacere e del Dispiacere (o del Dolore) le oscillazioni m–d si riferivano globalmente — con ampiezze e disarmonie molto diverse — a tutto quanto poteva avvenire, innanzitutto
all’interno della relazione analitica, in termini di oscillazioni–
trasformazioni dei movimenti di piacere–dispiacere, sia nell’analizzante sia nell’analista: queste oscillazioni erano ipotizzate come
sempre presenti e attive, come un accompagnamento obbligato di ogni
processo mentale, conscio e inconscio. Ci si potrebbe dunque esprimere anche nei termini di operatore M–D (m–d) della mente.
1
Questo mio scritto riprende nei suoi temi principali un più ampio intervento tenuto a
Roma nel 2003 al XII Convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica con il
titolo Stati Affettivi della Mente: le oscillazioni M–D2. e pubblicato nel volume: Psicologia
Analitica e Teorie della Mente, a cura di Luigi Aversa et al., Ed. Vivarium, Milano 2005.
21
Sergio Molinari
22
In un sintetico tentativo di coprire in qualche modo il gap tra
l’allora e l’oggi, procederò per spunti, servendomi, se necessario, di
citazioni evocative: rinunciando dunque a ogni inattuale pretesa di una
qualche forma di saturazione teorica. L’accento, nelle mie intenzione,
deve essere posto sul confronto e sul dialogo.
A tal fine, utilizzerò innanzitutto quanto scrivevo, avendo in mente
la distinzione M–D, nel 19942, a proposito della sofferenza psichica:
Sofferenza psichica come stato di disagio, tensione, malessere, dispiacere, infelicità, a cui fanno da contrappunto stati di detensione, di piacere, fino
all’estremo della felicità e della gioia. Stati di piacere e dispiacere che la condizione umana ci obbliga a sperimentare, in modo più o meno mutevole, più
o meno adeguato alla superficiale osservazione degli altri e di noi stessi ma
che, comunque, vanno intesi, secondo la lettura freudiana, come i prototipi di
ogni affetto e, in una visione più allargata, come gli “accompagnatori” di ogni stato affettivo. Non verrà, in questa sede, operata una distinzione tra affetti, sentimenti, emozioni, stati d’animo, distinzione controversa e, a giudizio di molti, scarsamente proficua: verrà piuttosto privilegiata la distinzione
tra affetti positivi (nei quali prevale l’esperienza o l’attribuzione di stati di
piacere) e affetti negativi (nei quali prevale l’esperienza o l’attribuzione degli
stati di dispiacere). È André Green3 che si esprime nei termini di un
continuum, a un estremo del quale viene collocata la gioia, all’altro il dolore
(mentale), mentre nei punti intermedi vengono rappresentate tutte le gradazioni di piacere e dispiacere. In questa ottica possiamo dunque rappresentarci
oscillazioni, più o meno ampie, più o meno armoniche, di un singolo affetto
lungo questo continuum4 mentre gli affetti soggettivi possono essere intesi
come la complessa risultante di affetti diversi, oscillanti contemporaneamente
lungo il continuum gioia–dolore).
Inevitabilmente, sul piano clinico, i miei pensieri si intrecciavano
con le concettualizzazioni e le esperienze cliniche che mi derivavano
dall’appartenenza al mondo psicoanalitico freudiano (e, s’intende,
kleiniano, winnicottiano, bioniano e, per la mia storia personale, fornariano). Ora però mi veniva sempre più naturale interrogarmi su
2
Molinari S., Lappi R., Clinica psicologica e sofferenza psichica. La vita affettiva e le sue
radici infantili. In Trombini G. (a cura di) Introduzione alla clinica psicologica. Zanichelli,
Bologna 1994, pp. 40–75.
3
Green A., (1973) Il Discorso Vivente, Astrolabio, Roma 1974.
4
Cfr. Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti, op. cit.; Molinari S., La
complessità del sogno. In Bosinelli M., Cicogna P. (a cura di) Sogni: figli di un cervello ozioso, Boringhieri, Torino 1991, pp. 161–185.
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
23
dov’era, in un dato momento della relazione, il piacere e il dispiacere
(l’m e il d) più attuale e più pregnante, sia nel mondo interno del paziente (io continuo a chiamarlo così) sia in quello dell’analista. Mi interrogavo su quali emergenti ipotesi potevano essere fatte di fronte al
paziente che non parlava, oppure che sosteneva di “non provare assolutamente niente”, magari sollecitandolo a considerare, esplicitamente
o implicitamente, che questo non era possibile, almeno lungo il
continuum piacere–dispiacere. Sperimentavo come ci si potesse avvicinare ai sogni con associazioni povere, o assenti, o troppo razionali o
razionalizzanti, soffermandomi sulle singole immagini, presupponendo che queste fossero “necessariamente” associate a un movimento
timico–affettivo (ipotesi che, qui lo dico incidentalmente, mi ha recentemente ricondotto, dopo tanti di assenza, nel laboratorio del sonno e
del sogno!). Sintetizzando al massimo, mi pare di poter dire che il mio
silenzioso accoppiamento con la proto–teoria delle oscillazioni affettive ha mutato, spesso con movimenti quasi impercettibili, il mio stile
di lavoro. A partire, s’intende, dai miei atteggiamenti controtransferali, anche se resto consapevole di quanto sia difficile e precario cercare
di anatomizzare i cambiamenti dello stile dell’analista, di fronte a fattori quali la maggiore esperienza, il passare del tempo (nel bene e nel
male, verrebbe da dire), senza trascurare quanto i pazienti — certi pazienti, con la loro sofferenza, la loro creatività, la loro distruttività…
— ti hanno costretto a capire, e a modificare, i tuoi schemi, i tuoi automatismi, i tuoi arroccamenti teorici, magari le tue stesse segrete…
sperimentazioni teoriche.
Fornirò ora qualche rapidissima esemplificazione, accettando il più
serenamente possibile l’affetto di dispiacere che si può provare di fronte
a una obbligata banalizzazione. Sono frequenti le circostanze in cui il
paziente, in modo esplicito o implicito, verbale o non verbale, chiede
all’analista: “Come sta?”. Una domanda che può significare tutto e il
contrario di tutto, al limite niente, come nella formale espressione britannica: “How do you do?”. Avevo scritto niente, e volevo correggere
in quasi niente: un analista non può lasciarsi scappare un lapsus del genere. Ma, a ben pensarci, l’“How do you do?”, specialmente se integrato dalla risposta speculare “How do you do?”, potrebbe in realtà significare moltissimo: l’impossibilità di sapere, d’acchito, come si sta,
l’impossibilità di dirlo a parole, la difficoltà nel credere che all’altro, in
24
Sergio Molinari
generale, interessi qualcosa di come davvero stai… Dunque, se un paziente in qualche modo mi chiede come sto, adesso mi trovo sempre più
spesso a pensare innanzitutto proprio a come sto. Perché, in quel momento, c’è l’altro che, in buona sostanza, parla di oscillazioni benessere–malessere, di oscillazioni m–d, in una fantasia–bisogno di accomunamento. Rispondere con una delle tante possibili interpretazioni, o stare in silenzio senza segnalare di aver recepito la “domanda” o senza, in
termini bioniani, avere fatto una rêverie sul proprio stare e sullo stare
dell’altro, può a volte contagiare il clima affettivo della seduta, con modalità che tendono a sfuggire per sempre. In termini più generali, ritorno
ora a uno dei miei primi incontri con quello che sarebbe diventato il
mio mondo M–D. Si trattava di una paziente, con una classica sindrome
bipolare maniaco–depressiva, inviatami da un collega psichiatra che mi
aveva davvero pregato di prenderla in psicoterapia: lui avrebbe continuato a seguirla farmacologicamente, dato che il suo tentativo di terapia
combinata gli era diventato impraticabile. Non mi soffermerò sulla vistosa sintomatologia di questa paziente che si manifestava nelle fasi
maniacali e in quelle depressive: con pazienti del genere, molti potrebbero raccontare ancora di più! Ricordo i miei sforzi nel tamponare in
qualche modo gli eccessi, quando gli episodi estremi erano in corso; il
tentativo di anticipare nella mia mente il viraggio verso l’uno o l’altro
polo, basandomi sull’esperienza di analoghi episodi precedenti che avevamo vissuto insieme; il mio “doveroso” cercare di condividere con la
paziente questa anticipazione, in una quasi velleitaria ricerca di un qualcosa che potesse mettere una qualche sordina ai suoi eccessi, di cui la
storia pregressa indicava una reale pericolosità. Ricordo anche i miei
sospiri di sollievo ogni volta che la paziente usciva dalle sue fasi estreme, diveniva più “ragionevole” e sembrava funzionare, in termini di oscillazioni, come altri pazienti che, pensavo, potevo definire come oscillanti, pur con tutte le varianti, nelle modalità minuscole (medie o piccole) m–d. All’inizio, però, tendevo a trascurare la sua mancanza di vitalità, che peraltro sapeva mascherare molto bene, dandomi così
l’impressione di una ripresa post–narcisitica verso una qualche forma di
relazione oggettuale e, in termini kleiniani, verso un qualche aurorale
iniziale (ri)affacciarsi della posizione depressiva. Solo attraverso le successive oscillazioni M–D cominciai a rendermi conto che le cose erano
più complesse. Una quota importante delle sue supposte oscillazioni
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
25
medie m–d… riguardavano me. Erano, in particolare, il riverbero delle
mie attenzioni durante le fasi estreme, combinate con una maggiore
scioltezza del mio operare dovuto al sollievo del presente. Mi sfuggiva
quanto, in quei momenti di quiete relativa, io mi trovassi a fungere da
sua… affettività relazionale ausiliaria, una mia affettività che faceva sua
e che mi faceva percepire come proveniente da lei e da sue oscillazioni.
Mi rendevo lentamente conto che un’applicazione meccanica della mia
proto–teoria poteva impedirmi un accesso equilibrato a specifici processi e fenomeni, quali quelli tipici delle sindromi come–se: se mi è consentita una licenza nosografica, direi quasi delle sindromi affettive come–se. In una vena analoga, potrei ricordare un’altra mia paziente che,
pur riscuotendo grandi successi professionali economici e di prestigio,
sembrava ignorare cosa fosse la gratificazione ed il piacere: era però
sempre pronta a piombare in un drammatico umor nero, alla minima
contrarietà e alla minima frustrazione, anche lavorativa. Il luogo
dell’analisi, così come l’ambiente familiare, erano deputati al lamento e
all’esibizione della depressione e della sofferenza. Mi domandavo
dov’era nascosto il piacere (al di là, s’intende, delle obbligate esplorazioni del mondo infantile e, ad esempio, di configurazioni masochistiche). Chiedeva all’analista affetto e vicinanza, con discrezione e dignità. Affermava di provare gratitudine per l’affetto che sentiva arrivargli
da me: ma niente si muoveva, tutto sempre tristemente uguale. Sono
una pessimista, diceva, quasi scusandosi e con un sorriso triste e intrigante. Utilizzando un’espressione junghiana, potrei dire che voleva e
spesso riusciva a contagiarmi con la sua tristezza, non diversamente da
come la paziente precedente voleva e, all’inizio, riusciva a contagiarmi
con la solare felicità che caratterizzava le sue fasi maniacali. Questa seconda paziente, invece, nascose a lungo la sua M, che pure si poteva
immaginare data la frenetica attività lavorativa, la sua instancabilità, la
sua fortuna. Solo dopo molto tempo, emerse in analisi la felicità che si
teneva tutta per sé, legata a quello che provava nei suoi produttivi momenti creativi, obbligatoriamente favoriti dall’uso di droghe di cui non
aveva mai parlato con nessuno: con lo svelamento del piacere, qualcosa
cominciò lentamente a cambiare tra di noi.
Sono, comunque, le piccole (o piccolissime) oscillazioni, quelle
che più possono cimentare l’ipotesi m–d, e che richiedono un lungo
lavoro di tessitura difficilmente riassumibile: penso, innanzitutto, a di-
26
Sergio Molinari
versi pazienti con una patologia psicosomatica, nei quali lo “spiazzamento” dell’alessitimia richiede spesso una pervicace “preconcezione”, da parte dell’analista, di un loro “naturale” e ricco sentire, e una
paziente attesa, condivisa con l’analizzante, poiché l’importante non è
far esplodere di colpo emozioni, affetti e sentimenti, o le angosce che
temono di provare, ma riconoscere gli affetti come inalienabili, anche
se piccoli, ingredienti dinamici del loro essere in vitale rapporto con le
cose del mondo. Ho già accennato come, nella mia esperienza, i sogni
si costituiscono spesso come una piccola chiave di volta per tarare
l’ipotesi m–d. La loro eventuale povertà, il non ricordo, il rifiuto di
evocarli e di raccontarli, mi sono spesso apparsi come una difesa inconscia per evitare di imbattersi, nell’incontro con l’analista, con
l’incontrollabile mondo delle oscillazioni affettive. Del resto è più che
descritta — e non solo da Bion! — la crucialità del momento in cui
pazienti che non sognavano cominciano a portare in analisi dei veri
sogni.
Un discorso diverso, molto particolare, richiederebbe l’esplorazione dei rapporti tra oscillazioni m–d (o M–D) e pazienti isteriche. Dovrei qui parlare, ora, di un mio work in progress, molto ambizioso e
coinvolgente che, ritrovando filoni lasciati in sospeso dalla successiva
elaborazione freudiana, potrebbe consentire di rileggere il fatidico caso di Anna O. anche alla luce di una teoria delle oscillazioni affettive
ricavabile, almeno in parte, in modo indipendente da obbligate derivazioni freudiane e postfreudiane. Va da sé che se riuscissi a stabilire un
qualche convincente raccordo tra la prima paziente della psicoanalisi
— ma… una paziente di Josef Breuer, da lui vissuta e da lui descritta
in Studi sull’Isteria — una teoria clinica M–D poggerebbe su basi ben
diverse e potrebbe consentire una ben diversa presentazione. Alla fine
di tutto, come negare che, nella storia della psicoanalisi, in principio
era l’affetto?
Prima di passare brevemente alla seconda parte di questa trattazione, vorrei spendere ancora qualche parola sulle oscillazioni m–d
dell’analista. In generale, ma in particolare con certi pazienti, è importante che l’analista s’interroghi rapidamente su “come sta” fin
dall’inizio della seduta. Ci sono pazienti che, in qualche modo emuli
del famoso bambino descritto da Winnicott, sanno cogliere in modo
acutissimo, lo stato d’animo, le oscillazioni benessere–malessere, ov-
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
27
vero, per dirla con Antonio Damasio5, le emozioni di fondo dell’analista. In questi casi, è dunque importante che l’analista “si metta
all’altezza”, interrogandosi a sua volta su di sé. Certi pazienti sanno
perfino cogliere, più o meno chiaramente, se l’analista si è a sua volta
interrogato su come sta. Sono, s’intende, problemi di controllo che riguardano il paziente. È probabile che se un paziente si sente particolarmente aggressivo e, ad esempio, desidera fare uscire dai gangheri
l’analista — spesso appoggiandosi su minime smagliature, reali o
proiettive che siano — cerchi di monitorare, più o meno coscientemente, l’analista, nel momento dei primi impatti, visivi o vocali che
siano. Parlo di aggressività ma, ovviamente, il discorso può riguardare
ogni derivato pulsionale e ogni movimento affettivo. Un’accortezza
del genere può rendere l’analista più recettivo alle proprie oscillazioni
nel corso della seduta, per modulare sia eventuali “contagi affettivi”
sia il tenore delle interpretazioni. Più in generale, penso a una capacità
di monitoraggio fluttuante delle proprie oscillazioni a discrezione
dell’analista stesso. Nel continuum di una seduta, o anche di un’intera
analisi, conviene non sottovalutare l’importanza di un “sano narcisismo fluttuante”, inteso anche come “minima oscillazione affettiva autocurativa”. Penso al rischio che tutti noi corriamo di “essere con il
paziente” prima ancora che “essere con noi” involontariamente impoverendo, magari per stanchezza, i momenti d’incontro che, almeno potenzialmente, dovrebbero poter sempre essere i più “nuovi” possibili.
Questo è solo uno spunto per alludere, anche, a quelle che ho chiamato oscillazioni m–d molto piccole (al limite microscopiche) che si
costituiscono come un oscuro fondo che anima ogni relazione. Ad esempio al paziente “fusionale” che cerca di imporci in tutti i modi la
sua urgenza di fusione, possiamo dolcemente proporre “veri momenti
fusionali”, ma con un continuo ritorno alle nostre più intime oscillazioni, senza entrare — o farci condurre — in modo subdolo in uno dei
tanti rifugi legati all’universo della colpa. Al paziente che vive con
angosce catastrofiche ogni minima novità, potremmo proporre, facendo appello a tutta la nostra pazienza, microscopiche “novità” interpretative. Si può sperare che, con microscopiche operazioni ripetute nel
5
2003.
Damasio A., Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, cervello, Adelphi, Milano,
28
Sergio Molinari
corso del tempo, qualcosa possa cambiare nell’universo affettivo del
paziente.
Una vistosa omissione di questa rapida carrellata riguarda quelle situazione cliniche in cui la sessualità gioca un esplicito rilievo: basti
pensare a tutte le configurazioni del transfert erotico, o a specifiche figure della perversione, innanzitutto quando emerge, a volte in modo
quasi incontrollabile, una urgenza sadomasochistica a partenza dal paziente. Schematizzando al massimo, preciso che è molto difficile riassumere in poche righe vicende relazionali dove l’analista deve confrontarsi con oscillazioni particolarmente complesse, monitorando continuamente il suo come sto con un come l’altro vuole impormi di stare
dovendo — tra l’altro — fare contemporaneamente i conti con il fatto
che anche il paziente, sul suo versante, sta monitorando un suo come sto
con un come l’analista vuole impormi di stare. Come sappiamo, un silenzio, una singola parola, l’attenzione a un singolo elemento del setting, tutto può fungere da innesco per massicci giochi identificatori, particolarmente perniciosi se agiti sul versante proiettivo. Certo, queste evenienze sono universali, e non specifiche di situazioni dove il “sessuale” assume un rilievo particolare, ma qui la “creatività”, dettata
dall’urgenza, che il paziente è capace di esibire per “spiazzare” e “contagiare” l’analista è spesso riconoscibile solo ex post.
Ho recentemente rivisitato queste tematiche nel mio scritto Nel labirinto freudiano: tra sogni, affetti, sessualità e metapsicologia6. Per
certi versi la presente trattazione può essere intesa come la continuazione di un discorso lasciato allora in sospeso anche per quanto riguarda le mie irriducibili “oscillazioni affettive” nei confronti della
classica metapsicologia freudiana. Ricordo solo che avevo concluso
questo scritto sui sogni facendo riferimento a una recente ricerca sulle
oscillazioni m–d nel sogno7, ricerca che continua ad avere per me un
particolare significato, dato che contrassegna un mio ritorno fisico,
dopo tanti anni di latitanza, nel laboratorio del sonno e del sogno. I
primi risultati sono stati incoraggianti anche se, ovviamente, non sono
ancora pronto a ricercare anche il minimo contatto con una teoria M–
6
Molinari S., Nel labirinto freudiano: tra sogni, affetti, sessualità e metapsicologia. In
Riolo F. (a cura di), L’analisi dei sogni, Franco Angeli, 2003.
7
Baiamonte C., Cicogna P.C., Molinari S., Affetti e Sogno, Congresso AIMS, Perugia 14–
16 ottobre 2002.
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
29
D tuttora così insatura. Tengo questa ricerca come materiale da utilizzare, se del caso, in tempi futuri.
Un ultimo spunto riguarda la concezione M–D, comunque modificata e integrata, e il rapporto con le neuroscienze, all’interno del ben più
ampio dibattito che sta avendo luogo da alcuni anni in tema di rapporti
fra psicoanalisi e neuroscienze. L’ultimo paragrafo del mio lavoro La
psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti)8, portava
il titolo Oscillazioni m–d: implicazioni, metapsicologiche e controversie. In questo paragrafo riprendevo quanto avevo già accennato in un
lavoro di poco precedente (Il Sé tra teoria psicoanalitica e clinica), dove mi interrogavo su una fantasia biochimica nascosta di Freud, relativa alle qualità soggettive di piacere e dispiacere, come ipotizzabile attraverso una lettura metapsicologica di Al di là del principio del piacere, scrivendo che
nella mia mente sta prendendo corpo una fantasia metapsicologica che, basandosi sulle moderne conoscenze neurochimiche relative al sistema endorfinico,
ipotizza una struttura autoregolatrice autoctona delle esperienze di piacere e dispiacere9.
Nel 1991, così aggiungevo:
Quando parlo di un mitico sistema endorfinico mi riferisco, ovviamente, alle ricerche recentissime, e in tumultuoso sviluppo, sui neurotrasmettitori: scegliendo arbitrariamente la parte (endorfine) per il tutto (i numerosissimi neurotrasmettitori) intendo unicamente mettere l’accento su questi particolari peptidi
oppioidi neuroattivi che, pur con le riserve dovute alle tuttora scarse conoscenze, specialmente riguardo ai loro effetti nella specie umana, vengono spesso ipotizzati (certamente non da soli!) come agenti all’interno di un complesso sistema naturale di difesa–modulazione del dolore e di provocazione–modulazione del piacere. Mi è difficile pensare agli affetti primari, alle oscillazioni
“m–d”, al substrato biologico implicato in una metapsicologia degli affetti, negando la conoscenza di questi dati, o trattandoli come se fossero sogni confusi
nelle mani di un non–analista10.
8
Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti), op. cit., 1991.
Molinari S., Il Sé tra teoria psicoanalitica e clinica. In Ammaniti M. (a cura di) La nascita del Sé. Laterza, Roma–Bari 1989, p. 61 nota.
10
Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti), op. cit.,
1991, p. 372.
9
Sergio Molinari
30
In pochi anni, il quadro è ulteriormente cambiato e la ricerca nel
mondo delle neuroscienze ha subito un’accelerazione straordinaria. Se
ripenso, oggi, alla mia concezione m–d, si affollano nella mia mente
testi e approcci che, allora, avrei cercato invano. Un solo esempio:
l’affascinante volume Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti,
cervello, di Antonio Damasio11, di cui basta riportare l’incipit per anticipare inattese risonanze e concordanze. Scrive Damasio:
I sentimenti — di dolore e di piacere o di qualità intermedia fra questi estremi
— sono il fondamento della nostra mente. Spesso non ci rendiamo conto di
questa semplice realtà perché le immagini mentali degli oggetti e degli eventi
intorno a noi, insieme a quelle delle parole e delle proposizioni che li descrivono, assorbono gran parte della nostra attenzione già sovraccarica. Ciò nondimeno, eccoli lì, i sentimenti di miriadi di emozioni e stati affini, incessante
accompagnamento musicale della nostra mente, inarrestabile mormorio della
più universale delle melodie12.
Per parte mia, dopo avere inizialmente pensato a questo “accompagnamento musicale” in termini di oscillazioni, oggi mi trovo sempre
più spesso a pensare — quando mi interrogo su quanto si dispiega nella stanza dell’analisi — nei termini di fluttuazioni (m–d, M–D) In altre
parole, tendo a collegare le oscillazioni a movimenti intrapsichici e le
fluttuazioni a movimenti interpsichici, relazionali. In fondo, insistere
sulla inderivabilità di un’affettività di base cambia l’atteggiamento
clinico, che diviene sensibile, e dunque anche consapevole e critico,
del fatto che ogni attività rappresentativa e di pensiero è veicolata dagli affetti, e che il principale compito terapeutico ha a che vedere con
la necessità di regolarla criticamente. Se infatti ammettiamo che la tonalità affettiva sia il nerbo del complesso, potrebbe essere particolarmente stimolante interrogarci sui “ricambi”, consci e inconsci, che si
animano, nel processo analitico, tra affetti del paziente e affetti
dell’analista, in funzione delle — asimmetriche ma pur sempre presenti — rispettive fluttuazioni dell’unità della coscienza, quando complessi secondari dell’uno o dell’altro entrano in relazione, e sono in
qualche modo “colti” dall’uno o dall’altro, Certamente, gli affetti pos11
Damasio A., Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, cervello, Adelphi, Milano
2003.
12
Ibidem, p. 13.
Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente
31
sono avvicinare molto analista e paziente, costituendo il veicolo della
comprensione “profonda”, ma possono anche creare dolorosissimi
fraintendimenti, quando componenti ideative e percezioni sensoriali
complessuali, del tutto “personali” e non intuibili dall’altro, vengono
“supposte” come comuni o proiettate sulla base di fantasie inconsce di
accomunamento. Mi sto in qualche modo riferendo anche a quelle dinamiche inconsce assolutamente primitive e sicuramente difficoltose
da definire che in campo freudiano sono spesso state indicate come
identificazione proiettiva. Probabilmente una riflessione ulteriore sulle
modalità della comunicazione affettiva potrebbe aiutarci a ripensare in
modo più profondo e attuale questo concetto.
32
Sergio Molinari
33
34
Sergio Molinari
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione
degli antidepressivi
di STEFANO CARACCIOLO
1. La comunicazione medico–paziente e il pensiero magico e primitivo1
Fra i classici assiomi della pragmatica della comunicazione umana
si trovano le affermazioni che non è possibile non comunicare, e che,
all’interno di un processo bidirezionale, comunicazione verbale e non
verbale dispiegano i loro significati sul piano duplice del contenuto da
un lato e della relazione dall’altro2. La prescrizione di un farmaco possiede pertanto un complesso di significati comunicativi, collegando in
modo intrecciato i bisogni emotivi, i sintomi e la sofferenza del paziente con la competenza e la capacità tecnica del medico, nell’incontro di due personalità. La prova più concreta di questo intreccio è rappresentata dall’effetto placebo, il fenomeno per cui un paziente presenta una risposta clinicamente significativa dopo l’assunzione di una
sostanza farmacologicamente inerte.
Del resto, è del tutto evidente che le dinamiche psicologiche che
si possono osservare nel rapporto fra medico e paziente sono legate
alle modalità di funzionamento dell’apparato psichico di ciascuno
dei due soggetti che fra loro interagiscono. Si tratta quindi di dinamiche relazionali, frutto cioè dell’incontro, della situazione, delle
esperienze precedenti di ciascuno dei due e, pertanto, irripetibili,
influenzate da fattori innumerevoli e — il dubbio è forte — forse
imperscrutabili.
1
vedi anche: Caracciolo S., Il ruolo del pensiero magico e superstizioso nel rapporto medico–paziente. Rivista di Storia della Medicina X (1–2): 279–285, 2000.
2
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatic of human comunication. Norton
& Co., New York, 1967 (Ed. Ital., Astrolabio).
35
Stefano Caracciolo
36
In corso di una condizione di malattia fisica, che rappresenti una
seria minaccia alla integrità del corpo, si realizzano spesso fenomeni
di regressione, secondo un meccanismo inconscio di difesa dell’Io
che, sovrastato dall’intensità della angoscia cui non riesce a far fronte,
regredisce a livelli di funzionamento arcaici ed infantili.
Per poter prevedere pertanto la reazione di un paziente di fronte ad
una simile malattia fisica, sarà necessario conoscere, anche se certamente in modo provvisorio e non esaustivo, quale sia stata l’evoluzione della sua personalità nelle fasi più precoci dello sviluppo e quale
retaggio queste parti infantili abbiano conservato, all’interno del generale funzionamento della sua personalità, nel momento in cui l’evento
si verifica.
Ma quanto è accessibile questo complesso di informazioni al medico che incontra il paziente nel suo studio o nella corsia d’ospedale?
Quali tipi di reazioni egli può prevedere e sulla base di quali meccanismi? E come affronterà le evenienze impreviste?
