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Toni Morrison - La Repubblica.it
DIREPUBBLICA DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 NUMERO 551 Cult La copertina. La delusione della democrazia Straparlando. Bianca Pitzorno: “Io e i bambini” Mondovisioni. Malinconico Lussemburgo Intervistaalla grande scrittriceafroamericana TONI MORRISON PREMIO NOBEL 1993 IN UNA FOTO DI TIMOTHY GREENFIELD-SANDERS/CORBIS IMAGES/CONTRASTO Toni Morrison Quelli delNobelsì chesanno come organizzare unafesta ANNA LOMBARDI I luoghi. È a Berlino il nuovo museo delle spie: e dove sennò? L’officina. I fragilissimi mondi disegnati da Jimmy Liao Spettacoli. Gino & Michele, quarant’anni di risate a sinistra L’incontro. Bernard-Henry Lévy: “Sono un filosofo combattente, altro che look” Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 34 Lacopertina.IntervistaaToniMorrison ‘‘ NELSON MANDELA PER ME ERA UN MITO E QUANDO VINCEMMO IL NOBEL CHIESI DI INCONTRARLO. FU FAVOLOSO: MI RACCONTÒ STORIE INCREDIBILI, COSE BUFFE E STRUGGENTI SULLA SUA VITA «L ANNA LOMBARDI GRAND VIEW-ON-HUDSON O CHIAMAVANO il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” — il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri. L’ha vissuto sulla sua pelle? «A Lorain, in Ohio, dove sono nata, vivevamo in un quartiere di emigranti. I miei vicini erano messicani, italiani, ungheresi: frequentavamo la stessa chiesa e la stessa scuola, e in comune avevamo anche la povertà. Ma quando negli anni Quaranta andai a studiare a Washington, era ancora una città segregata: gli autobus, i locali, tutto. Frequentavo la Howard University, un’università nera dove pensavo di sentirmi al sicuro: e invece fu proprio lì che scoprii il colorism. C’erano confraternite universitarie che accettavano solo ragazze dalla pelle molto chiara: e facevano questa cosa — il test della carta del droghiere...». Nella casa di Toni Morrison ogni oggetto racconta una storia. Le statuette africane che incorniciano la scala. Il grande fotoritratto di Timothy Greenfield-Sanders: lei di profilo, i dreadlock grigi in evidenza. Il tavolo da ciabattino regalatole da Oprah Winfrey, usato sul set del film Beloved dal suo primo best seller Amatissima. La scrivania dove fra i libri svetta un piccolo dipinto: «S’intitola Donna nigeriana. È opera di un artista afroamericano che visse a Parigi, un amico di Picasso che non ebbe la stessa fortuna: probabilmente troppo nero, anche lui. Se solo ricordassi il suo nome...». “Troppo nero”, magari in base ai canoni del colorism, discriminazione ancor più sottile e crudele perché basata sul tono di colore della pelle. Troviamo queste stesse sfumature in Prima i bambini, l’ultimo romanzo di Morrison in uscita ora in Italia, edito come gli altri da Frassinelli. Si apre con la storia di una donna “nera come la mezzanotte” e rifiutata dai genitori dalla pelle, invece, più chiara. Ha raccontato al “New York Times” che suo padre odiava i bianchi. Sua madre, al contrario, era aperta con tutti. Lei da chi ha preso? «Mio padre veniva dalla Georgia e da bambino aveva visto linciare due uomini di colore — persone per bene, negozianti — solo per appropriarsi dei loro beni. Considerava i bianchi “irriscattabili”. Mia madre giudicava le persone una per una. Io sono come lei: non ho mai odiato nessuno. Ma capisco mio padre». L’America di oggi non è più quella che lei ha scoperto negli anni dell’università. Ma il razzismo è ancora qui. «Il razzismo è sempre stato qui. È solo più visibile: grazie ai video fatti coi cellulari, ai social media. Prima non c’erano tutti questi mezzi di denuncia. Quando i vicini di mio padre vennero linciati erano i bianchi che andavano a fotografarli per metterli su cartoline da spedire agli amici: era come sparare al leone. Oggi se un ragazzo nero disarmato viene ucciso anche in un paese piccolissimo la sua morte finisce sotto gli occhi di tutti». Già. Ma cinquant’anni dopo Selma e con un afroamericano alla guida del Paese... «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano. E poi l’America è un paese inondato da armi». Cosa c’entra questo con il razzismo? «Di cosa crede abbiano paura così tanti possessori di armi? Non a caso i ragazzi neri uccisi dai poliziotti erano tutti disarmati». ‘‘ MICHELLE OBAMA MI HA INVITATO A CENA DA POCO. GENTILISSIMA. MI FA: SIAMO TRA NOI, PUOI VENIRE ANCHE IN BLUE JEANS. IO CHE I BLUE JEANS NON LI HO MAI MESSI IN VITA MIA! Barack Obama ha detto: la mia più grande frustrazione è non essere riuscito a imporre la legge per controllarne la diffusione. «Ma cosa può fare il presidente da solo? Neanche tutto il suo partito lo segue». Lei dice: c’è sempre stato. E il nuovo razzismo verso chi viene in cerca di futuro? Qui i messicani nel mirino di Donald Trump, mentre l’Europa non riesce a mettersi d’accordo sui profughi. «Non ho memoria di nulla di simile, a parte quel che fecero qui ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale: li rinchiusero nei campi perché nati in un paese considerato nemico. Eppure erano medici, avvocati... L’America dovrebbe essere com’è scritto sotto la statua della Libertà: un paese di immigrati che dà il benvenuto agli stranieri. E invece... Quanto agli europei, vergogna. Soprattutto quelli dell’Est: era appena ieri che bussavano a tutte le porte». Non sarà stata la crisi globale a fomentare il nuovo disordine? «È sempre una questione di soldi. Un tempo eravamo tutti cittadini. Poi i cittadini sono diventati consumatori: si comprava qualsiasi cosa. Oggi si parla di contribuenti: siamo quelli che pagano le tasse. Questo porta a non identificarsi più con un senso di comunità. Il discorso diventa: io pago...». Questo è il suo undicesimo romanzo: il primo ambientato nell’epoca contemporanea. Un modo per ricordare agli intellettuali che in un mondo così complesso bisogna continuare a prendere posizione? «È la storia di persone che non sono cresciute: non si sono mai liberate dai drammi vissuti da bambini. Sono un po’ lo specchio della letteratura contemporanea: così focalizzata su se stessa. Tutti a descrivere solo la propria finestra sul mondo: mia mamma, il mio fidanzato. Io ho voluto raccontare un percorso di autostima il cui fine è la conoscenza». Lei è stata più volte definita “la voce della Coscienza americana”. Si riconosce? «La accetto. E ho voluto dare con tutti i miei libri un messaggio ben preciso: questo è il percorso compiuto dall’America, queste sono le persone sulla cui pelle il Paese è cresciuto e diventato una nazione invidiabile». “Prima i bambini” è forse il libro che nei temi riprende più di tutti il suo primo romanzo, “L’occhio più blu”, pubblicato quarantacinque anni fa, quando lei era ancora e soltanto l’editor di Angela Davis e Muhammad Ali... «All’epoca, era il 1970, nulla di quello di cui abbiamo appena parlato mi era chiaro. Volevo raccontare la storia di una ragazzina nera che sogna di avere gli occhi di Shirley Temple perché crede a quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei. Sì, forse i due libri si somigliano. Ma oggi lo sforzo che ci è richiesto è diverso: smettere di sentirsi vittime». Sull’intero romanzo pesa l’ombra della pedofilia. «Se ne parla continuamente. Non so se è sempre stato così. Forse oggi le bambine sono ipersessualizzate. O forse attraverso internet si diffonde la pornografia infantile. Ma è qualcosa di dilagante. Mi ha aiutato a rendere la storia più contemporanea». Nel libro sottolinea come gli errori dei genitori pesino per sem- IL NUOVO ROMANZO SARÀ NELLE LIBRERIE DA MARTEDÌ “PRIMA I BAMBINI” (FRASSINELLI, 228 PAGINE, 19,50 EURO) L’ULTIMO LIBRO DI TONI MORRISON (84 ANNI). PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA NEL 1993 PER “AMATISSIMA”, IN QUESTO SUO UNDICESIMO ROMANZO, IL PRIMO AMBIENTATO IN EPOCA CONTEMPORANEA, RACCONTA LA STORIA DI BRIDE RIFIUTATA DAI GENITORI PERCHÉ DALLA PELLE TROPPO NERA: “NERA COME LA MEZZANOTTE” ‘‘ PAPA FRANCESCO MI PIACE TANTO, E MI PIACE COME STA METTENDO A POSTO LE COSE IN VATICANO. POTREBBE ANCHE DARSI CHE QUESTO PAPA RIESCA A RIPORTARMI IN CHIESA pre. Il messaggio è: prendiamoci maggior cura dei bambini perché sono il nostro futuro? «Non perché sono il futuro: perché sono piccoli esseri umani. Pensi che il titolo che avevo dato io al libro era “L’ira dei bambini”. Ma non piaceva a nessuno. Non all’editore. Non alla pubblicità. Hanno preferito God Help the Child — parafrasando una famosa canzone di Billie Holiday, God Bless the Child, e io li ho lasciati fare. A volte bisogna accettare quel che il mondo ti dice». Il titolo italiano, “Prima i bambini”, le piace? «Forse di tutte le traduzioni è il più calzante. Prima i bambini… Peccato che non accada mai. Penso ai miei nipoti che suonano, studiano tante cose. E