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Il tuo volto, Signore, io cerco

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Il tuo volto, Signore, io cerco
Il Triduo pasquale: meditazione
«Il tuo volto, Signore, io cerco»
Premessa
C'è un dinamismo singolare e intenso nelle celebrazioni del Triduo pasquale; non sapremmo esaurirlo
attraverso una strada soltanto, richiederebbe più approcci tra loro complementari. Privilegio questa volta
quello che potremmo qualificare come la ricerca del volto di Dio. Me lo ispira primariamente quel passaggio
della Lettera pastorale in cui l'Arcivescovo ci ricorda che «la piena rivelazione della Trinità si compirà
nell'evento pasquale... t lì che il più bello tra i figli dell'uomo si offre - nel segno paradossale del contrario come uomo dei dolori... davanti al quale ci si copre la faccia». In realtà, questa tensione a vedere da vicino il
volto di Dio che rifulge nella Pasqua del Cristo costituisce una dimensione costitutiva della liturgia
pasquale. Se per intero l'anno liturgico è esperienza del discepolato cristiano, la Pasqua, che ne costituisce il
centro, svela definitivamente chi è il Maestro per il quale s'intraprende e si rinnova un cammino di sequela.
Il Salmo antico sembra suggerirci l'ispirazione spirituale attorno alla quale tutto si raccoglie: «Di te ha
detto il mio cuore: "Cercate il suo volto » ; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto ... »
(Sal 27,8-9).
Vorrei, insieme, rimanere radicato nella consapevolezza di quanto ci dice la vocazione dataci in
dono nel ministero di presbitero. Immediatamente essa è segno di straordinaria prossimità tra noi e
Dio; sappiamo, d'altra parte, che questa comunione non si realizza d'incanto, è sottoposta al
logoramento dell'abitudíne, all'insídia della rassegnazione, al dramma di una possibile presa di
distanza da Dio. In questo Senso, la meditazione che propongo potrebbe assomigliare a un'accorata
implorazione di grazia; dà voce al desiderio di chi s'è messo in questo cammino di sequela perché
attirato da quel volto, e a Lui s'è affidato, consegnando la propria esistenza alla «Parola della sua
grazia» (At 20,32).
Il volto di chi sta in mezzo a noi «come colui che serve»
Tengo sullo sfondo la narrazione di Lc 22,14-34; testo capace di condurcí con immediatezza e
profondità nel clima di quella cena di vigilia, cena di testamento, intenzionalmente programmata
nell'imminenza di un congedo drammatico, quello della passione di Gesù. La celebrazione della
Messa in Coena Domini trova in questo clima il suo contesto ispiratore.
Siamo colpiti da una rívelazione folgorante del Maestro («ío sto in mezzo a voi ... ») proprio nel
cuore d'una discussione mondana (su «chi è il più grande»). Ed è mondana proprio perché è ben
lontana dal riconoscere il volto vero di Gesù; non è infatti quello di chi ha potenza e garantisce
perciò i favori ai suoi fedelissimi. Il dibattito tra i dodici evidenzia una distanza grande tra Gesù e i
discepoli, nonostante il contesto di straordinaria familiarità. t lontano dal volto vero di Gesù anche
Pietro; lo pensa meno esigente, se presume di garantire con sicurezza la propria perseveranza (v. 33).
E lo è soprattutto Giuda che ha ormai collocato altrove il proprio cuore; quel volto del Maestro gli
diviene del tutto insopportabile.
I tratti del volto di Gesù vanno cercati piuttosto in altre direzioni,
220 sempre aiutati dal racconto lucano. Sono quelli che sottolineano come il Maestro sia colui che desidera
una comunione vera: «ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia
passione ... » (v. 15). t Lui che prega per noi, come ha fatto per Pietro: «ma io ho pregato per te, che non
venga meno la tua fede», affidando addirittura a dei discepoli fragili il compito di aiutare i fratelli: «e tu, una
volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (v. 32). Soprattutto ha il volto di chi si mette a servire gli altri pur
essendo lui il più grande: «chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui
che serve» (v. 26). Di fronte a un volto cosi rinasca una scelta di discepolato autentico; e si faccia strada
sempre più nitidamente la libertà d'una consegna di se stessi umile e insieme tenace, propria di chi ha
imparato a non presumere delle proprie forze e a confidare in Dio. E ci persuada fino in fondo quella modalità tipicamente cristiana d'essere maestro: servendo i fratelli. Siamo al cuore della nostra vocazione di
discepoli e di guide. Impariamo qui la forma autentica del nostro presiedere.