Una risposta possibile a queste domande nasce dalla considerazione, che deriva dal precedente enunciato, secondo cui le variabili psicologiche coinvolte comprendono sia la personalità del paziente che
quella del medico.
Il brano seguente, tratto da un celebre contributo dell’etnologo Lévi–Bruhl, appare illuminante in questo senso3. Riportiamo l’incipit del
capitolo tredicesimo, intitolato: I primitivi e i medici europei:
Quasi dappertutto, uno dei primi rapporti che si stabiliscono tra gli indigeni e
l’europeo è quello tra malati e medico. È raro che l’esploratore, il naturalista,
il missionario, l’amministratore stesso non si trovi a far funzione di medico.
Come sono accettate e capite le loro cure? Abbiamo su questo punto testimonianze abbastanza numerose e concordanti. Forse, esaminandole da vicino,
troveremo una conferma dell’analisi della mentalità primitiva che è stata tentata più sopra.
Passiamo tutte le mattine tre ore — dice Bentley, missionario in Congo — a
medicare ulcere voluminose e orribili che, sotto l’azione stimolante e felice
delle nostre lozioni, assumono presto un aspetto soddisfacente. Si penserebbe
forse che la guarigione di queste ulcere, che datano da cinque anni, o più, in
altrettante settimane, dovrebbe strappare ai testimoni qualche segno di sorpresa o di ammirazione. Si penserebbe anche che queste cure mediche, elar3
Lévi–Bruhl L., La Mentalità Primitiva, (or. 1922), Einaudi, Torino 1966, pp. 403 e segg.
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi
37
gite con tanta bontà, perseveranza, e alle quali si aggiungono, il più delle volte, l’alloggio e il vitto, che questi sforzi costanti per ottenere la fiducia e
l’affetto, che tutto ciò insomma dovrebbe ispirare qualche volta un po’ di riconoscenza. Ma non si manifesta nessun segno di sorpresa né di gratitudine,
benché il carattere di questa gente sia ben lungi dall’essere freddo. Ci si comincia a chiedere molto seriamente se la riconoscenza sia un istinto naturale
in questo popolo.
Naturale? Ma che cosa si intende, in questo caso, per naturale?
Spontaneo? Automatico, ineludibile? La riconoscenza per una prestazione medica, esercitata disinteressatamente, è davvero ed è sempre un
sentimento “naturale”?
In questa sede non ci vogliamo addentrare in discussioni filosofiche, antiche quanto la civiltà, su “natura naturans” e “natura naturata”
o sul linguaggio matematico in cui è scritto il libro della natura, secondo Galileo. Dobbiamo peraltro riconoscerci d’accordo, sulla base
dell’empirismo alla Hume, con chi nega la presenza aprioristica di
leggi naturali e si pone, invece, alla ricerca di regolarità empirico–
fattuali.
Pertanto, non è naturale che il R M/P debba svilupparsi seguendo i
binari cura–riconoscenza. Sul piano empirico, certamente questo percorso si può rilevare con una certa frequenza nella nostra comune realtà quotidiana, mentre esso appare assai più labile e accidentato in altre
situazioni. Basti pensare ai casi, certo particolari ma non così infrequenti, del rapporto fra medico e paziente detenuto, medico e paziente
con gravi patologie psichiatriche, medico e paziente tossicodipendente. Non è affatto strano rilevare in questi frangenti lo sviluppo di sentimenti addirittura opposti alla riconoscenza per l’operato del medico,
quali la rabbia rivendicativa, il ricatto, in taluni casi la vendetta a fronte di un comportamento del medico che tutti gli altri pazienti, in altre
situazioni, avrebbero accettato ritenendoli adeguati: possiamo facilmente immaginare un medico che di fronte ad una richiesta di cure
farmacologiche riesca brillantemente ad escludere la presenza di patologie e rassicuri il paziente sul suo stato di salute, e che, in casi come
quelli già accennati, riceva in cambio rimostranze, rabbia e minacce se
non prescrive quel certo farmaco o non rilascia un certificato richiesto.
Consentitemi a questo punto di discutere preventivamente una possibile obiezione che sarà venuta alla mente di molti lettori attenti. Un
38
Stefano Caracciolo
ascoltatore attento e intelligente potrebbe infatti, a questo punto, obiettare che si tratta di casi limite, perché questo tipo di paziente non è un
vero paziente, nel senso che non ha fiducia del medico a priori e non
desidera genuinamente un suo parere ma mira esclusivamente a perseguire un suo scopo in modo strumentale.
Vorrei dedicare un po’ di tempo alla discussione di questa possibile
obiezione, perché tener conto di questa obiezione significa affrontare
in modo cruciale l’oggetto di cui stiamo parlando.
Un primo punto cruciale è questo: può il medico attendersi che il
suo paziente si comporti secondo regole che il medico pone, o che
comunque sono, secondo lui, “naturali”?
La risposta è probabilmente sì, almeno entro certi limiti, se restiamo al livello dei comportamenti: è lecito attendersi che il paziente sia
disponibile all’esame medico, risponda con sincerità alle domande,
accetti di spogliarsi per consentire l’esame obiettivo, rispetti le indicazioni diagnostiche e terapeutiche, non aggredisca, non insulti, assuma
cioè comportamenti leciti secondo le leggi e le convenzioni sociali e
rimanga entro i limiti previsti dalle regole non scritte delle consuetudini sociali. Sebbene questo sia frequente, se ci si pensa bene si deve
concludere che non è poi così raro che il paziente assuma invece comportamenti diversi e devianti: si rifiuta di assoggettarsi a manovre diagnostiche o terapie fisiche o farmacologiche, omette deliberatamente
particolari imbarazzanti o proibiti nella anamnesi, oppure talvolta seduce, lusinga, promette per ottenere certi suoi scopi, in casi estremi
addirittura minaccia, insulta, aggredisce: è il caso summenzionato del
tossicodipendente, del carcerato, dello psicotico.
Ma la risposta è certamente no, se ci riferiamo ai pensieri, alle
sensazioni, agli atteggiamenti, più o meno coscienti: il medico deve attendersi che il paziente provi emozioni, sensazioni o pensieri
diversi da quelli leciti e prevedibili, proprio perché deve tenere
conto della storia del paziente e delle parti infantili di lui che si
disvelano, suo malgrado, di fronte a situazioni di tipo sanitario, in
situazione di regressione, ma anche di proiezione, di negazione, di
identificazione. Il paziente mostra atteggiamenti talora capricciosi, di impaurita ed assoluta dipendenza, di inconsapevole e ostinata resistenza, di reattiva e talora ottusa aggressività senza rendersene conto, ed il medico non può limitarsi ad etichettare il pazien-
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi
39
te come “deviante” rispetto ai “naturali” comportamenti e liberarsene con un’alzata di spalle, come se questa violazione delle regole lo esimesse dall’occuparsi davvero della situazione, non fosse
altro per il fatto che il problema è solo rimandato, si ripresenterà
tale e quale se non viene affrontato o quando verrà sottoposto alle
cure di un altro medico.
A ciò si aggiunga che anche il medico, naturalmente, ha una personalità e dei tratti infantili di cui non sempre, nonostante l’allenamento
e l’esperienza, ha chiara cognizione. E di fronte a queste violazioni,
volta per volta, alcune parti infantili del medico entrano specularmente
in risonanza — o in dissonanza! — per cui si determinano situazioni
abnormi con effetti spesso devastanti sul futuro rapporto medico–
paziente e, in ultima analisi, per la salute del paziente.
Ecco quindi possibile enunciare un postulato:
Le dinamiche del rapporto medico–paziente si sviluppano secondo criteri
biunivoci: quelli del medico e quelli del paziente, che non sempre coincidono
naturalmente.
Torniamo, infatti, a Lévy–Bruhl ed ai suoi resoconti etnologici:
A Sumatra, i missionari tedeschi hanno fatto esperienze del tutto simili. I
Battak ricevono le cure mediche […] senza lasciar trasparire il minimo
segno di riconoscenza o di ringraziamento. Il missionario Max Bruch ne
riferisce un esempio veramente classico. Sua moglie era venuta in aiuto di
una donna battak in gran pericolo e le aveva salvato la vita. La gente rifiutò di riaccompagnare a casa sua la moglie del missionario e, quando alla fine si decisero, reclamarono da Bruch del tabacco, perché si erano tanto affaticati. Molti — dicono altrove gli stessi missionari — sono riconoscenti per le cure mediche; ma altri sono abbastanza ingenui per pensare
che devono ricevere qualche regalo per aver fatto al missionario il piacere
di lasciarsi curare da lui. «Avevo in cura un giovane che si era gravemente ferito abbattendo un albero... Quando fu in grado di salire a cavallo, lo
feci venire alla stazione per medicarlo. “Tornerai dopodomani” gli dissi.
Ma rispose che preferiva che io andassi da lui. “Eppure tu hai più tempo
di me”. Ingenuamente replicò: “Ma rifletti, Tuan (= signore), il cavallo
non me lo danno per niente!” La corsa gli costava 5 cents (un valore irrisorio). “E perché tu, che non sei povero, possa fare economia di cinque
cents, io devo continuare a venire da te!” Fui molto mortificato nel vedere
che i miei servigi erano valutati così poco, e che quel giovane non li teneva in alcuna considerazione».
Stefano Caracciolo
40
Ecco dunque la necessità di riaprire alcune questioni che se non avessimo introdotto queste testimonianze ci sarebbero forse apparse oziose, scontate o comunque inutili. È il paziente che deve pagare o
ringraziare il medico, oppure viceversa? È il paziente che, quando
può, deve recarsi, in segno di deferenza e rispetto, dal medico per essere curato, oppure è il medico che è tenuto a andare incontro alle pretese del paziente, che ai nostri occhi possono apparire insensate? La
gratitudine del paziente è, infine, così ovvia, ed è così paradossale che
il medico possa essere invece grato al paziente che ha fiducia in lui e,
seguendone i consigli, lo fa sentire importante?
Sembra, in realtà, che presso i primitivi si presenti chiaramente
quella modalità di pensiero che solo in casi sporadici emerge nella realtà occidentale: il paziente, nella sua disponibilità a farsi curare, offre
al medico qualcosa di cui sente innanzitutto di dover difendere la reciprocità, reclamando quindi qualcosa in cambio. Non sono poi così
sporadici questi casi, se pensiamo alla accanita tendenza ad esigere
una visita domiciliare, ad esempio, dai medici di guardia medica notturna e festiva, forse in virtù del loro status, presunto come inferiore
rispetto ai medici più affermati.
Esiste dunque anche presso le moderne società occidentali una
mentalità primitiva secondo cui il paziente chiede qualcosa in cambio
al medico: si tratta però più spesso di una ricompensa non concreta, in
relazione ad una evoluzione psicologica e sociale così complessa da
non poter essere qui che menzionata fuggevolmente. Il paziente chiede
infatti in cambio una “merce” rara, preziosa, simbolicamente assai più
ricca: ascolto, disponibilità, tempo, comprensione. Quando non la riceve si sente sfruttato, trascurato: come i primitivi delle tribù selvagge. Quando la riceve, la relazione fra i due soggetti si ritrova in una
dimensione relazionale adulta, di scambio4.
La regressione è la via difensiva più immediata verso l’angoscia, ed
è per questo la strada più battuta ed usuale di fronte ad una grave minaccia alla salute, anche se non è una soluzione esclusiva. Infatti le difese inconsce contro l’angoscia prendono talora strade diverse, in fun4
Cfr. il concetto di “metapulsione di scambio” introdotto da Franco Fornari ed il capitolo:
Molinari S., Caracciolo S., L’Arco della Vita in Introduzione alla Clinica psicologica, a cura
di G.C. Trombini, Zanichelli, Bologna 1994
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi
41
zione della struttura dell’Io dell’individuo, che è a sua volta il risultato
della sua traiettoria individuale di crescita affettiva e relazionale. Esistono diverse strutture della personalità, in cui l’angoscia viene trasformata e convertita in altre emozioni, più accettabili per il soggetto.
Introduciamo qui, per semplicità, soltanto due vie alternative dell’angoscia, che conducono a risultati certamente più evoluti rispetto al
pensiero primitivo, ma che, nella complessa realtà psicologica, spesso
si intrecciano alla regressione o ne rappresentano un esito parziale: ci
riferiamo al pensiero magico ed al pensiero superstizioso.
Le teorie magiche, a partire dal Frazer5 e dal Lehmann6 e, in seguito, nei lavori di Marcel Mauss7 furono considerate anticipazioni del
pensiero scientifico in quanto cercano una interpretazione della realtà
naturale e forniscono modelli e schemi di intervento per modificarla.
Nella classica formulazione freudiana, i meccanismi arcaici di funzionamento, legati comunque ad una regressione, seppure a livelli meno
antichi, che costituiscono il nucleo del pensiero magico e superstizioso,
si contrappongono, innanzitutto, ai più evoluti meccanismi logico–
deduttivi del pensiero scientifico. Regredendo, il paziente ripercorre a
ritroso le vie che la psicologia e la psicoanalisi hanno studiato nelle
prime tappe dello sviluppo psichico infantile, e poi ritrovato in talune
patologie mentali, e che, come già visto, la antropologia e la etnologia,
ci hanno dimostrato caratteristiche di popolazioni e civiltà primitive. Il
pensiero magico e il pensiero superstizioso si caratterizzano infatti per
l’onnipotenza del pensiero, in base alla quale non è necessario alcun reale nesso, empiricamente osservabile e misurabile, di causa–effetto, per
spiegare la successione di due fenomeni e collegarli l’uno all’altro (cura–guarigione, maledizione–morte, causa patogena–affezione morbosa),
mentre predominano i principi associativi (magia imitativa, magia per
contagio), confondendo analogia con causalità8. Il magico è infatti «una
controparte delle attività quotidiane, per cui i risultati desiderati sono
prodotti dall’azione» e
5
Frazer J., Il Ramo d’Oro, Boringhieri Torino.
Lehmann A., Aberglaube und Zauberei, Enke, Stüttgart 1898.
7
Mauss M., Definizione della Magia in: Sociologie et Anthropologie, Paris 1950 P.U.F.,
Trad. Ital. Teoria Generale della Magia, Einaudi, Torino 1965.
8
Jahoda G., Psicologia della Superstizione, Mondadori, Milano 1972 (ed. Or. 1969).
6
Stefano Caracciolo
42
La profezia tende ad essere esaudita per il fatto che lo stregone, introducendo
nella mente della vittima la credenza che arti morali siano state praticate contro
di lui, può percuoterlo con questa idea come con un’arma materiale9.
Ma anche il medico introduce nella sua “vittima” determinate credenze, di cui si è convinto, che si possono trasformare in armi minacciose. Ecco quindi perché nel rapporto medico paziente risultano fondamentali gli aspetti ritualistici — irrazionali — della anamnesi,
dell’esame obiettivo, della prescrizione farmacologica in quanto rimedi magici ed onnipotenti che di per sé scacciano la malattia, indipendentemente dagli aspetti scientifici — razionali — cui è improntato
l’agire medico. Partendo da tali presupposti diviene più comprensibile
l’esistenza di fenomeni quali l’effetto placebo, il ricorso alle medicine
cosiddette alternative, ai guaritori, a certi tipi di omeopatia o pranoterapia in cui questi aspetti ritualistici vengono messi in primo piano dal
paziente e dal terapeuta. Ed è nello stesso rapporto medico–paziente
che tali aspetti finiscono con il divenire fondamentali in quanto spesso
il paziente, in preda all’angoscia di morte ed ai meccanismi difensivi
ad essa collegati, inconsciamente li ricerca; parallelamente si osserva
una più o meno consapevole politica di rifiuto da parte dei medici di
tutto quel complesso di atti e comportamenti verbali e non verbali che
a tale sfera irrazionale si riferiscono, con il pericolo di non capire il loro paziente e di non farsi capire da lui, e con le nefaste conseguenze
che si impongono sempre più spesso alla nostra osservazione: segnali
di una rottura del patto fra medicina e società.
2. La prescrizione farmacologica: alcune notazioni psicodinamiche
Nel colloquio clinico, il medico raccoglie e classifica segni e sintomi dal paziente per farli rientrare in suoi schemi diagnostici e terapeutici. In base a questi sintomi ed alla loro evoluzione nel tempo il
medico — ma anche il paziente — ricavano delle proprie teorie
sull’efficacia della terapia in atto. Tali teorie, lo affermiamo sulla base
delle considerazione già esposte, seguono linee guida e criteri basati
9
Tylor E.B., The Origins of Culture, Murray, Londra 1871.
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi
43
sul razionale scientifico e tecnico — questa è la origine della evidence–based medicine — ma hanno, contemporaneamente, una linea carsica di sviluppo di pensieri che affonda le radici nel pensiero magico e
superstizioso, e ciò non solo nel paziente ma — nessuno ostenti meraviglia — anche e soprattutto nel medico. Una semplice rassegna mentale del perché un medico — ciascuno di noi, con maggiore o minore
uso di razionalizzazioni secondarie — “preferisca” un farmaco o una
certa posologia rispetto a quelle canoniche, o come la tecnica possa
“evolvere” di fronte ad esperienze negative o traumatiche di trattamenti che non vanno a buon fine, ci costringe ad ammettere che spesso proprio il medico più attento al “razionale” delle terapia è quello
che rischia maggiormente di utilizzare inconsapevolmente meccanismi
di questo tipo.
La “compliance” si collega proprio alla qualità della relazione medico–paziente ed è buona se è vissuta positivamente da entrambi. Il rifiuto, assoluto o relativo, ad assumere farmaci può invece suggerire la
presenza di vissuti trasferali — e controtrasferali — negativi, anche in
un paziente che si dichiara e si dimostra del tutto collaborante. Una resistenza alla terapia farmacologica compare in genere quando
l’esperienza del paziente diviene preponderante rispetto alla fiducia
nel medico, anche se compare generalmente travestita, più o meno elegantemente, da paura dello stigma della malattia mentale, paura degli effetti collaterali, paura di identificarsi in altre persone, spesso
congiunti, affetti da grave patologia depressiva.
La proposta di un trattamento antidepressivo, anche se ineccepibile sul piano clinico, diviene allora uno spazio proiettivo su cui il
paziente dispiega le proprie fantasie inconsce, a sfondo, naturalmente, di colpa o di rovina. La necessità di un trattamento viene
vissuta ora come punizione ineluttabile, ora come fonte ulteriore di
inadeguatezza e perdita di speranza, ora come diagnosi temuta e finalmente concretizzata di “morte” psichica10. La prescrizione può
assumere sia l’aspetto benevolo di cura materna protettiva, sia quello di coercizione paterna autoritaria. Il farmaco può assumere la veste della panacea, fonte di eterna salute e giovinezza, configurando
10
Beitman B.D., Integrating Pharmacotherapy and Psychotherapy, B.D. Beitman & G.L.
Klerman Eds. American Psychiatric Press, Washington D.C. 1991.
Stefano Caracciolo
44
quella che è stata battezzata11 “sindrome di Dorian Gray”, ispirandosi al noto romanzo di Oscar Wilde, assimilato alla magica pozione della magia bianca, o rivestirsi della oscura potenza del letale
veleno della magia nera, che contemporaneamente punisce e libera
dalla sofferenza. Questa affermazione non sembrerà un’esagerazione dettata da enfasi poetica se pensiamo, ad esempio, alla fluoxetina e alle polemiche sull’abuso della c.d. pillola della felicità o
al suo presunto effetto suicidiario che non solo ha percorso i rotocalchi e i mass–media ma anche generato vari dibattiti, spesso aneddotici e superficiali, su grandi riviste internazionali12.
D’altra parte, le reazioni controtrasferali possono trovare frequenti vie di fuga nella prescrizione, come il modulare la dose
consigliata sulla base delle reazioni del paziente, o una inconscia
tendenza alla collusione con il paziente scarsamente collaborante
per potergli dimostrare, post hoc, gli effetti nefasti della scarsa
cooperazione13.
Quale atteggiamento, al contrario, potrebbe ridurre gli effetti di
queste dinamiche? La prima buona norma da rispettare è una semplice
e onesta informazione del paziente, che gli consenta in modo paritetico di monitorare l’andamento della terapia, la comparsa di effetti indesiderati, la prevedibile attesa del miglioramento. Se questo offre, naturalmente, spazio a tutte le possibili reazioni avverse, il cosiddetto “effetto nocebo”, quanto meno la presenza di questo spazio, empaticamente condiviso, sancisce la reale concretezza di quel contratto terapeutico che va negoziato, pena la comparsa nel paziente informato
(bene o male informato, si intende) di una istintiva sfiducia per la
comparsa dei sintomi avversi che egli temeva e che il medico non aveva saputo neppure prevedere. In questo senso, l’efficacia della farmacoterapia può, infatti, essere notevolmente incrementata da un’appropriata comprensione del processo terapeutico dal punto di vista
11
Brosig B., Kupfer J., Niemeier V., Gieler U., The “Dorian Gray Sindrome”: psychodinamic need for hair growth restorers and other “Fountains of Youth”. Int J Clin Pharmacol
Ther, 39:279–283, 2001.
12
Milane M.S., Suchard M.A., Wong M.L., Licinio J., Modeling of the temporal patterns of
fluoxetine prescriptions and suicide rates in the United States. PLOS Medicine, 3:816–824, 2006.
13
Book H.E., Some psycho–dynamics of non–compliance. Can. J. Psychiatry, 32, 115–
117, 1987.
La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi
45
psicodinamico e da un’attenzione per la tecnica di comunicazione interpersonale. Tutti i pazienti infatti devono avere, possibilmente, una
qualche forma di controllo autonomo rispetto alla decisione se prendere o no i farmaci, e per alcuni questo spazio autonomo è una condicio
sine qua non14.
La radice di questi meccanismi psicologici si trova spesso nelle dinamiche familiari inconsce. L’esplorazione, infatti, delle dinamiche
transferali mostra in alcuni casi la presenza di un sentimento di rabbia
di verso le figure genitoriali, colpevoli di non aver dato in modo adeguato sostegno e nutrimento ai pazienti. Il rifiuto del rapporto e la
mancata adesione al piano terapeutico può allora rappresentare una
forma di vendetta inconscia contro i genitori ed il fallimento di una terapia viene automaticamente vissuto come un segreto trionfo sul terapeuta e, retroattivamente, sui genitori15.
3. Esiste una dipendenza dagli antidepressivi?
In conclusione, merita un approfondimento il problema della dipendenza dagli antidepressivi, così frequentemente temuto dai pazienti
e tuttora così controverso in letteratura. Elenchiamo schematicamente
alcuni punti fondamentali del problema, senza pretese di esaustività di
una vexata quaestio ancora così dibattuta, seguendo lo schema proposto da uno dei più illustri esperti del problema: Peter M. Haddad16.
1. Tutte le categorie di antidepressivi (TCA, MAOI. SSRI, SNRI,
NASSA) possono dare sintomi dopo la interruzione, graduale o
brusca, della terapia, più facilmente e in modo più intenso se la terapia si è prolungata per più di 5 mesi o se la dose somministrata
era elevata;
14
Thomson E.M., Brodie H.K.H., The psychodynamics of drug therapy. Curr Psychiatric
Ther, 20, 239–251, 1981.
15
Gabbard G.O., Psychodynamic psychiatry in clinical practice. The DSM–IV Edition.
American Psychiatric Press., Washington D.C. 1994.
16
Haddad P.M., Do Antidepressants cause dependence? Epidemiologia e Psichiatria Sociale; 14:58–62, 2005.
46
Stefano Caracciolo
2. Questi sintomi recedono entro una settimana, e nella maggior parte
dei casi nel giro di due giorni;
3. Sono stati elencati più di 50 diversi sintomi, ma i più frequenti sono
nausea, vertigini, sonnolenza e cefalea; si tratta in buona sostanza
degli stessi sintomi collaterali tipici della fase iniziale del trattamento, e i sintomi sono gli stessi per i diversi farmaci utilizzati in
terapia, il che naturalmente sembra orientare verso una natura psicogena di questi disturbi;
4. Esiste una certa confusione concettuale anche in letteratura fra i
sintomi da sospensione e la astinenza, per cui non è facile orizzontarsi, anche se appare acclarato che una forma di dipendenza esiste
in modo evidente solo per alcuni farmaci ad azione — anche —
dopaminergica, e cioè, essenzialmente, per l’amineptina e la tranilcipromina. Di fatto, nessun farmaco antidepressivo è mai entrato
realmente nel “mercato nero” delle droghe psicostimolanti, il che
appare un indice empirico che testimonia la sostanziale estraneità al
fenomeno per la maggior parte degli antidepressivi in uso;
5. Non è mai stato osservato un aumento scalare della dose o un abuso
degli antidepressivi che giustifichi un meccanismo di assuefazione
o la facilità a sviluppare dipendenza, nemmeno in soggetti già affetti di disturbi da uso di sostanze.
Ancora una volta, dunque, anche per questo aspetto della prescrizione degli antidepressivi, risulta fondamentale una aperta discussione
con il paziente delle caratteristiche e dei rischi — a quanto risulta lievi
— di questi trattamenti per giungere attraverso un consenso informato,
allo sviluppo di una buona alleanza terapeutica.
Ma su questo concetto si avrà occasione di ritornare in un capitolo
successivo.
47
48
Stefano Caracciolo
La depressione e la somatizzazione
di SILVANA GRANDI E LAURA SIRRI
La definizione attualmente più diffusa e condivisa di somatizzazione è quella fornita da Lipowsky nel 1968, secondo la quale la somatizzazione rappresenta «la tendenza a provare e a comunicare sofferenza psicologica sotto forma di sintomi fisici e a cercare aiuto medico
per questi» (1).
Lipowski ha riconosciuto tre componenti della somatizzazione (1):
1. esperienziale;
2. cognitiva;
3. comportamentale.
La prima si riferisce alla percezione soggettiva di sensazioni, cambiamenti o sintomi provenienti dal proprio corpo. Probabilmente, questo elemento è conosciuto direttamente solo dal soggetto.
La componente cognitiva riguarda l’interpretazione (i significati
soggettivi attribuiti) delle sensazioni somatiche come segno di una
malattia grave e la presa di decisione sul da farsi rispetto ai sintomi.
Interviene infine la componente comportamentale: la comunicazione
verbale e non verbale della sofferenza fisica e le azioni concrete messe
in atto dal soggetto.
Lipowski distingue inoltre tra somatizzazione transitoria e persistente (1). Per somatizzazione transitoria si intende una modalità limitata nel tempo e non patologica di reagire ad una situazione stressante.
Quella persistente diventa oggetto di attenzione clinica per la sua durata ed intensità.
49
50
Silvana Grandi, Laura Sirri
1. Epidemiologia
1.1. La prevalenza della somatizzazione dipende dalla popolazione
considerata
Gli studi mostrano che tra il 10 e il 30% dei pazienti in medicina
generale e specialistica presenta sintomi fisici per i quali non è identificabile una chiara causa organica (2–5).
Nella popolazione generale americana è stato stimato che nell’arco di 6
mesi il 41% dei soggetti riporta mal di schiena, il 26% emicrania, il 17%
dolori addominali, 12% dolori al torace e il 12% dolore facciale (6, 7).
In almeno un terzo dei pazienti di medicina generale i sintomi fisici
possono essere spiegati da un disturbo psichiatrico florido o sottosoglia. Il 72% di questi riporta al medico uno o più sintomi somatici come problema principale. In tutti questi casi, è quindi necessaria
un’attenta valutazione psicologico–psichiatrica per individuare la sofferenza psichica sottostante (8, 9).