mi chiedo: non dovrebbero solo giocare? Poi vedo altri bambini che non sono così stimolati e passano la giornata attaccati al cellulare e penso: i miei nipoti non lo fanno. Ma quando io ero bambina si stava fuori a giocare l’intera giornata. Perché vivevamo in una comunità, tutti sapevano dov’eri e che facevi. Oggi siamo tutti spaventati dall’idea di rapimenti e molestie. I genitori sono diventati quello che qui chiamiamo “elicotteri”: iperprotettivi. E se non lo fanno succede come a quella mamma accusata di maltrattamenti perché aveva lasciato i suoi piccoli a girare da soli per Central Park. Così ti chiedi: i bambini sono ancora bambini?». I protagonisti dei suoi libri hanno sempre nomi affascinanti. «Gli schiavi non avevano nome: qualsiasi fosse il loro nome dovevano abbandonarlo per quello che sceglieva il padrone. Dare un nome è una responsabilità. E darsi un nome è un atto di orgoglio. Non è un caso che molti musicisti afroamericani hanno scelto soprannomi regali… Count Basie, Duke Ellington. Il Conte. Il Duca». Anche il nome con cui il mondo la conosce non è quello vero. «Io mi chiamo Chloe e questo è il nome con cui mi chiamano le persone che amo. Ma solo nella mia famiglia lo pronunciano come si deve. Già a scuola mi chiamavano Cloo, Clori... Poi, quando a dodici anni mi sono fatta battezzare, ho scelto di chiamarmi Antony: come sant’Antonio da Padova. E qualcuno ha cominciato a usare il diminutivo: Toni. Ma è Chloe che scrive i libri, sa? Quando scrissi il primo avrei voluto firmarlo col mio vero nome, Chloe Wofford. Invece mandai il manoscritto col nome da sposata che usavo allora. Chiamai per farlo cambiare ma era tardi: era già stampato». Perché proprio Sant’Antonio da Padova? «Perché è buono con i bambini e perché viaggiò in Nordafrica. L’ho scoperto in una Vita di Santi comprato da Strand, il negozio dei libri usati su Broadway». Va ancora in chiesa? «Quando insegnavo a Princeton ci andavo tutti i giorni. Ma prima della messa: quando arrivava il prete andavo via. Oggi il mio rapporto con la Chiesa è saltuario. Anche se questo Papa potrebbe riportarmici: mi piace tanto. E mi piace come sta risolvendo le cose in Vaticano». Lei ha vinto così tanti premi. Il Pulitzer, il Nobel. «Mi svegliò una giornalista all’alba per chiedermi che effetto faceva. Riattaccai. Chiamò ancora e io le chiesi come faceva a sapere ciò che io non sapevo ancora: e a quel punto capii che per il fuso il Nobel era stato annunciato quando in America erano le tre di notte. Così quando chiamarono da Stoccolma fui gentile, ringraziai: ma ancora non mi fidavo. Chiesi: “Potete mandarmi un fax?”». Cosa ricorda della premiazione? «Nelson Mandela. Che aveva vinto il Nobel per la Pace quello stesso anno: 1993. Per me era un mito e chiesi di incontrarlo. Fissarono l’incontro e fu favoloso. Raccontò storie incredibili, buffe e struggenti sulla sua vita. E poi… Oh, quelli del Nobel sì che sanno come organizzare una festa!». Il nuovo premio si avvicina e tornano i nomi di tutti gli anni: Philip Roth in testa. «Quante volte ho chiesto io stessa a quelli del Nobel se quel tale o quell’altro era stato preso in considerazione. Risposta: i nomi più ricorrenti non sono nemmeno mai arrivati sulla lista dei finalisti. E poi non so se oggi è tempo per un americano. Non mi viene in mente nessuno che sia all’altezza. Sa chi lo meriterebbe? L’israeliano Amos Oz». Lo ha votato? «Io non voto mai. Troppo complicato: devi compilare un sacco di carte, dare spiegazioni. Ma se votassi sceglierei lui: se lo merita». Gli Obama la considerano un’amica. «Quando il presidente mi ha premiata con la “Medaglia per la libertà”, beh, ho provato una sensazione strana: ho il doppio dei suoi Ho ancorada scrivere AcasadelNobelperparlaredirazzismi,degliObamaedelsuoultimolibro.Chenonsaràl’ultimo Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 35 ‘‘ PHILIP ROTH IN AMERICA NON MI VIENE IN MENTE NESSUNO ALL’ALTEZZA DEL PREMIO. E POI SO CHE I NOMI PIÙ RICORRENTI NON SONO MAI ARRIVATI NEPPURE NELLA LISTA DEI FINALISTI anni ma mi sono sentita davanti a un fratello maggiore. Mi sono sentita protetta». È stata più volte alla Casa Bianca. «Ci sono stata a cena da poco. Ala privata, otto invitati più gli accompagnatori, io ho portato mio figlio. Michelle gentilissima: “Siamo fra noi: puoi venire anche in blue jeans”. Io che i blue jeans non li ho mai messi in vita mia! Figuriamoci se li metto alla Casa Bianca. Michelle è incredibile. Di più: è lei il vero capo». Pensa che un giorno scenderà in campo come Hillary Clinton? «Macché. È troppo intelligente. È competitiva: non c’è dubbio. Ma sa di che stress si tratta. Quando lui decise di tentare la corsa presidenziale lei disse, ok, ti appoggio. Ma una volta sola. Se perdi non se ne parla più». Lei ha cominciato a scrivere a quarant’anni. Ora ne ha ottantaquattro. Il suo collega Roth ha annunciato di aver smesso di scrivere a causa dell’età. Lei continua. Cosa la spinge? «Lo so fare bene! E poi scrivere è anche il mio modo per non confrontarmi con quelle cose di cui abbiamo appena parlato: le guerre, il razzismo. Quando scrivo sono io a creare il mio mondo. Creo il mio gioco intellettuale: la lingua è così interessante. Tutto il resto scompare. Non solo. Per un’operazione alla schiena andata male ora sono piuttosto limitata nei movimenti. Cammino a fatica. Nel mio mondo letterario, invece, sono libera: anche fisicamente». Ha letto il nuovo libro di Harper Lee? Anche lei un’ultraottantenne, ha aspettato più di mezzo secolo per pubblicare il prequel di “Il buio oltre la siepe”. «No, non ho letto il libro, ho letto le polemiche. E mi sono fatta l’idea che sotto ci sia qualcosa di losco. Strano che il libro sia uscito dopo la morte della sorella: quella che sapeva tutto. E poi anche se Harper Lee è poco più grande di me — come ha fatto a lavorarci? È quasi cieca: non sente. No, non credo che lo leggerò. D’altronde non sono stata una gran fan nemmeno di Il buio oltre la siepe. O meglio: ho amato il film. Ma era Gregory Peck a renderlo splendido!». Quali scrittori la interessano oggi? Sente di avere un’erede? «Gli autori che ho amato sono tutti morti. Alice Walker non sta scrivendo nulla. Gli altri, i giovani, li conosco poco. Colson Whitehead è un ottimo scrittore. O almeno lo era: che fine ha fatto? Ecco: Edwidge Danticat — un’haitiana-americana. È lei la mia scelta». Vuole dire che il romanzo afroamericano ha perso la funzione sociale che lei teorizzò ai suoi esordi? «Dico che oggi ci sono pochi scrittori perché le energie vanno altrove. Oggi i giovani afroamericani cantano». Cantano? «Raccontano così le loro storie. La forza che mettevano nella scrittura ora va nella musica: nel rap. Spesso non capisco cosa dicono ma riconosco l’energia. Mi sono appassionata a Kendrick Lamar, anche se le sue rime sono così veloci che non capivo una parola. Mi è piaciuto così tanto che ho chiesto che mi mandassero i suoi testi. E ora mi piace anche di più». Anche i libri sono cambiati: sono elettronici. «Mio figlio mi ha regalato un iPad. Il primo libro che ho letto su tablet è stata una cosa moderna poi diventata film: Gone Girl. Poi ho iniziato un altro libro, Wolf Hall di Hilary Mantel. Ho letto la prima pagina e mi sono detta no, non posso leggere un romanzo storico su uno schermo. Ho preso il libro di carta, e me ne sono appassionata. Ho cercato anche gli altri suoi libri: The assassination of Margaret Thatcher è fantastico. Però no: non sono una grande lettrice elettronica». Eppure i suoi audiolibri hanno molto successo. Ed è lei stessa a leggerli. «All’inizio avevano preso un’attrice. Poi mi è capitato di ascoltarne uno per caso: “Ma quello non è il mio libro! È tutto sbagliato. Il passo. Il ritmo. Non è la mia storia”. Da allora li registro io: anche se è estenuante». È vero che sta scrivendo le sue memorie? «Le voleva il mio agente. Ci ho anche provato, ma so tutto di me: mi sono annoiata subito». Un sorriso. È ora di congedarsi. Fuori piove. «Dovrebbe vedere quando qui c’è il sole, è una meraviglia. Magari quando avrò finito il mio prossimo libro. Sì, non dovrei dirlo, l’ho già cominciato. Ho scritto quindici pagine. E le assicuro che sono molto buone. Le mie migliori». FOTO DI SEBASTIEN MICKE/PARIS MATCH /CONTOUR/GETTY IMAGES ©RIPRODUZIONE RISERVATA DOMANI IN REPTV NEWS (ORE 19.55, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) ANNA LOMBARDI RACCONTA TONI MORRISON E IL SUO ULTIMO ROMANZO Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 36 Iluoghi.PotsdamerPlatz L’OMBRELLO USATO PER UCCIDERE IL DISSIDENTE BULGARO MARKOV, L’OMBRELLO AVEVA LA PUNTA CARICATA CON UNA SIRINGA PIENA DI VELENO IL GUANTO OPERA DEL KGB IL GUANTO CHE TIENE UN OGGETTO DALLA DOPPIA FUNZIONE: MINI-PISTOLA E