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Toni Morrison - La Repubblica.it

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Toni Morrison - La Repubblica.it
DIREPUBBLICA
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015 NUMERO 551
Cult
La copertina. La delusione della democrazia
Straparlando. Bianca Pitzorno: “Io e i bambini”
Mondovisioni. Malinconico Lussemburgo
Intervistaalla grande
scrittriceafroamericana
TONI MORRISON PREMIO NOBEL 1993 IN UNA FOTO DI TIMOTHY GREENFIELD-SANDERS/CORBIS IMAGES/CONTRASTO
Toni
Morrison
Quelli
delNobelsì
chesanno
come
organizzare
unafesta
ANNA LOMBARDI
I luoghi. È a Berlino il nuovo museo delle spie: e dove sennò? L’officina. I fragilissimi mondi disegnati da Jimmy Liao Spettacoli.
Gino & Michele, quarant’anni di risate a sinistra L’incontro. Bernard-Henry Lévy: “Sono un filosofo combattente, altro che look”
Repubblica Nazionale 2015-10-04
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
34
Lacopertina.IntervistaaToniMorrison
‘‘
NELSON MANDELA
PER ME ERA UN MITO
E QUANDO VINCEMMO
IL NOBEL CHIESI DI INCONTRARLO.
FU FAVOLOSO: MI RACCONTÒ
STORIE INCREDIBILI, COSE BUFFE
E STRUGGENTI SULLA SUA VITA
«L
ANNA LOMBARDI
GRAND VIEW-ON-HUDSON
O CHIAMAVANO il test
della carta del droghiere: chi aveva la pelle
più chiara sapeva che
avrebbe goduto del
“white privilege” — il
privilegio bianco. Nei
negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand
View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento
abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura
afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.
L’ha vissuto sulla sua pelle?
«A Lorain, in Ohio, dove sono nata, vivevamo in un quartiere di
emigranti. I miei vicini erano messicani, italiani, ungheresi: frequentavamo la stessa chiesa e la stessa scuola, e in comune avevamo anche la povertà. Ma quando negli anni Quaranta andai a studiare a Washington, era ancora una città segregata: gli autobus, i
locali, tutto. Frequentavo la Howard University, un’università nera dove pensavo di sentirmi al sicuro: e invece fu proprio lì che scoprii il colorism. C’erano confraternite universitarie che accettavano solo ragazze dalla pelle molto chiara: e facevano questa cosa — il
test della carta del droghiere...».
Nella casa di Toni Morrison ogni oggetto racconta una storia. Le
statuette africane che incorniciano la scala. Il grande fotoritratto
di Timothy Greenfield-Sanders: lei di profilo, i dreadlock grigi in
evidenza. Il tavolo da ciabattino regalatole da Oprah Winfrey, usato sul set del film Beloved dal suo primo best seller Amatissima. La
scrivania dove fra i libri svetta un piccolo dipinto: «S’intitola Donna nigeriana. È opera di un artista afroamericano che visse a Parigi, un amico di Picasso che non ebbe la stessa fortuna: probabilmente troppo nero, anche lui. Se solo ricordassi il suo nome...». “Troppo
nero”, magari in base ai canoni del colorism, discriminazione ancor più sottile e crudele perché basata sul tono di colore della pelle.
Troviamo queste stesse sfumature in Prima i bambini, l’ultimo romanzo di Morrison in uscita ora in Italia, edito come gli altri da Frassinelli. Si apre con la storia di una donna “nera come la mezzanotte” e rifiutata dai genitori dalla pelle, invece, più chiara.
Ha raccontato al “New York Times” che suo padre odiava i bianchi. Sua madre, al contrario, era aperta con tutti. Lei da chi ha
preso?
«Mio padre veniva dalla Georgia e da bambino aveva visto linciare due uomini di colore — persone per bene, negozianti — solo per
appropriarsi dei loro beni. Considerava i bianchi “irriscattabili”.
Mia madre giudicava le persone una per una. Io sono come lei: non
ho mai odiato nessuno. Ma capisco mio padre».
L’America di oggi non è più quella che lei ha scoperto negli anni
dell’università. Ma il razzismo è ancora qui.
«Il razzismo è sempre stato qui. È solo più visibile: grazie ai video
fatti coi cellulari, ai social media. Prima non c’erano tutti questi
mezzi di denuncia. Quando i vicini di mio padre vennero linciati erano i bianchi che andavano a fotografarli per metterli su cartoline
da spedire agli amici: era come sparare al leone. Oggi se un ragazzo
nero disarmato viene ucciso anche in un paese piccolissimo la sua
morte finisce sotto gli occhi di tutti».
Già. Ma cinquant’anni dopo Selma e con un afroamericano alla
guida del Paese...
«Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico.
Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li
sfruttano. E poi l’America è un paese inondato da armi».
Cosa c’entra questo con il razzismo?
«Di cosa crede abbiano paura così tanti possessori di armi? Non a
caso i ragazzi neri uccisi dai poliziotti erano tutti disarmati».
‘‘
MICHELLE OBAMA
MI HA INVITATO A CENA
DA POCO. GENTILISSIMA.
MI FA: SIAMO TRA NOI, PUOI
VENIRE ANCHE IN BLUE JEANS.
IO CHE I BLUE JEANS NON LI HO
MAI MESSI IN VITA MIA!
Barack Obama ha detto: la mia più grande frustrazione è non essere riuscito a imporre la legge per controllarne la diffusione.
«Ma cosa può fare il presidente da solo? Neanche tutto il suo partito lo segue».
Lei dice: c’è sempre stato. E il nuovo razzismo verso chi viene in
cerca di futuro? Qui i messicani nel mirino di Donald Trump,
mentre l’Europa non riesce a mettersi d’accordo sui profughi.
«Non ho memoria di nulla di simile, a parte quel che fecero qui ai
giapponesi durante la Seconda guerra mondiale: li rinchiusero nei
campi perché nati in un paese considerato nemico. Eppure erano
medici, avvocati... L’America dovrebbe essere com’è scritto sotto
la statua della Libertà: un paese di immigrati che dà il benvenuto
agli stranieri. E invece... Quanto agli europei, vergogna. Soprattutto quelli dell’Est: era appena ieri che bussavano a tutte le porte».
Non sarà stata la crisi globale a fomentare il nuovo disordine?
«È sempre una questione di soldi. Un tempo eravamo tutti cittadini. Poi i cittadini sono diventati consumatori: si comprava qualsiasi cosa. Oggi si parla di contribuenti: siamo quelli che pagano le
tasse. Questo porta a non identificarsi più con un senso di comunità. Il discorso diventa: io pago...».
Questo è il suo undicesimo romanzo: il primo ambientato nell’epoca contemporanea. Un modo per ricordare agli intellettuali
che in un mondo così complesso bisogna continuare a prendere
posizione?
«È la storia di persone che non sono cresciute: non si sono mai liberate dai drammi vissuti da bambini. Sono un po’ lo specchio della letteratura contemporanea: così focalizzata su se stessa. Tutti a
descrivere solo la propria finestra sul mondo: mia mamma, il mio
fidanzato. Io ho voluto raccontare un percorso di autostima il cui fine è la conoscenza».
Lei è stata più volte definita “la voce della Coscienza americana”. Si riconosce?