In medicina specialistica più del 20% delle visite in ambulatori non
riscontra una chiara spiegazione organica per i sintomi fisici presentati. I più comuni sono: dolore addominale e toracico, dispnea, emicrania, fatica, tosse, mal di schiena, vertigini, nervosismo (10).
Secondo l’American Hospital Association nel 5,2% dei pazienti ospedalizzati non è possibile stabilire una diagnosi medica specifica (11).
2. Somatizzazione e disturbi depressivi
Le evidenze indicano una stretta associazione tra somatizzazione e
disturbi psichiatrici, soprattutto ansiosi e depressivi (1, 3, 12–24). Secondo studi psicofisiologici alcuni sintomi somatici funzionali sono
più frequenti nei disturbi ansiosi (es. palpitazioni, iperventilazione,
sudorazione), altri sono più caratteristici della depressione (es. anoressia, stanchezza) e molti sono ugualmente associati all’ansia e alla depressione (es. sintomi gastrointestinali) (2, 3).
I dati pubblicati rendono ugualmente sostenibile la tesi secondo la
quale la depressione è causa della somatizzazione e quella secondo cui
manifestazioni di somatizzazione sono la causa di depressione.
La depressione e la somatizzazione
51
È stato osservato che i pazienti depressi riportano più sintomi somatici rispetto ai non depressi.
In particolare, metà dei soggetti con depressione presenta sintomi
somatici non spiegabili da un punto di vista medico, soprattutto dolore
cronico. D’altra parte, i pazienti che somatizzano mostrano tassi di
depressione più elevati rispetto a quelli con disturbi somatici per i
quali è stata identificata una causa organica (3–5, 25).
Nel 1999 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha condotto uno
studio multicentrico ed internazionale su circa 26.000 pazienti reclutati in servizi di cura primaria (22). Tra coloro che rispondono ai criteri
diagnostici per la depressione maggiore in media il 50% (range 30–
62%) presenta sintomi somatici funzionali non spiegabili da un punto
di vista medico. Il 69% (range 45–95%) lamenta esclusivamente sintomi somatici, mentre l’11% (range 2–26%) nega la presenza di sintomi psicologici come causa del suo malessere (es. umore depresso,
senso di inutilità) (22).
2.1. Fenomenologia
I sintomi somatici funzionali più frequentemente associati ai disturbi depressivi comprendono: stanchezza, facile affaticabilità, perdita di energie, mialgie diffuse, dolori al collo, alla schiena, alle gambe
(es. cefalea muscolo–tensiva) (12, 15, 17, 19, 23, 24, 26–28).
È possibile poi identificare alcune categorie specifiche di sintomi
somatici funzionali, spesso correlati alla depressione, classificabili in
sintomi somatici gastrointestinali e in sintomi associati a stanchezza e
dolori muscolari (28).
I primi possono provenire da tutto il tratto gastro–enterico: secchezza della bocca, perdita dell’appetito, stipsi, crampi e dolori addominali, sindrome dell’intestino irritabile (27).
Le manifestazioni somatiche connesse a stanchezza e dolori comprendono: debolezza, stanchezza, astenia, sensazione di ripienezza o
pesantezza e dolenzia. Possono arrivare ad avere le caratteristiche del
dolore vero e proprio, più o meno diffusamente localizzato ai muscoli
o agli organi interni. La fatica muscolare è generalmente localizzata a
livello delle estremità (es. braccia e gambe) (19). Il paziente con depressione spesso attribuisce le difficoltà lavorative e nello svolgimento
Silvana Grandi, Laura Sirri
52
delle mansioni domestiche proprio alla stanchezza e alla sensazione di
pesantezza agli arti (28).
I dolori muscolari sono in genere localizzati alla schiena, al collo e
alle spalle e sono avvertiti come tensione e mal di testa. La sensazione
di ripienezza o pesantezza è generalmente localizzata al petto (viene
spesso riportata come “un malessere al petto”) all’addome e alla testa
(27, 28).
2.2. Principali ipotesi esplicative della relazione depressione–
somatizzazione
Sono riconducibili ai seguenti concetti:
1.
2.
3.
4.
modello della “percezione selettiva”;
depressione mascherata;
equivalente depressivo;
somatizzazione come meccanismo di negazione della sofferenza
psicologica.
1. Percezione selettiva
Robert Kellner (2, 29, 30) ha proposto il modello della “percezione
selettiva” per spiegare, come in un “circolo vizioso”, si sviluppino sintomi somatici funzionali ed ipocondriaci a partire da uno stato depressivo o ansioso.
Se durante uno stato di ansia o di depressione un soggetto sperimenta nuovi sintomi somatici, è probabile che questi vengano interpretati in senso pessimistico e che si sviluppi ansia per la salute. Questa favorisce una percezione selettiva delle sensazioni somatiche:
l’attenzione per il proprio corpo è tale che anche la più piccola variazione fisiologica (es. aumento del battito cardiaco sotto sforzo) viene
percepita, “ascoltata” ed amplificata, aumentando a sua volta l’ansia
per la salute. Se tale meccanismo persiste nel tempo, può portare allo
sviluppo di sintomi somatici funzionali (le sensazioni fisiologiche amplificate dall’ansia) e a convinzioni ipocondriache (29, 30).
La depressione e la somatizzazione
53
2. Depressione mascherata
È stato riportato che in alcuni casi i sintomi somatici funzionali
possono essere così intensi ed invalidanti da rappresentare l’elemento
di maggiore rilevanza nel contesto di una sindrome depressiva (1–3).
Ed anche la descrizione del proprio disturbo e la richiesta di aiuto da
parte del paziente sono focalizzate sulle manifestazioni somatiche.
Questa osservazione ha condotto alcuni autori ad ipotizzare che i sintomi somatici funzionali possano in alcuni casi “mascherare” un disturbo affettivo “sottostante” (31).
3. Equivalente depressivo
Alcuni autori considerano la somatizzazione come un equivalente
depressivo: una condizione in cui in assenza di sintomi depressivi (es.
umore depresso) è presente una forma di somatizzazione che ha la stessa eziologia, decorso e risposta al trattamento di un disturbo depressivo
(32). La depressione sarebbe cioè sostituita, “rimpiazzata” totalmente
dalla somatizzazione. Al momento non sono comunque disponibili risultati empirici certi che possano suffragare questa ipotesi (2).
4. Somatizzazione come negazione della sofferenza psicologica
Secondo questa ipotesi, la somatizzazione rappresenterebbe un
meccanismo di difesa teso ad evitare la consapevolezza di sofferenza
psicologica, che viene “sostituta” dai sintomi somatici. La somatizzazione prevarrebbe quindi nelle culture dove la sofferenza psichiatrica è
maggiormente oggetto di stigma sociale (22, 33). A questo proposito,
la somatizzazione è stata collegata all’alessitimia (l’incapacità di descrivere le emozioni) (22, 34).
2.3. Assessment della somatizzazione
L’assessment del paziente con somatizzazione dovrebbe integrare:
— eterovalutazione (colloqui, interviste semi–strutturate, rating scales) ed autovalutazione (questionari),
54
Silvana Grandi, Laura Sirri
— approccio categoriale, nosografico–descrittivo (DSM–IV, DCPR)
e approccio dimensionale (valutazione della gravità).
Per la valutazione dimensionale della somatizzazione sono disponibili sia strumenti autovalutativi sia eterovalutativi. I primi comprendono soprattutto il Symptom Questionnaire (SQ) (35), l’Illness Behavior Questionnaire (IBQ) (36) e le Illness Attitude Scales (IAS) (37).
Il SQ di R. Kellner (versione italiana di S. Grandi) quantifica le
principali forme di sofferenza psicopatologica (ansia, depressione,
somatizzazione, rabbia/ostilità), con particolare attenzione alle manifestazioni psicofisiologiche. L’IBQ di I. Pilowsky (versione italiana di
G.A. Fava e M. Bernardi) valuta le componenti del comportamento
abnorme di malattia. Le IAS di R. Kellner (versione italiana di S.
Grandi) rappresentano lo strumento d’elezione per misurare paure,
convinzioni ed atteggiamenti dello spettro ipocondriaco, che sono frequenti tra i soggetti che somatizzano.
Tra gli strumenti dimensionali eterovalutativi risulta particolarmente utile la Scala di Hamilton per la Depressione (HDS) e per la Melanconia (MES), che valuta la gravità della depressione focalizzandosi sui
sintomi somatici (28). È quindi molto idonea per la valutazione delle
forme di somatizzazione secondarie a disturbi affettivi.
Gli strumenti categoriali che hanno ricevuto consenso e diffusione
a livello internazionale sono rappresentati dal Manuale Diagnostico e
Statistico dei Disturbi Mentali (DSM–IV) (38) e dalla Classificazione
Internazionale delle Malattie (ICD–10) (39). Nella sezione dei disturbi
somatoformi sono descritte sindromi psichiatriche caratterizzate da
sintomi fisici che farebbero pensare ad una patologia organica, ma per
le quali non viene riscontrata alcuna alterazione organica che potrebbe
esserne la causa.
A metà degli anni ‘90 sono stati inoltre introdotti da Fava e coautori i Criteri Diagnostici per la Ricerca in Psicosomatica (DCPR) (40,
41). I DCPR traducono variabili psicosociali, frequentemente osservate in svariati disturbi medici e funzionali, in categorie diagnostiche dotate di significato prognostico e terapeutico. Quattro delle 12 sindromi
DCPR riguardano il fenomeno della somatizzazione: somatizzazione
persistente, sintomi funzionali somatici secondari ad un disturbo psichiatrico, sintomi di conversione e reazione agli anniversari.
La depressione e la somatizzazione
55
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Silvana Grandi, Laura Sirri
Nuovi approcci nella terapia della depressione:
il Modello Sequenziale Psicofarmacologico
di SILVANA GRANDI
Studi longitudinali hanno evidenziato come la depressione maggiore rappresenti un disturbo tendenzialmente cronico e ricorrente. Entro
un anno dal termine della terapia farmacologica almeno un terzo dei
pazienti presenta una ricaduta (1–3).
L’80% dei soggetti che hanno sviluppato un episodio depressivo
maggiore riporta almeno un nuovo episodio nel corso della vita. Per
questi casi è stato introdotto il concetto di disturbo depressivo ricorrente (2).
Solo in una minoranza di pazienti, infatti, gli episodi depressivi sono separati da periodi di alcuni anni asintomatici. Nella maggioranza
dei casi gli episodi maggiori sono frequenti e seguiti da una remissione parziale caratterizzata dalla persistenza di svariati sintomi residui
subclinici (4, 5).
Secondo gli studi empirici i sintomi residui interessano dal 32
all’88% dei pazienti con depressione maggiore. I sintomi residui più
frequenti sono rappresentati da irritabilità, ansia e difficoltà interpersonali (4, 6).
La depressione maggiore appare quindi un disturbo che accompagna il corso di vita del paziente con numerose recidive (in media un
episodio maggiore ogni cinque anni) (7).
La persistenza di sintomi residui e la numerosità degli episodi depressivi sono i principali fattori predittivi di ricaduta entro un anno dal
termine della terapia. I sintomi residui possono infatti progredire e diventare i prodromi del nuovo episodio (4, 8, 9).
Lo studio della relazione tra sintomatologia residua e prodromica (della ricaduta) ha evidenziato come la fase di remissione tenda
a ricapitolare in ordine inverso la comparsa dei sintomi: gli ultimi
sintomi che spariscono sono quelli comparsi per primi. Questo
59
60
Silvana Grandi
meccanismo è stato definito da Detre e Jareki come fenomeno del
rollback (10).
In psichiatria e psicologia clinica diverse strategie sono state proposte per la gestione clinica della depressione ricorrente. Sono finalizzate alla riduzione di ricadute e recidive e sono riconducibili a:
1.
2.
3.
4.
5.
farmacoterapia di mantenimento;
farmacoterapia prolungata;
farmacoterapia intermittente;
combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia;
modello sequenziale.
1. Farmacoterapia di mantenimento
Propone la continuazione della terapia farmacologica antidepressiva anche in seguito al raggiungimento di un periodo di remissione di
almeno 4–6 mesi (11).
Si basa sull’evidenza che il mantenimento del trattamento antidepressivo è associato ad un tasso di ricaduta significativamente inferiore rispetto al placebo e alla cessazione della terapia (11). È stato stimato che la somministrazione di placebo in seguito alla terapia antidepressiva è associata ad un tasso di ricaduta del 41%, mentre solo il
18% dei pazienti che continuano ad assumere il farmaco attivo presenta ricaduta (11).
Questa strategia presenta tuttavia alcuni limiti.
• Innanzitutto, è necessario ricordare che la maggior parte degli studi
sull’efficacia di questo approccio ha un follow up limitato (1 anno),
che non permette di confermare l’efficacia di un trattamento tendenzialmente a lungo termine (1).
• È stato osservato che la durata del trattamento di mantenimento
non sembra influire sulla prognosi una volta che la terapia viene
terminata (12). Dal punto di vista clinico è quindi possibile tradurre questa evidenza nella constatazione che trattare un paziente con depressione per tre mesi o per tre anni non ne influenza la
prognosi.
Il Modello Sequenziale Psicofarmacologico
61
• È stata evidenziata perdita di efficacia clinica nel tempo: secondo
alcuni studi (12, 13) all’aumentare della durata della terapia aumenta la probabilità di ricaduta.
• Il mantenimento della farmacoterapia implica la persistenza di effetti collaterali nel tempo (1).
• Sembra inoltre dubbia l’efficacia di questo approccio nel prevenire
le ricadute nei pazienti con forme più lievi di depressione (14).
2. Farmacoterapia prolungata
L’evidenza di un decorso generalmente cronico e ricorrente della
depressione maggiore ha portato alcuni autori a proporre la somministrazione di antidepressivi per tutto l’arco di vita del paziente (15).
Questo approccio mostra ovviamente alcuni punti di debolezza.
• È molto difficile riuscire a comunicare e soprattutto a fare accettare
ai pazienti questo progetto terapeutico (12, 16).
• I soggetti possono infatti essere scoraggiati e non mantenere una
compliance adeguata al trattamento, soprattutto a causa della permanenza di fastidiosi effetti collaterali, che possono minare profondamente la qualità di vita (ad esempio, aumento ponderale, disfunzioni sessuali).
• Ad oggi, questa strategia terapeutica non sembra sufficientemente
supportata dagli studi empirici, che hanno preso in considerazione
follow up al massimo di 5 anni (1, 15).
• È stata documentata una perdita di efficacia clinica del trattamento
antidepressivo prolungato nel tempo: dal 9 al 57% dei soggetti in
terapia a lungo termine presentano infatti una ricaduta (17). La perdita di efficacia potrebbe essere spiegata da diversi fattori, tuttora
in corso di valutazione. Le principali ipotesi riguardano: lo sviluppo di tolleranza farmacologica, un possibile aumento della gravità
del disturbo, la perdita dell’effetto placebo connaturato a tutti i trattamenti (1, 17).
62
Silvana Grandi
3. Farmacoterapia intermittente
Propone la cessazione della farmacoterapia al momento della remissione e il suo ripristino tempestivo (con lo stesso farmaco o con altri antidepressivi) appena ricompaiono i sintomi prodromici di un
nuovo episodio (18).
Si basa sulla constatazione clinica secondo la quale, una volta superata la fase acuta, molti pazienti cessano l’assunzione farmacologica
indipendentemente dalle prescrizioni mediche.
Anche se prevede periodi liberi dagli effetti collaterali, presenta alcuni svantaggi:
• possibilità che compaia il fenomeno della resistenza: una diminuzione della risposta alla terapia precedentemente interrotta (13).
Nel 38% dei pazienti trattati con fluoxetina è stata osservata una
mancata risposta oppure una risposta iniziale seguita da ricaduta
dopo la ripresa del farmaco (19);
• Questo approccio potrebbe aumentare il rischio di sindrome da discontinuazione, che è stato osservato soprattutto con i farmaci inibitori del reuptake della serotonina (SSRI) (20).
4. Combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia
Negli ultimi due decenni è aumentato l’interesse per l’applicazione di
strategie psicoterapeutiche ai disturbi affettivi. In particolare è stata dimostrata l’efficacia della terapia cognitivo–comportamentale (CBT) nel trattamento della depressione maggiore resistente ai farmaci antidepressivi
(21, 22). Queste evidenze hanno indirizzato alcuni autori a prendere in
considerazione la combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia come
possibile strumento utile a contrastare il problema delle ricadute.
Tuttavia, la proposta di un simile approccio integrato si basa su di un
modello additivo, desueto, poiché legato ad una visione statica della malattia, senza tenere conto dello sviluppo longitudinale dei disturbi (21, 23, 24).
Negli anni Novanta Emmelkamp (25) per primo ha sollecitato l’uso
consecutivo di strategie terapeutiche differenti e la necessità di verificarne l’efficacia con studi controllati.
Il Modello Sequenziale Psicofarmacologico
63
5. Modello sequenziale
È stato sviluppato da Fava, Grandi e collaboratori (9, 21, 26) partire
dagli anni Novanta e consiste nella somministrazione di farmacoterapia durante la fase acuta, seguita da CBT (ristrutturazione cognitiva e
assegnazione di compiti) nella fase residua.
Una volta superata la fase acuta, i farmaci antidepressivi vengono
diminuiti gradualmente, portati al dosaggio terapeutico minimo ed eliminati.
Questo approccio è specificatamente finalizzato alla prevenzione
delle ricadute attraverso l’abbattimento dei sintomi residui, l’aumento
del benessere psicologico e delle strategie di coping adattive e la modificazione di stili di vita disfunzionali (26–30).
Il modello sequenziale supera quindi la modalità tradizionale di integrazione simultanea di ingredienti terapeutici diversi e si basa sullo
studio della stadiazione dei disturbi (21, 23).
Fava e coautori (9, 31–34) hanno confrontato la somministrazione
della CBT con il clinical management in pazienti in fase di remissione
dopo farmacoterapia per il disturbo depressivo maggiore. Nei soggetti
trattati con CBT è stato evidenziato un tasso di ricadute significativamente inferiore. Questi risultati sono stati riportati sia nei pazienti trattati per un primo episodio di depressione maggiore (9, 31, 32), sia nei
pazienti con depressione maggiore ricorrente (33, 34), con follow up
fino a 6 anni.
Nella Tabella 1 sono riportate le percentuali di ricaduta dei pazienti
con depressione trattati secondo i principi della terapia sequenziale e
di quelli trattati con terapia farmacologica seguita da clinical
management.
Anche l’applicabilità della terapia sequenziale presenta alcune difficoltà (1):
• è necessario un livello elevato di motivazione da parte del paziente,
a cui viene proposto di sottoporsi ad un trattamento psicoterapeutico breve (10–30 sedute) nonostante l’apparente remissione dopo la
fase acuta.
• Sono necessari psicoterapeuti con specifiche competenze ed addestramento nella CBT.
64
Silvana Grandi
Tabella 1. Percentuali di ricaduta dopo CBT o clinical management.
Pz. a 2 anni dal 1° episodio di MDD
(Fava et al., 1994)
Pz. a 4 anni dal 1° episodio di MDD
(Fava et al., 1996)
Pz. a 6 anni dal 1° episodio di MDD
(Fava et al., 1996)
Pz. con MDD ricorrente a 2 anni
dall’ultimo episodio
(Fava et al. 1998)
Pz. con MDD ricorrente a 6 anni
dall’ultimo episodio (Fava et al. 2004)
CBT per i sintomi
residui
Clinical
Management
15%
35%
35%
70%
50%
75%
25%
80%
40%
90%
Il Modello Sequenziale Psicofarmacologico
65
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68
Silvana Grandi
69
70
Silvana Grandi
Il rischio di suicidio nella depressione:
valutazione e prevenzione
di STEFANO CARACCIOLO
1. Introduzione
To be, or not to be — that is the question.
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them? To die, to sleep;
No more? And by a sleep, to say we end
The heart–ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to.
Essere, o non essere: ecco il problema.
Se sia più nobile per la mente patire
I sassi e le frecce dell’oltraggiosa sorte,
oppure armarsi contro un mare di guai
e all’opposto porvi fine? Morire, dormire,
Niente di più? E, con il sonno, dire che mettiamo fine
Ai mali del cuore e alle mille offese della natura
Che l’essere carne ci trasmette.
William Shakespeare, Hamlet, Atto III, ca. 16001
Il celebre monologo dall’Amleto di Shakespeare mette in scena i
pensieri di un uomo disperato che, di fronte ad un’esistenza orribile,
medita sul significato della vita e valuta se gli sia possibile affrontarla
o non sia preferibile porre fine alle proprie sofferenze con un sonno
mortale. Si tratta di un lucido resoconto del labirinto di spinte emotive
e pensieri razionali in cui si trova la persona che vive una situazione
1
Shakespeare W., Teatro Completo, Vol. III, I Drammi Dialettici, Mondadori, Milano
1994; (T.d.A.).
71
72
Stefano Caracciolo
disperata, nel momento in cui, cioè, ha letteralmente perso ogni speranza. Il soggetto si sente in trappola, non vede vie d’uscita, sente che
deve fare qualcosa ma la sofferenza lo acceca, teme e desidera allo
stesso tempo sia la vita sia la morte. Ha bisogno disperato di qualcuno
a cui aggrapparsi e rifiuta l’aiuto di tutti. Mette l’altro di fronte ad un
paradosso, in un vicolo cieco. E quando l’altro che si trova di fronte è
un medico?
«Essere o non essere: ecco il problema». La persona che lo sta affrontando entra spesso, seppure in momenti e modi diversi, in contatto
con un medico, nel corso dello sviluppo delle dinamiche psichiche che
evolvono in un comportamento suicidario, definite come il “processo
suicidario”2, in cui interagiscono eventi del mondo esterno ed elementi
del mondo interno.
È noto da tempo3 che almeno metà delle persone che si suicidano
hanno visto un medico nelle settimane precedenti la morte. Altre sono
accompagnate dopo un episodio autolesivo, in corso di emergenza, in
ospedale generale dove un medico deve affrontare la gestione della
crisi suicidaria e prendere decisioni fondamentali. In queste situazioni
il ruolo del medico viene messo drasticamente in crisi dal paziente con
idee suicide, per molti motivi, fra loro intrecciati. Il primo livello è
quello, razionale, del bagaglio di cognizioni mediche e psichiatriche
cui ogni medico deve fare riferimento. Il secondo, altrettanto importante del primo, è quello delle emozioni che il medico vive, in relazione anche alla sua posizione personale di fronte all’idea di suicidio. Ha
avuto precedenti esperienze di contatto con persone in crisi suicidaria,
sul piano personale e/o professionale? Si riconosce, in qualche modo,
in una posizione personale di natura etica, giuridica, filosofica o religiosa in base alla quale il suicidio è un atto illecito e da combattere o
condannare? Ritiene che solo persone affette da disturbi mentali possano nutrire certe idee, e si sente pertanto autorizzato a interpretare
ogni idea suicidaria come un sintomo patologico e, quindi, a “curarla”,
se necessario contro la volontà dell’interessato? È preoccupato dalle
possibili conseguenze sul piano giuridico dei suoi atti professionali nei
2
Retterstøl, N., The Suicidal Process. In: Suicide. A European perspective. Cambridge
University Press, Cambridge (UK) 1993, pp. 135–140.
3
Barraclough B., Bunch J., Nelson B., A Hundred cases of Suicide: Clinical Aspects. British Journal of Psychiatry, 125: 355–373, 1974.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
73
confronti del paziente? Si sente in grado di gestire con il suo consueto
senso di responsabilità una situazione medica in cui il paziente nasconde deliberatamente i contenuti dei suoi pensieri ed i suoi intendimenti e non accetta di lasciarsi visitare se non in modo strumentale ai
suoi fini, simulando una fiducia o un miglioramento psichico che non
ci sono? E come può esercitare una funzione medica, di diagnosi e cura, se vengono meno i presupposti di lealtà e di fiducia reciproca? A
questi interrogativi il presente contributo si propone di dare sommariamente risposta.
2. Definizioni
Sul piano scientifico, il concetto di rischio suicidario è collegato a
diverse variabili, di natura biologica, psicologica e sociale, associate
alla probabilità statistica che un soggetto presenti un comportamento
suicidario in un dato periodo di tempo. Come si vedrà nel seguito, gli
elementi più potenti in senso predittivo sono due: la chiara determinazione di morte dell’individuo ed il periodo di tempo preso in esame
per valutare il rischio.
Una prima definizione di rischio suicidario é quella in cui si definisce la probabilità teorica che un soggetto appartenente ad una certa
popolazione presenti condotte suicidarie, generalmente riferita ad un
periodo di un anno solare. È bene precisare subito che in questo tasso
di rischio, ricavato a posteriori dai dati epidemiologici, si deve distinguere il rischio di suicidio da quello di parasuicidio. I due fenomeni
appaiono, infatti, fra loro separati per quanto riguarda le motivazioni, i
metodi, la determinazione a morire. La necessità dell’introduzione del
termine parasuicidio, che si deve a Kreitman4,5, è legata alla acquisizione del fatto che non tutti i parasuicidi sono dei tentati suicidi. La
definizione delle condotte suicidarie presenta, infatti, notevoli problemi d’ordine teorico legati al fatto che si tratta di comportamenti definiti solo post hoc e spesso su base indiziaria, in assenza di notizie di4
Kreitman N., Parasuicide, Wiley, New York 1977.
Kreitman, N., How useful is the prediction of suicide following parasuicide? in Wilmotte J. & Mendlewicz J., (Eds.), New Trends in Suicide Prevention, Karger, Basel 1982.
5
74
Stefano Caracciolo
sponibili o senza avere certezza dell’attendibilità dei dati raccolti. Il
parasuicidio, pertanto, comprende tutti i cosiddetti tentati suicidi, in
cui alla definizione precedente si deve aggiungere un desiderio esplicito, più o meno determinato, di morire, ed anche i cosiddetti mancati
suicidi, ovvero gli atti in cui oltre alla determinazione a morire si possano ravvisare metodi effettivamente idonei a provocare la morte che
non hanno portato al suicidio per motivi del tutto indipendenti dalla
volontà e dal comportamento dei soggetti; ma, in più, comprende anche quei comportamenti più lievi e sfumati in cui la vita e la salute sono messe a repentaglio volontariamente ma senza una chiara volontà
di morire, ed i cosiddetti suicidi abortiti.
La distinzione fra suicidio e parasuicidio é usata principalmente in
Europa, mentre gli autori statunitensi preferiscono distinguere in un
continuum graduale, decrescente per letalità, il suicidio, il tentativo
di suicidio, i suicidi abortiti, i gesti suicidi (comportamenti suicidari
meno determinati alla ricerca della morte, con notevole componente
di teatralità manipolatoria) e gli equivalenti suicidari (comportamenti
autolesivi senza una chiara ideazione suicidaria). Quest’ultimo concetto è spesso criticato da chi non si riconosce nella teoria psicoanalitica, perché prevede conflitti inconsci legati a pulsioni autodistruttive e comprende le tossicomanie gravi, l’anoressia mentale, i comportamenti di grave rischio per l’incolumità senza un apparente desiderio di autolesione, come i cosiddetti “giochi di morte” tipici della
fase adolescenziale (sensation–seeking behaviors) e i comportamenti
con alta tendenza agli incidenti (accident–prone behaviors). @@
I due fenomeni del suicidio e del parasuicidio si differenziano
per numerose caratteristiche6: per quanto riguarda il suicidio,
l’incidenza è tre volte maggiore nei maschi rispetto alle femmine, si
distribuisce omogeneamente prima e dopo i 40 anni di età, è più
frequentemente associato a disturbi psichiatrici7; il parasuicidio invece, che costituisce di per sé un fattore di rischio per il suicidio8,
6
Beautrais A.L., Suicides and serious suicide attempts: two populations or one? Psychological Medicine 31: 837–45, 2001.