MINIRICETRASMITTENTE LA VALIGIA UN COMPLETO DI VELENI E ESPLOSIVI: L’EQUIPAGGIAMENTO DI OGNI AGENTE SEGRETO SOVIETICO DallaTrabantcon raggiinfrarossi all’ombrello(bulgaro) avvelenato ANDREA TARQUINI L BERLINO qui, nella Berlino città di spie dall’era del Kaiser almeno fino alla Guerra fredda. Volete incontrarle? Venite al 9 di Leipziger Platz, la piazza-ottagono dei tempi di Guglielmo II ora splendidamente risorta in chiave postmoderna, a un passo da Potsdamer Platz. Ci saranno Mata Hari nel supersexy vestito attillato con cui strappò segreti all’Intesa e li passò agli Imperi centrali pagando con la vita; c’è Anna Chapman, la “bomba” russa in servizio per anni a Londra e oggi eroina nazionale a Mosca; o l’ammiraglio Canaris, capo geniale ma dubitante dell’Abwehr nazista che alla fine Hitler fece impiccare come sospetto traditore. Le loro storie e i loro strumenti di lavoro sono esposti analogicamente e digitalmente, tra touchscreen e interviste interattive, nel nuovissimo Spy Museum che non poteva che nascere qui, nella Berlino del cielo diviso di Wenders, campo di battaglia per tutti i James Bond della storia. «L’idea ci affascinava da anni, alla fine abbiamo trovato gli sponsor per un museo indipendente, senza condizionamenti pubblici», mi racconta il direttore Joachim E. Thomas accompagnandomi nella straordinaria città virtuale delle spie. Si parte dal 1400 avanti Cristo per arrivare all’oggi. «È il secondo mestiere più antico del mondo, e spesso si è servito del primo, con le motivazioni ideologiche o venali più diverse», nota ammiccante Herr Thomas. Ecco gli 007 dell’Antica Grecia che spiano i persiani per finire poi scuoiati dagli aggressori. Ecco Apis, supercapo delle spie di Belgrado che organizza l’attentato di Sarajevo scatenando la Prima guerra mondiale. Ecco l’eroe sconosciuto della Guerra fredda, nome in codice Topas, al secolo Rainer Rupp, infiltrato dai mitici 007 di Markus Wolf, capo dell’Hva, l’intelligence della Ddr, in Occidente. La sua storia merita di essere raccontata: nel 1983 un’enorE SPIE SONO TRA NOI, me esercitazione Nato mette Mosca in allarme, i sovietici temono un attacco e preparano un colpo atomico preventivo; Rainer corre a Berlino Est coi piani rubati delle manovre Nato, li fa passare a Mosca e spiega ai russi che non c’è nessun piano d’attacco. Solo allora il Cremlino annulla i programmi di lancio imminente di centinaia di supermissili SS-18. «Non mi sento orgoglioso, ho fatto solo il mio dovere», ci dice oggi Rainer su touchscreen. Si incontrano tutti e c’è di tutto, nella città delle spie di Leipziger Platz. La macchina-codice nazista Enigma, per esempio, quella decifrata dall’Alan Turing interpretato al cinema da Benedict Cumberbatch. L’ombrello avvelenato che uccise a Londra il dissidente bulgaro Markov. L’annaffiatoio che nasconde al suo interno una telecamera. O la Trabant con raggi infrarossi nella portiera. Ma ecco, in una stanza ci sorride Rudolf Stanitz, specialista dell’Abwehr, il servizio segreto tedesco fino al 1945, attivo nei territori russi occupati, che confessa la sua tristezza per la gente che soffre e nutre dubbi sulle chance di vittoria. Ecco poi Dieter Feuerstein, ingegnere alla Messerschmitt, capoprogetto del Tornado della Nato ma in segreto sincero comunista. Proseguendo ci viene incontro Heinz Felfe, superagente nazista, poi riciclato nei servizi di Bonn che alla fine scelse di passare tutti i suoi segreti all’Est. E infine, spicca, tra tutti, Oleg Gordievsky, enfant prodige del Kgb e talpa dell’MI5 inglese: quando venne scoperto fu la regina Elisabetta in persona a ordinare un blitz delle Sas, le forze speciali britanniche, per salvarlo dalla condanna a morte e portarlo al sicuro. «Oggi con il mio ex del MI5 e storico Christopher Andrew scriviamo libri», dice sempre su touchscreen. Non poteva mancare ovviamente una sezione tutta dedicata a James Bond, con le armi ideate dal maggiore Geoffrey Boothroyd, nome in codice Q, e con l’intera collezione delle Bond-girl. Poi, appena prima di uscire, una sorpresa: incontriamo Edward Snowden e Julian Assange, ma anche Mr. Google e Mr. Facebook. Tanto per ricordarci chi, oggi, sono le vere spie. ©RIPRODUZIONE RISERVATA John Le Carré Col buio era calato anche il silenzio. Parlavano come se temessero d’essere sentiti. Lui, Leamas, s’avvicinò alla finestra e rimase lì in attesa. Di fronte a lui c’erano la strada e, sui due lati, il Muro, un brutto affare di blocchi di cemento e filo spinato, illuminato da una squallida luce gialla; una scena da campo di concentramento, insomma. A est e ovest del Muro si stendeva la parte non ricostruita di Berlino, un tracciato in doppia dimensione, una terra di nessuno DA LA SPIA CHE VENNE DAL FREDDO (1963) L’AUTOMOBILE LA TRABANT CON I DISPOSITIVI ALL’INFRAROSSO NASCOSTI NELLA PORTIERA PER SCOVARE I FUGGIASCHI La città delle spie LA RUOTA UNA DELLE INVENZIONI DEL MISTERIOSO MR. Q IN “007 - ZONA PERICOLO” (1987): UN PNEUMATICO CHIODATO DA GHIACCIO Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 LA MASCHERA È QUELLA DI ROGER MOORE, TERZO E PIÙ LONGEVO INTERPRETE DI JAMES BOND DOPO SEAN CONNERY E GEORGE LAZENBY L’INNAFFIATOIO USATO DA UN’ANZIANA DONNA SPIA DELLA STASI: FINGEVA DI INNAFFIARE E INVECE RIPRENDEVA CON LA TELECAMERA NASCOSTA ALL’INTERNO 37 IL BARATTOLO CONTIENE UNA PROVA CON L’ODORE DELLA PERSONA SOSPETTA CHE POI LA STASI RINTRACCIAVA CON L’AIUTO DI CANI ADDESTRATI ABerlinounmuseodedicatoaipiùgrandi007.Eailoromicidialiferridelmestiere La sera che incontrai in una pizzeria l’uomo senza volto e forse senza vita I DEMETRIO VOLCIC N UNA SERATA DI PIOGGIA E DI NEBBIA, come è d’obbligo, vicino al fiume che a Berlino divideva i due mondi (mentre sul ponte che li univa avveniva lo scambio delle spie), nella pizzeria gestita dagli italiani e piena di vuote e polverose bottiglie di Chianti, incontrai l’uomo senza volto, e per alcuni addirittura inesistente, Markus Mischa Wolf, la più grande spia dell’Est. Gli amici che organizzarono l’incontro perdevano ogni tanto il filo quando Mischa dal tedesco passava al russo: i Romeo sono merce di Shakespeare. Finita la Rdt Mischa si rifugiò a Mosca, dove tra i riformatori di Gorbaciov contava parecchi amici. Abitava nell’abergo Metropol e saputa la notizia molti andarono da lui a bersi qualcosa. Trattò il suo rientro a Berlino. In primo grado fu condannato, poi prosciolto in quanto personalmente non responsabile dei crimini. Gli fu ridato il grado di generale, ma da generale di corpo d’armata divenne generale di divisione. La Corte decise di annullare la prima sentenza di colpevolezza sostenendo la tesi secondo cui Wolf aveva svolto il suo compito a favore di un governo legittimo, riconosciuto dall’Onu, e che lo stesso avevano fatto le migliaia di spie di entrambe le parti. Non si potevano mandare tutte in prigione. Un grande simpatizzante di Mischa fu il suo collega dell’Ovest, Heribert Hellenbroich. Lui e Wolf sembravano due alti ufficiali di qualche esercito della Prima guerra mondiale: prima si scontravano, poi si salutavano dall’aereo e infine il giorno dopo ritornavano a terra per riprendere il glorioso duello. Heribert si è occupato di spionaggio fino alla fine, ma non più come capo del Servizio. È morto circa un anno fa e sei giorni dopo pure la moglie. Un giorno Angelo Guglielmi, direttore della terza rete Rai, mi chiese di invitare a Roma un po’ di spie celebri. Fu in quell’occasione che Hellenbroich mi confidò la sua simpatia umana per Mischa Wolf. Di lui non si aveva nemmeno una fotografia in Occidente. Eppure, quando c’era stata la possibilità di ottenerne una, non se ne era fatto nulla. Accadde quando Mischa decise di fare una scappatella a Stoccolma. Berlino Ovest conosceva l’indirizzo dell’albergo e anche il nome della sua amica del momento — che però non era la moglie. Ciononostante escluse non solo l’eventualità di darsi agli “affari bagnati”, vale a dire di farlo fuori, ma anche solo quella di fotografarli. Dal 1968 al 1993 l’autore è stato corrispondente della Rai da Praga, Vienna, Bonn e Mosca ©RIPRODUZIONE RISERVATA Ian McEwan La busta conteneva un foglietto di carta strappato da un notes. Non c’era nessun indirizzo, soltanto un nome, Bob Glass, e un numero telefonico di Berlino. Si era pregustato la scena della piantina distesa sul tavolo; avrebbe individuato il posto e programmato il percorso. Ora invece gli toccava ricevere istruzioni da un estraneo, un estraneo americano, e doveva anche usare il telefono, strumento che lo metteva sempre a disagio IL PARACADUTE CON IL PICCIONE VIAGGIATORE DALLE ALI LEGATE VENIVA GETTATO OLTRE LE LINEE NEMICHE: NELLE FASCE C’ERANO MESSAGGI SEGRETI IL ROTORE NE VENIVANO USATI BEN DIECI NELLA FIALKA, MACCHINA PER CIFRARE I