«La accetto. E ho voluto dare con tutti i miei libri un messaggio
ben preciso: questo è il percorso compiuto dall’America, queste sono le persone sulla cui pelle il Paese è cresciuto e diventato una nazione invidiabile».
“Prima i bambini” è forse il libro che nei temi riprende più di tutti il suo primo romanzo, “L’occhio più blu”, pubblicato quarantacinque anni fa, quando lei era ancora e soltanto l’editor di Angela Davis e Muhammad Ali...
«All’epoca, era il 1970, nulla di quello di cui abbiamo appena
parlato mi era chiaro. Volevo raccontare la storia di una ragazzina
nera che sogna di avere gli occhi di Shirley Temple perché crede a
quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei. Sì,
forse i due libri si somigliano. Ma oggi lo sforzo che ci è richiesto è
diverso: smettere di sentirsi vittime».
Sull’intero romanzo pesa l’ombra della pedofilia.
«Se ne parla continuamente. Non so se è sempre stato così. Forse oggi le bambine sono ipersessualizzate. O forse attraverso internet si diffonde la pornografia infantile. Ma è qualcosa di dilagante.
Mi ha aiutato a rendere la storia più contemporanea».
Nel libro sottolinea come gli errori dei genitori pesino per sem-
IL NUOVO ROMANZO
SARÀ NELLE LIBRERIE
DA MARTEDÌ “PRIMA I BAMBINI”
(FRASSINELLI, 228 PAGINE,
19,50 EURO) L’ULTIMO LIBRO
DI TONI MORRISON (84 ANNI).
PREMIO NOBEL
PER LA LETTERATURA
NEL 1993 PER “AMATISSIMA”,
IN QUESTO SUO UNDICESIMO
ROMANZO, IL PRIMO
AMBIENTATO IN EPOCA
CONTEMPORANEA, RACCONTA
LA STORIA DI BRIDE RIFIUTATA
DAI GENITORI PERCHÉ
DALLA PELLE TROPPO NERA:
“NERA COME LA MEZZANOTTE”
‘‘
PAPA FRANCESCO
MI PIACE TANTO,
E MI PIACE COME STA
METTENDO A POSTO LE COSE
IN VATICANO. POTREBBE ANCHE
DARSI CHE QUESTO PAPA
RIESCA A RIPORTARMI IN CHIESA
pre. Il messaggio è: prendiamoci maggior cura dei bambini perché sono il nostro futuro?
«Non perché sono il futuro: perché sono piccoli esseri umani.
Pensi che il titolo che avevo dato io al libro era “L’ira dei bambini”.
Ma non piaceva a nessuno. Non all’editore. Non alla pubblicità.
Hanno preferito God Help the Child — parafrasando una famosa
canzone di Billie Holiday, God Bless the Child, e io li ho lasciati fare.
A volte bisogna accettare quel che il mondo ti dice».
Il titolo italiano, “Prima i bambini”, le piace?
«Forse di tutte le traduzioni è il più calzante. Prima i bambini…
Peccato che non accada mai. Penso ai miei nipoti che suonano, studiano tante cose. E mi chiedo: non dovrebbero solo giocare? Poi vedo altri bambini che non sono così stimolati e passano la giornata
attaccati al cellulare e penso: i miei nipoti non lo fanno. Ma quando
io ero bambina si stava fuori a giocare l’intera giornata. Perché vivevamo in una comunità, tutti sapevano dov’eri e che facevi. Oggi
siamo tutti spaventati dall’idea di rapimenti e molestie. I genitori
sono diventati quello che qui chiamiamo “elicotteri”: iperprotettivi. E se non lo fanno succede come a quella mamma accusata di
maltrattamenti perché aveva lasciato i suoi piccoli a girare da soli
per Central Park. Così ti chiedi: i bambini sono ancora bambini?».
I protagonisti dei suoi libri hanno sempre nomi affascinanti.
«Gli schiavi non avevano nome: qualsiasi fosse il loro nome dovevano abbandonarlo per quello che sceglieva il padrone. Dare un nome è una responsabilità. E darsi un nome è un atto di orgoglio. Non
è un caso che molti musicisti afroamericani hanno scelto soprannomi regali… Count Basie, Duke Ellington. Il Conte. Il Duca».
Anche il nome con cui il mondo la conosce non è quello vero.
«Io mi chiamo Chloe e questo è il nome con cui mi chiamano le
persone che amo. Ma solo nella mia famiglia lo pronunciano come
si deve. Già a scuola mi chiamavano Cloo, Clori... Poi, quando a dodici anni mi sono fatta battezzare, ho scelto di chiamarmi Antony: come sant’Antonio da Padova. E qualcuno ha cominciato a usare il diminutivo: Toni. Ma è Chloe che scrive i libri, sa? Quando scrissi il
primo avrei voluto firmarlo col mio vero nome, Chloe Wofford. Invece mandai il manoscritto col nome da sposata che usavo allora.
Chiamai per farlo cambiare ma era tardi: era già stampato».
Perché proprio Sant’Antonio da Padova?
«Perché è buono con i bambini e perché viaggiò in Nordafrica.
L’ho scoperto in una Vita di Santi comprato da Strand, il negozio
dei libri usati su Broadway».
Va ancora in chiesa?
«Quando insegnavo a Princeton ci andavo tutti i giorni. Ma prima della messa: quando arrivava il prete andavo via. Oggi il mio
rapporto con la Chiesa è saltuario. Anche se questo Papa potrebbe
riportarmici: mi piace tanto. E mi piace come sta risolvendo le cose
in Vaticano».
Lei ha vinto così tanti premi. Il Pulitzer, il Nobel.
«Mi svegliò una giornalista all’alba per chiedermi che effetto faceva. Riattaccai. Chiamò ancora e io le chiesi come faceva a sapere
ciò che io non sapevo ancora: e a quel punto capii che per il fuso il
Nobel era stato annunciato quando in America erano le tre di notte. Così quando chiamarono da Stoccolma fui gentile, ringraziai:
ma ancora non mi fidavo. Chiesi: “Potete mandarmi un fax?”».
Cosa ricorda della premiazione?
«Nelson Mandela. Che aveva vinto il Nobel per la Pace quello
stesso anno: 1993. Per me era un mito e chiesi di incontrarlo. Fissarono l’incontro e fu favoloso. Raccontò storie incredibili, buffe e
struggenti sulla sua vita. E poi… Oh, quelli del Nobel sì che sanno
come organizzare una festa!».
Il nuovo premio si avvicina e tornano i nomi di tutti gli anni: Philip Roth in testa.
«Quante volte ho chiesto io stessa a quelli del Nobel se quel tale
o quell’altro era stato preso in considerazione. Risposta: i nomi più
ricorrenti non sono nemmeno mai arrivati sulla lista dei finalisti. E
poi non so se oggi è tempo per un americano. Non mi viene in mente nessuno che sia all’altezza. Sa chi lo meriterebbe? L’israeliano
Amos Oz».
Lo ha votato?
«Io non voto mai. Troppo complicato: devi compilare un sacco di
carte, dare spiegazioni. Ma se votassi sceglierei lui: se lo merita».
Gli Obama la considerano un’amica.