7
Murphy G.E., Suicide and Attempted Suicide, in Winokur G. e Clayton P. (Eds.), The
Medical basis of Psychiatry, pp. 562–579, W.B. Saunders & Co., Philadelphia 1986.
8
Tsoi W.F. e Kua E.H., Suicide following parasuicide in Singapore. British Journal of
Psychiatry, 151, 543–545, 1987.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
75
ha maggiore prevalenza nel sesso femminile e nelle fasce di età
giovanili.
Le correnti definizioni dei principali comportamenti suicidari sono
riportate in Tabella 1.
3. I dati dell’epidemiologia
La rilevazione attendibile di questo tipo di rischio dipende da una
corretta raccolta di dati nella popolazione, e la sua misurazione è tuttora insoddisfacente: in tutto il mondo i dati disponibili sull’incidenza
delle condotte suicidarie sono notevolmente carenti9, specialmente per
quanto riguarda il parasuicidio10.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha effettuato nel decennio
1990–2000 in Europa uno studio multicentrico sul parasuicidio11 (Platt
et al., 1992) proprio per ovviare alla carenza di dati epidemiologici attendibili sul fenomeno. Nell’esperienza italiana dei due centri reclutati
come Unità Operative della OMS (Ferrara–Reggio Emilia e Padova)
si è rilevata un’enorme discrepanza fra i dati ufficiali disponibili, che
mostravano tassi di suicidio maggiori di quelli del parasuicidio, e
quelli raccolti nel monitoraggio previsto dallo studio multicentrico
dell’OMS, in cui il rapporto è di 1 parasuicidio segnalato dai dati ufficiali per 10 registrati nel monitoraggio. In base ai dati epidemiologici
disponibili, una percentuale valutabile fra il 50 e 80% di tutti i soggetti
che vanno incontro a suicidio sono repeaters (recidive), mentre una
percentuale che oscilla fra il 2 ed il 10% dei soggetti con anamnesi
positiva per un parasuicidio va incontro a suicidio entro 5 anni; il
9
Schmidtke A., Fricke S., Weinacker B., et al., Suicide and Suicide Attempt Rates in Europe, 1989–1993, in De Leo D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide Prevention.
A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht–Boston–London 1998, pp. 67–80.
10
Crepet P., Caracciolo S., Casoli R., et al., Epidemiologia del tentato suicidio. Rivista
Sperimentale di Freniatria, CXV, 3, 362–371, 1991.
11
Caracciolo S., Abbati L., Casoli R., et al., Parasuicide in Emilia–Romagna, Italy 1989–
1992. In Kerkhof A.J.F.M., Schmidtke A., Bille–Brahe U., De Leo D., Lönnqvist J. (Eds.)
Attempted suicide in Europe. Findings from the Multicentre Study on Parasuicide by the
W.H.O. Regional Office for Europe. Psychological Studies Series n. 16, DSWO Press, Leiden
(Nederland) 1994, pp. 121–136.
Stefano Caracciolo
76
Tabella 1. Definizione dei Comportamenti Suicidari (modificata12)
SUICIDIO
Ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o
negativo compiuto dalla vittima medesima13.
MANCATO SUICIDIO
Atto autolesivo ad esito non fatale per fallimento accidentale di misure certamente idonee a causare suicidio.
PARASUICIDIO
Atto autolesivo ad esito non fatale in cui un soggetto deliberatamente intraprende
un comportamento non abituale sufficiente a provocargli, in assenza di interventi
esterni, una lesione corporea oppure ingerisce una sostanza in dose maggiore di
quella prescritta o generalmente riconosciuta come terapeutica 14, 15.
TENTATO SUICIDIO
Atto autolesivo non letale, consciamente tendente all’autodistruzione, anche
quando realizzato con modalità poco rischiose per la vita e/o con intenzionalità suicida assai modesta.
SUICIDIO ABORTITO
Atto autolesivo ad esito non fatale, nonostante misure certamente idonee a causare suicidio, a causa del desistere del soggetto dai suoi propositi, con o senza intervento di persuasione esterna.
EQUIVALENTI SUICIDARI
Atti o comportamenti autolesivi complessi e prolungati (automutilazioni, ricerca
continua di operazioni chirurgiche, anoressia mentale, tossicomanie, alcoolismo, accident–proneness e sensation–seeking behaviors) senza una chiara e consapevole
intenzionalità di morte o autodistruzione”.
12
Caracciolo S., Crepet P., La valutazione del rischio suicidario, in: Crepet P., Le Misure
del Disagio Psicologico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1994, pp. 79–98.
13
Durkheim È., Le Suicide. Ètude de Sociologie, Parigi 1897; edizione italiana Rizzoli, Milano 1987.
14
Kreitman N., Parasuicide, Wiley, New York 1977.
15
Platt S., Bille–Brahe U., Kerkhof A. et al. Parasuicide in Europe: the WHO/EURO
multicentre study on parasuicide. I. Introduction to the study and preliminary analysis for
1989, Acta Psychiatrica Scandinavica, 2, 97–104, 1992.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
77
rapporto fra tasso di parasuicidio e tasso di suicidio è valutato
nell’ordine di 10:116, contro un dato stimato dall’ISTAT negli stessi
anni di 1 a 217.
È peraltro accertato che le fonti di rilevazione ufficiale dei dati
non sono attendibili dal momento che alcuni studi preliminari di valutazione del fenomeno parasuicidio danno risultati decisamente in
linea con quelli della letteratura internazionale18, 19, poichè non esiste sul piano ufficiale un registro epidemiologico per il parasuicidio. Si tratta dunque di un fenomeno che, sia sul piano medico sia
su quello sociale, viene frequentemente nascosto a causa dello
stigma e della condanna sociale a cui spesso i soggetti vanno incontro. Anche questo rende assai problematico, come vedremo, un approccio preventivo.
4. Fattori di rischio di suicidio
Età: Il rischio di suicidio presenta un incremento con l’avanzare
dell’età, con un picco generalmente rilevabile oltre i 65 anni, mentre il
parasuicidio ha un andamento generalmente opposto rispetto all’età
per cui le fasce più esposte al rischio sono quelle giovanili fino a 40
anni di età; in adolescenza rappresenta la seconda causa di morte dopo
gli incidenti stradali20.
Sesso: il suicidio è significativamente più frequente nel sesso maschile ma tale tendenza presenta sensibili variazioni in relazione
all’ambiente socioculturale, tanto che in alcuni paesi del Nord Europa
il rapporto si inverte; per il parasuicidio è invece il sesso femminile
che presenta i tassi più elevati.
16
Crepet P., Baratti M., Caracciolo S. et al., Suicidal behaviour in Italy. Trends and guidelines for a suicide intervention/prevention policy, Suicide and Life–Threatening Behavior,
21, 3, 263–278, 1991.
17
Istituto Nazionale di Statistica. Le Regioni in cifre, 1993. ISTAT, Roma 1993.
18
De Leo D., Banon D., Citron P., Pavan L., Suicidio e tentato suicidio. Difficoltà di un
approccio epidemiologico. Rivista di Psichiatria, 23: 43–47, 1988.
19
Hawton K., Assessment of Suicide Risk, British Journal of Psychiatry, 140, 145–153, 1987.
20
Crepet P., Caracciolo S., Cappi S. et al.: Capitolo Terzo: Mortalità per suicidio e omicidio in età giovanile. In: Marco Geddes (a cura di) Rapporto sulla salute in Europa. Salute e
Sistemi Sanitari nell’Unione Europea, Roma: EDIESSE, 1995, pp. 57–70.
Stefano Caracciolo
78
Stato civile: anche questa variabile è risultata molto sensibile alle
variazioni socioculturali, anche se si è riscontrata generalmente una
maggiore incidenza nei soggetti non coniugati, separati, divorziati e
vedovi.
Religione: una maggiore incidenza delle condotte suicidarie si osserva nelle persone meno coinvolte dalle pratiche religiose, indipendentemente dal credo religioso; questo dato è stato peraltro criticato ed è tuttora considerato controverso.
Occupazione: la disoccupazione appare come uno degli indicatori
più potenti del rischio suicidario globale (ovvero sia per il suicidio che
per il parasuicidio) specialmente nella popolazione in età attiva dal
punto di vista lavorativo (20–44 anni di età).
Fattori climatici: esistono evidenze chiare che attestano che nei
climi caldi i tassi di suicidio e parasuicidio sono più bassi21, anche se
non esiste tuttora una spiegazione del fenomeno; anche la stagionalità
e i ritmi cronobiologici e cronopsicologici22, come l’ora del giorno23, e
altre variabili biologiche, come la colesterolemia24,25 appaiono giocare
un ruolo significativo, anche se molto rimane ancora da studiare in
proposito, specialmente nei parasuicidi condotti con metodi violenti26.
Fattori eredo–familiari: la presenza di casi di suicidio in anamnesi
rappresenta certamente un elemento di rischio, anche se nella maggioranza dei casi non si trovano precedenti familiari di suicidio; questa
osservazione viene generalmente interpretata come risultato della presenza di altri fattori (disturbi psichici, specialmente di tipo depressivo)
21
Retterstøl N., Suicide. A European perspective. Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1993, pp. 25–44.
22
Gallerani M., Avato F.M., Caracciolo S., et al., The Time for Suicide. Psychological
Medicine, 26: 867–870, 1996.
23
Manfredini R., Gallerani M., Caracciolo S., et al., Circadian variation of attempted suicide by deliberate self–poisoning: a chronobiological study. British Medical Journal, 309:
774–775, 1994.
24
Gallerani M., Manfredini R., Caracciolo S., et al., Serum cholesterol concentrations in
parasuicide, British Medical Journal, 310:1632–1636, 1995.
25
Manfredini R., Caracciolo S., Salmi R., Tomelli A., The Association of Low Serum
Cholesterol with Depression and Suicidal Behaviours: New Hypotheses for the Missing Link.
Journal of International Medical Research 28:49–59, 2000.
26
Caracciolo S., Manfredini R., Gallerani M., Tugnoli S., Circadian rhythm of parasuicide in relation to violence of method and concomitant mental disorder. Acta Psychiatrica
Scandinavica, 93: 252–256, 1996.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
79
a parziale trasmissione eredo–familiare che sarebbero i reali responsabili della maggiore incidenza in alcuni gruppi familiari rispetto ad altri: secondo questa interpretazione, pertanto, non sarebbe tanto il
comportamento suicidario ad essere trasmesso quanto una patologia
psichica che ne favorisce, secondariamente, la maggiore incidenza.
Disturbi psichiatrici: i disturbi dell’umore27, l’alcoolismo, la schizofrenia ed i disturbi della personalità (in particolare quelli antisociale
e borderline) sono stati indicati come i maggiori fattori di rischio suicidario in senso assoluto. Esiste peraltro la possibilità che i comportamenti suicidari si sviluppino in totale assenza di disturbi psichici in
una notevole percentuale dei casi (dal 20 al 40% a seconda delle varie
casistiche).
Disturbi organici: i comportamenti suicidari sono talora direttamente collegati a malattie fisiche, specie se gravi, croniche, invalidanti
o a prognosi infausta, generalmente in concomitanza ad un disturbo
depressivo generalmente ricondotto ad un disturbo dell’adattamento
con umore depresso.
Eventi stressanti psicosociali: Una serie di eventi psicosociali espone il soggetto che li affronta ad un elevato rischio suicidario. Fra i
più frequenti si possono citare il lutto, il licenziamento, il fallimento
economico, la violenza sessuale, l’emigrazione, le condanne con detenzione carceraria. Il denominatore comune in questi casi sembra
connesso alle dinamiche di colpa e di vergogna, con sentimenti di inferiorità e indegnità, all’isolamento sociale ed al ritiro.
5. La clinica: metodi e tecniche
Una seconda definizione, più globale, di rischio suicidario è quella
che riguarda la probabilità di una condotta suicidaria di un singolo individuo, indipendentemente dalla popolazione cui appartiene, sulla
base della costellazione individuale dei fattori genetici, psicosociali e
psichiatrici. A questo tipo di rischio suicidario fa riferimento la valutazione clinica del rischio suicidario da parte del medico in condizioni
27
Conwell Y., Duberstein P.R., Risk factors for suicide in later life. Biological Psychiatry
52:193–204, 2002.
Stefano Caracciolo
80
di emergenza28, con le conseguenti responsabilità sul piano diagnostico–clinico accanto a quelle di pertinenza medico–legale. Si dà nel seguito un breve resoconto, certamente schematico ed orientato in senso
pragmatico, di alcuni aspetti significativi della valutazione del rischio
suicidario nel corso di un colloquio clinico.
A seconda della tipologia del paziente si possono schematizzare
quattro situazioni tipiche:
1) pazienti che hanno appena tentato un suicidio;
2) pazienti che si rivolgono al medico presentando idee di suicidio;
3) pazienti che si rivolgono al medico con altre motivazioni ma che
esprimono idee di suicidio nel corso del colloquio;
4) pazienti che negano le idee di suicidio, ma mostrano nel comportamento elementi di potenziale suicidalità (generalmente sono accompagnati da parenti o amici).
Principi generali
— prendere sul serio tutte le minacce di suicidio, persino quelle più
lievi e inconsistenti, anche se appaiono nettamente manipolatorie;
— valutare bene, dedicando loro tempo ed attenzione per un efficace
ascolto, i pazienti che esprimono un senso di disperazione e di inutilità; i soggetti che credono che non ci sia una via di uscita per
i loro problemi sono quelli a rischio suicidario più elevato, ed un
atteggiamento frettoloso o distaccato offre loro una conferma
dell’inutilità di ogni sforzo;
— valutare bene i pazienti con storia di frequenti traumi o incidenti,
interrogandoli su eventuali problemi, sull’uso di alcool o droghe e
sui sentimenti di volersi far del male;
— valutare bene i pazienti con recente depressione e che migliorano
all’improvviso: un miglioramento apparentemente inspiegabile
può dipendere dal fatto che il soggetto pensa di aver risolto tutti i
suoi problemi decidendo di uccidersi; inoltre, alcuni farmaci antidepressivi agiscono più precocemente sulla inibizione psicomotoria che non sulla ideazione suicidaria, per cui si può verificare la
28
Balon R., Suicide: Can we predict it?, Comprehensive Psychiatry, 28, 236–241, 1987.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
81
situazione paradossale di un miglioramento indotto dai farmaci
che facilita una motivazione all’atto suicidario per cui il soggetto
fino a quel momento non aveva sufficiente determinazione;
— interrogare apertamente, avvertendo l’interessato, i familiari e gli
amici sul comportamento del paziente nel caso che questi rifiuti in
assoluto di parlare o di esprimere le sue idee di suicidio;
— se un paziente potenzialmente autoaggressivo vuole andarsene
prima del termine della consultazione, cercare in generale di trattenerlo almeno fino all’espletamento del colloquio.
6. Colloquio con il paziente con problemi di suicidio
Nel corso del colloquio si dovrà lasciare spazio alle diverse funzioni di ogni colloquio medico29, che si applicano, naturalmente, anche
per il colloquio con un soggetto in crisi suicidaria:
1. funzione di diagnosi: si propone l’obiettivo di determinare la natura
del problema, pervenendo ad una diagnosi nosografica in caso di
malattia, potendo così raccomandare misure terapeutiche e prevederne l’andamento;
2. funzione di relazione: si propone l’obiettivo di favorire lo sviluppo
ed il mantenimento di una relazione terapeutica, per dare sollievo ai
disturbi del paziente, sollecitare l’elaborazione negoziata di un piano terapeutico che tenga conto sia delle competenze mediche, sia
dei desideri del paziente, sia delle possibilità realisticamente disponibili, e che esiti con buona soddisfazione del medico, del paziente,
e delle altre persone coinvolte (famiglia, gruppo sociale di appartenenza, èquipe sanitaria);
3. funzione di comunicazione: si propone l’obiettivo di far capire al
paziente il suo disturbo e la natura della malattia, se si riscontra,
delle procedure diagnostiche e terapeutiche consigliate, ottenendo
sul piano razionale un consenso bene informato.
29
Lazare A., et al., Three Functions of the Medical Interview. In Lipkin Jr. S., Putnam S.,
Lazare A. (Eds.) The Medical Interview, Springer, New York 1989, p. 103.
Stefano Caracciolo
82
In corso di crisi suicidaria appare però specialmente necessario sottolineare maggiormente alcune variabili, che assumono speciale importanza in questo caso:
— tempo: il medico dovrebbe assicurarsi di avere il tempo e la tranquillità sufficienti per pianificare un colloquio che possa anche durare a lungo; in caso che queste possibilità non sussistano, è piuttosto consigliabile rimandare il colloquio ad un momento in cui tali
condizioni si verifichino, per quanto rischioso possa risultare il ritardo; è inoltre stato dimostrato30 che nell’intervista con il paziente
suicidario è importante soffermarsi su ogni aspetto senza tralasciare
nulla, se si vogliono raccogliere informazioni attendibili;
— empatia: il medico dovrebbe stabilire con il paziente un rapporto
empatico, mostrandosi calmo e comprensivo, evitando di criticarne le affermazioni e approfondendo via via, con circospezione, la
questione del suicidio, partendo dai sentimenti di tristezza o di disperazione da lui espressi di cui gli si trasmette la condivisione, e
procedendo gradatamente;
— rispetto: anche se spesso dai familiari si ottengono informazioni utili,
il paziente può trovare difficoltà nel parlare di idee di suicidio se non
gli si dà l’opportunità di parlare da solo con il medico, per cui i familiari vanno sempre tenuti fuori, in prima istanza, salvo naturalmente
poterli ammettere più tardi, previo consenso del paziente; un rifiuto
deciso di affrontare il colloquio da solo da parte del paziente depone,
in genere, per una diffidenza verso il medico, che diviene allora il
primo problema da affrontare, oppure per un tentativo in atto di dissimulare una già consolidata intenzione suicidaria; ambedue gli argomenti meritano di essere affrontati in modo esplicito, con domande chiare, semplici, dirette, rispettose della privacy ma prive di censure e di significati allusivi o nascosti;
— franchezza: parlando del suicidio non si corre il rischio di mettere
l’idea nella testa del paziente, come di sovente si teme; invece è
un errore evitare di discutere l’argomento per questo motivo. Al
contrario, il paziente che ha problemi di suicidio spesso si sente
30
Barber M.E., Marzuk P.M., Leon A.C. et al., Gate questions in psychiatric interviewing: The Case of Suicide Assessment. Journal of Psychiatric Research, 35: 67–69, 2001.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
83
sollevato se ne può parlare liberamente senza sentirsi giudicato,
accetta la lealtà e la franchezza dell’interlocutore nell’avvicinarsi
con rispetto al tema, allerta le sue reazioni aggressive solo se avverte un giudizio negativo del medico sul piano morale;
— ascolto: non è assolutamente utile cercare di far parlare il paziente di
altri argomenti, allo scopo di sviarlo dalle idee di suicidio; questa strategia risponde piuttosto ad un’esigenza di “fuga” dell’intervistatore;
per prendere una decisione sul da farsi, se possibile assieme al paziente, è invece importante ascoltare e valutare, eventualmente intervenendo solo per chiedere chiarimenti o ulteriori particolari ed evitando
di esprimere pareri, idee o convinzioni personali.
Il colloquio ha comunque l’obiettivo di valutare il paziente, con
domande aperte e stile non direttivo, per una serie di aspetti clinici su
cui raccogliere anche dati precisi:
1.
pensieri di suicidio (idee, desideri, motivi);
2.
intenzioni reali di suicidio (fino a che punto intende tradurre in
atto i pensieri);
3.
progetti concreti di suicidio:
¾ ha un piano dettagliato?
¾ ha a disposizione mezzi dannosi o letali (farmaci, armi)?
¾ è in grado di usarli?
¾ ci sono possibilità che possa essere salvato?
4.
valutazione dei fattori demografici e clinici di rischio di suicidio:
¾ sesso maschile;
¾ depressione maggiore;
¾ alcoolismo;
¾ precedenti di parasuicidio;
¾ stato civile(non coniugati/vedovi);
¾ età avanzata (picco: M: 75, F: 60);
¾ disoccupazione;
¾ patologie organiche (dolore cronico o malattia cronica, grave
o invalidante).
Stefano Caracciolo
84
La costruzione negoziata di un rapporto di fiducia franco, aperto e
reale può anche pervenire ad un’insolubile situazione di contrapposizione in cui il medico si dichiara obbligato ad intervenire in aiuto della
vita del paziente, contro la sua volontà, ma questo esito è molto raro,
se si seguono le procedure raccomandate. Nella maggior parte dei casi
non è affatto necessario dichiarare la propria convinzione oppure la
propria opposizione alle idee di suicidio, di fronte alla quali il paziente
non vede l’ora di poter reagire in modo transferale, coinvolgendo anche il medico nelle dinamiche psicologiche, più o meno profonde, che
lo motivano. Spesso, anzi, una dichiarazione esplicita di attenta e interessata neutralità da parte del medico rispetto ai desideri del paziente,
senza prendere posizione “pro” o “contro” il suicidio, sortisce proprio
l’effetto di “bonificare” lo spazio relazionale, restituendo al paziente
una rinnovata possibilità di autodeterminazione in cui il desiderio di
vita può riprendere il sopravvento sul desiderio di morte, con cui così
spesso coesiste. Questo lascia, naturalmente, spazio ad una necessità
da parte del medico di doversi fidare del paziente e rappresenta il
prezzo della restituzione al paziente della propria libertà.
Un terzo tipo di rischio suicidario è quello che si valuta, a posteriori, sulla popolazione dei soggetti che hanno già messo recentemente in
atto una condotta suicidaria, allo scopo di rilevare il peso delle variabili collegate al rischio e di valutare in senso prognostico le elevate
possibilità di recidiva nei soggetti a rischio (repeaters). La possibilità
di ripetizione del parasuicidio è peraltro legata, ovviamente, anche alla
storia psicoaffettiva del soggetto ed al mancato raggiungimento di
tappe evolutive (c.d. breakdown evolutivo); per l’approfondimento di
questi aspetti si rimanda ad altra sede31, 32.
Si accenna, in appendice, all’esistenza di diverse scale cliniche di
tipo psicometrico33, 34, 35, 36, concepite allo scopo di valutare il rischio
31
Laufer E., Suicide in adolescence, Psychoanalitic Psychotherapy, 3, 1–10, 1987.
Molinari S., Caracciolo S., Aspetti psicologici del suicidio, in L. Pavan e D. De Leo (a
cura di) Il Suicidio nel Mondo Contemporaneo, pp. 191–195, Liviana Editrice, Padova 1988.
33
Motto J.A. & Heilbron D.C., Development and validation of scales for estimation of
suicide risk, in E.S. Shneidman (Ed.), Suicidology, Contemporary Developments, pp. 169–
199, Grune & Stratton, New York 1976.
34
Stanley B., Traskman–Benz L., Stanley M., The Suicide Assessment Scale: a scale evaluating change in suicidal behavior. Psychopharmacology Bulletin, 22, 200–205., 1986.
35
Pallis D.J., Barraclough B.M., Levey A.B., et al., Estimating suicide risk among attempted
32
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
85
suicidario in modo standardizzato37. Si tratta per lo più di strumenti
con interessanti applicazioni al campo della ricerca ma ancora assai
insoddisfacenti sul piano clinico38, 39, sia per le scarse evidenze sulle
loro reali capacità predittive, sia perché nessuna di esse consente, naturalmente, le capacità di valutazione multidimensionale e metacomunicazionale di un approfondito colloquio.
7. Linee guida per una prevenzione
I comportamenti autolesivi sono sempre il risultato del sovrapporsi
di diversi fattori di varia origine, ed è pertanto ai diversi livelli di questi fattori che va orientata la progettazione di interventi preventivi. Il
concetto chiave, già classicamente dimostrato, è che nella maggior
parte dei casi il suicidio non è impulsivo e improvviso, quindi non è
inevitabile40.
7.1. Prevenzione primaria
La prevenzione primaria delle condotte suicidarie rappresenta
l’obiettivo più ambizioso delle linee di sviluppo delle tecniche di valutazione del rischio suicidario, dal momento che parte dall’identificazione di fattori predittivi, sul piano statistico ed epidemiologico, per
organizzare specifici progetti di intervento che riducano tale rischio, avendo come “target” la popolazione generale. La prevenzione primaria
resta pertanto, allo stato attuale delle conoscenze, un compito ancora
lontano dalle attuali possibilità d’intervento. La prevenzione dello svisuicides: I. The development of new clinical scales. British Journal of Psychiatry, 141:37–44, 1982.
36
Pierce D.W., The predictive validation of a suicide intent scale: a five year follow–up,
British Journal of Psychiatry, 139, 131–136, 1981.
37
Caracciolo S., Crepet P., La valutazione del rischio suicidario, in Crepet P., Le Misure
del Disagio Psicologico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1994, pp. 79–98.
38
Caracciolo S., Tomelli A., Molinari S., Assessing Suicidal Risk by Scales: Some Critical Remarks, in: Ferrari G., Bellini M., Crepet P. (Eds.), Suicidal Behaviour and Risk Factors.
pp. 743–747, Monduzzi Editore, Bologna 1990.
39
Cochrane–Brink K.A., Phil D., Lofchy J.S., et al., Clinical Rating Scales in Suicide
Risk Assessment, General Hospital Psychiatry, 22:445–451, 2000.
40
Moron P., Il Suicidio, Garzanti, Milano 1976.
Stefano Caracciolo
86
luppo delle tendenze al suicidio nella società e nei singoli individui, in
quanto soggetti inseriti nelle strutture del “network” sociale, si può attuare pertanto all’interno dei gruppi sociali in cui i fattori predisponenti
e/o scatenanti esercitano un effetto di facilitazione più significativo41.
Un approfondimento particolare, per cui si rimanda ad altra sede42, riguarda il problema assai delicato e controverso del ruolo della imitazione (o “contagio”) e del social modeling nell’indurre comportamenti suicidari. Il fenomeno, già noto fin dalla antichità nella descrizione di Plutarco43, è spesso definito con il termine di “effetto Werther”, in riferimento al noto romanzo di J.W. Goethe ed alla catena di suicidi che la
sua diffusione scatenò in Germania nel XVIII secolo per imitazione, ed
ha avuto un recente caso di interessante rappresentazione letteraria nel
romanzo “Neve” dello scrittore turco Orhan Pamuk.
In base ai dati di letteratura, comunque, il contagio appare più significativo se il soggetto primer o induttore, da cui deriva l’imitazione, è vicino al soggetto target, o imitatore. È presumibile che il
meccanismo psicodinamico più forte sia in questi casi l’identificazione, il che spiega la notevole efficacia dell’imitazione nel contagio familiare (genitori o parenti significativi morti di suicidio) e nel
contagio scolastico o sentimentale (suicidi di coppia o suicidi/omicidi), o nell’induzione da parte di meccanismi di identificazione
spuria, sulla base di spettacoli televisivi o cinematografici in cui si
metta in scena un suicidio44.
In generale, si tratta quindi di interventi da sviluppare nei mezzi di
comunicazione di massa, nella scuola, all’interno della famiglia e a livello della assistenza medica di base. La prevenzione primaria delle
condotte suicidarie é collegata, infatti, alla prevenzione primaria dei
41
p. 77.
Pommereau X., La Tentazione Estrema, Pratiche editrice, Milano 1999, (Ed. Or.: 1996),
42
Caracciolo S., Tomelli A., Crepet P., Quando il filo si interrompe. Il servizio psichiatrico e la famiglia di fronte al suicidio, in P. Crepet, Le Dimensioni del Vuoto. I giovani e il suicidio, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 54–83.