CODICI, USATA DAI SOVIETICI DURANTE LA GUERRA FREDDA LA MACCHINA LA CELEBRE ENIGMA USATA DAI SERVIZI SEGRETI TEDESCHI PER CIFRARE E DECIFRARE I MESSAGGI IN CODICE DISEGNO DI ANNALISA VARLOTTA DA LETTERA A BERLINO (1990) Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 38 L’officina.InsideOut Ungrandedisegnatore, JimmyLiao,arriva perlaprimavolta daTaiwanin Italia.Per raccontare ilfragile mondointerioredei più fragili almondo Dovevanno afinireibambini C SIMONETTA FIORI I DEVE ESSERE UN LATO NASCOSTO anche nella vita di Jimmy Liao. Qualcosa che spieghi perché alla fine di ogni album illustrato non si vorrebbe lasciare andare via i suoi personaggi, lunari e scombinati. Come capita davanti ai titoli di coda d’un film che coinvolge: si resta lì un po’ storditi, ci vuole tempo per allontanarsi dal regista e dalla storia che rivelano qualcosa di noi, degli altri o del mondo. Alcuni l’hanno già battezzato “effetto Liao”, ossia l’arte di raccontare le umane fragilità tra disegno, pièce teatrali e corti d’animazione. Cinquantasette anni, cinese di Taipei, Jimmy Liao è tra gli autori più popolari di libri illustrati nel continente asiatico. Un genere editoriale che a Taiwan, in Giappone o in Corea del Sud è considerato per lettori di ogni età, mentre in Italia è confinato nel mercato per ragazzi. Tradotto in tredici lingue, in Europa e soprattutto in Sudamerica, da noi ha già pubblicato quattro album, tutti nelle Edizioni Abele, e ora è in uscita un quinto sui desideri dei più piccoli. Perché è questo il materiale impalpabile su cui gli piace lavorare, sogni fragili come bolle di sapone, emozioni intime, ferite nascoste, un grande, avvolgente sentimento di solitudine. In altre parole, la vita interiore di bambini e adolescenti, di uomini e donne rivelata con un segno particolare, che a tratti evoca Van Gogh o Magritte, ma anche Klee ed Escher. «Sono solo un impiegato dell’arte», minimizza lui dal suo studio di Taipei. «Mi piace rendere omaggio a questi grandi artisti, riproponendo una tecnica o facendo entrare nelle mie pagine un celebre capolavoro». Nonostante i riconoscimenti internazionali — premi, film tratti dai suoi lavori, parchi a tema, metropolitane e aerei decorati con le sue immagini, anche uno Swatch a lui dedicato — Liao parla solo il cinese e alla vigilia del suo primo viaggio in Italia, ospite del Festival Tuttestorie, si fa aiutare da Laura Torchio, che è anche la traduttrice dei suoi libri. Artista autodidatta, una lunga esperienza come grafico pubbli- IL FESTIVAL JIMMY LIAO SARÀ OSPITE DEL FESTIVAL INTERNAZIONALE “TUTTESTORIE”, DEDICATO ALLA LETTERATURA PER RAGAZZI, DALL’8 AL 13 OTTOBRE A CAGLIARI E IN VARI ALTRI CENTRI DELLA SARDEGNA citario, il suo stile mescola il linguaggio della tradizione con codici della contemporaneità, dal cinema all’interior design, dalla danza al teatro. «A volte mi sembra di essere il regista di un film su carta. Mi concentro soprattutto sulla relazione tra le immagini rendendola il più possibile fluida, e naturalmente sulla particolare composizione tra illustrazione e testo». Tutto parte sempre da una visione ricorrente nella sua immaginazione da cui comincia a plasmare la storia. E poi ci lavora con una metodicità disciplinata, regolata su abitudini fisse. «Anche se non c’è l’ispirazione, bisogna comunque disegnare, stimolare il caos creativo, coltivare dentro se stessi questo turbinio finché affiorano nitide le idee». Non sempre le visioni si traducono in qualcosa, e allora se le tiene da parte, nascoste nell’archivio della fantasia, chissà che da queste un giorno nasca un nuovo libro. I suoi lavori sono dedicati a chi «non è in sintonia con il mondo» e ai «poeti», forse anche per questo hanno venduto cinque milioni di copie. Raccontano di cieli stellati solitari, di abbracci dati e negati, di bambini imperfetti, di ragazzine cieche che nel buio caotico della metropolitana scorgono universi fantastici, perché solo scendendo in profondità, molto in profondità, si scopre il colore. E dunque la bellezza. Una metafora che vale anche per i suoi album. «Spero di riuscire a trasmettere il sentimento del bello. Non si tratta di un fatto puramente estetico, ma di un lento addentrarsi nei diversi livelli dell’opera, fino a scovare il significato nascosto illuminato dall’esperienza personale. Andare in profondità, riflettere di più su stessi e sul mondo: il senso del bello nasce da qui». E allora bisogna scavare anche nella vita personale di Jimmy Liao per scoprire che non è sempre stato così. Prima disegnava tavole molto cariche, esagerate, meccaniche come lo sono i cartoni animati. A cambiarne lo sguardo, una ventina di anni fa, è stata la leucemia. «Anche dopo la guarigione l’ombra della morte mi ha sempre accompagnato, rendendomi timoroso e vulnerabile. Quando uscii dall’ospedale mi chiesero subito di realizzare un progetto ma io non riuscivo più a disegnare con gli stessi colori. Cambiò tutto nel mio stile: Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 39 Immagini e parole in cerca d’abbracci L EUGENIO BORGNA LE IMMAGINI DI JIMMY LIAO È IN USCITA IN ITALIA L’ULTIMO ALBUM ILLUSTRATO “SE POTESSI ESPRIMERE UN DESIDERIO” (GRUPPO ABELE): VIENE DA LÌ IL GATTINO DELLA LAMPADA A FONDO PAGINA. LE ALTRE IMMAGINI SONO TRATTE DAI SUOI PRECEDENTI QUATTRO VOLUMI PUBBLICATI IN ITALIA SEMPRE DAL GRUPPO ABELE non solo nelle tonalità cromatiche, ma anche nelle espressioni dei personaggi e nel layout delle tavole. Come se la malattia mi avesse insegnato a prendermi cura di ogni tipo di paura». No, il dolore non è fonte di ispirazione, non può esserlo. Il dolore è dolore e basta. «Non aggiunge molte riflessioni sulla vita. Il cambiamento avviene dopo, quando se ne esce. Le mie illustrazioni di oggi vengono da lì, da quel percorso, e non si può tornare indietro perché i miei sentimenti sono radicalmente cambiati». Da lì proviene anche quel senso di solitudine che avvolge molte delle sue illustrazioni, un singolare intreccio tra malinconia e vitalità, paura di morte e ansia di futuro. Un colore emotivo che non ha a che fare con la sua vita felicemente risolta accanto a una moglie, tre gatte e una figlia che studia in Gran Bretagna. «La solitudine di cui parlo è un fondamento dell’essere. Riguarda la relazione profonda che ciascuno di noi intrattiene con se stesso. Quel lato di noi che evitiamo sempre di incontrare, incompreso anche dalla persona più vicina e che noi stessi non comprendiamo negli altri. Un lato misterioso che non si può spiegare a parole». Si può solo disegnare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA EGGERE i testi e guardare le illustrazioni di Jimmy Liao è una esperienza di indicibile bellezza che vorrei cercare di descrivere — anche se avverto la pesantezza delle mie parole nel confronto con la leggerezza delle parole e delle immagini dei suoi album. Non saprei se siano le immagini a fare nascere le parole, o le parole le immagini, le une si intrecciano alle altre in misteriose affascinanti alleanze tematiche. Sono parole ricolme di poesia che narrano con una straordinaria delicatezza i modi di essere e i modi di vivere di bambini e adolescenti, e anche di animali, alla ricerca della felicità. Sono parole, e sono immagini, che risuonano di grazia dolorosa e ferita, di solitudine e speranze infrante, gioia e sgomento, smarrimento e nostalgia, di debolezza e di fragilità senza fine: esperienze di vita così diverse da quelle, dominanti nel mondo degli adulti oggi, contrassegnate dalla fretta e dalla ricerca della ricchezza, dal narcisismo e dalla indifferenza, dalla incapacità di ascoltare e di comprendere il mondo interiore. La cifra tematica è quella della fragilità che, con la solitudine alla quale si accompagna, è una dimensione essenziale della vita soprattutto nei mondi della infanzia e della adolescenza. Sono mondi che Jimmy Liao descrive mirabilmente nella loro radicale dimensione emozionale ma anche nella loro straziata nostalgia di uno sguardo e di una carezza, di un saluto e di un sorriso. Le immagini muovono, certo, dalla rappresentazione concreta di oggetti, case, ambienti, orizzonti, animali, che vediamo ogni giorno anche noi, ma qui sono immersi nell’infinito mare della fantasia che li trasfigura, e li coglie nella loro anima segreta. Sì, realtà e fantasia si alternano, e si con-fondono, creando una climax di sognante realismo magico che si richiama a modelli espressivi attinti alla lezione di grandi pittori occidentali dell’Ottocento e del Novecento. Da questa danza febbrile di immagini, di colori, e di parole, rinasce l’invito a recuperare i valori dell’amicizia e della solidarietà, della gentilezza e dell’ascolto, dei luoghi del silenzio e della contemplazione, dei quali nell’infanzia e nella adolescenza si ha un acuto straziante bisogno. E dei quali dovremmo sentire la nostalgia anche nella nostra vita. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 40 Spettacoli.Civuoleocchio Da Radio Popolare a Zelig passando per Smemoranda, Jannacci, Gaber e Fo hanno messo in piedi la più grande fabbrica di comici. “Volevamo diventare gli Arbore e Boncompagni di sinistra” P ANNA BANDETTINI A TEATRO SI INTITOLA “PASSATI COL ROSSO”, COME LA LORO PRIMA TRASMISSIONE RADIOFONICA DEL ’76 SU “RADIO POPOLARE”. E COMINCIA CON LE PAROLE DI QUEL PRIMO COLLEGAMENTO VIA ETERE LO SPETTACOLO DI GINO E MICHELE CHE FESTEGGIA I QUARANT’ANNI DI CARRIERA SATIRICA: UN READING CON IL MEGLIO DEI PEZZI SCRITTI NEGLI ANNI OTTANTA E NOVANTA. CON LA REGIA DI PAOLO ROSSI E LE MUSICHE AFFIDATE A FOLCO ORSELLI, LO SPETTACOLO DEBUTTA A GENOVA AL TEATRO POLITEAMA IL 28 OTTOBRE. ALTRE TAPPE: IL 23 NOVEMBRE AL QUIRINO DI ROMA, IL 25 AL TEATRO APOLLONIO DI VARESE, IL 3 DICEMBRE AL TONIOLO DI MESTRE, L’11 DICEMBRE AL COLOSSEO DI TORINO. IL 22 DICEMBRE CHIUSURA AL PICCOLO TEATRO DI MILANO MILANO ER FORTUNA SONO ORDINATI. Conservano tutto o quasi, foto, vi- gnette, locandine appese sulle pareti salendo lo scalone della più opulenta fabbrica di risate italiana, in viale Ortles, periferia sud di Milano. Al terzo piano, dove ci sono i loro uffici, Gino e Michele scherzano già: «Venga, venga pure nel nostro museo delle cere». È qui che lavorate? «Io no — dice Gino — io scrivo a casa. Vorrà mica che veda lui per tutto il giorno». Rincalza Michele: «Anzi, se viene mi dà anche un po’ fastidio. E poi guardi lì, la sua scrivania, vuota, non una penna, e perdipiù di vetro che si vedono le gambe sotto. Che orrore è?». Gino (Vignali) e Michele (Mozzati), sessantasei e sessantacinque anni, uno piccolo, l’altro alto, uno capelli grigi radi l’altro con baffoni e fascino sonnolento, uno precisino, bocconiano, l’altro studente di Lettere e compagnone. Insieme hanno percorso con divertimento nostro e loro i bui anni Ottanta, i fatui Novanta e questi difficili Duemila, da umoristi, scrittori e editorialisti satirici, talent scout di comici, direttori di cabaret, autori (Zelig tv, oltre nove milioni di spettatori negli anni di massimo successo...). Una storia venerata da molti, detestata da pochi, dove c’entrano anche settimanali satirici come Cuore e Tango, una radio (Popolare) e un’agenda (Smemoranda, diretta con Nico Colonna) oltre a una rete infinita di incontri: Jannacci, Gaber, Paolo Rossi, Albanese, Beppe Grillo, Teocoli, Aldo, Giovanni, Giacomo e poi Altan, Vauro, Ellekappa, Ligabue, Lucio Dalla, Jovanotti, Pino Daniele. Ora, giunti al quarantesimo anno, G&M debuttano in scena con un reading “del meglio di” intitolato Passati col rosso, come la trasmissione radiofonica dei loro inizi, per raccontare come hanno trasformato la voglia di cambiamento in intrattenimento. E business. Gino: «Siamo l’esempio di come cultura bassa e alta possono stare insieme». Non era scontato negli anni duri e lacerati in cui si erano conosciuti. «Nel ‘69, ridere era un cedimento piccolo-borghese. Il massimo della libidine era ascoltare Claudio Lolli e Ivan della Mea, che era nostro amico, però non proprio il massimo del divertimento...». Loro amavano i fumetti, i Gufi, perfino Battisti, bandito dal “Movimento”. Di sinistra, sì, ma scanzonati. «Avevamo un gruppo, i “Bachi da sera”, il nome più brutto della storia: di giorno andavamo davanti alle fabbriche con le canzoni per i palestinesi, la sera di nascosto al “Refettorio”, il locale dell’ex Gufo Roberto Brivio, a fare le cose nostre. È durata due o tre anni». E sarebbe morta lì se non ci fosse stata la nascita delle radio libere e la luminosa idea di una trasmissione satirica via etere. «Per vivere ci mantenevamo io come direttore amministrativo in una azienda di pannolini, Michele alla Emme edizioni di Rosellina Archinto, ma ci sentivamo gli Arbore e Boncompagni di sinistra. G&M nacque nell’autunno del’75 a Radio Milano Centrale e qualche mese dopo a Radio Popolare con Passati col rosso». Affiora una scena: «A Radio Pop ci chiesero un provino, il direttore Piero Scaramucci, le femministe, i compagni. Non rideva nessuno. Alla fine Scaramucci disse “Boh!” però ci diede lo spazio, il lunedì dalle 21.30 alle 23, stesso orario del film sul primo canale Rai. La trasmissione esplose. Portava nella sinistra qualcosa che non c’era: l’intrattenimento, appunto». Il viatico erano le canzoni di Jannacci, Gaber, Fo. Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla simbiosi di Milano in quegli anni con i suoi artisti, la loro voglia di cambiare e stare insieme: Jannacci che abitava vicino a Michele in via Mameli, che gli presentò Gaber che li mise in contatto col Santa Tecla e poi con Cochi e Renato... era come ricomporre i tasselli di un mosaico. «Se c’è una cosa di cui siamo orgogliosi è di far parte della comicità milanese, la più innovativa d’Italia. Sì, proprio così. Milano non ha una tradizione come i napoletani o i romani: Gigi Proietti è un intero museo, ma Cochi e Renato sono arte contemporanea. Milano si è dovuta inventare una lingua comica, vedi Dario Fo, e la comicità è reinvenzione creativa». Un esempio eccelso: Ci vuole orecchio, la canzone scritta nell’80 con Jannacci. «E quando nella squadra poi entrano anche i Comedians di Gabriele Salvatores, Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania, Silvio Orlando, Gigio Alberti... la scuola milanese diventa un fatto nazionale». Con G&M e Giancarlo Bozzo animerà tra intelligenza e impudenza le serate dello “Zelig Cabaret” aperto nell’85 in viale Monza indovinando i sentimenti di un pubblico forse stanco della politica ma non ancora contagiato dalle tentazioni antipolitiche: e nacquero Albanese, Aldo Govanni e Giacomo, Littizzetto, Cornacchione, Vergassola, a Linus e poi nella prestigiosa collana degli esplose Lella Costa. «Su quella pedana ab- Struzzi Einaudi con Anche le formiche nel biamo rotto le barriere tra intellettuali e loro piccolo si incazzano, la loro raccolta di gente comune».Tra i ricordi annoverano battute, ottocentomila copie solo nella pri“le prime volte di”: Teresa Mannino, Geppi ma edizione. «Del Bono non era toscano, Cucciari, Checco Zalone (a cui pagarono il ma elbano, cioè a detta sua ancora più biglietto del treno per tornare in Puglia). Il stronzo. Era un intellettuale ma anche un padrino ideale di quel momento era il gran- provocatore. Ci pubblicò all’Einaudi tra Balde Oreste Del Buono che portò G&M prima zac e Proust con grande scandalo, e quando ci scrisse la prefazione a un’altra raccolta si firmò “L’uomo che stuprò lo struzzo”». Curioso che il massimo del successo sia coinciso con le notti svagate di Zelig tv, da cui ora Gino e Michele sono in sabbatico «per ripensare nuovi approdi», perchè forse fu proprio la potenza di quello show su Canale 5 a cancellare quel che di satira c’era nella comicità. «Discorso delicato», fa muro Gino. «Chi fa satira oggi ? Crozza? Lo adoro, ma quanto è più facile scrivere una parodia su Renzi piuttosto che una bella battuta?». Così profetizzano grandi carriere per Marta Zoboli, Gianluca de Angelis, i Boiler e qualche genovese. E la battuta epocale? «Sembra incredibile, ma la vita di Berlusconi è basata su una storia vera». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 ‘‘ 41 Foto di gruppo. A cura di Luigi Bolognini Francesco Baccini Era la fine degli anni ’80. Arrivavo da Genova su una Renault scassata (ci dormivo, anche) per fare il mio primo provino musicale. Non con un discografico, ma con due che cercavano nuovi comici. Fu così che divenni il primo a lavorare allo Zelig in viale Monza Giancarlo Bozzo Se è vero che il riso fa buon sangue, per il sistema sanitario di questo Paese è indispensabile che continuiate per altri quarant’anni Claudio Bisio Me lo sentivo che prima o poi ci avreste portato via il lavoro Nico Colonna Dei quarant’anni che festeggiate, trentatré li abbiamo passati insieme. Vi voglio bene, almeno per i prossimi sessant’anni Elio di Elio e le Storie Tese Non è giusto dire che adesso sono rimbambiti, sono sempre stati così, soprattutto Michele. Gino è più serio Marco Santin (Gialappa’s) A inizio carriera li chiamavamo gli zii: quarant’anni e dimostrarli tutti I COMICI DI ZELIG IN UNA FOTO DEL 1976 1. MICHELE MOZZATI 2. RINO MESSINA 3. FRANCESCO BACCINI 4. CLAUDIO BISIO 5. NICO COLONNA 6. ALDO BAGLIO 7. MARCO SANTIN (GIALAPPA’S) 8. ROCCO TANICA (ELIO E LE STORIE TESE) 9. ROMEO SCHIAVONE 10. GIANCARLO BOZZO 11. ROBERTO BOSATRA 12. GIORGIO GHERARDUCCI (GIALAPPA’S) 13. MOHAMED EL SAYED 14. FEYEZ (ELIO E LE STORIE TESE) 15. CESAREO (ELIO E LE STORIE TESE) 16. ELIO (ELIO E LE STORIE TESE) 17. GIOVANNI STORTI 18. RAUL CREMONA 19. LELLA