«Quando il presidente mi ha premiata con la “Medaglia per la libertà”, beh, ho provato una sensazione strana: ho il doppio dei suoi
Ho ancorada scrivere
AcasadelNobelperparlaredirazzismi,degliObamaedelsuoultimolibro.Chenonsaràl’ultimo
Repubblica Nazionale 2015-10-04
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
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PHILIP ROTH
IN AMERICA NON MI VIENE
IN MENTE NESSUNO
ALL’ALTEZZA DEL PREMIO. E POI
SO CHE I NOMI PIÙ RICORRENTI
NON SONO MAI ARRIVATI NEPPURE
NELLA LISTA DEI FINALISTI
anni ma mi sono sentita davanti a un fratello maggiore. Mi sono
sentita protetta».
È stata più volte alla Casa Bianca.
«Ci sono stata a cena da poco. Ala privata, otto invitati più gli accompagnatori, io ho portato mio figlio. Michelle gentilissima: “Siamo fra noi: puoi venire anche in blue jeans”. Io che i blue jeans non
li ho mai messi in vita mia! Figuriamoci se li metto alla Casa Bianca. Michelle è incredibile. Di più: è lei il vero capo».
Pensa che un giorno scenderà in campo come Hillary Clinton?
«Macché. È troppo intelligente. È competitiva: non c’è dubbio.
Ma sa di che stress si tratta. Quando lui decise di tentare la corsa
presidenziale lei disse, ok, ti appoggio. Ma una volta sola. Se perdi
non se ne parla più».
Lei ha cominciato a scrivere a quarant’anni. Ora ne ha ottantaquattro. Il suo collega Roth ha annunciato di aver smesso di scrivere a causa dell’età. Lei continua. Cosa la spinge?
«Lo so fare bene! E poi scrivere è anche il mio modo per non confrontarmi con quelle cose di cui abbiamo appena parlato: le guerre, il razzismo. Quando scrivo sono io a creare il mio mondo. Creo il
mio gioco intellettuale: la lingua è così interessante. Tutto il resto
scompare. Non solo. Per un’operazione alla schiena andata male
ora sono piuttosto limitata nei movimenti. Cammino a fatica. Nel
mio mondo letterario, invece, sono libera: anche fisicamente».
Ha letto il nuovo libro di Harper Lee? Anche lei un’ultraottantenne, ha aspettato più di mezzo secolo per pubblicare il prequel di “Il buio oltre la siepe”.
«No, non ho letto il libro, ho letto le polemiche. E mi sono fatta l’idea che sotto ci sia qualcosa di losco. Strano che il libro sia uscito dopo la morte della sorella: quella che sapeva tutto. E poi anche se
Harper Lee è poco più grande di me — come ha fatto a lavorarci? È
quasi cieca: non sente. No, non credo che lo leggerò. D’altronde
non sono stata una gran fan nemmeno di Il buio oltre la siepe. O meglio: ho amato il film. Ma era Gregory Peck a renderlo splendido!».
Quali scrittori la interessano oggi? Sente di avere un’erede?
«Gli autori che ho amato sono tutti morti. Alice Walker non sta
scrivendo nulla. Gli altri, i giovani, li conosco poco. Colson Whitehead è un ottimo scrittore. O almeno lo era: che fine ha fatto? Ecco:
Edwidge Danticat — un’haitiana-americana. È lei la mia scelta».
Vuole dire che il romanzo afroamericano ha perso la funzione sociale che lei teorizzò ai suoi esordi?
«Dico che oggi ci sono pochi scrittori perché le energie vanno altrove. Oggi i giovani afroamericani cantano».
Cantano?
«Raccontano così le loro storie. La forza che mettevano nella
scrittura ora va nella musica: nel rap. Spesso non capisco cosa dicono ma riconosco l’energia. Mi sono appassionata a Kendrick Lamar, anche se le sue rime sono così veloci che non capivo una parola. Mi è piaciuto così tanto che ho chiesto che mi mandassero i suoi
testi. E ora mi piace anche di più».
Anche i libri sono cambiati: sono elettronici.
«Mio figlio mi ha regalato un iPad. Il primo libro che ho letto su
tablet è stata una cosa moderna poi diventata film: Gone Girl. Poi
ho iniziato un altro libro, Wolf Hall di Hilary Mantel. Ho letto la prima pagina e mi sono detta no, non posso leggere un romanzo storico su uno schermo. Ho preso il libro di carta, e me ne sono appassionata. Ho cercato anche gli altri suoi libri: The assassination of Margaret Thatcher è fantastico. Però no: non sono una grande lettrice
elettronica».
Eppure i suoi audiolibri hanno molto successo. Ed è lei stessa a
leggerli.
«All’inizio avevano preso un’attrice. Poi mi è capitato di ascoltarne uno per caso: “Ma quello non è il mio libro! È tutto sbagliato. Il
passo. Il ritmo. Non è la mia storia”. Da allora li registro io: anche se
è estenuante».
È vero che sta scrivendo le sue memorie?
«Le voleva il mio agente. Ci ho anche provato, ma so tutto di me:
mi sono annoiata subito».
Un sorriso. È ora di congedarsi. Fuori piove. «Dovrebbe vedere
quando qui c’è il sole, è una meraviglia. Magari quando avrò finito
il mio prossimo libro. Sì, non dovrei dirlo, l’ho già cominciato. Ho
scritto quindici pagine. E le assicuro che sono molto buone. Le mie
migliori».
FOTO DI SEBASTIEN MICKE/PARIS MATCH /CONTOUR/GETTY IMAGES
©RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMANI
IN REPTV NEWS (ORE 19.55, CANALE 50
DEL DIGITALE E 139 DI SKY) ANNA LOMBARDI
RACCONTA TONI MORRISON
E IL SUO ULTIMO ROMANZO
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LA DOMENICA
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Iluoghi.PotsdamerPlatz
L’OMBRELLO
USATO PER UCCIDERE
IL DISSIDENTE
BULGARO MARKOV,
L’OMBRELLO AVEVA
LA PUNTA CARICATA
CON UNA SIRINGA
PIENA DI VELENO
IL GUANTO
OPERA DEL KGB
IL GUANTO CHE TIENE
UN OGGETTO DALLA
DOPPIA FUNZIONE:
MINI-PISTOLA
E MINIRICETRASMITTENTE
LA VALIGIA
UN COMPLETO
DI VELENI
E ESPLOSIVI:
L’EQUIPAGGIAMENTO
DI OGNI AGENTE
SEGRETO
SOVIETICO
DallaTrabantcon raggiinfrarossi all’ombrello(bulgaro) avvelenato
ANDREA TARQUINI
L
BERLINO
qui, nella
Berlino città di spie dall’era del
Kaiser almeno fino alla Guerra
fredda. Volete incontrarle? Venite al 9 di Leipziger Platz, la
piazza-ottagono dei tempi di Guglielmo II ora splendidamente
risorta in chiave postmoderna,
a un passo da Potsdamer Platz.
Ci saranno Mata Hari nel supersexy vestito attillato con cui
strappò segreti all’Intesa e li
passò agli Imperi centrali pagando con la vita; c’è Anna
Chapman, la “bomba” russa in servizio per anni a Londra
e oggi eroina nazionale a Mosca; o l’ammiraglio Canaris,
capo geniale ma dubitante dell’Abwehr nazista che alla fine Hitler fece impiccare come sospetto traditore. Le loro
storie e i loro strumenti di lavoro sono esposti analogicamente e digitalmente, tra touchscreen e interviste interattive, nel nuovissimo Spy Museum che non poteva che
nascere qui, nella Berlino del cielo diviso di Wenders, campo di battaglia per tutti i James Bond della storia.