Il tema del volto potremmo vederlo attraversare l'intera liturgia del Giovedì santo. Sta sullo sfondo
dell'accanimento ingenuo di Giona che si ribella al pensiero che Dio prenda a cuore gente come gli abitanti
di Niníve («non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra»: 4,11) e non è disponibile a pagare di
persona un prezzo di disponibilítà e di fatica. Ispira il pensiero vibrante e profondo di Paolo: il volto di Dio
che Gesù ci ha svelato non coprirà l'incoerenza di chi si trincera nell'osservanza delle tradizioni religiose e
non rinnova il cuore e la vita («quando vi radunate insieme, il vostro non e più un mangiare la cena del
Signore»: 1Cor 11,20). t solo il volto inatteso e straordinario di Gesù che s'incammina nella sconcertante
strada della Passione proclamata dal testo evangelico di Matteo a dischiuderci la buona notizia del Vangelo.
«Il tuo volto Signore io cerco». Ti preghiamo così Signore, rinnovando con tutto il presbiterio la nostra
dedizione della vita, per radicarci nell'appartenenza a te. Solo questa densità di discepolato può dare
sostanza al ministero che viviamo; perché sia «ministero della nuova alleanza», quello cioè della vita
donata, del servizio gratuito e gioioso al Signore e alla Chiesa.
DOMENICA: IN ASCOLTO DELLA PAROLA
«Ancbe Gesti.. patì fuori deffa porta defta città» (Eb
13,12)
222
C'è una sorta di progressione nella contemplazione nel ritmo della
liturgia del Venerdì santo; le scansioni del rito pare abbiano al loro
interno un invito ad avvicinare il più possibile il volto di Gesù che
muore. t la seconda tappa del nostro meditare; mi piace immaginar
la segnata dallo stupore con cui Gíobbe corona il suo cammino di
ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedo
no» (Gb 42,5).
Celebriamo l'incredibile condiscendenza di Dio verso di noi.
Facendosi eco delle prime espressioni orantí della Chiesa delle origi
ni, Paolo proclama la fede in Cristo Gesù A quale, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e dive
nendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6
8). Di questo facciamo memoria, riconoscendo nel volto di Cristo che
muore il sigillo definitivo della benevolenza di Dio; il dono inatteso e
straordinario che strappa dalle labbra del ladrone pentito l'invocazio
ne che riscatta una vita sbagliata: «Gesù, ricordati di me quando
entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42).
Questo volto perdente e sfigurato genera scandalo, tra i discepoli
anzitutto. Gesù lo aveva predetto: «Voi tutti vi scandalizzerete per
causa mia in questa notte» (Mt 26,3 1). E suo manifestarsi avviene tra
fughe e abbandoni («Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggiro
no»: 26,56), nel silenzio colpevole di chi si vergogna e segue lontano
(26,58), nel rinnegamento esplicito dettato dalla paura di condivider
ne la sorte (26,69-74), solo attenuato dal pianto amaro del discepolo
fragile e timoroso (26,75). Occorre avere il coraggio di riascoltare la
Passione dalla parte del discepolo che ne ha paura e la fugge; del
resto è l'angolo prospettico più vero per noi. Diviene la condizione
per comprendere tutta la drammaticità di quel perdere il volto di
Gesù man mano che esso assumeva i tratti dello sconfitto e dell'e
scluso («non conosco quell'uomo», impreca e giura Pietro: 26,74).
BROVELLI
Proprio in questa prospettiva però, scorgiamo il profilarsi di un vero e proprio 'miracolo' che ci dischiude a
una conoscenza più profonda ancora del volto di Cristo. Questa fragilità il Signore la abita; non la disprezza,
la assume. E il discepolo fragile e timoroso prova la gioia di sentirsi ugualmente guardato con amore; sa che
il Maestro prega per lui («ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede»: Lc 22,32), prepara il
regno per coloro che perseverano nonostante le prove (cfr. Lc 22,28-29); soprattutto lo onora di una rinnovata
chiamata alla sequela, come in quel «seguimi» ridetto a Pietro al termine della triplice confessione di amore
(cfr. Gv 21,19).