43
Fornari F., Nota sulla psicoanalisi del Suicidio, in Suicidio e Tentato Suicidio in Italia,
Giuffré, Milano 1967, pp. 279–294.
44
Schmidtke A., Schaller S., What do we Know about Media Effects on Imitation of Suicidal Behaviour,. State of the Art, in De Leo D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide Prevention. A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht –Boston–London 1998,
pp. 121–137.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
87
disturbi psichiatrici più spesso collegati alle condotte suicidarie (come
i disturbi depressivi, i disturbi della personalità, l’abuso di sostanze e
l’alcoolismo) ma deve anche tener conto di tutti i fattori collegati ad
aspetti eminentemente sociali, e principalmente di tutte quelle condizioni che si accompagnano ad isolamento sociale quali la disoccupazione, l’immigrazione, il disagio giovanile45, la solitudine della terza età.
7.2. Prevenzione secondaria
È particolarmente rivolta verso la fascia di individui ad alto rischio,
in cui si può quindi mettere in evidenza la presenza di elementi che
favoriscono l’insorgenza delle condotte suicidarie. La terapia farmacologia antidepressiva non si rivela uno strumento efficace sia per la
scarsa efficacia sia per la ridotta compliance46. La prevenzione secondaria deve essere pertanto strutturata su un intervento precoce specialistico sul fenomeno suicidario attraverso diverse modalità e in diversi
ambiti:
1) servizi di medicina d’urgenza, in cui provvedere ad una corretta valutazione del rischio che venga approfondita dal punto di vista medico, psicologico e psichiatrico ed alla elaborazione di piani individualizzati di intervento atti alla riduzione ed all’eventuale trattamento del disagio psicologico o delle vere e proprie patologie, psichiatriche e non, che concorrono ad incrementare il rischio suicidario;
2) servizi di psicologia clinica e servizi di salute mentale, che rappresentano il luogo elettivo di ascolto, di valutazione e di intervento sulla crisi
psichica e possiedono una reale efficacia nella prevenzione47;
3) centri crisi specializzati, la cui indicazione specifica nel caso delle
condotte suicidarie é peraltro assai controversa in base alle espe45
Ladame F.: I tentativi di Suicidio degli Adolescenti, Roma: Borla, 1987 (Ed. Or.: 1981).
Oquendo MA, Kamali M, Ellis SP et al.: Adequacy of antidepressant treatment after
discharge and the occurrence of suicidal acts in major depression: a prospective study. Am J
Psychiatry, 159:1746–51, 2002.
47
Crepet P, Caracciolo S., Fabbri D. et al.: Suicidal Behaviour And Community Mental
Health Care in Emilia–Romagna (Italy), Omega, 33: 193–206, 1996.
46
88
Stefano Caracciolo
rienze raccolte, assai deludenti in termini di adeguato funzionamento e di reale abbattimento del rischio;
4) controlli e limitazioni da parte delle autorità preposte nella disponibilità di metodi con potenziale di letalità più alto (es. restrizioni per
la prescrizione e la distribuzione dei farmaci, interdizioni e controllo nelle autorizzazioni relative alla vendita delle armi da fuoco e da
taglio), il cui valore, enfatizzato dagli autori americani, rimane assai discutibile nella sua efficacia per il documentato fenomeno della “migrazione” da un metodo all’altro.
7.3. Prevenzione terziaria
Riguarda essenzialmente la prevenzione delle recidive di tentato
suicidio quando si rilevano evidenti elementi di rischio, psicosociale o
psichiatrico, avvalendosi di due strumenti principali:
• intervento sul contesto sociofamiliare e affettivo, con individuazione di fattori favorenti o facilitanti l’atto;
• intervento psichiatrico e/o psicologico: non esistono allo stato attuale soddisfacenti protocolli di intervento farmacologico diretto
sulle condotte suicidarie48 per cui rimane prioritario l’intervento
farmacologico sulle sindromi psicopatologiche, specialmente di natura depressiva, ad esse collegate, il cui effetto appare comunque
dubbio in termini di efficacia di prevenzione. La maggior parte degli studi attendibili in questo settore non ha peraltro fornito risultati
soddisfacenti, evidenziando una sostanziale invarianza delle recidive a fronte dei diversi interventi, fra loro integrati, messi in atto49.
L’intervento psicoterapeutico (individuale, di gruppo, ad orientamento analitico o di tipo cognitivo), nelle fasi di crisi e al di fuori
di esse, rappresenta comunque, a tutt’oggi, un insostituibile presi-
48
Schifano F., De Leo D., Pharmacological Treatment of Suicidal Behavior, in De Leo
D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide Prevention. A Holistic Approach, Kluwer
Acad. Publ., Dordrecht–Boston–London 1998, pp. 199–209.
49
Hawton K., Controlled studies of psychosocial intervention following attempted suicide, in N. Kreitman, S.D. Platt (Eds.), Current Research on Suicide and Parasuicide, Edinburgh University Press, Edinburgh 1989.
Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione
89
dio terapeutico da integrare con gli altri tipi di intervento (medico,
farmacologico, sociale)50.
8. Conclusioni
Si è visto che i fattori necessari alla valutazione del rischio di suicidio sono molteplici, e che l’attenta conoscenza ed esplorazione degli
aspetti epidemiologici e clinici deve assolutamente accompagnarsi
all’ascolto del paziente, per consentire al medico lo sviluppo di una
relazione significativa. Ciò necessita in particolare di tempo, empatia,
rispetto, franchezza, ascolto.
Nonostante la complessità e la delicatezza della questione, la decisione finale, assegnata alla responsabilità del medico, è, come spesso
succede, ridotta ad un dilemma: ricoverare o no, ed eventualmente
trattare il paziente a livello ambulatoriale?
Come in un mitico nodo gordiano, anzichè poter con pazienza dipanare gli intricati fili della storia clinica e della vita del paziente, il
medico è costretto, suo malgrado, a tagliare tutti i fili assieme. Come
un artificiere, può tagliare quelli giusti, ed impedire lo scoppio della
“bomba”, solo se li conosce bene e sa quello che fa; come un artificiere di una squadra speciale, rischia di essere dolorosamente coinvolto
nello scoppio, nonostante la competenza e le cautele adottate.
Nonostante quanto comunemente si possa ritenere, l’uso di misure
restrittive e del ricovero ospedaliero risulta spesso controproducente,
ed é comunque da considerare proficuo soltanto in presenza di patologie psichiche gravi e per brevi periodi. Il ricovero infatti è necessario
quando c’è una forte determinazione al suicidio, manca una rete di
supporto sociale e la persona a rischio ha una storia di comportamento
impulsivo, ma la sua utilità dipende dalle caratteristiche della struttura
di ricovero: sono rare, e non solo in Italia, le strutture ospedaliere davvero abilitate, in termini di strutture e di risorse umane, ad un aiuto intensivo per persone a rischio di suicidio, tanto che il tasso dei suicidi
50
Wasserman D., A Critical Evaluation of Psychotherapy in the Treatment of Depression
and in Suicide Prevention, in: De Leo D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide
Prevention. A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht–Boston–London 1998, pp.
173–183.
Stefano Caracciolo
90
intraospedalieri è uguale a quello della popolazione generale. Il ricovero può risultare controproducente quando è coatto e non si inserisce
in un negoziato accordo fra medico e paziente, sia perché non costruisce nulla per il futuro, sia perché per il paziente si tratta di una conferma della sua solitudine, che si tinge anche di aspetti persecutori, talora persino giustificati, travestiti, almeno ai suoi occhi, da protezione.
Il trattamento ambulatoriale può essere oggetto di negoziazione e,
financo, di contrattazione nel corso del colloquio medico, sollecitando
le risorse del soggetto, una volta che siano state verificate come valide, a ricorrere nuovamente alla valutazione del medico in caso di riacutizzazione dei pensieri di suicidio, dato che l’area temporale a maggior rischio è di circa 7 giorni, dopo di che il rischio permane comunque ma si avvicina molto a quello della popolazione generale.
Tuttavia, ricordando il contributo di Fornari sul ruolo “sacrale” del
medico51, non possiamo trascurare che nella pratica medica entrano a
pieno titolo, accanto ad aspetti scientifici e tecnici, anche aspetti emotivi irrazionali, spesso inconsci, per cui il medico vive una parte della
sua attività come il risultato della trasformazione di fantasie infantili e
onnipotenti, come il desiderio inconscio di poter sconfiggere sempre
le malattie e la morte.
Il suicidio, come e più di ogni altra morte di un paziente, rischia di
essere considerato una sconfitta dal medico, al di là degli sforzi profusi e dell’impegno investito nel lavoro con il paziente, anche perchè
l’esito infausto si somma appunto ad un’amara constatazione
dell’inutilità degli sforzi e della impotenza di fronte a queste situazioni. Ma se il medico sente di aver dato il meglio di se stesso, e non si
rifugia in un vacuo fatalismo, allora può, anche di fronte al suicidio di
un paziente, fare propria, grazie ad un lavoro di elaborazione della
perdita, la saggia concezione di Montaigne52:
Nessuno muore prima dell’ora sua. La parte di tempo che lasciate non era vostra
più di quella che è passata prima della vostra nascita; e non vi riguarda più di quella.
Ma, come è giusto, la morte di un paziente riguarda sempre il medico che lo ha curato.
51
52
Fornari F., Affetti e Cancro. Cortina, Milano 1985.
de Montaigne M., Saggi, a cura di V. Enrico, vol. I, Mondadori, Milano 1986, p. 112.
La depressione e il paziente
nel Servizio di Salute Mentale
di IVONNE DONEGANI
Il Servizio di Salute Mentale si offre come contenitore privilegiato
per l’ascolto della sofferenza psichica, con i suoi presidi sanitari e sociali, con le persone che ci lavorano, siano essi medici, psicologi, infermieri o operatori sanitari con altre qualifiche, con i pazienti, con le
loro famiglie e con il gruppo sociale di appartenenza cioè con tutti i
cittadini.
Un’importante premessa, quindi, quando si parla della cura della
depressione così come, del resto, di altri disturbi psichici in un Centro
di Salute Mentale (CSM) è di ricordarne la mission.
Il CSM è la struttura operativa preposta alla direzione, gestione e
coordinamento delle attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione del disagio e disturbo psichico della popolazione adulta, con
particolare attenzione ai disturbi gravi, così come indicato nel Progetto
Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998–2000. Questa mission si
realizza allora attraverso l’elaborazione di progetti terapeutici individuali e il coordinamento dell’accesso a tutte le prestazioni, direttamente e indirettamente erogate, compresi i ricoveri, operando per evitare
processi di cronicizzazione e lungodegenza.
Affrontare i problemi relativi alla salute mentale nell’ambito dei
servizi pubblici significa quindi fornire risposte efficaci e sostenibili
soprattutto a problemi di grande rilevanza sociale, integrandosi con il
lavoro e le competenze di tante altre agenzie che si pongono alla interfaccia con il Dipartimento di Salute Mentale (DSM). Come riportato
nella bozza di documento per la Conferenza Regionale dell’Emilia–
Romagna per la Salute Mentale (2006):
La salute mentale è una delle componenti della salute pubblica e i DSM si
trovano al centro di una azione ben più vasta e complessa di quella fornita al91
92
Ivonne Donegani
lo scopo di dare risposta ai singoli bisogni espressi dalla utenza, così come
storicamente intesa, ed è loro richiesto di entrare nella più ampia concezione
di benessere, di salute, di promozione
Il centro dell’attività dei CSM resta primariamente la risposta ai disturbi mentali gravi — nel nostro caso parliamo di depressione maggiore senza o con sintomi psicotici, disturbo bipolare, comportamenti
suicidari, depressione atipica, nei confronti dei quali si impongono
differenti tipi di interventi che schematicamente possiamo riassumere
in tre categorie:
a) intervento di accoglienza e valutazione diagnostica, che precede la
eventuale presa in carico;
b) intervento di cura, che può avvenire attraverso colloqui psichiatrici
di supporto individuali e/o familiari, cura psicofarmacologica se
necessario anche in day hospital, psicoterapia individuale e/o familiare, di gruppo;
c) interventi volti a diminuire il grado di disabilità conseguente alla
patologia, attraverso interventi riabilitativi–abilitativi (inserimenti
lavorativi, risocializzazione, progetti sul tempo libero, azioni
sull’ambiente circostante, gruppi di auto–aiuto, etc.).
La disabilità, che è presente sempre in grado severo nella depressione grave, si riscontra anche nella depressione di media o lieve entità. La
disabilità aggrava altresì il quadro psicopatologico secondo
un’interazione reciproca e per questo va a costituire uno dei criteri nella
valutazione della gravità del quadro clinico e della sua risposta al trattamento. Un recente studio condotto a Bologna mostra, ad esempio, che
la depressione. rispetto ai disturbi d’ansia e somatoformi, comporta più
estese limitazioni nel campo sia fisico che sociale, con conseguenti costi
sociali di grande rilevanza. Anche per questo siamo chiamati ad assumere nuovi compiti, a collaborare e ad attivare processi di lavoro integrato con i soggetti che si occupano di salute pubblica.
Centrale a questo riguardo è il trattamento dei cosiddetti disturbi
emotivi comuni e dei disturbi depressivi reattivi, e di conseguenza il
rapporto con i medici di Medicina Generale e con gli specialisti privati, cui spesso tali disturbi vengono affidati.
La depressione e il paziente nel Servizio di Salute Mentale
93
Il DSM IV per i medici di Medicina Generale già nella sua introduzione a cura del dr. Giuseppe Leggieri, prematuramente scomparso, sottolinea come, a fronte del fatto che il medico di Medicina Generale è un
osservatore privilegiato dei fenomeni clinici, psicologici e sociali di un
determinato paziente (e ciò può consentire di individuare precocemente
uno stato di sofferenza psichica), per il medico di Medicina Generale è
però molto difficoltoso affrontare le problematiche psichiche sia nella fase diagnostica che in quella del trattamento vero e proprio. La collaborazione tra medici di Medicina Generale e psichiatri risulta allora indispensabile, soprattutto quando ci si trova di fronte a quadri clinici complessi.
A questo scopo è stato sviluppato, specificatamente per i medici di
Medicina Generale o comunque per i non specialisti in psichiatria, il
DSM–IV–TR MG1 che si propone come classificazione ed algoritmo
diagnostico più agile ed adatto alla maggior parte dei casi di disturbo
mentale di più comune osservazione per il non–specialista. In particolare si riporta nel seguito l’algoritmo dell’umore depresso, che orienta
in modo univoco qualunque medico a diagnosticare correttamente il
disturbo da umore depresso del suo paziente:
ALGORITMO dell’umore depresso secondo il DSM–IV TR MG
Sintomi: ridotta energia, insonnia, perdita di peso, lamentele somatiche non giustificate dalla condizione medica generale.
Tappa 1: Considerare se l’umore depresso può essere correlato a Condizione Medica Generale, Abuso di Sostanze o Altri Disturbi Mentali.
Tappa 2: Se i sintomi persistono per due settimane, Disturbo Depressivo Maggiore.
Tappa 3: Se persistono per la maggior parte degli ultimi due anni: Disturbo Distimico.
Tappa 4: Se sono associati a perdita di persona cara e persistono da meno di 2 mesi: Lutto.
Tappa 5: Se si manifesta in risposta a fattore psicosociale stressante: Disturbo
dell’Adattamento.
Tappa 6: Se i precedenti criteri non sono soddisfatti: Disturbo Depressivo NAS.
1
DSM–IV–TR MG. Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali per la medicina
generale. Milano, Masson, 2003.
94
Ivonne Donegani
Se analizziamo i dati più recenti di attività di un Centro di Salute
Mentale (CSM) — nella presente trattazione ci si riferisce all’Area di
Bologna Nord, ma lo stesso dato è analogo anche in molti altri CSM
— ci accorgiamo che una grande percentuale dei trattamenti annui per
disturbi della sfera depressiva sono costituiti da attività di visite psichiatriche effettuate su invii dei medici di Medicina Generale per disturbi “lievi” e perciò abbiamo molti utenti ma che complessivamente
usufruiscono di una percentuale minore di interventi; al contrario, un
minor numero di utenti con patologia psichica grave richiede un ampio numero di interventi per lo più distribuiti su trattamenti integrati
(colloqui, psicoterapie, trattamenti riabilitativi e risocializzanti, ricoveri ospedalieri, inserimenti in strutture residenziali…).
Le Figure 1 e 2 riportano rispettivamente i dati di diagnosi e prestazioni dei CSM di Bologna Nord e dell’intera Regione Emilia–Romagna.
In che percentuale compaiono i disturbi depressivi? Molto probabilmente essi non solo riguardano solo i disturbi più gravi, unipolari o
bipolari che siano, che coinvolgono il 12% dei pazienti e certamente
una percentuale molto maggiore in termini di prestazioni. Difatti anche in altre categorie diagnostiche compaiono certamente soggetti con
umore depresso, sia come comorbidità (si pensi alla depressione secondaria in corso di schizofrenia) sia come varietà clinica di affezioni
catalogate in altre categorie (valga per tutti l’esempio del disturbo
border–line di personalità in fase depressiva) o nella grande “fetta” dei
disturbi nevrotici (1 paziente su 4).
Quale è il percorso di un paziente che accede a un CSM dalla richiesta alla dimissione? In figura 3 si riporta il diagramma di flusso
che dalla richiesta, attraverso il primo contatto con il CSM, trova poi
diverse vie e diverse modalità di risposta nel servizio pubblico, accedendo tramite una presa in cura che può declinarsi per una serie di
trattamenti sia clinici che residenziali che socio–assistenziali.
La depressione e il paziente nel Servizio di Salute Mentale
95
Figura 1. Grafico a torta della distribuzione per diagnosi e percentuale relativa delle
prestazioni erogate (anno 2005, CSM Bologna Nord)
Figura 2. Grafico a torta della distribuzione per diagnosi dei pazienti dei Servizi di
Salute Mentale nella Regione Emilia Romagna (anno 2005)
96
Ivonne Donegani
1. Depressione e rapporto medico–paziente. Cosa cambia in un
servizio pubblico?
L’attività del CSM nei disturbi depressivi si basa sulla necessità di garantire un intervento adeguato in tutte le possibili situazioni cliniche.
Queste le caratteristiche principali:
— risposta alle emergenze urgenze che si realizza con la presenza sulle
24 ore nel territorio di una risposta ai bisogni psichiatrici urgenti attraverso le dodici ore di apertura degli ambulatori e la presenza di una
consulenza psichiatrica nei pronti soccorsi, in qualche realtà anche
della possibilità di poter attivare uno psichiatra reperibile per valutazioni urgenti in PS o OC nelle ore notturne e nei festivi e prefestivi;
Figura 3. Management della richiesta di aiuto presso il DSM: seguendo il flowchart
si passano in rassegna le possibilità di interventi terapeutici e riabilitativi che possono essere messi in atto per ciascun paziente.
La depressione e il paziente nel Servizio di Salute Mentale
97
— territorialità. La presa in cura del paziente avviene secondo modelli che possono essere prevalentemente centrati su riferimenti
clinico–biologici, psicodinamici. cognitivisti ma in cui sempre resta centrale il principio della territorialità come strumento di base
del lavoro integrato (ciò consente stretti rapporti con il contesto
sociale, familiare, lavorativo del paziente, e l’attivazione di reti di
supporto psicosociale;
— trattamenti integrati con supporto di misure estreme in casi di grave urgenza (dal ricovero in TSO al ricovero volontario in SPDC)
e di percorsi psicoterapici, ri–socializzanti e abilitanti (reinserimenti lavorativi, utilizzo di centri diurni);
— l’attività del CSM si esplica attraverso il lavoro di equipe. Si tratta
di una equipe multiprofessionale (composta da psichiatri, psicologi, infermieri, educatori) e pertanto in grado di fornire risposte diversificate e commisurate alle molteplici esigenze di una appropriata assistenza al paziente. Ciò garantisce anche una continuità
terapeutica che, al di là delle inevitabili e faticose necessità di adattamento del paziente depresso e della sua famiglia ai ritmi e alle caratteristiche del lavoro del CSM, si articola in un progetto a
lunga scadenza che assicura una risposta pronta ed appropriata alle possibili evenienze cliniche e alle onerose disabilità.
Il paziente depresso, come si è visto, vive immerso in un senso di
vuoto, di abbandono e di solitudine che divorano il suo mondo interno; ciò si ripercuote spesso in un “abbandono” relazionale e in un isolamento sociale e in una progressiva e ingravescente perdita di competenze e di abilità.
La risposta di cura a questo tipo di paziente da parte di un Servizio
Pubblico territoriale come il CSM deve strutturarsi in senso vicariante
e protettivo nelle fasi più acute ma deve poter svolgere anche una funzione riabilitativa in un percorso integrato che accompagni il paziente
lungo tutte le fasi della malattia.
98
Ivonne Donegani
Il ruolo centrale dell’empatia
nel rapporto medico–paziente
di STEFANO CARACCIOLO
1. Premessa
All’interno del termine “empatia” si comprendono diversi fenomeni psicologici, di natura sia individuale sia interpersonale, che riguardano la percezione, la condivisione e la trasmissione di vissuti emotivi. Il concetto è tuttora non chiaramente delimitato sul piano semantico, tanto che non si dispone di una sua definizione soddisfacente che
possa comprendere i fenomeni correlati all’empatia in tutti i diversi
ambiti di riferimento (Bonino, Lo Coco, Tani, 1998; Bolognini, 2002).
Di conseguenza più che da una vera definizione sensu stricto (Peruzzi,
1997), per cui i dati e le conoscenze disponibili non sembrano ancora
sufficienti, e le premesse da cui partire non ancora adeguate, pare opportuno prendere le mosse preliminarmente da una descrizione del fenomeno, in base al concetto di denotazione formulato da Bertrand
Russell (1969): proponiamo pertanto una definizione di tipo descrittivo che, secondo Russell, è quella che determina l’identificazione di un
fenomeno semplicemente mediante le sue proprietà accidentali.
Per motivi di opportunità e di chiarezza metodologica ed espositiva, si è scelto di descrivere dapprima l’empatia come concetto generale, osservabile in ogni relazione interpersonale, passando poi ad una
rassegna degli studi sui rapporti fra empatia e altruismo, in seguito
toccando il tema dell’empatia come la si può descrivere nella relazione psicoanalitica, per poi arrivare alla empatia come concetto applicato allo studio delle dinamiche del rapporto medico–paziente.
Va da sé che tale distinzione è assolutamente arbitraria, poichè si
sviluppa a partire dall’ambito di esplorazione e di studio, senza nessuna garanzia che quanto accade in ciascuno dei diversi settori si possa
davvero paragonare a ciò che nell’altro si considera come empatia, in
99
100
Stefano Caracciolo
base ad un postulato su cui ci si potrà pronunciare una volta valutati
gli elementi raccolti dai vari autori nei rispettivi campi di indagine:
che i fenomeni empatici possiedano una loro identità ed unitarietà indipendentemente dall’ambito in cui si sviluppano.
Per questo motivo la separazione dei contributi in base alla loro origine, pur consentendo di riconoscere e caratterizzare i diversi aspetti
che vengono ricondotti al concetto di empatia, necessita poi di una
sintesi conclusiva che possa tentare di pervenire ad una dimensione
unitaria, seppur approssimativa, del costrutto.
2. L’empatia: il concetto generale
La parola “empatia” è attestata in Italia solo dal 1960 (DELI: Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 1999) e, come in altre lingue, fu coniata a stampo dalla parola tedesca “Einfühlung”, nata con i
poeti romantici tedeschi, per definire il sentimento di emozione collegata alla contemplazione e fusione con la natura. In seguito è stata ripresa da Sigmund Freud (1921/1974) e, a partire da Sandor Ferenczi
(1932/1974), da molti successivi psicoanalisti come Schafer (1959),
Kohut (1971), Greenson (1960/1971) e Mitchell (1995), per denominare la “capacità di mettersi nei panni di un altro”, sia in senso generale
sia all’interno di una relazione terapeutica.
Tuttavia, in epoca precedente alla elaborazione della teoria psicoanalitica da parte di Freud, numerosi filosofi del secolo XIX hanno sviluppato in modo più o meno esplicito concetti di avvicinamento nel
“sentire” emozioni (il pathos) di fronte alla natura, ad opere d’arte, seguendo le indicazioni dei poeti romantici come il tedesco Novalis,
mediante i quali ci si “immedesima” o “ci si sente dentro” all’oggetto:
Non comprenderà la natura chi non ha […] uno strumento interiore che genera la natura e che la secerne e […] non si mescola per mezzo della sensazione
con tutti gli esseri naturali, quasi sentendo se stesso entro ognuno di loro
(Novalis, 1798/1998)
L’empatia appartiene, dunque, al campo generale delle emozioni e
dei sentimenti che l’individuo prova di fronte a stimoli esterni. Essi gli
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
101
trasmettono una sorta di vibrazione e risonanza emotiva che colpisce e
pervade la sua mente cosciente. È evidente che esiste comunque una
forma non del tutto conscia di empatia, in un continuum che, per esprimerci nei termini della teoria topica della personalità di Freud, va
dalla parte della mente che contiene materiale totalmente inconscio a
quella che comprende il vissuto perfettamente conscio. All’interno di
questo campo essa va collocata come una sensazione tutta interiore,
che non si traduce necessariamente in comportamenti o in espressioni
verbali, anche se occasionalmente può farlo, che insorge all’improvviso e che, quando arriva alla coscienza, si rende subitaneamente percepibile dal soggetto che, con un senso misto di stupore e di commozione, la prova.
Essa appartiene quindi al terreno della condivisione interpersonale
che, come avverte Bolognini che lo definisce più correttamente “il
campo condiviso” (2002), è certamente scivoloso e ci fa “capitombolare” all’improvviso nel mondo interno dell’altro, immergendoci nella
sua vita emozionale, più spesso dolorosa e carica di sofferenza, ma talora positiva e addirittura gioiosa – dove peraltro non è affatto impossibile trovare emozioni di ogni gamma e di ogni segno, comprendendo
quindi persino ostilità, distruttività, odio, con cui empatizzare.
La metafora della vibrazione e della risonanza rende bene l’idea di ciò
che è insito nella natura dell’empatia e ci aiuta a chiarire per esclusione, e
per sgombrare il campo da equivoci e da dubbi, che l’empatia non è solidarietà, non è compatimento, non è simpatia, non è identificazione.
L’empatia non è solidarietà per il senso urgente e improvviso con
cui si dispiega, anche se alla solidarietà può offrire un punto di partenza quando lo stato d’animo che si sperimenta è un punto di partenza
che sfocia in comportamenti prosociali o altruistici, e perché si può
verificare anche per la condivisione di emozioni di gioia, di rabbia, di
vendetta.
L’empatia non è compatimento o simpatia perché in questi due fenomeni si provano assieme, nella relazione, sentimenti di condivisione
(syn, “assieme” + pathos, “sofferenza”) sul piano cosciente, ma con
caratteristiche di superficialità e in assenza di movimenti emotivi profondi, associati ad un senso di vicinanza che è più vicino alla attrazione interpersonale. La simpatia si colloca infatti nel campo delle relazioni amicali, basate su una certa condivisione nella valutazione di
102
Stefano Caracciolo
giudizi, opinioni e punti di riferimento comuni. Al contrario, l’empatia
si sviluppa necessariamente in assenza di vincoli amicali perché si
struttura a partire da una estraneità (Owens, 1999) che permane e, anzi, tende a ristabilire il proprio assetto dopo aver sperimentato
l’empatia.