«L’idea ci affascinava da anni, alla fine abbiamo trovato gli sponsor per un museo indipendente, senza condizionamenti pubblici», mi racconta il direttore Joachim E.
Thomas accompagnandomi nella straordinaria città virtuale delle spie. Si parte dal 1400 avanti Cristo per arrivare all’oggi. «È il secondo mestiere più antico del mondo, e
spesso si è servito del primo, con le motivazioni ideologiche o venali più diverse», nota ammiccante Herr Thomas.
Ecco gli 007 dell’Antica Grecia che spiano i persiani per finire poi scuoiati dagli aggressori. Ecco Apis, supercapo
delle spie di Belgrado che organizza l’attentato di Sarajevo scatenando la Prima guerra mondiale. Ecco l’eroe sconosciuto della Guerra fredda, nome in codice Topas, al secolo Rainer Rupp, infiltrato dai mitici 007 di Markus Wolf,
capo dell’Hva, l’intelligence della Ddr, in Occidente. La
sua storia merita di essere raccontata: nel 1983 un’enorE SPIE SONO TRA NOI,
me esercitazione Nato mette Mosca in allarme, i sovietici
temono un attacco e preparano un colpo atomico preventivo; Rainer corre a Berlino Est coi piani rubati delle manovre Nato, li fa passare a Mosca e spiega ai russi che non c’è
nessun piano d’attacco. Solo allora il Cremlino annulla i
programmi di lancio imminente di centinaia di supermissili SS-18. «Non mi sento orgoglioso, ho fatto solo il mio dovere», ci dice oggi Rainer su touchscreen.
Si incontrano tutti e c’è di tutto, nella città delle spie di
Leipziger Platz. La macchina-codice nazista Enigma, per
esempio, quella decifrata dall’Alan Turing interpretato al
cinema da Benedict Cumberbatch. L’ombrello avvelenato che uccise a Londra il dissidente bulgaro Markov. L’annaffiatoio che nasconde al suo interno una telecamera. O
la Trabant con raggi infrarossi nella portiera. Ma ecco, in
una stanza ci sorride Rudolf Stanitz, specialista dell’Abwehr, il servizio segreto tedesco fino al 1945, attivo nei
territori russi occupati, che confessa la sua tristezza per la
gente che soffre e nutre dubbi sulle chance di vittoria. Ecco poi Dieter Feuerstein, ingegnere alla Messerschmitt,
capoprogetto del Tornado della Nato ma in segreto sincero comunista. Proseguendo ci viene incontro Heinz Felfe,
superagente nazista, poi riciclato nei servizi di Bonn che
alla fine scelse di passare tutti i suoi segreti all’Est. E infine, spicca, tra tutti, Oleg Gordievsky, enfant prodige del
Kgb e talpa dell’MI5 inglese: quando venne scoperto fu la
regina Elisabetta in persona a ordinare un blitz delle Sas,
le forze speciali britanniche, per salvarlo dalla condanna a
morte e portarlo al sicuro. «Oggi con il mio ex del MI5 e storico Christopher Andrew scriviamo libri», dice sempre su
touchscreen. Non poteva mancare ovviamente una sezione tutta dedicata a James Bond, con le armi ideate dal
maggiore Geoffrey Boothroyd, nome in codice Q, e con
l’intera collezione delle Bond-girl.
Poi, appena prima di uscire, una sorpresa: incontriamo
Edward Snowden e Julian Assange, ma anche Mr. Google
e Mr. Facebook. Tanto per ricordarci chi, oggi, sono le vere
spie.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
John Le Carré
Col buio era calato anche il silenzio.
Parlavano come se temessero d’essere sentiti.
Lui, Leamas, s’avvicinò alla finestra
e rimase lì in attesa. Di fronte a lui c’erano
la strada e, sui due lati, il Muro, un brutto affare
di blocchi di cemento e filo spinato,
illuminato da una squallida luce gialla;
una scena da campo di concentramento,
insomma. A est e ovest del Muro si stendeva
la parte non ricostruita di Berlino,
un tracciato in doppia dimensione,
una terra di nessuno
DA LA SPIA CHE VENNE DAL FREDDO (1963)
L’AUTOMOBILE
LA TRABANT
CON I DISPOSITIVI
ALL’INFRAROSSO
NASCOSTI
NELLA PORTIERA
PER SCOVARE
I FUGGIASCHI
La
città
delle
spie
LA RUOTA
UNA DELLE INVENZIONI
DEL MISTERIOSO
MR. Q IN “007 - ZONA
PERICOLO” (1987):
UN PNEUMATICO
CHIODATO
DA GHIACCIO
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la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
LA MASCHERA
È QUELLA
DI ROGER MOORE,
TERZO E PIÙ LONGEVO
INTERPRETE
DI JAMES BOND
DOPO SEAN CONNERY
E GEORGE LAZENBY
L’INNAFFIATOIO
USATO DA UN’ANZIANA
DONNA SPIA
DELLA STASI: FINGEVA
DI INNAFFIARE
E INVECE RIPRENDEVA
CON LA TELECAMERA
NASCOSTA ALL’INTERNO
37
IL BARATTOLO
CONTIENE UNA PROVA
CON L’ODORE DELLA
PERSONA SOSPETTA
CHE POI LA STASI
RINTRACCIAVA
CON L’AIUTO
DI CANI ADDESTRATI
ABerlinounmuseodedicatoaipiùgrandi007.Eailoromicidialiferridelmestiere
La sera che incontrai in una pizzeria
l’uomo senza volto e forse senza vita
I
DEMETRIO VOLCIC
N UNA SERATA DI PIOGGIA E DI NEBBIA, come è
d’obbligo, vicino al fiume che a Berlino divideva
i due mondi (mentre sul ponte che li univa
avveniva lo scambio delle spie), nella pizzeria
gestita dagli italiani e piena di vuote e
polverose bottiglie di Chianti, incontrai l’uomo senza
volto, e per alcuni addirittura inesistente, Markus
Mischa Wolf, la più grande spia dell’Est. Gli amici che
organizzarono l’incontro perdevano ogni tanto il filo
quando Mischa dal tedesco passava al russo: i Romeo
sono merce di Shakespeare.
Finita la Rdt Mischa si rifugiò a Mosca, dove tra i
riformatori di Gorbaciov contava parecchi amici.
Abitava nell’abergo Metropol e saputa la notizia molti
andarono da lui a bersi qualcosa. Trattò il suo rientro a
Berlino. In primo grado fu condannato, poi prosciolto
in quanto personalmente non responsabile dei
crimini. Gli fu ridato il grado di generale, ma da
generale di corpo d’armata divenne generale di
divisione. La Corte decise di annullare la prima
sentenza di colpevolezza sostenendo la tesi secondo
cui Wolf aveva svolto il suo compito a favore di un
governo legittimo, riconosciuto dall’Onu, e che lo
stesso avevano fatto le migliaia di spie di entrambe le
parti. Non si potevano mandare tutte in prigione.