COSTA 20. LUCIANA LITTIZZETTO 21. MAURIZIO MILANI 22. GIANNI PALLADINO 23. PAOLO ROSSI 24. GIACOMO PORETTI 25. GINO VIGNALI 26. ANTONIO CORNACCHIONE 27. MARINA MASSIRONI 28. PONGO Paolo Rossi Quarant’anni di carriera? Boh...io li ho conosciuti dieci anni fa, me lo ricordo perfettamente; la prima volta che mi presentai con i miei testi avrò avuto sì e no dodici anni Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo La differenza sta nel rovescio: uno non lo tira mai, l’altro usa la racchetta come un asciugacapelli. La morale è la seguente: come autori continuate ma come tennisti è meglio se vi ritirate Raul Cremona Cari Gino & Michele, siete i Totò e Peppino per noi cabarettisti di oggi. Non avete ancora la stessa esperienza teatrale ma piano piano ci arriverete. Peccato che abbiate già più di sessant’anni: sarà un effetto del Jobs Act? Lella Costa Era il 1980, debuttai col mio primo monologo e feci la prima intervista. Me la fecero in due, e che tipi quei due! Da allora non ci siamo più staccati, e neppure voi. Se in questo Paese ci fossero le unioni civili credo che ne avreste già approfittato da tempo Pongo Con Antenna Tre, Zelig, Drive In, tennis e perché no Fossa Lupara, calcio e Fantacalcio la tavola è imbandita per oltre trent’anni di vita Antonio Cornacchione Cari voi, se doveste mantenere la metà dei comici che avete scoperto sareste sul lastrico. Anche perché ci sono pure io ,, Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 42 Next.Avvisiainaviganti Q Benvenuti Ormaila guerraè iniziata:pc,smartphone, tv non sonopiù semplici oggettima“device” checichiedonodi scegliere suquale isola andarea vivere: Apple?Google? Amazon?... ERNESTO ASSANTE UANDO ACQUISTATE UNO SMARTPHONE non state comprando soltanto un de- vice che vi potrà servire per mille usi diversi. State facendo una scelta importante per la vostra vita digitale, che potrebbe condizionare molti altri acquisti e l’uso di molti altri servizi. Non state comprando solo un cellulare “intelligente”, ma una chiave d’accesso a un vero e proprio “ecosistema”, che comprende altri oggetti, molte funzioni, moltissimi servizi, acquisto di beni materiali e immateriali, intrattenimento, studio, ricerca, e molto altro ancora. Sì, ma cos’è un ”ecosistema”? Un insieme di hardware, software e servizi forniti però da un’unica fonte. Per essere più semplici e chiari, pensate a tante piccole isole in un arcipelago che si possono visitare solamente se i rispettivi governanti decidono di istituire un servizio di collegamento con le altre. Se questo non avviene, si è costretti a rimanere sulla propria isola. Questo significa che, per esempio, se si compra un iPhone si utilizzerà necessariamente l’App Store o il servizio cloud di Apple. Ma potremmo anche usare il “Set top box” per collegare la televisione, in questo caso la Apple Tv, per vedere su grande schermo i contenuti che abbiamo acquistato per il cellulare o il tablet; o essere tentati di prendere un computer che sia allo stesso modo compatibile, che mi permetta di vedere film, leggere libri o ascoltare musica che ho acquistato dalla stessa fonte. E via discorrendo. Acquistando uno smartphone, o un tablet, si entra in un ecosistema che molto spesso non comunica con gli altri se non in maniera limitata, e che lascia a noi sempre meno spazio d’uscita, perché comprare contenuti o servizi su una piattaforma significa, nella maggioranza dei casi, non avere la possibilità di poterne usufruire su una piattaforma diversa. Quindi saremo tentati di acquistare altri device che siano compatibili con l’ecosistema scelto, televisori, computer, lettori mp3, ma anche orologi, lampadine, termostati, frigoriferi e automobili, oggetti che comunicano tra di loro all’interno di un unico ecosistema, che sono tra di loro “compatibili” e che, proprio per questo motivo, rendono per alcuni versi la nostra vita più semplice, frictionless per usare un termine molto usato negli ultimi tempi. Una sorta di guerra di standard insomma che minaccia di diventare sempre più cruenta: è di pochi giorni fa infatti la notizia che Amazon intende vietare la vendita sulla sua piattaforma di Apple TV e Google Chromecast, due dispositivi di streaming che competono con la propria Fire TV ed entrambi i prodotti scompariranno il 29 ottobre. Ormai, con l’avanzare dell’“Internet delle cose”, gli oggetti in gra- nelle DigitalIslands Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 do di comunicare tra di loro e con noi attraverso la rete diventano sempre più numerosi. Avere un telefono che non è compatibile con il computer oggi è ancora possibile ma lo sarà sempre meno in futuro, con il diffondersi della rete in altri oggetti, ognuno dei quali in grado di fare cose nuove e diverse da quelle per le quali lo abbiamo inizialmente acquistato. Oggi gli ecosistemi, o se preferite le “isole”, sono figli delle grandi aziende che operano nei cosiddetti smart media, ovvero quegli oggetti che hanno assunto più funzioni grazie alla rete e che dominano il mercato digitale. Un ecosistema perfetto (dal punto di vista dell’azienda che lo crea) è quello che mette insieme software, servizi e hardware, offrendo agli utenti un’esperienza “chiusa”, che non ha bisogno di altro al suo esterno. È quello al quale stanno lavorando tutti i colossi dell’era digitale con lo stesso obiettivo: legare a sé in maniera definitiva, o quanto meno molto prolungata nel tempo, il singolo consumatore. Non si cerca più la “fidelizzazione” attraverso il brand e la “condivisione” di gusti, valori, ideali, mode, ma attraverso l’uso di un sistema operativo che funzioni su più device, o di un negozio digitale che venda contenuti consumabili solo attraverso le proprie macchine. Maestri dell’arte dell’ecosistema sono ovviamente gli ingegneri della Apple, anzi si potrebbe dire che sono loro ad aver inventato il meccanismo che oggi è alla base della 43 crescita delle aziende digitali. Il concorrente più importante è Google, che ha creato il sistema operativo Android che anima la maggioranza degli smartphone del pianeta. Il terzo “pretendente” è Microsoft, che con il suo Windows ancora domina incontrastato il mondo dei pc. Mondo che però è in declino mentre il vero asso nella manica di Microsoft, base del proprio ecosistema, è la Xbox, la console per videogiochi presente in più di novanta milioni di case del mondo. Messa sotto al televisore consente l’accesso a Internet e a molti servizi. Poi c’è Sony, che oltre alla Playstation, a differenza di tutti gli altri, produce in proprio anche i contenuti, dischi, film e programmi tv, mentre Samsung e LG possono contare sulla penetrazione dei loro televisori che offrono un ottimo rapporto qualità-prezzo. L’ultimo, ma come abbiamo visto, il più aggressivo tra i pretendenti è proprio Amazon: l’azienda di Jeff Bezos domina il mercato delle vendite di prodotti fisici attraverso Internet ma è meno forte in quello digitale e offre tutto quello che un consumatore “elettronico” vuole avere sul proprio device. Oggi, dopo il Kindle (tablet e lettore di libri) Amazon ha creato anche una sua tv, Fire, mentre in passato aveva tentato di produrre dei propri smartphone, ma con risultati risibili. Poco male, perché la sua app è presente su tutti gli smartphone prodotti da altri. La guerra degli ecosistemi, insomma, è solo agli inizi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 44 Sapori.Sconosciuti DAL KENYA (COME LO YOGURT CON CENERE), MA ANCHE DAL GIAPPONE (COME L’INSALATA FERMENTATA IN ACQUA SALATA) O DAL CILE (COME LE UOVA AZZURRE) A PORTARLI SULLE NOSTRE TAVOLE SONO 2500 GIOVANI CONTADINI ARRIVATI A MILANO DA OGNI PARTE DEL PIANETA PER LA CHIUSURA DELL’EXPO 10 prodotti della Terra GUINEA BISSAU Olio di palma selvatica Le rosse bacche di Elaeis guineensis, in arrivo dalle foreste della Guinea Bissau, danno un olio denso, profumato, ricco di carotenoidi e vitamina E, con cui condire carni e pesci ISLANDA Skyr Solo latte vaccino crudo e fermenti autoctoni per il formaggio fresco dei pastori islandesi: proteico, poco grasso e gradevolmente acidulo, si gusta mescolato con panna e zucchero L’appuntamento Dal 15 al 17 ottobre al Circolo dei Lettori di Torino “Pensare il Cibo”, evento inserito all’interno di “Nutrire le città”. Il tema dell’alimentazione verrà declinato da filosofi, economisti e teologi, da Giacomo Marramao a Bruno Bignami Il festival Comincia martedì a Bari “Puglia Food Film - Il Cinema incontra l’Agroalimentare”, dedicato a cortometraggi, documentari e cinema d’animazione, tra passione e ossessione per il cibo. A corollario, incontri con gli autori e degustazioni L’iniziativa Si intitola “From Father to Son” il Calendario Lavazza 2016, firmato dal canadese Joey L., che ha immortalato la nuova generazione