Secondo Black, che si è occupato in modo specifico della simpatia
con un orientamento teorico di tipo psicodinamico (2004), sotto il termine simpatia sono compresi — e spesso confusi — due diversi fenomeni. Il primo fenomeno si riferisce quel tipo di simpatia che viene
inteso come capacità di sperimentare in modo spontaneo le sensazioni
degli altri. Questa simpatia come capacità (la chiameremo: “simpatiaI”) di fatto rappresenta una componente che ritroviamo anche
nell’empatia e costituirebbe il tratto iniziale comune ai due processi,
che avrebbe le sue radici in quegli “affetti vitali” che Daniel Stern
(1987) ha descritto nella relazione madre–bambino nei suoi momenti
più precoci. Il secondo fenomeno (“simpatiaII”) è invece la simpatia
intesa come emozione di attenzione premurosa per le sensazioni
dell’altro. Secondo Black, l’empatia e la simpatiaII riconoscono come
base comune la simpatiaI che ne è l’origine in quanto capacità di percepire le sensazioni degli altri, ma interagiscono con essa con meccanismi complessi influenzati dalla personalità dell’individuo e dalla
presenza o assenza di disturbi psicopatologici, dal momento che traggono le loro origini dal processo di sviluppo precoce del Sé e quindi
da fattori di natura materna, ambientale, educativa.
Nel caso dell’antipatia invece il prefisso anti–, che significa “contro”, assieme alla radice pathos, origina la parola che assume il significato di sentimento contrario, e, come la simpatia, ha più frequentemente
a che fare con le caratteristiche esteriori della persona, oltre che appartenere più frequentemente al piano cosciente e ad avere un più epidermico carattere di temporanea superficialità (Carpineta, 1992).
Inoltre l’empatia non è identificazione, perché l’identificazione è
meccanismo inconscio ed automatico, mentre l’empatia nasce proprio
da un passaggio, per utilizzare di nuovo i termini della teoria topica,
dal preconscio al conscio, e pertanto si può prevalentemente sperimentare in modo cosciente.
Il senso di vibrazione viene generalmente associato ad ogni sensazione emotiva intensa ed improvvisa, in relazione spesso alla perce-
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
103
zione sinestesica delle modificazioni somatiche (cardiovascolari, cutanee, respiratorie). La valenza al contempo corporea ed emotiva di questa reazione psicosomatica è così evidente che non vale la pena approfondire ulteriormente. Ricordiamo qui semplicemente il ronzio nella
descrizione delle emozioni d’amore di Catullo (1974):
appena, Lesbia, t’ho guardata, non mi resta, Lesbia, un filo di voce; ma la lingua
è intorpidita, sottile dentro le membra fiamma si spande, d’interno ronzio rombano gli orecchi, si coprono di doppia notte le luci.
È notazione comune, del resto, che nell’esperienza clinica i pazienti
riferiscono lucidamente dei concomitanti somatici di tipo vibratorio e
tattile delle emozioni, volta per volta presentati come tremore interno,
sentire tremare la terra, capogiro, vertigine, cuore che impazzisce o
batte follemente, in relazione alle più svariate emozioni, piacevoli o
spiacevoli che siano, che conducono comunque ad un improvviso turbamento della precedente situazione di equilibrio emotivo.
La qualità sintonica dell’empatia è però legata alla capacità di creare
risonanza solo quando la corrente empatica trova elementi sensibili, in
grado quindi di vibrare in sintonia, con la stessa lunghezza d’onda. Tale
risonanza fa appunto “risuonare”, nel senso letterale di “suonare nuovamente”, elementi profondi del mondo interno del soggetto che sono
già presenti e tendono a riattivarsi proprio in seguito alla percezione
dell’empatia, fenomeno che, come vedremo, è da molti autori ritenuto
fondamentale meccanismo alla base di ogni capacità empatica.
Tale risonanza è, del resto, fenomeno non prevedibile, non ipotizzabile sulla base di premesse chiare, di conseguenza non la si può ricercare o ottenere in modo forzoso o artificiale. Appare semmai collegata a oscillazioni del tono affettivo imponderabili, tanto che non si
potrebbe spiegare perché si sia provata in un caso e non la si sia provata in un altro, apparentemente del tutto analogo.
3. L’empatia e l’altruismo
In termini di biologia evoluzionistica, l’aggressività è stata a lungo
considerata dagli etologi (Lorenz, 1963) come uno dei motori più po-
104
Stefano Caracciolo
tenti dell’evoluzione delle specie, inclusa naturalmente quella umana.
Tuttavia, da alcuni decenni a questa parte, emerge sempre più forte la
consapevolezza che accanto al comportamento aggressivo, anche il
comportamento di attaccamento, di amore e di spinta altruistica possiedano un ruolo altrettanto significativo nel determinare la spinta
evoluzionistica alla sopravvivenza (Smith & Mackie, 1998): non solo,
quindi la “legge del più forte” ma anche, con pari dignità, la “legge del
più capace di dare supporto emotivo” fungerebbe da elemento protettivo ed incisivo nella evoluzione della specie (Miller, 2000),
all’interno di un più generale meccanismo, originariamente darwiniano (Darwin, 1859) di competizione e lotta. Lo stesso Darwin definì la
simpatia, termine con cui intendeva probabilmente qualcosa di affine
alla attuale empatia, un “elemento fondamentale degli istinti sociali”
privato del quale l’uomo altro non sarebbe se non un “mostro fuori
dalla natura” (unnatural monster) (Darwin, 1871).
Il ruolo dell’empatia e del comportamento prosociale nello sviluppo evolutivo è del resto attestato dalle ricerche sulle osservazioni del
comportamento animale e dai dati raccolti sul substrato psicobiologico
dell’empatia, che di recente è stata studiata anche in base ai specifici
patterns di contrazione muscolare nella mimica facciale (Sonnby–
Borgstrom, 2002) ed è stata collegata alla funzione fisiologica olfattiva, con cui è risultata correlata (Spinella, 2002) tanto da formulare
l’ipotesi che esista un substrato comune, dal punto di vista delle strutture neurali, ai due fenomeni.
D’altro canto la psicologia sociale, disciplina che studia gli effetti
dei processi sociali e cognitivi sul modo in cui gli individui si percepiscono, si influenzano e interagiscono, si è posta il problema del
comportamento altruistico individuandone le radici negli atteggiamenti di tipo empatico e nelle norme sociali di reciprocità, di equità
di distribuzione e di responsabilità sociale (Smith & Mackie, 1998).
In questo settore di studio è stato possibile considerare l’empatia
come un comportamento di tipo prosociale, in quanto processo in cui
ci si fa esperienza delle emozioni altrui e si interagisce con comportamenti supportivi.
Una delle interpretazioni più soddisfacenti di questo processo prevede che un individuo reagisca ad una sofferenza altrui con un atteggiamento emotivo che si traduce in un comportamento di aiuto, in vi-
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
105
sta di una ricompensa emotiva: far del bene per sentirsi meglio (Smith
& Mackie, 1998). Le ricompense emotive sono ricevute sia sul piano
interiore che su quello esterno, ed appaiono soprattutto collegate ad un
rinforzo dell’autostima, sia sul piano individuale, il sentirsi persona di
maggior valore, sia sul piano sociale, il ricevere da altri significativi
riconoscimenti del proprio valore. Le condizioni emotive di partenza
possono modulare in modo determinante l’insorgere del comportamento collegato all’empatia, per cui sentimenti ed emozioni spiacevoli
— ad esempio, il senso di colpa (McMillen e Austin, 1971), la tristezza (Harris et al., 1975) o la delusione (Cialdini, Kendrick, 1976) di regola facilitano il realizzarsi di comportamenti di aiuto, in particolare
secondo il paradigma definito come “modello del sollievo dallo stato
d’animo negativo” (Schaller, Cialdini, 1988).
Ciò, peraltro, non avviene quando il soggetto è molto concentrato
su di sé e sul proprio stato emotivo, piacevole o spiacevole che esso
sia, in quanto solo la reale disponibilità a mettersi nei panni dell’altro
fa scattare la situazione empatica, che, invece, non si concretizza
quando l’individuo è più attento ai propri bisogni che a quelli altrui
(Thompson et al., 1980).
In anni più recenti, tuttavia, l’empatia viene concepita sempre più
spesso come uno stato emotivo associato ad un vero altruismo, ovvero ad un comportamento prosociale che si mette in atto indipendentemente da ricompense e costi individuali. Da questi presupposti,
confermati in numerose ricerche sperimentali, nasce l’ipotesi elaborata da Daniel Batson (1988) nota come “modello dell’empatia–
altruismo”, che individua la principale determinante del comportamento altruistico nella preoccupazione empatica alle sofferenze altrui, indipendentemente dalla ricompensa e dalla preesistente condizione di disagio emotivo personale. Questo modello prevede che di
fronte ad una persona in difficoltà l’individuo debba affrontare
un’alternativa fra due tipi di reazione: il disagio personale, che comprende manifestazioni come agitazione, ansia, paura, oppure interesse empatico, che comprende simpatia, comprensione e tenerezza. Il
disagio personale si traduce in aiuto per egoismo — ridurre i sentimenti negativi — oppure in fuga, in accordo con il modello del sollievo dallo stato d’animo negativo, mentre i sentimenti di tipo empatico portano all’altruismo, cioè a intervenire per ridurre le sofferenze
106
Stefano Caracciolo
dell’altro, anche nelle condizioni in cui sarebbe facile sfuggire alla
situazione (Smith & Mackie, 1998).
Le ricerche della psicologia sociale, in conclusione, offrono significativi contributi alla comprensione ed alla previsione dei comportamenti prosociali, altruistici e di aiuto. I dati naturalmente riguardano
gli aspetti cognitivi e di comportamento legati all’empatia, senza poter
entrare negli aspetti affettivi profondi, su cui i contributi psicoanalitici
possono invece soffermarsi, e senza affrontare i problemi dell’empatia
in campo professionale, ovvero di come il fenomeno emotivo costituisca il principale motore dei comportamenti professionali nelle relazioni d’aiuto. Questo è il motivo principale per cui l’oggetto dei prossimi
paragrafi dovrà necessariamente distinguere il ruolo dell’empatia in
alcune speciali relazioni professionali d’aiuto: il ruolo dell’empatia
nelle psicoterapie, specialmente in quelle ad indirizzo psicoanalitico, e
il ruolo dell’empatia nelle professioni sanitarie, e specialmente nel
rapporto medico–paziente.
4. L’empatia come concetto psicoanalitico
Prima di esplorare brevemente i contributi della psicoanalisi allo
studio dell’empatia, è necessario specificare che nel percorso esplorativo del fenomeno l’investigazione psicoanalitica ha proceduto a varie
successive acquisizioni in tema di vissuti dell’analista, che rendono
assai difficoltosa una comprensione e caratterizzazione unitaria
dell’empatia per diversi ordini di problemi.
Per cominciare, secondo una posizione teorica un tempo assai diffusa che troviamo in Money–Kyrle (1956), l’empatia non è altro che
“normale controtransfert”. In realtà tale assunzione, che risale agli anni Cinquanta, appare semplicistica se presa isolatamente, ma diviene
comprensibile e financo, per certi aspetti, ancora condivisibile se teniamo conto che il controtransfert è stato assai studiato da allora ad
oggi e l’aumento della comprensione dei fenomeni controtrasferali
permette di affermare che l’empatia entra pienamente in tali fenomeni,
pur non essendo ad essi totalmente assimilabile.
In effetti, il concetto di controtransfert, teorizzato primitivamente
da Freud come “l’influsso dei sentimenti inconsci del paziente sul me-
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
107
dico”, rappresenta certamente quell’elemento che permette all’inconscio dell’analista di mettersi in rapporto con l’inconscio del paziente e
di comprenderlo empaticamente (Semi, 1988), costituendo l’insieme
delle reazioni emotive che l’analista prova nel corso dell’analisi quale
risposta specifica a un dato paziente (Sandler et al., 1974). Esso appare pertanto un fenomeno scarsamente delimitabile e si sarebbe tentati
di inserire anche, appunto, l’empatia fra i fenomeni controtrasferali
tout court se non fosse, di nuovo per la sua fondamentale caratteristica
di accessibilità da parte della coscienza, tanto che si può più propriamente parlare di una sorta di “insight” empatico.
Secondo la teoria freudiana delle relazioni d’oggetto, il nucleo caratteristico dell’empatia si fonda, inizialmente, su un progressivo arricchimento della semplice “introiezione” — prendere dentro — di
oggetti esterni nell’Io. Così si esprimeva Freud in un altro punto del
già citato Psicologia delle masse e Analisi dell’Io (1921):
Un sentiero conduce dalla identificazione attraverso l’imitazione all’empatia, ovvero alla comprensione del meccanismo grazie al quale ci è consentito raccogliere ogni atteggiamento verso un’altra vita mentale.
Il passaggio dall’identificazione, inconsapevole e automatica, all’imitazione presuppone successivamente lo sviluppo di identificazioni
proiettive di tipo comunicativo che superano la distanza interpersonale
in un gioco comunicativo da inconscio a inconscio, restando peraltro
ancora lontane da esperienze empatiche vere e proprie.
Similmente, a partire dalle formulazioni freudiane, Heinz Kohut arriva a considerare l’empatia come una introspezione vicariante, in base alla quale in psicoanalisi si possono raccogliere informazioni grazie
ad una perseverante immersione empatico–introspettiva nel mondo interiore dell’altro, senza la quale diviene impossibile ricavare informazioni e formulare ipotesi. Secondo Kohut si tratta di uno strumento
scientifico vero e proprio, strutturato su processi percettivi, cognitivi
ed affettivi in cui la sofferenza dell’altro viene riconosciuta ma non
condivisa né alleviata, e che non si basa su aspetti intuitivi. Viene così
introdotta una caratteristica di reciprocità, di mutuo riconoscimento,
che sancisce la dualità del movimento emotivo di tipo empatico. Da
questo momento in poi, come puntualizza Bolognini (2002), l’empa-
108
Stefano Caracciolo
tia, prima scarsamente considerata nella letteratura psicoanalitica, diviene un verbo imperante, una specie di “pietra filosofale” del bravo
analista, sull’onda anche del crescente successo della psicologia del Sé.
Pur non entrando fra le posizioni di orientamento psicoanalitico, ci
pare opportuno segnalare qui anche la posizione di Carl Rogers (Rogers & Kniget, 1970), il quale ha sostenuto che porsi in atteggiamento
empatico nasce dal riuscire a percepire in modo corretto gli schemi di
riferimento dell’altro, con le sue armoniche soggettive ed i suoi valori
personali, come se si fosse l’altro, senza tuttavia perdere di vista che si
tratta di una situazione dell’altro. Anche da questa rapida enunciazione appare evidente come Rogers si riferisca ad una lettura
dell’empatia che si basa prevalentemente sugli aspetti consci della relazione interpersonale e terapeutica.
Una interessante distinzione fra empatia e controtransfert è quella
formulata da Berger (1987) che specifica come l’empatia sia uno stato
emotivo vissuto dal terapeuta al contatto con il paziente come soggetto, mentre il controtransfert è piuttosto uno stato emotivo vissuto dal
terapeuta al contatto con l’oggetto del mondo interno del paziente.
Ecco nuovamente emergere la caratteristica di realtà cosciente
dell’empatia nell’incontro relazionale.
Tale concetto rimanda, naturalmente, ad un “ingaggio empatico”
(Greenberg & Mitchell, 1983) che trova le sue radici primigenie nel
rapporto fra madre e bambino. La sua genesi, pertanto, descritta
magistralmente da Winnicott (1971), che dell’empatia fece un potente e peculiare strumento terapeutico, va ricercata in senso storico
e strutturante nelle capacità di una madre “sufficientemente buona”
di rispecchiare le sensazioni del suo bambino. L’empatia si sviluppa nello spazio transizionale fra madre e bambino che, paradossalmente, proprio in quanto illusorio costituisce una base adeguata per
l’esperienza e lo sviluppo della percezione della realtà. Tale spazio
si mantiene del resto nell’adulto, dove assume le caratteristiche di
spazio di gioco, di creatività, ma anche di spazio di relazione: si
tratta quindi, in realtà, dello stesso spazio relazionale fra il medico
e il paziente in cui l’empatia rappresenta un insostituibile ponte di
comunicazione.
Il modello fusionale dell’empatia è certamente il più efficace nel
descrivere la nascita e lo sviluppo evolutivo delle capacità empatiche
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
109
(Berger, 1987). In questo senso si possono distinguere due concezioni
fra loro complementari: la prima che indica la risonanza affettiva tra
due individui della specie come dato genetico, e la seconda che considera l’empatia favorita da meccanismi di regressione. Entrambe le posizioni nascono dall’idea che l’empatia sia una facoltà arcaica che recede quando subentrano forme più evolute di comunicazione e conoscenza. L’empatia è stata infatti paragonata al cordone ombelicale che
unisce la madre al feto (Ferreira, 1961) ed è stata inoltre descritta come soggetta a possibili oscillazioni tra madre e figlio, ed in seguito a
queste considerazioni si tende a considerarla come la capacità di penetrare nei recessi più profondi e arcaici della mente di un altro (Olden,
1953; Burlingham, 1967). La seconda concezione sostiene che il legame di fusione che si crea tra madre e bambino riflette l’incapacità
neurofisiologica del bambino di differenziare il proprio Sé da quello
della madre, mentre la capacità empatica presuppone delle caratteristiche che si acquisiscono con la maturità come ad esempio la capacità di
manipolare i simboli in modo immaginativo. Le esperienze empatiche
vengono riconosciute retrospettivamente, nel contesto della consapevolezza che i membri della relazione sono entità separate: perciò
l’idea di una fusione del terapeuta con il paziente si basa su una premessa illusoria, che non offre una base solida su cui basare la capacità
adulta di empatizzare (Buie, 1981). Anche Gaddini (1989) annovera le
reazioni empatiche fra i fenomeni percettivi del rapporto analitico relativi all’analista, recuperando peraltro il concetto di “identificazione
di assaggio” di Fliess e ipotizzando un collegamento, che del resto,
come abbiamo visto, risale a Freud, fra almeno alcune forme preliminari di identificazione e l’empatia.
A proposito dell’empatia nella relazione madre–bambino e nella
strutturazione del Sé soggettivo, fondamentale è certamente il contributo, sperimentale e clinico, di Daniel Stern (1987). Egli ha distinto il
processo empatico, che “getta un ponte tra le due menti” ed è quindi
inteso, in qualche modo, come fenomeno reciproco ed appartenente al
mondo interno, da una risposta empatica che apre lo spazio per una relazione intersoggettiva e, quindi, basata anche su comportamenti nel
mondo esterno. L’empatia consta secondo Stern di quattro processi distinti, probabilmente in sequenza: la risonanza dello stato affettivo,
l’astrazione della conoscenza empatica dall’esperienza di risonanza, la
110
Stefano Caracciolo
traduzione della conoscenza empatica nella risposta empatica e una
transitoria identificazione di ruolo. È proprio la risonanza emotiva
l’elemento caratterizzante dell’empatia che la diversifica dalla semplice esperienza cognitiva della assunzione di ruolo nell’immaginare
l’esperienza di essere l’altra persona. La sintonizzazione, descritta da
Stern come tipica risposta materna, parte dalla stessa risonanza ma riplasma uno stato soggettivo del bambino, compiendo un significativo
passo verso la simbolizzazione.
Leggiamo ora la definizione proposta da Bolognini per l’empatia in
senso psicoanalitico (2002):
quella condizione di contatto conscio e preconscio fra due individui in una interazione comunicativa, caratterizzata da separatezza, complessità e articolazione, in cui si sperimenta, da parte di almeno uno dei due soggetti un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarità oggettuale,
con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, ma anche con la sua soggettività egosintonica.
È chiaro che tale condizione si può verificare soltanto nei casi in
cui il contatto fra due individui prevede un setting psicoterapeutico, se
non spiccatamente psicoanalitico, e che quindi la definizione si applica solo in rari casi al semplice rapporto medico — paziente, caso in
cui si dovrà ridimensionare la profondità del contatto empatico, mentre le caratteristiche del processo resteranno le stesse.
5. L’empatia nel rapporto medico–paziente
Di recente, la letteratura medica internazionale sta dedicando sempre più spazio al concetto di empatia, considerato elemento centrale
nell’ossatura che sostiene il rapporto medico — paziente (Davies,
1986; Owens, 1999), nella prospettiva sempre più urgente di poter uscire da una valutazione generica dell’atteggiamento di aiuto nella relazione interpersonale e costruire un percorso di validazione empirica
del costrutto (Hojat et al., 2002). L’empatia, in effetti, non è un fenomeno che si sperimenta solo in psicoterapia, né è specifica dell’esperienza medica. Essa rappresenta, invece, un’esperienza comune
dell’interazione quotidiana ed è comunque il nucleo fondamentale del-
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
111
la relazione d’aiuto. Ad esempio, nella letteratura infermieristica è assai diffusa la visione che vede l’empatia come un elemento che facilita
la costruzione di una relazione interpersonale (Reynolds e Scott,
1999). Truax (1970), invece, pone l’accento sul fatto che senza empatia non c’è base per sviluppare il clima necessario allo sviluppo della
relazione d’aiuto quale si può sviluppare nel contesto degli interventi
della psicologia clinica, dell’infermieristica e della medicina. Questa
considerazione è stata riproposta da molti altri autori tra cui Kalish
che scrive (1971):
una grande quantità di ricerche e scoperte teoriche riguardo alle relazioni interpersonali supportano l’idea che l’empatia è il principale ingrediente critico
della relazione d’aiuto
Indipendentemente dal contesto nel quale il processo di aiuto è riferito, psicoterapia (Truax e Mitchell, 1971), relazioni umane (Gazda et
al., 1984), relazione terapeutica (Kalkman, 1967), insegnamento
(Chambers, 1990) o semplicemente il prendersi cura (Watson, 1985),
tutti gli autori sono d’accordo nel riferire gli stessi obiettivi o intenzioni della relazione d’aiuto. Questi includono: inizialmente instaurare
una comunicazione interpersonale di tipo supportivo, con lo scopo di
capire le percezioni e i bisogni dell’altra persona; successivamente favorire la capacità della persona di imparare o di affrontare più efficacemente il suo ambiente; ed infine, come terzo punto, arrivare alla riduzione o alla risoluzione dei suoi problemi.
Kalkman, che assimila la relazione d’aiuto alla relazione terapeutica, fornisce una definizione operativa della relazione infermiere–
paziente che include obiettivi e proposte che probabilmente sono comuni a tutte le discipline d’aiuto (1967). L’autrice dichiara:
la relazione terapeutica si riferisce ad una relazione prolungata tra infermiere–terapista e paziente, durante la quale il paziente può sentirsi accettato come una persona di valore, sentirsi libero di esprimersi senza paura o rifiuto o
censura, e essere messo in grado imparare un pattern di comportamenti più
soddisfacenti e produttivi.
Questa definizione è in accordo con quelle classicamente fornite da
numerosi altri autori (es. Peplau, 1952; oppure Rogers, 1957) e rap-
112
Stefano Caracciolo
presenta una base utile per comprendere i risultati delle ricerche che
trattano l’efficacia dell’empatia nei processi interpersonali, in quanto
fornisce un indicatore di risultato. Essa è, del resto, in relazione con la
visione che emerge da molti altri studi i quali suggeriscono come
l’empatia possa aiutare a creare un clima interpersonale che sia libero
dalla necessità di difese e che metta gli individui in grado di parlare
dei loro bisogni. La difficoltà nel trarre ferme conclusioni da parte di
questi studi, è in parte correlata al fatto che i ricercatori misurano
l’empatia in modi differenti. Mentre, infatti, molti degli studi definiscono l’empatia all’interno della visione cognitivo–comportamentale,
l’uso di differenti misure sta a significare che il costrutto interno misurato nei diversi studi non è necessariamente lo stesso.
Howard (1975) intervistò gli utenti in diversi setting clinici, con
lo scopo di investigare le condizioni di cura che erano percepite
come necessarie in un approccio umanitario, ossia che preservi il
rispetto della persona umana. L’analisi delle interviste,
l’osservazione delle interazioni infermiere–paziente e la letteratura
relativa alle cure personalizzate, condussero Howard ad identificare
la componente cognitivo–comportamentale dell’empatia come una
variabile necessaria per le cure umane. L’empatia aiuta dunque i
professionisti a rispondere ai pazienti come ad esseri umani unici
perché possono vedere il mondo dal punto di vista dei loro pazienti,
quindi capirli meglio, e rispondere in modo più appropriato alle loro necessità. È interessante notare che il campione di persone riportava che i comportamenti non verbali degli operatori con basso livello di empatia, tendevano a trasmettere poco rispetto interesse e
supporto, aspetti che sembrano essere vicini al concetto di calore di
Rogers. L’assenza di impegno degli operatori d’aiuto probabilmente interferisce con lo sviluppo della fiducia nella relazione d’aiuto.
Confidare ad un’altra persona informazioni personali richiede, infatti, che il paziente creda che queste informazioni saranno usate
solo per gli scopi per i quali sono state fornite. L’assenza di fiducia
agisce probabilmente come una barriera nei confronti dell’empatia,
in quanto diventa meno probabile che il paziente si apra e condivida le sue sensazioni fornendo informazioni.
La creazione iniziale di un clima interpersonale libero dalla necessità di adottare delle reazioni difensive di segno negativo sembrerebbe
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
113
altamente desiderabile, in visione del fatto che i professionisti della
salute hanno l’arduo compito di trasmettere informazioni cariche di
contenuto emotivo ai loro pazienti.
Tornando alla descrizione di Kalkman (1967) della relazione
d’aiuto, nella seconda parte l’autrice suggerisce che l’empatia è
un’attività piena di significati che ha come obiettivo finale la crescita
del paziente:
nella relazione terapeutica (si deve) mettere in grado il paziente di imparare
schemi di comportamenti più produttivi e soddisfacenti.
Diversi studi in effetti supportano l’ipotesi di una relazione tra
l’empatia e un risultato favorevole nel campo della salute per i pazienti. Feital (1968) evidenzia che numerosi studi hanno stabilito una correlazione tra empatia, relazione d’aiuto, e la misura degli outcomes
come ad esempio un miglioramento della salute, o un effettivo aumento di conoscenze da parte del paziente. Anche Truax & Mitchell
(1971) citano diversi studi che condividono la loro idea di come
l’empatia sia il fattore che maggiormente influenza la riuscita degli
outcomes nel counselling e nella psicoterapia.
D’altra parte, molti studi mostrano risultati conflittuali, ad indicare che il dibattito non è ancora finito (es. Newall M. 1980, Rocher O.
1977). In particolare, una sfida all’empatia è stata avanzata da Morse, et al. (1992) che argomentano come l’empatia non sia possibile
nel setting della medicina d’urgenza o della chirurgia, perché il carico di lavoro non permette di solito all’infermiere di spendere più di
trenta minuti per ascoltare i propri pazienti. Questo comunque non
significa che l’empatia non possa rivestire una valenza terapeutica
anche in questi setting. Reynolds (1998) riporta che scarsità di tempo, povertà di abilità dell’operatore insieme ad una rapida dimissione, riducono l’opportunità di una relazione vis à vis tra infermiere e
paziente. Appare comunque evidente che il ruolo dell’empatia nel
processo di aiuto richiede ulteriori indagini in relazione ai criteri degli specifici outcomes.
Nella letteratura infermieristica e medica, sembra esserci unanimità
riguardo alla concezione dell’empatia come fenomeno multidimensionale che abbraccia i domini dell’affettività e cognitivo secondo Davis
114
Stefano Caracciolo
(1994) cui si aggiungono una componente comportamentale e morale
secondo Morse et al. (1992).