Un grande simpatizzante di Mischa fu il suo collega
dell’Ovest, Heribert Hellenbroich. Lui e Wolf
sembravano due alti ufficiali di qualche esercito della
Prima guerra mondiale: prima si scontravano, poi si
salutavano dall’aereo e infine il giorno dopo
ritornavano a terra per riprendere il glorioso duello.
Heribert si è occupato di spionaggio fino alla fine, ma
non più come capo del Servizio. È morto circa un anno
fa e sei giorni dopo pure la moglie.
Un giorno Angelo Guglielmi, direttore della terza
rete Rai, mi chiese di invitare a Roma un po’ di spie
celebri. Fu in quell’occasione che Hellenbroich mi
confidò la sua simpatia umana per Mischa Wolf. Di lui
non si aveva nemmeno una fotografia in Occidente.
Eppure, quando c’era stata la possibilità di ottenerne
una, non se ne era fatto nulla. Accadde quando
Mischa decise di fare una scappatella a Stoccolma.
Berlino Ovest conosceva l’indirizzo dell’albergo e
anche il nome della sua amica del momento — che
però non era la moglie. Ciononostante escluse non
solo l’eventualità di darsi agli “affari bagnati”, vale a
dire di farlo fuori, ma anche solo quella di fotografarli.
Dal 1968 al 1993 l’autore è stato corrispondente
della Rai da Praga, Vienna, Bonn e Mosca
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Ian McEwan
La busta conteneva un foglietto di carta
strappato da un notes.
Non c’era nessun indirizzo,
soltanto un nome, Bob Glass,
e un numero telefonico di Berlino.
Si era pregustato la scena
della piantina distesa sul tavolo;
avrebbe individuato il posto
e programmato il percorso. Ora invece
gli toccava ricevere istruzioni
da un estraneo, un estraneo americano,
e doveva anche usare il telefono,
strumento che lo metteva sempre a disagio
IL PARACADUTE
CON IL PICCIONE
VIAGGIATORE DALLE ALI
LEGATE VENIVA
GETTATO OLTRE
LE LINEE NEMICHE:
NELLE FASCE C’ERANO
MESSAGGI SEGRETI
IL ROTORE
NE VENIVANO USATI
BEN DIECI NELLA
FIALKA, MACCHINA
PER CIFRARE I
CODICI, USATA DAI
SOVIETICI DURANTE
LA GUERRA FREDDA
LA MACCHINA
LA CELEBRE ENIGMA
USATA DAI SERVIZI
SEGRETI TEDESCHI
PER CIFRARE
E DECIFRARE
I MESSAGGI
IN CODICE
DISEGNO DI ANNALISA VARLOTTA
DA LETTERA A BERLINO (1990)
Repubblica Nazionale 2015-10-04
LA DOMENICA
la Repubblica
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L’officina.InsideOut
Ungrandedisegnatore, JimmyLiao,arriva
perlaprimavolta daTaiwanin Italia.Per raccontare
ilfragile mondointerioredei più fragili almondo
Dovevanno
afinireibambini
C
SIMONETTA FIORI
I DEVE ESSERE UN LATO NASCOSTO anche nella vita di Jimmy
Liao. Qualcosa che spieghi perché alla fine di ogni album illustrato non si vorrebbe lasciare andare via i suoi personaggi, lunari e scombinati. Come capita davanti ai titoli di
coda d’un film che coinvolge: si resta lì un po’ storditi, ci
vuole tempo per allontanarsi dal regista e dalla storia che
rivelano qualcosa di noi, degli altri o del mondo. Alcuni
l’hanno già battezzato “effetto Liao”, ossia l’arte di raccontare le umane fragilità tra disegno, pièce teatrali e corti
d’animazione.
Cinquantasette anni, cinese di Taipei, Jimmy Liao è tra
gli autori più popolari di libri illustrati nel continente asiatico. Un genere editoriale che a Taiwan, in Giappone o in Corea del Sud è considerato per
lettori di ogni età, mentre in Italia è confinato nel mercato per ragazzi. Tradotto in tredici
lingue, in Europa e soprattutto in Sudamerica, da noi ha già pubblicato quattro album,
tutti nelle Edizioni Abele, e ora è in uscita un quinto sui desideri dei più piccoli. Perché è
questo il materiale impalpabile su cui gli piace lavorare, sogni fragili come bolle di sapone, emozioni intime, ferite nascoste, un grande, avvolgente sentimento di solitudine. In
altre parole, la vita interiore di bambini e adolescenti, di uomini e donne rivelata con un
segno particolare, che a tratti evoca Van Gogh o Magritte, ma anche Klee ed Escher.
«Sono solo un impiegato dell’arte», minimizza lui dal suo studio di Taipei. «Mi piace rendere omaggio a questi grandi artisti, riproponendo una tecnica o facendo entrare nelle
mie pagine un celebre capolavoro». Nonostante i riconoscimenti internazionali — premi,
film tratti dai suoi lavori, parchi a tema, metropolitane e aerei decorati con le sue immagini, anche uno Swatch a lui dedicato — Liao parla solo il cinese e alla vigilia del suo primo
viaggio in Italia, ospite del Festival Tuttestorie, si fa aiutare da Laura Torchio, che è anche
la traduttrice dei suoi libri. Artista autodidatta, una lunga esperienza come grafico pubbli-
IL FESTIVAL
JIMMY LIAO
SARÀ OSPITE
DEL FESTIVAL
INTERNAZIONALE
“TUTTESTORIE”,
DEDICATO
ALLA LETTERATURA
PER RAGAZZI,
DALL’8 AL 13
OTTOBRE
A CAGLIARI
E IN VARI ALTRI
CENTRI
DELLA SARDEGNA
citario, il suo stile mescola il linguaggio della tradizione con codici della contemporaneità, dal cinema all’interior design, dalla
danza al teatro. «A volte mi sembra di essere il regista di un film su carta. Mi concentro soprattutto sulla relazione tra le immagini rendendola il più possibile fluida, e naturalmente sulla particolare composizione
tra illustrazione e testo».
Tutto parte sempre da una visione ricorrente nella sua immaginazione da cui comincia a plasmare la storia. E poi ci lavora
con una metodicità disciplinata, regolata
su abitudini fisse. «Anche se non c’è l’ispirazione, bisogna comunque disegnare, stimolare il caos creativo, coltivare dentro se stessi questo turbinio finché affiorano
nitide le idee». Non sempre le visioni si traducono in qualcosa, e allora se le tiene
da parte, nascoste nell’archivio della fantasia,
chissà che da queste un
giorno nasca un nuovo libro.
I suoi lavori sono dedicati a chi
«non è in sintonia con il mondo» e ai
«poeti», forse anche per questo hanno venduto cinque milioni di copie.
Raccontano di cieli stellati solitari, di abbracci dati e negati, di bambini imperfetti,
di ragazzine cieche che nel buio caotico della metropolitana scorgono universi fantastici, perché solo scendendo in profondità,
molto in profondità, si scopre il colore. E
dunque la bellezza. Una metafora che vale
anche per i suoi album. «Spero di riuscire a
trasmettere il sentimento del bello. Non si
tratta di un fatto puramente estetico, ma
di un lento addentrarsi nei diversi livelli
dell’opera, fino a scovare il significato nascosto illuminato dall’esperienza personale. Andare in profondità, riflettere di più su
stessi e sul mondo: il senso del bello nasce
da qui».