di contadini latinoamericani, in scia al lavoro sugli “earth defenders” di Steve McCurry, autore del calendario 2015 CILE Galline dalle uova azzurre Sono di razza araucana (nome dato dagli spagnoli agli indios Mapuche, Cile) i volatili rustici, insofferenti agli allevamenti intensivi, le cui uova vantano un guscio azzurrognolo BOLIVIA PERÙ Kañihua Bassa e resistente, cresce sulle Ande di Bolivia e Perù. Calcio e proteine ne fanno un alimento prezioso. Dai grani microscopici si ricava una farina finissima per torte e biscotti ETIOPIA Sale nero di Boke Le acque melmose del cratere del vulcano inattivo El Sod – la casa del sale, in lingua etiope – proteggono un deposito di cristalli grezzi di sale, estratti e lavorati manualmente Cosenuovedalmondo. Kañihua, skyr e pasta katta cibi poveri ma buoni scampati al global food “A LICIA GRANELLO PPROVA NELLA NATURA quello che non capi- sci/ perché ciò che l’uomo non ha compreso non ha distrutto/ Fai quelle domande che non hanno risposta/ Investi nel millennio... pianta sequoie/ Sostieni che il tuo raccolto principale è la foresta che non hai seminato/ e che non vivrai per raccogliere/ Poni la tua fiducia nei cinque centimetri di humus/ che crescono sotto gli alberi ogni mille anni”. Nel Manifesto di un contadino impazzito, il poeta americano Wendell Berry condensa i Repubblica Nazionale 2015-10-04 la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 Prove generali di come mangeremo domani Esotico Un tipico buffet africano a base di pesce e verdure SENEGAL Cuscus salato Due giorni di lavoro per le donne di Fadiouth, Senegal: miglio pelato, setacciato, lavato in mare, macinato, incocciato, fermentato nelle zucche, addensato con polvere di baobab GIAPPONE Insalata Takana Si gusta cruda, cotta o fermentata (tsukemono) in acqua salata e curcuma, l’insalata coltivata nel distretto di Nagasaki, sud del Giappone, dal gusto dolce e leggermente piccante SIERRA LEONE LIBERIA Cola di Kenema Parente del cacao, è spontanea tra Sierra Leone e Liberia. Il frutto, croccante e ricco di caffeina, si mastica crudo o viene macinato per una bevanda tonica con zenzero e peperoncino KENYA Yogurt con la cenere punti cardine per un futuro rispettoso di terra e natura. A salvare il pianeta, non gli hamburger industriali ma canapa e galline ribelli ai capannoni-lager, non le monocolture serializzate dalla chimica ma biodiversità agricola e mucche felici. Sono questi i giorni di Terra Madre Giovani — We Feed the Planet, con duemilacinquecento agricoltori under quaranta in arrivo da centoventi nazioni pronti a confrontarsi a Milano tra Superstudio Più e Mercato Metropolitano sul tema dell’agricoltura famigliare: una realtà che rappresenta il 98 per cento delle proprietà e contribuisce con quasi il 60 per cento della produzione agricola mondiale. Ognuno in rappresentanza della propria comunità di appartenenza, incurante delle lusinghe dei potentati agroalimentari. Così, l’unico evento fieramente e massicciamente contadino in qualche modo collegato all’Expo — la chiusura dei lavori è prevista martedì nel padiglione di Slow Food — diventa l’occasione per scoprire cibi ignoti o rivalutare varietà misconosciute, che contribuiscono a sfamare il mondo e a proteggere le economie locali. Spesso, si tratta di alimenti figli di povertà e arretratezza, di fronte ai quali comprensione e solidarietà prevalgono sulla curiosità gastronomica. Altre volte invece — come insegna la nostra stessa storia alimentare — la cucina di sussistenza produce ricette mirabili a partire da materie prime povere, poverissime, dalla parmigiana di melanzane (originariamente senza mozzarella) alla pappa col pomodoro, fatta col pane avanzato e pomodori troppo maturi per mangiarli in insalata. Poveri ma belli (da mangiare). E spesso sconosciuti. Come lo yacón, radice di una pianta coltivata da millenni sulle pendici delle Ande argentine, che ha consistenza, succosità e sapore del nostro melone e che i contadini di Quebrada rendono ancora più dolce facendo appassire i tuberi al sole, prima di trasformarli in succhi e gelatine squisiti. Oppure lo zeleno sirene bulgaro, uno dei rari erborinati naturali esistenti nel mondo, stagionato in contenitori di legno di tiglio per due anni nella salamoia prodotta dalla cagliata addizionata di sale grosso, e poi lasciati aperti in cantina per favorire la fioritura di muffe nobili. Una manciata di famiglie continua a produrlo, malgrado la fatica della tripla mungitura manuale quotidiana, per realizzare non più di sessanta litri di latte a stagione per animale, più o meno quanto può arrivare a produrne ogni giorno una vacca Frisona in allevamente intensivo. Storie intense, orgogliose, come le facce dei loro protagonisti. Vale la pena incontrarli, farsi raccontare, assaggiare e, se vi piacciono, comprare i loro prodotti. Arrivare a cena dagli amici con un sacchettino di golose noci di Barù, tipiche del Cerrado brasiliano, farà di voi dei meritori, richiestissimi antropologi del gusto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA 45 Da una comunità kenyota, i Pokot, il latte crudo di mucche e capre, raccolto nei calabash (zucche affumicate) separato dal siero e addizionato di cenere, che disinfetta e aromatizza MALI Pasta katta Le donne di Timbuktu lavorano la pasta finemente con le dita per farne dei corti filamenti, seccati e tostati in padella, lessati in un brodo di pesce, carne e pomodoro MARINO NIOLA S IAMO ALLA VIGILIA di una nuova rivoluzione alimentare. Paragonabile a quella che dopo la scoperta dei nuovi mondi portò una ventata di novità sulle tavole europee. E cambiò per sempre il modo di nutrire il pianeta. Allora arrivarono pomodori e fagioli, patate e mais, peperoni e tè, caffè e cacao. Tutti cibi dei quali non potremmo più fare a meno. E che danno identità alle nostre cucine locali. Al punto che sembrano nati qui da noi. Come il San Marzano, che oggi si fregia del Dop, mentre in realtà i suoi genitori abitavano gli altipiani del Messico. Dove, nella piazza del mercato di Tenochtitlán seimila anni fa, già si vendeva il triplo concentrato. Adesso il pianeta, con i suoi sette miliardi di bocche da sfamare sta vivendo qualcosa di analogo. La differenza è che quattro secoli fa fummo noi a scoprire l’America e gli altri continenti. Mentre adesso è il resto del mondo a scoprirci. A conquistarci con le sue invenzioni culinarie, singolarità botaniche, biodiversità animali. Come le galline dalle uova azzurre, che sembrano partorite dalla fantasia di Chagall. E invece vengono dalle rarefatte solitudini delle alturas araucane. Dove corrono libere con gli sciamani più celebri del Latinoamerica. Con i quali condividono lo spirito ribelle e la voglia di volare. Tanto che nessuno riesce a recluderle in quei lager per pennuti che sono gli allevamenti intensivi. È la libertà che diventa sapore. Se Ugo Gregoretti avesse conosciuto questi irriducibili volatili quando nel 1963 girò “Il pollo ruspante” le avrebbe certamente scritturate per lanciare i suo strali contro la massificazione alimentare incipiente. Ora che la massificazione è dominante ci prova il Quarto stato del food. Arrivato a Milano da tutto il mondo per rispondere all’appello sciamanico lanciato da Carlin Petrini con Terra Madre Giovani. Dal Mali, dove le sfogline di Timbuktu filano pasta con dita da pianiste. Dal Kenya, dove i casari Pokot sono celebri per il loro yogurt. Dal Giappone dove i contadini di Nagasaki coltivano l’insalata takana, dolce e piccante, fermentata in acqua salata e curcuma. Oggi sembrano più che altro curiosità, esotismi buoni per stuzzicare i nostri palati un po’ annoiati dall’eccesso e omologati dalla standardizzazione industriale. In realtà sono le prove generali dell’alimentazione di domani. Destinata a diventare cibo quotidiano di un pianeta sempre più meticcio, incrociato e interconnesso. Perché da questi esperimenti di gusto sostenibile, da questi spostamenti progressivi del sapore e delle sue soglie, da questi rimescolamenti di ingredienti e di nutrienti, nasceranno le idee e le politiche per quella “feeding review” di cui il pianeta ha maledettamente bisogno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-10-04 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 46 L’incontro.Engagés ‘‘ DA BAMBINO SUONAVO IL PIANOFORTE E ASCOLTAVO MOLTO POI UN BEL GIORNO HO COMINCIATO A SCRIVERE E HO SMESSO DI ASCOLTARE MUSICA DA ALLORA LAVORO SOLO SULLE PAROLE Filosofo (“ma combattente”) e da qualche mese anche attore (“mi viene più ansia a salire su un palcoscenico che non a fare un comizio a Kiev in piazza Maidan”). Spesso altezzoso (“Je suis comme je suis”), umile mai (“le critiche non mi interessano”), elegante anche alle tre del pomeriggio (“il mio non