Il dominio cognitivo comprende l’abilità di capire l’esperienza interiore e le sensazioni, il sentimento, di un’altra persona, nonché la possibilità di vedere il mondo esterno dalla prospettiva dell’altro. Il dominio affettivo coinvolge la capacità di entrare o di prendere parte, di
unirsi, all’esperienza e alle sensazioni di un’altra persona (Hojat M. et
al., 2002). Secondo Mercer & Reynolds (2002) l’empatia presenta
componenti morali, cognitive, emotive e comportamentali che coinvolgono la capacità di: primo, capire la situazione del paziente, le sue
prospettive e le sue sensazioni (e il loro significato nell’attaccamento)
questo primo punto è assimilabile ai domini affettivi e cognitivi e morali; secondo, effettuare un ulteriore passaggio è quello di comunicare
all’altro la nostra comprensione e accertarne l’accuratezza; terzo agire
sulla base di ciò che è stato capito insieme al paziente allo scopo di
sviluppare la relazione d’aiuto (Mercer S.W.; Reynolds W.J.; 2002).
Questi ultimi due punti sono ascrivibili all’aspetto comportamentale
dell’empatia.
Dal punto di vista di Morse et al. (1992) le quattro diverse componenti possiedono un differente significato: la componente emotiva corrisponde all’abilità di sperimentare soggettivamente o condividere uno
stato psicologico o una sensazione interna di un altro; quella morale si
ricollega ad una forza interna altruistica che motiva la pratica empatica; quella cognitiva dipende dall’abilità intellettuale dell’operatore di
identificare e capire le sensazioni di un’altra persona e le sue prospettive da una posizione obiettiva; quella comportamentale si estrinseca
nel comunicare il risultato per trasmettere la comprensione dell’altra
prospettiva al paziente.
La necessità di trovare una definizione comune di empatia è enfatizzata dal disaccordo che esiste in letteratura riguardo al significato
dell’empatia. L’empatia è stata variamente concettualizzata: un comportamento; una dimensione personale; un’esperienza emotiva (MacKay et al., 1990). La complessità del processo empatico ha determinato, secondo diversi autori (Morse et al., 1992; Williams, 1990)
la confusione che esiste relativamente al significato e alle componenti dell’empatia. Troppo spesso l’empatia è stata considerata in modo
ristretto come un concetto con costrutto unitario.
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
115
Da un’estesa revisione della letteratura Morse et al. (1992) identificarono le quattro componenti dell’empatia sopracitate, ma anche Williams (1990), in modo per certi versi analogo, aveva già sostenuto che
si possono riconoscere diverse componenti dell’empatia sui versanti
emotivo, cognitivo, comunicativo e relazionale. La componente relazionale che è assente nella concezione di Morse, è stata definita “experienced” o “client–perceived”, ovvero legata all’esperienza e percepita dal paziente. Tale concezione è a sua volta paragonabile a quella
di Patterson (1974) che comprese nell’empatia quattro concetti:
1) l’operatore deve essere recettivo verso la comunicazione dell’altro,
ed è questa la componente emotiva o morale;
2) l’operatore deve capire la comunicazione mettendosi al posto
dell’altro, ed è questa la componente cognitiva;
3) l’operatore deve comunicare al paziente la sua comprensione, ed è
questa la componente comportamentale;
4) l’empatia permette la possibilità della validazione da parte dell’utente della percezione che ha avuto l’operatore della visione del suo
mondo, ed è questa la componente relazionale.
Questa ultima componente può essere discussa come un outcome
che dipende dalle capacità cognitive e comportamentali ed è in relazione con esse, e che ha lo scopo di permettere al paziente di dare validità alle percezioni dell’infermiere. La reale consapevolezza del paziente della comunicazione dell’operatore, gli permette di dire, «Si
questo è come io vedo le cose». Questa assunzione è concorde con il
modello multidimensionale di Barret–Lennard (1981) chiamato il ciclo dell’empatia, che viene schematicamente descritto come processo
articolato in quattro fasi successive:
— fase 1: il processo empatico interno di ascolto di un altro, che è significativo in modo personale, attraverso il ragionamento e la
comprensione;
— fase 2: lo sforzo di trasmettere la comprensione empatica dell’esperienza dell’altro;
— fase 3: la consapevolezza reale del comunicato dell’operatore da
parte dell’utente.
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Stefano Caracciolo
Il processo comincia quando una persona si esprime in presenza di
un’altra che l’accompagna empaticamente, e quando il processo continua la fase uno diventa il cuore caratterizzante, seguito dalla fase due
e tre in modo ciclico. Le caratteristiche di questo ciclo conducono a
favorire l’espressione personale e il feedback verso l’operatore che
empatizza.
Tuttavia, il punto su cui emerge maggiore disaccordo in letteratura
tra i diversi autori è quello che si riferisce al contributo specifico di
ogni componente dell’empatia al comportamento che costruisce la relazione terapeutica.
A dispetto della frequenza con la quale l’empatia è enfatizzata come qualità umana morale emotiva e cognitiva, si trovano altre visioni
in letteratura. Diversi teorici hanno concettualizzato l’empatia in un
modo che enfatizza la componente cognitivo–comportamentale. Ad
esempio Truax (1970) sostiene come l’empatia sia una via di percezione e allo stesso modo una via di comunicazione, l’empatia in questa visione è stata spostata da tratto umano, a forma di interazione, tale
concezione è coerente con le componenti cognitiva e comportamentale
di Morse.
Allo stesso modo Rogers (1975) che tende a vedere l’empatia come
attitudine enfatizza l’aspetto comunicativo del costrutto. L’autore suggerisce che le condizioni operative che sono facilitanti in tutte le relazioni d’aiuto sono collegata all’attitudine, all’aspetto cognitivo e al
comportamento. Rogers afferma che il paziente impara a cambiare
quando l’operatore comunica calore e genuinità ed è solo successiva la
comunicazione della comprensione delle sensazioni del paziente. Inoltre le attitudini e le abilità cognitive sono trasmesse al paziente attraverso la comunicazione. La visione dell’empatia in termini cognitivo–
comportamentali è sempre più ampiamente condivisa, come si vede
dalla definizione di Aspey (1975): «empatia è l’abilità di comunicare
la tua comprensione delle sensazioni dell’altra persona e le ragioni
delle sue sensazioni».
In sintesi, sono quindi cinque sono le concettualizzazioni attorno
cui si possono raggruppare i vari contributi che si sono occupati
dell’empatia. Empatia come tratto umano, come stato professionale,
come processo di comunicazione, come prendersi cura (caring), e infine empatia intesa come relazione speciale.
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
117
Queste cinque categorie sono emerse in seguito all’analisi del concetto (concept analysis), metodo che si riferisce ad un processo di rivelazione, scoperta, esplorazione e comprensione dei concetti, viene
utilizzato per esplorare concetti maturi, ed ha lo scopo di incrementare
la comprensione dell significato. Ogni concettualizzazione viene discussa in relazione alle sue caratteristiche e alle interpretazioni specifiche dell’empatia degli autori.
a) Empatia come tratto umano
In questa concettualizzazione l’empatia è considerata un’abilità naturale innata. Sebbene sia riconosciuto e ammesso che l’empatia non
possa essere insegnata, si crede che possa essere identificata, rinforzata e raffinata. I termini utilizzati all’interno di questa concettualizzazione di empatia sono naturale, istintiva, contagio involontario, emozionale, genotipica. L’esperienza, la maturità, l’autoconsapevolezza e
la creatività sono visti come attributi che aiutano il medico a capire il
suo paziente.
Estetica, creatività ed immaginazione in relazione all’empatia, sono
il centro dei lavori di Smyth (1996). Egli sostiene che l’immaginazione e la creatività sono gli antecedenti dell’empatia, e che non solo ci
sono legami concettuali tra i campi dell’empatia e dell’esperienza estetica, ma che anche le arti possono arricchire la nostra comprensione
dell’empatia e delle relazioni in generale oltre che a aumentare la nostra capacità di empatizzare. Tale concezione è in accordo con i risultati di uno studio sperimentale che, depongono a favore di una relazione positiva dell’empatia con la creatività, e di una correlazione inversa con il dogmatismo (Carlozzi et al., 1995).
Altri autori hanno elaborato una diversa concettualizzazione: Alligood (1992), ad esempio, ha distinto due differenti tipi di empatia. Il
primo tipo chiamato “empatia di base” è visto come un tratto, un attributo umano una capacità umana universale ed è legata alla naturale
capacità di sentire gli altri. Questa empatia è indipendente dalla volontà e non può essere insegnata. Tuttavia questa può essere identificata,
rinforzata e rifinita evolvendosi nel secondo tipo che viene denominato “empatia avanzata”.
118
Stefano Caracciolo
b) Empatia come competenza professionale
È un’abilità comunicazionale acquisita che include primariamente
componenti cognitive e comportamentali che sono usate per trasmettere la comprensione dell’utente all’utente stesso. Con questa concettualizzazione l’empatia è un fenomeno che si impara, dove il soggetto seleziona il responso migliore, cognitivamente. I termini che solitamente
vengono utilizzati per descrivere questa concettualizzazione di empatia sono, riflettere, processo clinico, fenotipico, processo terapeutico.
In letteratura è inclusa una discussione relativa all’obiettività,
all’importanza di mantenere l’attenzione concentrata sull’utente, come
quella di evitare un inappropriato coinvolgimento emotivo dell’operatore della sanità. Thompson (1996) sottolinea in questo senso l’importanza dell’abilità dell’infermiere di essere in grado di uscire dall’esperienza empatica con lo scopo di mantenere l’obiettività cosicché la
comunicazione rimanga focalizzata sull’utente, e non si verifichino il
personale esaurimento emotivo e l’inappropriato coinvolgimento
dell’infermiere.
L’autoconsapevolezza è un altro importante aspetto dell’empatia, in
quanto aiuta a identificare le barriere che separano se stessi dagli altri.
In questa concettualizzazione l’empatia include una distanza emotiva
dal paziente per ottenere un appropriato responso professionale, obiettività e ruolo terapeutico. Ad essa si riferisce anche un costrutto che si
definisce in letteratura con il termine inglese di Self–monitoring e che
fu introdotto da Snyder (1974) come tratto che descrive e spiega le
differenze individuali dell’autocontrollo e del comportamento
nell’interazione comunicativa. Così si esprime Snyder nella originaria
definizione del costrutto:
There are, however, striking and important differences in the extent to which
individuals can and do monitor their self–presentation, expressive behavior
and non–verbal affective display
Ci sono, comunque, impressionanti ed importanti differenze nel grado con
cui ciascun individuo può monitorare il proprio comportamento espressivo e
la propria comunicatività affettiva non verbale (Snyder, 1974, p. 526).
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
119
Nei successivi studi di sviluppo (Snyder, 1987), il costrutto teorico
del self–monitoring si è nettamente orientato verso la costruzione di
una tipologia così definita:
— i soggetti high Self–monitorers e low Self–monitorers sono ispirati
nei loro comportamenti comunicativi da un differente metacontrollo del comportamento nei diversi contesti sociali;
— i soggetti high Self–monitorers prendono in esame le loro performance e gli aspetti strategici del comportamento che mettono in
atto sintonizzandosi sugli altri;
— i soggetti low Self–monitorers mettono in atto comportamenti
prevalentemente sintonizzati sulla propria situazione e sulle proprie abitudini.
Si tratta quindi non soltanto di tipi diversi di comportamento basati
sulle differenze individuali, ma anche legati a strutture del comportamento interattivo del tutto differenti.
La decostruzione dell’empatia nelle sue varie componenti, così
come effettuata da Morse et al. (1992), è interessante dal punto di vista teorico, ma meno utile dal punto di vista della pratica clinica. È
necessario esplorare e comprendere le componenti dell’empatia in altri
termini, ovvero quali componenti sono rilevanti per potere produrre
linee–guida e suggerimenti operativi. Tutti coloro che si occupano della formazione del medico e delle altre figure professionali sanitarie
dovrebbero essere interessati alle abilità che sostengono l’empatia, e
per questa ragione c’è bisogno di una definizione che rifletta le competenze empatiche in termini operativi. La seguente è di La Monica
(1981):
Empatia significa centrare l’attenzione e sentire con l’utente, e nel suo mondo. Comprende la percezione accurata del mondo del cliente, la comunicazione di questa comprensione, e la percezione del cliente della comprensione
dell’operatore. (p. 398).
Questa definizione combina i due livelli di empatia: quello della attitudine empatica e quello della abilità comunicativa. In questo contesto l’empatia non è solo “un modo di essere” con l’altro (Rogers,
1975), ma è anche comunicare al paziente la comprensione del profes-
120
Stefano Caracciolo
sionista del suo mondo cosicché questa percezione possa essere validata dall’utente.
L’interesse primario emergente da questa definizione, è che riflette
ciò che i medici dovrebbero fare durante la relazione con i loro utenti.
Questo include inizialmente una comunicazione di tipo supportivo con
la persona che è in condizioni di effettiva necessità, allo scopo di capire il suo malessere ed apprezzare che cosa significa essere al suo posto. I medici dovrebbero permettere ai loro utenti di avere un ruolo più
attivo nei meccanismi di problem–solving specialmente in relazione a
ciò di cui hanno bisogno per un supporto pratico ed emotivo (es. Gordon et al., 1980).
Questo punto è stato enfatizzato da Turkoski (1997) che ha chiarito
come le utenti, donne con HIV o quelle con esperienza di vissuto di
dolore hanno diverse aspettative e bisogni rispetto a quelli indicati dai
professionisti del sistema sanitario. Il divario tra la visione dei professionisti e quella dei pazienti è accentuato dall’enfasi attuale sul rapido
passaggio dei pazienti attraverso la struttura sanitaria. Queste condizioni impediscono con tutta probabilità una valutazione olistica dei bisogni del paziente.
Le conclusioni tratte dalla letteratura suggeriscono che l’empatia è
un’abilità interpersonale che dipende dalle attitudini e dai comportamenti dell’operatore. L’empatia è una forma di interazione che comprende la comunicazione degli atteggiamenti e della comprensione del
mondo del paziente da parte dell’operatore d’aiuto. Essa comprende la
consapevolezza del paziente della comunicazione dell’operatore con
l’intento di far sì che il paziente capisca se i suoi bisogni sono stati
compresi. L’empatia è quindi il risultato della sommatoria di diverse
componenti ed è anche una abilità osservabile. È inoltre necessario
trovare una comprensione comune di cosa significa empatia. Poiché le
ricerche accumulate supportano l’evidenza che l’empatia è una componente cruciale della relazione d’aiuto, è necessario scoprire una definizione operativa del concetto che sia di rilevanza clinica. La definizione di La Monica sembra essere attinente con il bisogno degli operatori di avere indicazioni sul “da farsi” durante la relazione con i loro
pazienti, in particolare in relazione alla consapevolezza da parte
dell’utente delle percezioni del professionista, della sua personalità e
del suo mondo. È altresì importante che il paziente partecipi all’assun-
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
121
zione della responsabilità riguardo alla propria salute, che dica al professionista che cosa vuole e che sia considerato e trattato come una
persona e non come un caso.
c) L’empatia e le sensazioni all’interno della relazione d’aiuto
L’attenzione focalizzata in egual modo su sul paziente dall’interno
e dall’esterno è la base del processo empatico. Elementi che appartengono ai domini dell’affettività, come l’emotività, e cognitivo, come
l’ideazione, sia che si tratti di aspetti consci sia di inconsci, contribuiscono al processo in ogni stadio. I livelli di profondità durante
l’interazione variano, in relazione all’aumento della conoscenza
dell’altro: si può immaginare che più si conosce l’altro, più ci si addentra nel suo mondo più la capacità empatica nei suoi confronti aumenta. Più questo addentrarsi si verifica più diventa necessario porre
la massima attenzione alle nostre esperienze interiori, avendo ben
chiaro che questi stati, queste sensazioni viscerali, sono stati attivati in
noi dallo stato interiore del paziente.
Al contatto con l’altro possiamo provare la sensazione di essere
fusi, ovvero l’interscambio di aspetti di sé con aspetti del paziente.
Altre volte può capitare di provare stati controtransferali di tipo difensivo, che, o ci rendono eccessivamente sensibili, o troppo distanti
nei confronti dell’altro. Nel primo caso si può cadere nel processo di
identificazione, nel secondo caso rischiamo di diventare solamente
osservatori esterni, anche se è importante ricordare che entrambi gli
stati in una certa misura sono fondamentali per la conoscenza
dell’altro. Da quanto esposto si evince che il processo di comprensione empatica è un processo interpersonale, in quanto avviene tra
due persone, ed è anche un processo intrapsichico che richiede introspezione (Berger, 1989).
La sensibilità empatica è amplificata dalla capacità di immaginarsi
il mondo dell’altro, e di cogliere la realtà della sua esperienza. Il tutto
comincia nella fase iniziale della relazione, tale fase è stata metaforicamente tradotta da Freud come le mosse d’apertura di una partita di
scacchi (1913), altri autori hanno identificato questa fase come l’inizio
di una spedizione alpinistica con i due partecipanti uniti da una corda
(Basch, 1980).
122
Stefano Caracciolo
In questa fase iniziale nessuno dei due membri sa che cosa accadrà, è
l’inizio di qualcosa di nuovo e ognuno porta le proprie aspettative.
Quello che succederà durante il percorso potrà portare a condividere gli
obiettivi o a divergere. I ruoli a tratti saranno invertiti, a momenti di solidarietà si potrebbero alternare periodi di antagonismo o indifferenza.
Nella relazione, il terapeuta oscilla tra un’intima consonanza emotiva con la vita interiore del paziente e la valutazione oggettiva della
situazione, un’alternanza tra atteggiamento partecipe e osservante, tra
ascolto dall’interno e dall’esterno. All’inizio il terapeuta e il paziente
sono due estranei, quindi il ruolo del primo può solamente essere quello di osservatore esterno. Nelle fasi successive la capacità di conoscere
il mondo interno del paziente, dai suoi racconti, diventa la chiave per
assumere un ruolo di maggior coinvolgimento (Berger, 1989).
6. Conclusione
Nel rapporto con il paziente affetto da depressione risulta quindi
fondamentale costruire, attraverso la tecnica dell’empatia, una relazione di fiducia a partire dalla quale il medico potrà sviluppare, assieme
al paziente, una piena e matura alleanza terapeutica. È appunto di questo argomento che ci occuperemo nel prossimo capitolo.
Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente
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La depressione e il rapporto con il paziente:
empatia, alleanza terapeutica, costruzione della fiducia
di STEFANO TUGNOLI e STEFANO CARACCIOLO
Nel lavoro quotidiano con la sofferenza psichica la relazione medico–paziente è, o dovrebbe essere, il baricentro di ogni attenzione clinica e di ogni riflessione psicopatologica e organizzativa, di ogni decisione sul “da farsi” che segua una ragionevole pensabilità su “quanto
sta avvenendo”: l’incontro tra una domanda, la richiesta di aiuto del
paziente, e una risposta che il terapeuta può fornire in termini di diagnosi e di terapia; l’incontro tra due persone che vede da un lato la
soggettività e le competenze del terapeuta, dall’altro la soggettività e il
bisogno/sofferenza del paziente. In prima istanza quindi l’incontro tra
due mondi soggettivi che definiscono un campo relazionale specifico
strutturato dalla realtà intrapsichica del paziente, dall’intrapsichico del
terapeuta, da correnti transferali e controtransferali che attraversano il
campo, e dalle declinazioni intersoggettive di questo incontro, con
modi, toni e significati che ne connotano la singolarità e ne delineano
le configurazioni manifeste. Questo campo relazionale deve necessariamente includere aree topograficamente periferiche, ma non certo
meno rilevanti per gli esiti del rapporto: la famiglia del paziente e le
sue relazioni più significative, e la “famiglia” del terapeuta, i personaggi significativi che abitano la sua interiorità, l’ambito delle sue relazioni nel privato e la sua appartenenza istituzionale. Il contesto relazionale sottende, per altro, il significato stesso dei due momenti fondamentali dell’attività del medico, e ancora di più dello psichiatra:
• “diagnosi”, diagnosis, conoscenza “attraverso”, attraverso la comunicazione e la relazione;
• “terapia”, therapeia, “servizio”, “cura”, (da therapon, “servo, scudiero”, e therapeutikos, “atto a servire”, intendendo soprattutto il
servizio reso agli dei nel culto, agli uomini col trattamento medico,
131
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Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
alle piante con la loro coltivazione); è incluso nel significato originario del termine tanto il “curare” quanto il “prendersi cura”.
Allo stesso tempo, diagnosi e terapia devono configurarsi come operazioni scientificamente fondate: la “ragione nosografica” e il “razionale” di ogni intervento psicofarmacologico e/o psicoterapico, sono
ineludibili per concretizzare validamente l’intervento curativo in termini di efficacy, potenziale terapeutico insito nello strumento utilizzato, e di effectiveness, qualità dei risultati clinicamente osservabili.
L’attività dello psichiatra, più che ogni altro ambito della medicina,
vive quindi di una strutturale contraddizione dialettica, declinabile su
molteplici livelli: tra l’osservare e il capire ponendosi “a distanza”
dell’oggetto clinico, e l’interagire, il relazionarsi “in prossimità” del
soggetto con il quale la clinica dispiega la propria irriducibile complessità; tra l’impiego del modello medico–biologico e dell’approccio nosografico–descrittivo (categoriale o dimensionale che sia), e una prospettiva psicodinamica in grado si sostanziare l’estensione semantica dei
dati dell’osservazione con la possibilità di accesso al mondo interno del
paziente; la contraddizione tra la necessità di riferimenti concettuali di
validità generale e la singolarità del rapporto con una persona sofferente; in sintesi, tra piani nomotetico e idiografico della conoscenza.
Tenuto conto di questi riferimenti la psichiatria attuale non dovrebbe
eludere coordinate epistemologiche e metodologiche che orientano una
conoscenza e una prassi scientifica attenta al rischio riduzionistico–
positivistico senza per questo scivolare su derive troppo relativistiche e
soggettivistiche altrettanto insidiose; tenere cioè in giusta considerazione i limiti della “scientificità naturalistica” dei metodi obiettivanti e
quantitativi (pensiamo per esempio al rischio di una “ideologia della
misura” insito nell’impiego sempre più diffuso delle rating scales, non
solo nella ricerca ma anche nella clinica) e, nel contempo, evitare che
eccessi di intenzionalità immedesimativa, di spontaneismo e di coinvolgimento acritico nella relazione con il paziente producano pericolose
collusioni psicopatologiche, per definizione “antiterapeutiche”.
Sono evidenti pertanto due pericoli opposti:
• il rischio di un distanziamento difensivo dalla realtà del paziente,
dai suoi conflitti e dalle sue angosce, dal coinvolgimento personale
La depressione e il rapporto con il paziente
133
e dalle frustrazioni che si incontrano, distanziamento giustificato
talvolta nel nome di una presunta scientificità da parte di un medico
che tenderà a fornire prestazioni (“etichettatura” diagnostica e prescrizione farmacologica), incapace di ascolto e accoglimento delle
richieste emotive del paziente. A questo livello la risposta del medico è “predisposta” e precede spesso la domanda del paziente
(Muzio, 1985), negando contestualmente i suoi bisogni e il suo diritto di cura.
• il rischio di un “abuso” della dimensione empatica, condizione necessaria ma non sufficiente per la cura, degenerando in un “empatismo” privo di reale efficacia terapeutica, sostenuto da “eccesso di
concordanza” del terapeuta che «pretende di essere empatico in
uno sforzo coatto nel ricercare il contatto a tutti i costi» (Bolognini,
2002); a questo livello, per altro, intervengono aspetti narcisistico–
onnipotenti del terapeuta alle prese con «l’illusione programmatica
di poter decidere attivamente e metodicamente di realizzare una situazione empatica» (Bolognini, 2002); l’empatia non può essere
posta come metodo ma può, semmai, nei casi più felici, risultare da
un complesso lavoro con il paziente, che passa attraverso una
“condivisione esperienziale”, come tale priva ancora di pensabilità,
seguita da una “condivisione elaborativa”, un working through della coppia terapeuta–paziente, per arrivare infine a definirsi come
“vera empatia” (Bolognini, 2002).
Si pone pertanto la necessità di una articolata integrazione tra approccio nosografico–descrittivo e approccio psicodinamico, integrazione che, tra l’altro, ha in sè una connotazione intrinsecamente depressiva, non solo per l’inevitabile “depressività” dei processi integrativi, ma anche per la modalità operativa che dovrebbe appartenere al
terapeuta nel rapporto con tutti i pazienti, e, naturalmente, anche con il
paziente depresso.
In primo luogo, il terapeuta dovrebbe poter disporre di una sua elasticità di movimento rispetto alla distanza con il paziente: essere da un
lato capace di un approccio “partecipativo–intuitivo” e di un ascolto
finalizzato alla comprensione del paziente, “sentire con il paziente”
accogliendo e contenendo le dimensioni del suo disagio e della sua
esperienza soggettiva; è altrettanto necessario però che il terapeuta
134
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
sappia distanziarsi non difensivamente per essere in grado di “pensare
sul paziente” e sulle personali risonanze emotive che si attivano
nell’incontro, riflessione capace di tollerare spesso l’assenza di risposte immediate e sostenuta da un’attesa fiduciosa nelle possibilità della
relazione.
Il rapporto vive quindi nell’alternanza di momenti di maggiore o minore contatto emotivo con il paziente, di immersione nell’esperienza e di riflessione
su di essa, dove la continuità del “cumsentire” condivisivo può interrompersi
nella discontinuità individuante dell’essere innanzi e non a fianco del paziente, seguendo i ritmi di una costante oscillazione (Montanari et al., 1988).
Ad un momento empatico–identificativo si alterna quindi un momento separativo, entrambi costituitivi di un “atteggiamento psicoterapico” di base (Curci, Secchi, 2000) che dovrebbe comportare la contestualità del livello diagnostico e terapeutico dell’intervento clinico1.
Le due polarità di questo “movimento sisto–diastolico di cui pulsa
il rapporto” (Montanari et al., 1988), del “sentire con il paziente” e
del “pensare sul paziente”, sono costitutive dell’esperienza empatica
in quanto tale (Bolognini, 2002), oltre che presupporre nel terapeuta
una “capacità depressiva” (sottesa da una stabile condizione individuante di “separatezza”) che lo metta al riparo, per quanto possibile,
dal rischio di implicazioni confusive con la psicopatologia del paziente, di contagio emotivo o di distacchi difensivi dagli affetti in gioco;
una capacità depressiva che gli consenta di esercitare la propria funzione nel segno dell’assunzione di responsabilità e della rinuncia alle
pretese di onnipotenza terapeutica.
A quest’ultimo punto si ricollega un altro aspetto, che riteniamo utile considerare, quale concetto–ponte per meglio procedere nelle argomentazioni sulla relazione con il paziente depresso.
Nissim–Momigliano (1984) sottolinea come si possa lavorare considerando il paziente “il nostro miglior collega” e, citando Bion, af1
Da un punto di vista psicodinamico, diagnosi e terapia risultano interrelate e contestuali
e, a differenza di quanto accade nel modello medico–biologico, la componente terapeutica è
inclusa, e può addirittura precedere, la componente diagnostica; come afferma Gabbard
(1994) — citando Menninger — «il paziente viene per essere curato e qualunque cosa venga
fatta per lui, nella misura in cui lo riguarda, è terapia, indipendentemente da come la chiama il
medico. Pertanto, in un certo senso, la terapia precede sempre la diagnosi».