E allora bisogna scavare anche nella vita
personale di Jimmy Liao per scoprire che
non è sempre stato così. Prima disegnava
tavole molto cariche, esagerate, meccaniche come lo sono i cartoni animati. A cambiarne lo sguardo, una ventina di anni fa, è
stata la leucemia. «Anche dopo la guarigione l’ombra della morte mi ha sempre accompagnato, rendendomi timoroso e vulnerabile. Quando uscii dall’ospedale mi
chiesero subito di realizzare un progetto
ma io non riuscivo più a disegnare con gli
stessi colori. Cambiò tutto nel mio stile:
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la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
39
Immagini
e parole
in cerca
d’abbracci
L
EUGENIO BORGNA
LE IMMAGINI
DI JIMMY LIAO
È IN USCITA
IN ITALIA
L’ULTIMO ALBUM
ILLUSTRATO
“SE POTESSI
ESPRIMERE
UN DESIDERIO”
(GRUPPO ABELE):
VIENE DA LÌ
IL GATTINO
DELLA LAMPADA
A FONDO PAGINA.
LE ALTRE IMMAGINI
SONO TRATTE
DAI SUOI
PRECEDENTI
QUATTRO VOLUMI
PUBBLICATI
IN ITALIA SEMPRE
DAL GRUPPO ABELE
non solo nelle tonalità cromatiche, ma anche nelle espressioni dei personaggi e nel
layout delle tavole. Come se la malattia mi
avesse insegnato a prendermi cura di ogni
tipo di paura». No, il dolore non è fonte di
ispirazione, non può esserlo. Il dolore è dolore e basta. «Non aggiunge molte riflessioni
sulla vita. Il cambiamento avviene dopo,
quando se ne esce. Le mie illustrazioni di
oggi vengono da lì, da quel percorso, e non
si può tornare indietro perché i miei sentimenti sono radicalmente cambiati».
Da lì proviene anche quel senso di solitudine che avvolge molte delle sue illustrazioni, un singolare intreccio tra malinconia e
vitalità, paura di morte e ansia di futuro.
Un colore emotivo che non ha a che fare
con la sua vita felicemente risolta accanto a
una moglie, tre gatte e una figlia che studia
in Gran Bretagna. «La solitudine di cui parlo è un fondamento dell’essere. Riguarda la
relazione profonda che ciascuno di noi intrattiene con se stesso. Quel lato di noi che
evitiamo sempre di incontrare, incompreso anche dalla persona più vicina e che noi
stessi non comprendiamo negli altri. Un lato misterioso che non si può spiegare a parole». Si può solo disegnare.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
EGGERE i testi e
guardare le
illustrazioni di Jimmy
Liao è una esperienza
di indicibile bellezza
che vorrei cercare di descrivere
— anche se avverto la pesantezza
delle mie parole nel confronto
con la leggerezza delle parole e
delle immagini dei suoi album.
Non saprei se siano le immagini a
fare nascere le parole, o le parole
le immagini, le une si intrecciano
alle altre in misteriose
affascinanti alleanze tematiche.
Sono parole ricolme di poesia che
narrano con una straordinaria
delicatezza i modi di
essere e i modi di vivere
di bambini e adolescenti,
e anche di animali, alla
ricerca della felicità. Sono
parole, e sono immagini,
che risuonano di grazia dolorosa
e ferita, di solitudine e speranze
infrante, gioia e sgomento,
smarrimento e nostalgia, di
debolezza e di fragilità senza
fine: esperienze di vita così
diverse da quelle, dominanti nel
mondo degli adulti oggi,
contrassegnate dalla fretta e
dalla ricerca della ricchezza, dal
narcisismo e dalla indifferenza,
dalla incapacità di ascoltare e di
comprendere il mondo interiore.
La cifra tematica è quella della
fragilità che, con la solitudine
alla quale si accompagna, è una
dimensione essenziale della vita
soprattutto nei mondi della
infanzia e della adolescenza.
Sono mondi che Jimmy Liao
descrive mirabilmente nella loro
radicale dimensione emozionale
ma anche nella loro straziata
nostalgia di uno sguardo e di una
carezza, di un saluto e di un
sorriso. Le immagini muovono,
certo, dalla rappresentazione
concreta di oggetti, case,
ambienti, orizzonti, animali, che
vediamo ogni giorno anche noi,
ma qui sono immersi nell’infinito
mare della fantasia che li
trasfigura, e li coglie nella loro
anima segreta.
Sì, realtà e fantasia si
alternano, e si con-fondono,
creando una climax di sognante
realismo magico che si richiama
a modelli espressivi attinti alla
lezione di grandi pittori
occidentali dell’Ottocento e del
Novecento. Da questa danza
febbrile di immagini, di colori, e
di parole, rinasce l’invito a
recuperare i valori dell’amicizia e
della solidarietà, della gentilezza
e dell’ascolto, dei luoghi del
silenzio e della contemplazione,
dei quali nell’infanzia e nella
adolescenza si ha un acuto
straziante bisogno. E dei quali
dovremmo sentire la nostalgia
anche nella nostra vita.
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LA DOMENICA
la Repubblica
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Spettacoli.Civuoleocchio
Da Radio Popolare a Zelig passando
per Smemoranda, Jannacci, Gaber e Fo
hanno messo in piedi la più grande
fabbrica di comici. “Volevamo diventare
gli Arbore e Boncompagni di sinistra”
P
ANNA BANDETTINI
A TEATRO
SI INTITOLA
“PASSATI
COL ROSSO”,
COME
LA LORO PRIMA
TRASMISSIONE
RADIOFONICA
DEL ’76 SU “RADIO
POPOLARE”.
E COMINCIA
CON LE PAROLE
DI QUEL PRIMO
COLLEGAMENTO
VIA ETERE
LO SPETTACOLO
DI GINO E MICHELE
CHE FESTEGGIA
I QUARANT’ANNI
DI CARRIERA
SATIRICA:
UN READING
CON IL MEGLIO
DEI PEZZI SCRITTI
NEGLI ANNI
OTTANTA
E NOVANTA.
CON LA REGIA
DI PAOLO ROSSI
E LE MUSICHE
AFFIDATE
A FOLCO ORSELLI,
LO SPETTACOLO
DEBUTTA A GENOVA
AL TEATRO
POLITEAMA
IL 28 OTTOBRE.
ALTRE TAPPE:
IL 23 NOVEMBRE
AL QUIRINO
DI ROMA,
IL 25 AL TEATRO
APOLLONIO
DI VARESE,
IL 3 DICEMBRE
AL TONIOLO
DI MESTRE,
L’11 DICEMBRE
AL COLOSSEO
DI TORINO.
IL 22 DICEMBRE
CHIUSURA
AL PICCOLO
TEATRO DI MILANO
MILANO
ER FORTUNA SONO ORDINATI. Conservano tutto o quasi, foto, vi-
gnette, locandine appese sulle pareti salendo lo scalone della più opulenta fabbrica di risate italiana, in viale Ortles, periferia sud di Milano. Al terzo piano, dove ci sono i loro uffici, Gino e Michele scherzano già: «Venga, venga pure nel nostro
museo delle cere». È qui che lavorate? «Io no — dice Gino —
io scrivo a casa. Vorrà mica che veda lui per tutto il giorno».