Stare di fronte al volto di Cristo crocefisso, è la consegna del Venerdì santo. Vorrei che accada con
l'intensità che ha segnato la vita di s. Francesco, i giorni e le notti trascorsi in preghiera e penitenza nella
foresta e tra i dirupi del monte La Verna; la croce gli entrò in corpo, fino a segnargli la carne, come un
sigillo di definitiva appartenenza al Signore. C'è un passo da compiere, nella fede e in obbedienza. L'Autore
della lettera agli Ebrei lo esprime con un'immagíne suggestiva: «Usciamo dunque anche noi
dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio» (13,13). Scegliere di abitare la croce di
Cristo; non c'è sentiero differente per il discepolo, per chi si prende cura della fede dei fratelli. Paolo
parrebbe augurarcelo come il bagaglio consueto della nostra vita di apostoli: «Io ritenni... di non sapere altro
in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso» (1Cor 2,2). L una Parola che segna la vita di chi serve
il Vangelo e lo riconcilia definitivamente con la propria inadeguatezza: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è
stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché
nessun uomo possa gloriarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,27-29).
Nel silenzio del sabato
C'è qualcosa di assordante nel silenzio del Sabato santo; attraversa le ore di desolazione in cui il corpo di
Gesù
è
rimasto
inerme
nel
sepol
cro; attraversa i tragici silenzi della storia di ieri e di oggi, come quello davvero agghiacciante di Birkenau,
accanto ad Auschwitz, dove il termine della rotaia per i treni dei deportati sembra penetrarti nel corpo e
nello spirito come una parola che annienta.
Questo silenzio va però ascoltato, sino in fondo. Il meditare nostro, sullo sfondo dei testi della Scrittura e dei
tempi celebrativi previsti o suggeriti dalla liturgia (come nella 'celebrazione per il mattino'), ci aiuta a
comprendere che esso non è una sorta di spazio bloccato, di tempo interrotto. Nel cuore del discepolo,
chiunque egli sia e in qualunque esperienza viva, possono accadere delle determinazioni che contano, si
possono avviare dei passi che poi incidono in modo rílevante. Si può abbandonare Gerusalemme, per
esempio, da delusi e sconfortati, consegnandosi ai discorsi tristi della strada (cfr. Lc 24,13, in cammino
verso Emmaus). Non ascoltare il silenzio del sabato può indurre alla demotivazione, quasi convincendosi
che 1a storia è finita'. La città appare estranea, incolore; luogo da abbandonare, comunque. Contiene solo
ricordi, non è più uno spazio d'una esperienza viva. Quel morire del Maestro sembra aver cancellato tutto. E
il silenzio del sepolcro fa soltanto paura. Ci si può anche irritare per l'amore che ha condotto Gesù fino alla
scelta di perdere la propria vita, ritraendosi delusi e contrariati. Come Giona che non si dà pace nel vedere
che Dio ha tempo e cuore persino per gli abitanti di Ninive; o come gli operai della vigna di cui parla la
parabola evangelica «invidiosi perché il padrone (che chiama a tutte le ore dando a ciascuno l'identico
compenso pattuito) è buono» (cfr. Mt 20,15). E il silenzio del sabato diviene davvero insopportabile; fino a
usarne per giustificare la propria defezione. Si può anche cambiare disinvoltamente pagina, perché Lui tace
e si nasconde nel silenzio del sabato. E collocare il cuore altrove, scegliendo tra le tante possibilità che la
vita propone. Non si cerca più, non ci si rimette in cammino.
Se ci facessimo invece attraversare da questo silenzio di morte che si sprigiona dal sabato di Pasqua? La
domanda è soprattutto un augurio; mi piace vederla porgere dai martiri di íeri'e di oggi, dai testimoni fedeli,
dagli innumerevoli poveri di spirito, dai piccoli e dai semplici che il Signore ci dà di conoscere e di amare.
Sono tante le situazioni nel ministero che possono evocare il silenzio del sabato. In esse risuoni ogni volta la
parabola pasquale con cui Gesù commenta la propria vita: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano
caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde
... » (Gv 12,24-26). Paradossalmente il silenzio del sabato può trasformarsi allora in una nuova ragione per
cercare il volto del Signore, con rinnovato slancio: «0 Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete
l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua» (Sal 63,2).
«Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28): il riconoscimento definitivo
Costituisce un esito l'esclamazione commossa dell'apostolo Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv
20,28), dopo il dubbio, la paura, l'incredulità («non essere più incredulo, ma credente!» v. 27). Ha il tono
dell'approdo definitivo anche l'invocazione accorata dei discepoli di Emmaus: «Resta con noi perché si fa
sera» (Lc 24,29). Entrambi i rimandi ci aiutano a riconoscere dove conduce il sentiero dell'esperienza
spirituale di chi celebra la Veglia pasquale; condotti dai grandi simboli cristologíci che la strutturano (luce,
parola, acqua, pane), siamo aiutati a riconoscerlo come il vivente, a proclamarlo Risorto, anzi «mio Signore
e mio Dio».
Avvertiamo il manifestarsi di una Bellezza inattesa e insuperabile nel volto di Gesù risorto. Porta i segni
dell'íntero tragitto di Gesù di Nazaret; Tommaso è invitato a toccare i segni della sua drammatica passione
(«metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato» (Gv 20,27); nei
riti inconfondibili della cena che fa memoria della vita donata i discepoli lo riconobbero («allora si aprirono
loro gli occhi e lo riconobbero»: Lc 24,3 1). t a motivo di un volto come questo che ci siamo messi in
cammino, decidendo di legare a esso la nostra vita. Come poterlo trattenere per noi, e farlo un sigillo
definitivo in cui radicarci? Il testo, pasquale di Gv 21,15-19 sa indicarci una risposta certa: l'amore sincero al
Signore è garanzia di una comunione autentica e condizione per essere fatti degni di condurre gli altri nei loro
cammini di fede. Le parole dette da Gesù a Pietro dopo la triplice domanda: «mi vuoi bene?» hanno un'eloquenza
che supera ogni esitazione: «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,17). Abbiamo la prova che la fragilítà non impedisce
né la sequela né la chiamata al ministero; scegliere di amare il Signore con tutte le forze ci restituisce a una
comunione autentica con lui.
Vorremmo continuare a rimanere in ricerca di questo volto; ci preme sapere nella vita «dove hanno
posto il Signore» (cfr. Gv 20,2), per dirlo ogni volta a noi stessi e agli altri. Anche questo è un messaggio
della Veglia pasquale a chi ha, come vocazione, il compito di condurre. 1 riti sembrano farci attraversare
i grandi simboli di cui vive la Chiesa per aiutarci a riconoscere in essi i segni della presenza del Risorto.
Nella luce, nella parola, nell'acqua, nel pane. Nel nostro ministero siamo chiamati a introdurre alla loro
verità: noi stessi, gli uomini e le donne con cui camminiamo. Ci sia dato lo sguardo di fede che è la vera
risorsa d'una guida e la sorgente della sua autorevolezza. Come per Abramo che dalla fede si è lasciato
condurre. Di lui disse Gesù: «Abramo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide
e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Riprendendo giorni fa questo testo evangelico, Giovanni Paolo II disse: «La
vocazione di Abramo appare completamente orientata verso il giorno di cui parla Cristo. Qui non
reggono i calcoli umani; occorre applicare la misura di Dio» (cfr. la commemorazione di Abramo,
«nostro padre nella fede», n. 3).
Se decidiamo di dare la vita per il Vangelo e di ancorarci definitivamente a Gesù («stringendovi a lui,
pietra viva, rigettata dagli uomíni, ma scelta e preziosa davanti a Dío»: 1Pt 2>4), è necessario che il suo
volto riveli la capacità di attrarci; quello della Pasqua, intriso di drammaticità e splendore, ci consegna
una Bellezza che salva. t anche la grazia che invochiamo per questa Pasqua.
Concludendo
Mi piace augurare a ciascuno il realizzarsi di quella straordinaria espe226 rienza di comunione di cui ci
ha parlato l'apostolo nel testo ai Corinzi:
« ... Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio
e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati;
perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la
morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi,
veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne
mortale» (2Cor 4,7 -11).
L una Pasqua vissuta quella di Paolo; incisa nella carne, ma sempre opera dello Spirito. Perché il Vangelo
risuoni per tutti come buona notizia che svela compiutamente il volto di Dio. Raggiunge anche noi quel
grido accorato del profeta che la quinta lettura della Veglia pasquale ci fa riascoltare: «0 voi tutti assetati,
venite all'acqua ... » (Is 55,1). Con questa meditazione abbiamo cercato di raccoglierlo anche noi,
incoraggiando una ricerca sincera del volto di Dio che la Pasqua di Cristo ci svela.
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