è un look, il look è calcolato”), persino ora che ha sessantasei anni BHL non si rassegna ai salotti ma è sempre pronto ad andare in prima linea (“chi assiste al terrore ha il dovere di testimo- vent’anni fa a Sarajevo e riflessione polemica sul fallimento delle politiche eu«Il palcoscenico è la situazione più pericolosa in cui mi sia mai trovato. L’ansia comincia ad assalirmi il giorno prima. Non mi succede certo quando deniare”). Che cosa sognava di di- ropee. vo tenere una conferenza o un meeting politico o parlare sulla Haydn Platz di Vienna o sulla Maidan di Kiev davanti a centinaia di migliaia di persone». Sono che lo va predicando: il Vecchio continente trovi un’unità politica. E insiventare quando era ancora un anni ste: «Il dramma è che neanche ci prova. Questa pièce è un grido d’allarme: senza l’unità politica finiremo sconfitti da tre imperi, quello commerciale cinese, politico euroasiatico con a capo Putin e quello folle dell’Is. Questo testo ragazzo? “Non ne ho memoria. quello non è solo un grido d’allarme ma una tattica, una strategia di lotta». Il suo pensiero può anche essere opinabile, ma BHL non polemizza dai salotti, che pure non disdegna. Quando è tempo d’investigare è lì in prima linea, anProbabilmente qualcosa che as- che e soprattutto nei frangenti critici e pericolosi; in Bangladesh, in Pakistan, in Libia e più recentemente a Kobane, in una situazione da panico. «Panico è la parola giusta», protesta, «anche se ho certamente avuto paura. Sarei somiglia a quel che faccio oggi” non un incosciente se non fossi consapevole dei rischi, come nel 1992 a tiro degli Bernard-Henry Lévy GIUSEPPE VIDETTI N ‘‘ SPOLETO APOLEONE POSTMODERNO. Torvo, pensoso, scarmigliato, abito ne- ro con pantaloni da torero, la nuca incoronata dal collo altissimo della camicia bianca abbondantemente sbottonata per rivelare un’abbronzatura caraibica, una nuvola di Habit Rouge, Bernard-Henry Lévy, BHL per cultori e detrattori, ostenta eleganza da sera anche alle tre del pomeriggio. Altezzoso per definizione. Aggressivo di natura, poi per necessità. Umile mai, neanche nella sua onorevole carriera di tombeur des femmes (l’ultima delle tre mogli, Arielle Dombasle, sfinita femme fatale del cinema francese, arriva con un set di valigie di Vuitton che neanche la Dietrich). Filosofo, giornalista, imprenditore, saggista, troppo colto e distaccato per star lì a chiedersi il perché di tanto odio e amore. O per concedersi alla fiera delle vanità. Ma che gli piaccia o no a sessantasei anni suonati è ancora un’icona di stile. Sempre nella lista degli uomini meglio vestiti del mondo (nonostante quel paio di bottoni assassini che non ne vogliono sapere di restare ancorati alle asole; un particolare più da Califano che da Bryan Ferry). «Me ne fotto, onestamente me ne fotto. Il mio non è un look, il look è calcolato, io mi vesto senza pensarci», sbuffa. Mente, ovvio. «È chic naturale», gli fa eco Gilles Hertzog, fascinoso amico-ombra da trentacinque anni, compagnon d’avventure e spericolati reportage. «È da mio padre che ereditato l’amore per l’essenziale, l’eleganza. E poi Je suis comme je suis», borbotta. BHL è nervoso, concentrato, ma non tradisce fragilità neanche di fronte alla prova d’attore nella quale si cimenta da pochi mesi. «È un momento IN ITALIA GLI INTELLETTUALI DURANTE I VENT’ANNI DI BERLUSCONI SONO FINITI NELLE CATACOMBE. E RENZI CHE CITA DANTE, GOETHE E VACLAV HAVEL E POI FA INCIUCI, CHE COSA VUOLE FARE? DOVE STA ANDANDO? importante della mia vita perché ho partecipato a uno dei più bei festival del mondo, Spoleto ha fatto conoscere alcuni dei testi più importanti del teatro contemporaneo. È un grande onore per me aver presentato qui il mio Hotel Europa», dice ora che è entrato, come Bob Wilson e Baryshnikov, nella cerchia degli amici di Spoleto, tessendo lodi a Giorgio Ferrara, che continua in questi anni della cultura in ristrettezze la gloriosa tradizione di Gian Carlo Menotti (e si fa in quattro per scovare nella provincia umbra una dimora all’altezza del Carlyle, il lussuoso albergo di Manhattan dove BHL è un habitué). Hotel Europa è il monologo che recita con una verve che neanche un urlatore televisivo come Sgarbi riuscirebbe a interpretare con la stessa spavalda abilità teatrale, memoir di una notte di sniper serbi, o in Pakistan nel 2002 a stretto contatto coi talebani, o nel 2011 tra i ribelli di Bengasi. Ma la paura non m’impedisce di agire. Chi assiste al terrore ha il dovere di testimoniarlo». Il nuovo totalitarismo, come lo chiama, e il crescente sentimento antisemita in Francia potrebbe trasformarlo in un facile bersaglio. «Ci sono ormai attentati dell’Is ogni giorno, il pericolo è ovunque, per tutti», minimizza. «Tutti siamo minacciati, non io in particolare. È un asse che lavora contro la democrazia, un tentativo di creare panico, seminare terrore, destabilizzare le istituzioni, spingere i governi a prendere misure antidemocratiche. Poi ognuno agisca secondo coscienza. Posso immaginare un filosofo che voglia fare della filosofia pura, uno scrittore che decida di vivere recluso in biblioteca. Non voglio impartire lezioni a nessuno, ma io sono un filosofo impegnato». Critiche, minacce, polemiche, come quando ha difeso a spada tratta Strauss-Kahn arrestato a New York per violenza sessuale o quando si è ripetutamente scagliato contro la comunità internazionale per non aver agito contro i genocidi. «Le critiche? Per me la vera critica nasce dal dibattito intellettuale, produce anticorpi, rafforza le idee, fuori e dentro di me. Le critiche superficiali non hanno importanza, non mi indeboliscono né mi rafforzano, non contano, le dimentico subito, continuo il mio lavoro». Difficile indagare sul privato, le passioni, le temps perdu. «Non ho memoria di quel che volevo fare da ragazzo», taglia corto guardando altrove, «non saprei… probabilmente qualcosa che assomiglia a quel che faccio oggi. Di sicuro leggevo molto, moltissimo. Ho imparato a vivere dai libri. Sono stati la mia prima e seconda scuola, come la vita, la realtà e la lotta sono state la terza». Idoli ne aveva da ragazzo? «Tutto questo è molto lontano e confuso. Quel che ero allora non sono più io, non ho ricordi vividi di quel periodo. Le persone che davvero ammiravo erano i grandi avventurieri, Cristoforo Colombo, Lawrence d’Arabia, Albert Schweitzer, chi ha fatto della sua vita qualcosa di totalmente diverso da quello per cui sembrava destinato». Ricorda invece con esattezza il momento in cui decise che sarebbe diventato un combattente di parole. In Bangladesh, nel 1971, uno dei po- ‘‘ CERTO CHE HO PAURA. TUTTI DOVREBBERO AVERNE. CI SONO ORMAI ATTENTATI DELL’IS OGNI GIORNO. È FACILE, È BELLO, GRIDARE JE SUIS CHARLIE SULL’ONDA DELL’EMOZIONE. BISOGNA POTER DIRE IO RESTO CHARLIE chissimi stranieri al seguito di una colonia di guerriglieri contro il Pakistan. «Assistetti a scene orribili, e decisi di consacrare un po’ del mio tempo e della mia vita a raccontare quella inclinazione alla violenza e alla sopraffazione che è insita nella natura umana», mormora. «Lì compresi che la forza di cui avevo bisogno per affrontare quelle situazioni mi arriva dai personaggi che m’ispirano, desaparecidos, grandi scrittori, grandi giornalisti, grandi resistenti, uomini che si sono battuti per la libertà. Grazie a loro la scrittura è diventata un momento di esaltazione, esco da me stesso e entro in uno stato d’assenza, di grande godimento spirituale, di profonda gioia interiore». Tutto il resto è futile. Musica? Cinema? Non lo interessano. «Suonavo il pianoforte e ho ascoltato molta musica da bambino e da adolescente, ma poi un bel giorno ho incominciato a scrivere e il lavoro sulle parole ha letteralmente rimpiazzato il lavoro sulle note e non ho più ascoltato musica. Così, naturalmente, da un giorno all’altro». Ne ha per tutti. Per l’Italia dove «gli intellettuali sono finiti nelle catacombe durante i vent’anni di Berlusconi» e per Renzi che cita Dante, Goethe, Vaclav Havel e poi fa inciuci: «Cosa vuol fare? Dove sta andando?». Per il dopo Charlie Hebdo: «Bisogna restare Charlie. È facile dire Je suis Charlie sull’onda dell’emozione, bellissima, magnifica solidarietà, ma ora al di là dello slogan chi è pronto a dire “Io resto Charlie?”». Per gli strateghi del terrore: «Questi signori sono deboli, l’Europa e le democrazie sono molto più forti. L’Italia ricordi gli anni di piombo, quando tremava sulle sue fondamenta, la loggia P2, i fascisti, un partito comunista in ascesa, eppure avete vinto, la società civile ha vinto, i giudici hanno vinto, la polizia ha vinto, gli studenti hanno vinto, i politici hanno vinto. Io non ho paura, noi non dobbiamo avere paura». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-10-04