Rincalza Michele: «Anzi, se viene mi dà anche un po’ fastidio.
E poi guardi lì, la sua scrivania, vuota, non una penna, e perdipiù di vetro che si vedono le gambe sotto. Che orrore è?».
Gino (Vignali) e Michele (Mozzati), sessantasei e sessantacinque anni, uno piccolo, l’altro alto, uno capelli grigi radi
l’altro con baffoni e fascino sonnolento, uno precisino, bocconiano, l’altro studente di Lettere e compagnone. Insieme hanno percorso con divertimento nostro e loro i bui anni Ottanta, i fatui Novanta e questi difficili Duemila, da umoristi, scrittori e editorialisti satirici, talent scout di comici, direttori di cabaret, autori (Zelig tv, oltre nove milioni di spettatori negli anni di massimo successo...). Una storia venerata da molti, detestata da pochi,
dove c’entrano anche settimanali satirici come Cuore e Tango, una radio (Popolare) e
un’agenda (Smemoranda, diretta con Nico Colonna) oltre a una rete infinita di incontri:
Jannacci, Gaber, Paolo Rossi, Albanese, Beppe Grillo, Teocoli, Aldo, Giovanni, Giacomo e
poi Altan, Vauro, Ellekappa, Ligabue, Lucio Dalla, Jovanotti, Pino Daniele. Ora, giunti al
quarantesimo anno, G&M debuttano in scena con un reading “del meglio di” intitolato Passati col rosso, come la trasmissione radiofonica dei loro inizi, per raccontare come hanno trasformato la voglia di cambiamento in intrattenimento. E business. Gino: «Siamo l’esempio di come cultura bassa e alta possono stare insieme».
Non era scontato negli anni duri e lacerati in cui si erano conosciuti. «Nel ‘69, ridere era un cedimento piccolo-borghese. Il massimo della libidine era ascoltare Claudio
Lolli e Ivan della Mea, che era nostro amico, però non proprio il massimo del divertimento...». Loro amavano i fumetti, i Gufi, perfino Battisti, bandito dal “Movimento”. Di sinistra, sì, ma scanzonati. «Avevamo un gruppo, i “Bachi da sera”, il nome più brutto della
storia: di giorno andavamo davanti alle fabbriche con le canzoni per i palestinesi, la sera di
nascosto al “Refettorio”, il locale dell’ex Gufo Roberto Brivio, a fare le cose nostre. È durata due o tre anni». E sarebbe morta lì se non ci fosse stata la nascita delle radio libere e la
luminosa idea di una trasmissione satirica via etere. «Per vivere ci mantenevamo io come
direttore amministrativo in una azienda di
pannolini, Michele alla Emme edizioni di
Rosellina Archinto, ma ci sentivamo gli Arbore e Boncompagni di sinistra. G&M nacque nell’autunno del’75 a Radio Milano
Centrale e qualche mese dopo a Radio Popolare con Passati col rosso». Affiora una
scena: «A Radio Pop ci chiesero un provino,
il direttore Piero Scaramucci, le femministe, i compagni. Non rideva nessuno. Alla fine Scaramucci disse “Boh!” però ci diede lo
spazio, il lunedì dalle 21.30 alle 23, stesso
orario del film sul primo canale Rai. La trasmissione esplose. Portava nella sinistra
qualcosa che non c’era: l’intrattenimento,
appunto». Il viatico erano le canzoni di Jannacci, Gaber, Fo. Fiumi di inchiostro sono
stati scritti sulla simbiosi di Milano in quegli anni con i suoi artisti, la loro voglia di
cambiare e stare insieme: Jannacci che abitava vicino a Michele in via Mameli, che gli
presentò Gaber che li mise in contatto col
Santa Tecla e poi con Cochi e Renato... era
come ricomporre i tasselli di un mosaico.
«Se c’è una cosa di cui siamo orgogliosi è
di far parte della comicità milanese, la più
innovativa d’Italia. Sì, proprio così. Milano
non ha una tradizione come i napoletani o i
romani: Gigi Proietti è un intero museo, ma
Cochi e Renato sono arte contemporanea.
Milano si è dovuta inventare una lingua comica, vedi Dario Fo, e la comicità è reinvenzione creativa». Un esempio eccelso: Ci vuole orecchio, la canzone scritta nell’80 con
Jannacci. «E quando nella squadra poi entrano anche i Comedians di Gabriele Salvatores, Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania,
Silvio Orlando, Gigio Alberti... la scuola milanese diventa un fatto nazionale». Con
G&M e Giancarlo Bozzo animerà tra intelligenza e impudenza le serate dello “Zelig Cabaret” aperto nell’85 in viale Monza indovinando i sentimenti di un pubblico forse
stanco della politica ma non ancora contagiato dalle tentazioni antipolitiche: e nacquero Albanese, Aldo Govanni e Giacomo,
Littizzetto, Cornacchione, Vergassola, a Linus e poi nella prestigiosa collana degli
esplose Lella Costa. «Su quella pedana ab- Struzzi Einaudi con Anche le formiche nel
biamo rotto le barriere tra intellettuali e loro piccolo si incazzano, la loro raccolta di
gente comune».Tra i ricordi annoverano battute, ottocentomila copie solo nella pri“le prime volte di”: Teresa Mannino, Geppi ma edizione. «Del Bono non era toscano,
Cucciari, Checco Zalone (a cui pagarono il ma elbano, cioè a detta sua ancora più
biglietto del treno per tornare in Puglia). Il stronzo. Era un intellettuale ma anche un
padrino ideale di quel momento era il gran- provocatore. Ci pubblicò all’Einaudi tra Balde Oreste Del Buono che portò G&M prima zac e Proust con grande scandalo, e quando
ci scrisse la prefazione a un’altra raccolta si
firmò “L’uomo che stuprò lo struzzo”».
Curioso che il massimo del successo sia
coinciso con le notti svagate di Zelig tv, da
cui ora Gino e Michele sono in sabbatico
«per ripensare nuovi approdi», perchè forse fu proprio la potenza di quello show su
Canale 5 a cancellare quel che di satira c’era nella comicità. «Discorso delicato», fa
muro Gino. «Chi fa satira oggi ? Crozza? Lo
adoro, ma quanto è più facile scrivere una
parodia su Renzi piuttosto che una bella
battuta?». Così profetizzano grandi carriere per Marta Zoboli, Gianluca de Angelis, i
Boiler e qualche genovese. E la battuta epocale? «Sembra incredibile, ma la vita di Berlusconi è basata su una storia vera».
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Repubblica Nazionale 2015-10-04
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
‘‘
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Foto di gruppo. A cura di Luigi Bolognini
Francesco Baccini
Era la fine degli anni ’80.
Arrivavo da Genova
su una Renault scassata
(ci dormivo, anche)
per fare il mio primo
provino musicale.
Non con un discografico,
ma con due che cercavano
nuovi comici.
Fu così che divenni il primo
a lavorare allo Zelig
in viale Monza
Giancarlo Bozzo
Se è vero che il riso
fa buon sangue,
per il sistema sanitario
di questo Paese
è indispensabile
che continuiate
per altri quarant’anni
Claudio Bisio
Me lo sentivo
che prima o poi
ci avreste portato
via il lavoro
Nico Colonna
Dei quarant’anni
che festeggiate,
trentatré li abbiamo
passati insieme.