La depressione e il rapporto con il paziente
135
ferma: «il miglior collega che voi possiate mai avere, oltre a voi stessi
non è un analista, o un supervisore, o un genitore, ma il paziente, cioè
la sola persona su cui possiate davvero fare affidamento che sia in
possesso delle conoscenze vitali». Di analogo significato sono le affermazioni di Searls (1975) che, cogliendo una “tensione terapeutica
originaria dell’essere umano”, definisce il “paziente come terapista
del suo analista” (cit. in Nissim–Momigliano, 1984). Al di là di ogni
altra considerazione sulle complesse interazioni in gioco, si vuole qui
sottolineare un fatto, tanto ovvio quanto spesso misconosciuto: la centralità del paziente, dei suoi bisogni e le possibilità che ha, in quanto
titolare della sua sofferenza, di aiutarci a capirlo. In questo senso viene
valorizzato il coinvolgimento attivo del paziente come “collaboratore
di un processo esplorativo” (Gabbard, 1994).
Pur con le dovute cautele, fruendo in quanto psichiatri di argomentazioni derivanti da un contesto strettamente psicoanalitico, vale la pena di osservare l’evidenza di una costituzione intrinsecamente depressiva del terapeuta, non tanto in riferimento al possibile e variabile tasso di psicopatologia personale (auspicabilmente oggetto di consapevolezza e di lavoro terapeutico su di sè), ma alla presenza di un assetto
interno che disponga il terapeuta al riconoscimento dei propri limiti,
ad una tensione alla rinuncia delle proprie aspirazioni di onnipotenza
terapeutica, e alla consapevolezza che solo attraverso l’alterità del suo
paziente e una continua ricerca di alleanza e fiducia, potrà in qualche
misura aiutarlo.
Nissim–Momigliano, nel suo contributo, infine ci introduce direttamente al tema dell’empatia e alle declinazioni dell’incontro
con il paziente quando afferma che, per raggiungere davvero la sofferenza della persona, occorre «vedere con gli occhi del paziente»,
«cambiare il vertice di osservazione quando non si riesce a vedere
molto dal luogo dove si sta osservando il paziente» (Nissim–
Momigliano, 1984). È evidente che, per fare questo, è necessario,
“depressivamente”, accettare la nostra difficoltà nel capire, e tentare di cogliere e spesso tollerare la complessa articolazione di affetti
attivati dalla situazione clinica: «quando riusciamo a sopportare
meglio la nostra angoscia e il senso di impotenza inevitabile di
fronte a quello che davvero non siamo in grado di riparare, riusciamo anche a comunicare al paziente» (e, aggiungiamo noi, soprattut-
136
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
to al paziente depresso) «una possibilità di tollerare meglio il suo
senso di morte» (Nissim–Momigliano, 1984).
È altrettanto evidente l’allusione a quella necessaria scissione fisiologica nella funzione del terapeuta che vede «un Io che sperimenta insieme al paziente quello che sta provando, e un Io critico–osservante,
che registra, elabora e interpreta tali vissuti», realizzando, nelle occasioni più felici, una integrata “esperienza affettiva e di pensiero” (Nissim–Momigliano, 1984); queste due polarità dell’assetto egoico del
terapeuta (ma anche del paziente), rientrano con sfumature diverse
nella definizione stessa dei concetti di Alleanza Terapeutica e di Empatia.
Con il termine di “alleanza terapeutica” (Zetzel, 1956) o di “alleanza di lavoro” (Greenson, 1965), si fa riferimento a quel «rapporto
stabile e positivo tra terapeuta e paziente, che mette in grado quest’ultimo di impegnarsi produttivamente» (Zetzel, Meissner, 1973),
alla «relazione razionale, relativamente non nevrotica, del paziente
con l’analista» che implica la sua «capacità di lavorare in modo costruttivo nella situazione terapeutica» (Greenson, 1965)2. Questo
«rapporto collaborativo che si stabilisce tra paziente e terapeuta»
(Lingiardi, 2002), è, come ogni alleanza, un patto che si stringe per
combattere un nemico, per affrontare un pericolo o un ostacolo, nel
caso specifico la patologia del paziente; ha quindi una connotazione
bipersonale sostanziata da parte del paziente «dalla sua motivazione
a vincere la malattia, dal suo senso di infelicità, dal desiderio cosciente e razionale di collaborare» e dalle sue capacità di comprendere e seguire le verbalizzazioni del terapeuta (Greenson, 1965); questi,
dal canto suo, deve disporre nei confronti del paziente di prerogative
quali «rispetto, considerazione, cortesia, tatto ed empatia» (Meissner,
1996). l’Empatia è quindi «una componente essenziale dell’alleanza
terapeutica», ma, allo stesso tempo, «l’alleanza richiede reciproci
coinvolgimenti empatici sia da parte del terapeuta, sia da parte del
paziente» (Meissner, 1996). In sintesi, riteniamo di poter così precisare i rapporti intercorrenti tra empatia e alleanza terapeutica:
2
L’Alleanza Terapeutica viene oggi annoverata tra i cosiddetti “Fattori Terapeutici Specifici Comuni” (Berti Ceroni, Vescovi, 2001), elementi presenti in ogni relazione terapeutica e
che contraddistinguono «l’atteggiamento mentale e concreto del medico e della relazione
medico–paziente» (Berti Ceroni, 2005).
La depressione e il rapporto con il paziente
137
• l’empatia, rispetto all’alleanza terapeutica, è uno degli elementi che
la definiscono concettualmente e uno dei fattori che la rendono
possibile pragmaticamente; l’alleanza, rispetto all’empatia, è il presupposto relazionale di fondo che la consente;
• l’empatia del terapeuta fornisce un canale di informazione sul paziente che gli consente di monitorare in progress l’andamento
dell’alleanza terapeutica; l’empatia del paziente è una importante
componente della sua capacità di comprendere e rispondere
all’attività dell’Io di lavoro del terapeuta, contribuendo a rinforzare
l’alleanza terapeutica.
In buona sostanza, solo a patto di una interrelazione circolare tra alleanza ed empatia si può definire la condizione di base necessaria, anche se non sufficiente, perchè si dia un valido intervento terapeutico.
Sterba (1934), uno dei pionieri della riflessione teorica su questi
temi, parla di una “scissione terapeutica dell’Io” del paziente sulla
quale si fonda la possibilità di un trattamento: un Io osservante, rivolto
verso la realtà e in grado di cooperare “alleandosi” con l’Io analizzante del terapeuta, e un Io partecipante, istintuale e difensivo, che vive
l’esperienza di quanto accade e che si esprime nel transfert. Come si
può notare, questa distinzione riproduce sul versante intrapsichico del
paziente quello che Nissim–Momigliano coglie nell’assetto intrapsichico del terapeuta come condizione per entrare in un contatto empatico autentico e terapeutico con il paziente.
Per altro, nelle definizioni più attuali e complete del concetto di “empatia” troviamo riferimenti a questa impostazione e alla costitutività depressiva di un valido assetto terapeutico (dove qui il termine “depressivo”
non rimanda ovviamente ad una connotazione clinica, ma, come prima si
precisava, ad un significato di ordine affettivo–evolutivo).
Coniato da Titchener nel 1909, traduzione dal tedesco einfuhlung,
“sentire dentro”, il termine “empatia” fa riferimento alla capacità di
sperimentare i sentimenti dell’altro, i suoi vissuti interiori; nella sua
costituzione rientrano molteplici componenti, di ordine affettivo, cognitivo, esperienziale e di sintesi integrativa (Levy, 1985). Si tratta
quindi di una condizione complessa, che va ben oltre la “capacità di
mettersi nei panni dell’altro” (Ferenczi, 1928), locuzione a volte semplicisticamente ridotta a luogo comune dell’esperienza interpersonale.
138
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
Intendiamo oggi per empatia qualcosa di molto più complesso, una
«condizione intrapsichica e relazionale privilegiata, che pone in contatto due esseri umani, consentendo la percezione delicata e sensibile
dell’interiorità, in una situazione di consapevole separatezza e di integrazione del capire con il sentire» (Bolognini, Borghi, 1989). Bolognini (2002), riferendosi al concetto di empatia psicoanalitica, ne propone una definizione particolarmente dettagliata:
una condizione di contatto conscio e preconscio, caratterizzata da separatezza, complessità e articolazione; uno spettro percettivo ampio in cui sono
comprese tutte le tonalità di colore emotivo, dalle più chiare alle più scure; e
soprattutto un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarietà oggettuale, con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, non meno
che con la sua soggettività egosintonica. (Bolognini, 2002)
Tanto la “complementarietà oggettuale” (vale a dire il contatto controtransferale con il mondo interno conflittuale del paziente) quanto
l’esperienza “concordante” con la soggettività egosintonica del paziente (ovverosia l’immedesimazione nel vissuto soggettivo conscio
del paziente), sono necessarie per l’esperienza empatica.
Nel contesto clinico l’empatia del terapeuta ha diversi risvolti (Pancheri, Paparo, 2005): come tale è un fattore di crescita e di cambiamento; è un fattore terapeutico comune a tutti i trattamenti che promuove le
potenzialità di Self–righting del paziente3; nella prospettiva della “psicologia del Sé” di Kohut (1971; 1977; 1978; 1984) l’empatia è il nucleo
fondante di un metodo specifico di intervento terapeutico4.
Gli sviluppi concettuali in ambito psicodinamico su empatia e alleanza terapeutica hanno precisato alcune posizioni di fondo a nostro
parere utilizzabili nella prospettiva del lavoro terapeutico con il paziente depresso.
3
Il concetto di “self–righting” viene utilizzato da Lichtenberg (1989) in riferimento alle
capacità dell’organismo di correggere autonomamente un deficit evolutivo causato da carenze
o inadeguatezze da parte dell’ambiente; in stretta analogia con la crescita psicobiologica Lichtenberg sostiene che questa capacità di “autocorrezione” è centrale nel processo terapeutico
ed è favorita dalle capacità empatiche e dal grado di responsività del terapeuta (Pancheri, Paparo, 2005).
4
Questa centralità dell’empatia si ritrova praticamente in tutta l’opera di Kohut, dal 1959
(Introspezione, empatia e psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e
teoria) al 1982 (Introspezione, empatia e il semicerchio della salute mentale).
La depressione e il rapporto con il paziente
139
• La sensibilità del terapeuta può essere definita “empatica” «solo
quando non è al servizio di bisogni narcisistici, ma di relazioni oggettuali mature» (Olden, 1958); questa condizione si realizza contestualmente al procedere evolutivo della personalità e «implica la consapevolezza di separazione e assenza di confusioni, ed è resa possibile solo
a prezzo dell’elaborazione del lutto riguardante la prima, fisiologica
fase fusionale» (Bolognini, 2002).
Da questa angolatura si ribadisce la necessità di una separatezza e
di una “depressività intrinseca” nel terapeuta, per poter sperimentare
vera empatia nei confronti del paziente. Vale la pena anche di considerare quante e quali difficoltà si possono incontrare nel lavoro con pazienti gravemente depressi, invischiati nelle loro “separazioni impossibili” dall’area delle relazioni primarie e, per questo motivo, con poche possibilità di veri movimenti empatici verso il terapeuta, a sua
volta a rischio di regressive “cadute” di capacità empatica.
• In quanto «evento intrapsichico e interpersonale non programmabile» l’empatia obbliga il terapeuta anche ad un altro «lutto profondo,
quello riguardante un’arcaica illusione onnipotente, di poter controllare i propri affetti fino a poterli decidere» (Bolognini, 2002); l’empatia
non può essere convocata a comando, nè essere insegnata: si può,
semmai, «imparare ad adoperarla correttamente, si possono eliminare
inibizioni o usi erronei dell’empatia» (Greenson, 1960).
• La ricerca di contatto con l’umanità del paziente e con il suo mondo interno è uno degli scopi primari della relazione terapeutica e la
“funzione empatica” rappresenta il “polo sensoriale–percettivo” di
questa protensione all’altro, mentre, come ci ricorda Glauco Carloni
(1984) il “tatto” ne rappresenta il “polo motorio”, “l’arte di trattare il
prossimo”, la sensibilità nel modulare il nostro intervento con tempestività e nei modi più idonei per quel dato paziente.
Anche a questo livello incontriamo dinamiche intrapsichiche nel
terapeuta che rimandano all’affetto depressivo. «Si ricorre
all’empatia», afferma Greenson (1960), «per ristabilire il contatto
con un oggetto sfuggente, perduto. Non comprendere è un modo di
perdere o rifiutare un oggetto». Rintracciando analogie con le posizioni di Freud sul lutto e la melanconia nei confronti della perdita
140
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
d’oggetto, Greenson sostiene che «il paziente incompreso è una sorta
di oggetto d’amore perduto. L’empatia sarebbe quindi un tentativo di
riparare alla perdita di contatto e di comunicazione» (Greenson,
1960). Sappiamo che l’insorgenza della patologia depressiva è spesso una conseguenza della rottura di un rapporto di sostegno essenziale per l’individuo (Pancheri, Paparo, 2000); Greenson ci ricorda che
«le persone tendenti alla depressione sono anche le più capaci di entrare in empatia» (Greenson, 1960), e che siano «maggiormente dotati di capacità empatiche quei terapeuti che abbiano provato
un’esperienza di depressione e siano riusciti a superarla» (Greenson,
1966). Diverse ricerche in ambito extrapsicoanalitico (cognitivo–
comportamentale, epidemiologico e psicosociale) hanno recentemente prodotto evidenze che supporterebbero le intuizioni di Greenson: è
stata riscontrata infatti una correlazione positiva tra presenza di sentimento di colpa e disposizione empatica (Simon et al., 2002; Leith
et al., 1998; Van Stokkom, 2002; Joireman, 2004), così come tra
empatia e vulnerabilità depressiva (O’Connor, 2002; Hollinger–
Samson, 2000; Gawronskj, 1997; Schieman, 2001).
• L’empatia ovviamente non riguarda solo il terapeuta; «è il prodotto dei messaggi emotivi che continuamente si trasmettono tra i
due partecipanti» e «implica lo stabilire un sistema di feedback costante tra paziente e terapeuta» (Pao, 1979). In questo contesto bipersonale «la capacità empatica dell’uno può essere influenzata dalla resistenza o dalla prontezza alla comprensione empatica da parte
dell’altro» (Greenson, 1960). In assenza di un sufficiente grado di
sintonizzazione empatica del paziente nei confronti del terapeuta
viene ostacolata o vanificata ogni forma di alleanza terapeutica
(Meissner, 1996): le proiezioni transferali, le vicissitudini pulsionali, le difese impiegate e i toni affettivi del paziente possono interferire profondamente nella sua possibilità di collaborare e nella fiducia nell’intervento terapeutico; nei casi di grave depressione dove
alleanza terapeutica e fiducia (tanto del paziente quanto del terapeuta) sono massivamente attaccate dalla distruttività melanconica
del mondo interno del paziente, l’empatia può dimostrarsi poco utile, se non addirittura fuorviante, come guida dell’intervento nella
situazione clinica.
La depressione e il rapporto con il paziente
141
• Dobbiamo infatti anche considerare i limiti dell’empatia come
strumento di comprensione del paziente da parte del terapeuta, limiti
connaturati alla declinazione interpersonale dell’esperienza empatica.
Sono molteplici le situazioni di impedimento del processo empatico, nelle quali il paziente «non vuole essere capito nel timore di soffrire troppo», oppure «teme talmente l’abbandono da non poter comunicare a qualcuno la propria pena» (Bolognini, Borghi, 1989).
Di rilievo a questo proposito sono le osservazioni di Buie (1981)
relative a pazienti in trattamento che si erano suicidati dopo che, in
base ad una valutazione di tipo empatico, erano stati ritenuti “non a
rischio” e dimessi o fatti uscire in permesso dal reparto; Buie (1981)
sostiene che se la valutazione dello stato dei pazienti si fosse basata su
una più articolata attenzione psicodinamica, capace di tener conto degli aspetti dinamico–strutturali di ogni singolo caso, quelle persone sarebbero state considerate a rischio suicidario anche se empaticamente
e descrittivamente potevano apparire in “stabile compenso psicopatologico”.
L’empatia, in quanto anche fenomeno interpersonale, non può prescindere dalla percezione sensoriale che abbiamo dell’altro, dai segni
comportamentali che ci informano del suo mondo interiore; empatizzare implica anche confrontare questi aspetti comportamentali del paziente con nostri fondamentali riferimenti interni, distinguibili in quattro elementi (Buie, 1981):
— riferimenti di ordine concettuale, e in particolare il modello operativo interno del paziente, l’idea che ci siamo fatti di quel paziente che include, oltre a quello che sappiamo di lui, anche l’idea
circa le sue potenzialità, le nostre conoscenze teoriche e
l’esperienza clinica di cui disponiamo (Greenson, 1960);
— un nostro riferimento auto–esperienziale, ovverosia tutto quanto in termini di memoria autobiografica, affetti, pulsioni, pressioni superegoiche, vissuti corporei, occupa il nostro mondo interno;
— le nostre possibilità immaginative e imitative, tali da consentirci
una costruzione interiore che ci faccia trovare sul palcoscenico del
vissuto del paziente anche quando è troppo distante dal nostro
abituale sentire;
142
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
— la nostra risonanza empatica, il tasso di “contagiabilità emotiva”
rispetto alle emozioni dell’altro.
Il passaggio successivo della comprensione empatica è dato, secondo Buie (1981), da un processo inferenziale che ci fa dedurre il
vissuto del paziente da quanto in noi è avvenuto ai vari livelli referenziali interni. Tre sono le principali fonti di errore che possono distorcere la conoscenza empatica relativa allo stato mentale del paziente
(Buie, 1981):
• il paziente può limitare o dissimulare l’espressione di segni comportamentali rappresentativi del suo stato mentale;
• i referenti interni del terapeuta possono dimostrarsi inadeguati;
• infine il procedimento inferenziale può essere incerto e impreciso.
Il fattore di errore empatico a carico del paziente è di particolare rilievo nel caso dei soggetti potenzialmente suicidari. Infatti coloro che
forniscono segni comportamentali poco informativi sul loro stato mentale sembrano essere particolarmente dipendenti dagli altri per mantenere la propria autostima e un senso di sicurezza basilare di sè; nel loro sviluppo psicoaffettivo queste persone avrebbero consolidato il
convincimento che la loro dipendenza li rende più vulnerabili al mancato soddisfacimento dei loro bisogni. Si trovano ad essere, al contempo, profondamente dipendenti e molto diffidenti e sfiduciati, e sviluppano la capacità (conscia e inconscia) di celare o distorcere quelle
espressioni di sè che consentirebbero agli altri quella comprensione
empatica che temono li renda ancora più vulnerabili; in sostanza farebbero di tutto per non essere compresi (Buie, 1981).
Tenere in debito conto i limiti sopracitati consente di utilizzare al
meglio la propria empatia col paziente, empatia che può essere validata
o disconfermata da criteri di confrontazione e di concordanza, come il
condividere con il paziente le proprie sensazioni empatiche su di lui, il
confrontare quello che accade ai quattro livelli di referenzialità interna
(Buie, 1981) e, soprattutto, allargare il campo di lavoro con una prospettiva dinamico–strutturale in grado di aggiungere spessore e maggiore attendibilità alla valutazione diagnostica, oltre che maggiore incisività all’intervento terapeutico, psicoterapico o farmacologico che sia.
La depressione e il rapporto con il paziente
143
Da un punto di vista psicodinamico è possibile precisare diverse
configurazioni della psicopatologia depressiva, differenziabili tra loro
per svariati elementi quali l’assetto della personalità premorbosa, le
difese psichiche prevalentemente impiegate, i rapporti di forza tra le
istanze psichiche, il ruolo giocato dall’aggressività e dalla libido, le
problematiche narcisistiche, i vissuti affettivi sperimentati a livello
conscio e le modalità di relazione oggettuale. Non si tratta tanto di individuare vere e proprie categorie nosologiche, quanto di evidenziare
gli elementi psicodinamici salienti che sottendono l’espressività clinica e le modalità relazionali del soggetto depresso, indipendentemente
da come possa essere poi codificata una diagnosi descrittiva. In questa
prospettiva sono molteplici le declinazioni cliniche e psicopatologiche
dell’esperienza depressiva rintracciabili negli innumerevoli contributi
della letteratura psicoanalitica, dal classico Lutto e melanconia di
Freud (1915), sino ai lavori degli ultimi decenni (Asch, 1966; Blatt,
1974; Bergeret, 1974, 1975; Dorpat, 1977; Stone, 1986; Milrod, 1988;
McWilliams, 1994; Bleichmar, 1996; Kernberg, 1975, 1976, 1984).
Riportiamo in questa sede solo alcuni brevi riferimenti per illustrare le implicazioni che ne possono derivare sul piano relazionale ed
empatico nel rapporto con il terapeuta.
• Un primo esempio è costituito dalle condizioni depressive “melanconiche”, caratterizzate prevalentemente da senso di colpa, vissuti
di iniquità e odio verso sé stessi, e che possono dar luogo ai tipici
deliri olotimici (di colpa, rovina o ipocondriaco): il soggetto depresso, in questo caso, ha un senso di sé molto chiaro ma dolorosamente negativo e si vive come irrimediabilmente “cattivo”, e può
vivere come sconfortanti reazioni esplicitamente empatiche e incoraggianti da parte del terapeuta; allo stesso tempo ha bisogno di
imparare che il terapeuta non lo giudicherà e non lo rifiuterà
(McWilliams, 1994).
• Diversamente, nel caso di depressioni connotate prevalentemente in
senso narcisistico, con vissuti di vuoto, noia, e sentimenti di vergogna, l’individuo difetta di un vero senso di sé ed è incline a considerarsi “fallito” e, a differenza del melanconico, può vivere come
confortanti reazioni del terapeuta esplicitamente empatiche e incoraggianti (McWilliams, 1994).
144
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
• Allo stesso modo, nel caso di personalità dipendenti che sperimentano depressioni analitiche (Blatt, 1974) pervase per lo più da vissuti di impotenza e di abbandono, le espressioni empatiche del terapeuta vengono vissute come incoraggianti.
• Particolare, e per certi versi “insidioso”, è il terreno dell’incontro
empatico nel caso del paziente depresso con personalità masochistica5, che affida la sua speranza al fatto di poter attirare su di sé
l’interesse dell’altro solo con la sofferenza, convinto di poter essere
amato soltanto in quanto persona che soffre. In questi casi, il rischio di collusività degli atteggiamenti empatici è molto elevato,
tanto per quelli concordanti (dove il terapeuta si pone masochisticamente al servizio del paziente), quanto per quelli complemementari (che esprimono la posizione salvifica di un terapeuta–genitore
onnipotente); il rischio, naturalmente, è quello di rinforzare il comportamento autodistruttivo masochistico del paziente, il quale,
semmai, ha la necessità di scoprire che esprimendo il proprio slancio vitale e la propria capacità di autoaffermazione può stimolare
nell’altro calore e accettazione (McWilliams, 1994).
Tra le righe di queste argomentazioni risulta evidente quanto vadano considerate le specificità degli elementi transferali che il paziente
depresso immette nella relazione con il terapeuta6, oltre che, naturalmente, le dinamiche controtransferali di quest’ultimo.
Nel paziente depresso la dipendenza (espressa o negata), l’aggressività (tanto la rabbia verso l’oggetto perduto e/o deludente, quanto
l’odio verso se stessi) e la vulnerabilità narcisistica (che si esprime in
“sfiducia di base”, bassa autostima, sentimenti di indegnità, colpa,
vergogna, inferiorità e invidia) fanno sì che il depresso possa oscillare
tra la tendenza a stabilire rapporti immediati e intensi o, viceversa, ad
5
Con il termine “masochismo” intendiamo qui ovviamente fare riferimento al concetto
freudiano di “masochismo morale” (Freud, 1924), e non all’area psicopatologica delle perversioni sessuali.
6
Ricordiamo con Greenson (1965; 1967) che la relazione paziente–terapeuta oltre a definirsi come “relazione reale” (relativamente agli aspetti realistici e autentici dell’incontro tra
due persone), include sempre anche una quota di “relazione transferale” (dove le distorsioni
dettate dal transfert introducono elementi irrealistici e inautentici) ed è garantita dalla “alleanza terapeutica” (realistica in quanto basata sulla collaborazione razionale tra due persone, ma
inautentica, poiché sussiste essenzialmente nella specifica situazione del setting terapeutico).
La depressione e il rapporto con il paziente
145
arroccarsi difensivamente nel non realizzare alcun tipo di rapporto
(Jacobson, 1971).
Correlativamente, sul piano controtransferale, il terapeuta corre il
rischio di essere troppo contagiato depressivamente, vivendo uno scoramento e una sfiducia riversati poi sul paziente; per converso può
controreagire esercitando una aggressività manipolativa tramite eccessive pressioni che il paziente non è in grado di reggere, prendendo le
distanze da lui con uno scarso interesse per la sua sofferenza, o manifestando espliciti agiti aggressivi nei suoi confronti (Bogetto et al.,
1990).
L’“atteggiamento psicoterapico” nell’approccio al paziente depresso, qualunque sia l’ambito di intervento in cui viene a declinarsi (si
tratti di una psicoterapia in senso stretto, di un contesto psichiatrico–
psicofarmacologico, o dell’ambulatorio del medico di medicina generale), dovrebbe invece includere alcuni elementi necessari per garantire la tenuta dell’alleanza terapeutica e che fondano il loro presupposto
nella competenza empatica: un atteggiamento neutrale ma capace di
conferire all’incontro un’atmosfera di calda accettazione della sofferenza del paziente; l’accoglimento dei suoi bisogni di dipendenza e la
disponibilità ad aiutarlo a non negarli o ad allontanarsene; una doverosa cautela nel non frustrare eccessivamente il paziente ma, al tempo
stesso, evitare di minimizzare la gravità della situazione; proporre
modulati stimoli alla verbalizzazione e mantenere un orientamento attivo, finalizzato soprattutto a sostenere l’autostima; garantire infine un
setting sufficientemente “elastico” (Volterra, Martini, 1990), in grado
di modulare produttivamente le diverse emergenze di campo relazionale (tra relazione reale, dinamiche transferali e alleanza terapeutica)
che il paziente depresso pone all’intervento del terapeuta.
146
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
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150
Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
Autori
• Stefano Caracciolo, professore straordinario di Psicologia clinica
presso l’Università di Ferrara.
• Ivonne Donegani, Dipartimento di Salute Mentale AUSL di Bologna.
• Silvana Grandi, professore straordinario di Psicologia clinica presso l’Università di Bologna.
• Sergio Molinari, professore ordinario di Psicologia clinica presso
l’Università di Ferrara.
• Laura Sirri, psicologa, dottore di ricerca in Psicologia generale e
clinica presso l’Università di Bologna.
• Stefano Tugnoli, professore a contratto di Psicologia clinica presso
l’Università di Ferrara.
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Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
Indice delle illustrazioni fuori testo
Figura 1
La prescrizione dissennata, xilografia attribuita a Albrecht Dürer, tratta da Sebastian Brant, Stultifera Navis, 1494, Basel ......... 33
Figura 2
Melencolia I, xilografia di Albrecht Dürer (circa 1504), Wien,
Kunsthistorisches Museum ........................................................... 47
Figura 3
Frontespizio della III edizione di Anatomy of Melancholy di
Robert Burton (1627) .................................................................... 69
Figura 4
Il paziente disobbediente, xilografia attribuita a Albrecht Dürer, tratta da Sebastian Brant, Stultifera Navis, 1494, Basel ....... 129
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Stefano Tugnoli, Stefano Caracciolo
AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su
www.aracneeditrice.it
Finito di stampare nel mese di aprile 2012
dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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