Vi voglio bene,
almeno per i prossimi
sessant’anni
Elio di Elio e le Storie Tese
Non è giusto dire
che adesso
sono rimbambiti,
sono sempre stati così,
soprattutto Michele.
Gino è più serio
Marco Santin (Gialappa’s)
A inizio carriera
li chiamavamo gli zii:
quarant’anni
e dimostrarli tutti
I COMICI DI ZELIG IN UNA FOTO DEL 1976 1. MICHELE MOZZATI 2. RINO MESSINA 3. FRANCESCO BACCINI 4. CLAUDIO BISIO 5. NICO COLONNA 6. ALDO BAGLIO 7. MARCO SANTIN (GIALAPPA’S) 8. ROCCO TANICA
(ELIO E LE STORIE TESE) 9. ROMEO SCHIAVONE 10. GIANCARLO BOZZO 11. ROBERTO BOSATRA 12. GIORGIO GHERARDUCCI (GIALAPPA’S) 13. MOHAMED EL SAYED 14. FEYEZ (ELIO E LE STORIE TESE)
15. CESAREO (ELIO E LE STORIE TESE) 16. ELIO (ELIO E LE STORIE TESE) 17. GIOVANNI STORTI 18. RAUL CREMONA 19. LELLA COSTA 20. LUCIANA LITTIZZETTO 21. MAURIZIO MILANI 22. GIANNI PALLADINO
23. PAOLO ROSSI 24. GIACOMO PORETTI 25. GINO VIGNALI 26. ANTONIO CORNACCHIONE 27. MARINA MASSIRONI 28. PONGO
Paolo Rossi
Quarant’anni di carriera?
Boh...io li ho conosciuti
dieci anni fa,
me lo ricordo
perfettamente;
la prima volta
che mi presentai
con i miei testi
avrò avuto sì e no
dodici anni
Giacomo
di Aldo Giovanni
e Giacomo
La differenza
sta nel rovescio:
uno non lo tira mai,
l’altro usa la racchetta
come un asciugacapelli.
La morale è la seguente:
come autori continuate
ma come tennisti
è meglio se vi ritirate
Raul Cremona
Cari Gino & Michele,
siete i Totò e Peppino
per noi cabarettisti di oggi.
Non avete ancora
la stessa esperienza
teatrale ma piano piano
ci arriverete.
Peccato che abbiate
già più di sessant’anni:
sarà un effetto del Jobs Act?
Lella Costa
Era il 1980, debuttai
col mio primo monologo
e feci la prima intervista.
Me la fecero in due,
e che tipi quei due!
Da allora non ci siamo
più staccati, e neppure voi.
Se in questo Paese
ci fossero le unioni civili
credo che ne avreste già
approfittato da tempo
Pongo
Con Antenna Tre,
Zelig, Drive In,
tennis e perché no
Fossa Lupara,
calcio e Fantacalcio
la tavola è imbandita
per oltre trent’anni di vita
Antonio Cornacchione
Cari voi, se doveste
mantenere la metà
dei comici che avete
scoperto sareste
sul lastrico.
Anche perché
ci sono pure io
,,
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LA DOMENICA
la Repubblica
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Next.Avvisiainaviganti
Q
Benvenuti
Ormaila guerraè iniziata:pc,smartphone, tv
non sonopiù semplici oggettima“device”
checichiedonodi scegliere suquale isola
andarea vivere: Apple?Google? Amazon?...
ERNESTO ASSANTE
UANDO ACQUISTATE UNO SMARTPHONE non state comprando soltanto un de-
vice che vi potrà servire per mille usi diversi. State facendo una scelta importante per la vostra vita digitale, che potrebbe condizionare molti altri
acquisti e l’uso di molti altri servizi. Non state comprando solo un cellulare “intelligente”, ma una chiave d’accesso a un vero e proprio “ecosistema”, che comprende altri oggetti, molte funzioni, moltissimi servizi, acquisto di beni materiali e immateriali, intrattenimento, studio, ricerca, e
molto altro ancora. Sì, ma cos’è un ”ecosistema”? Un insieme di hardware, software e servizi forniti però da un’unica fonte. Per essere più semplici e chiari, pensate a tante piccole isole in un arcipelago che si possono
visitare solamente se i rispettivi governanti decidono di istituire un servizio di collegamento con le altre. Se questo non avviene, si è costretti a rimanere sulla propria isola. Questo significa che, per esempio, se si compra un iPhone si utilizzerà necessariamente l’App Store o il servizio cloud di Apple. Ma potremmo anche usare il “Set top box” per collegare la televisione, in questo caso la Apple Tv, per vedere su grande schermo i contenuti che abbiamo
acquistato per il cellulare o il tablet; o essere tentati di prendere un computer che sia allo stesso modo
compatibile, che mi permetta di vedere film, leggere libri o ascoltare musica che ho acquistato dalla
stessa fonte. E via discorrendo. Acquistando uno smartphone, o un tablet, si entra in un ecosistema che
molto spesso non comunica con gli altri se non in maniera limitata, e che lascia a noi sempre meno spazio d’uscita, perché comprare contenuti o servizi su una piattaforma significa, nella maggioranza dei casi, non avere la possibilità di poterne usufruire su una piattaforma diversa. Quindi saremo tentati di acquistare altri device che siano compatibili con l’ecosistema scelto, televisori, computer, lettori mp3, ma
anche orologi, lampadine, termostati, frigoriferi e automobili, oggetti che comunicano tra di loro all’interno di un unico ecosistema, che sono tra di loro “compatibili” e che, proprio per questo motivo, rendono per alcuni versi la nostra vita più semplice, frictionless per usare
un termine molto usato negli ultimi tempi. Una sorta di guerra di
standard insomma che minaccia di diventare sempre più cruenta: è
di pochi giorni fa infatti la notizia che Amazon intende vietare la vendita sulla sua piattaforma di Apple TV e Google Chromecast, due dispositivi di streaming che competono con la propria Fire TV ed entrambi i prodotti scompariranno il 29 ottobre.
Ormai, con l’avanzare dell’“Internet delle cose”, gli oggetti in gra-
nelle
DigitalIslands
Repubblica Nazionale 2015-10-04
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
do di comunicare tra di loro e con noi attraverso la rete diventano sempre più numerosi. Avere un telefono che non è compatibile
con il computer oggi è ancora possibile ma
lo sarà sempre meno in futuro, con il diffondersi della rete in altri oggetti, ognuno dei
quali in grado di fare cose nuove e diverse da
quelle per le quali lo abbiamo inizialmente
acquistato.
Oggi gli ecosistemi, o se preferite le “isole”, sono figli delle grandi aziende che operano nei cosiddetti smart media, ovvero quegli oggetti che hanno assunto più funzioni
grazie alla rete e che dominano il mercato digitale. Un ecosistema perfetto (dal punto di
vista dell’azienda che lo crea) è quello che
mette insieme software, servizi e hardware, offrendo agli utenti un’esperienza
“chiusa”, che non ha bisogno di altro al suo
esterno. È quello al quale stanno lavorando
tutti i colossi dell’era digitale con lo stesso
obiettivo: legare a sé in maniera definitiva,
o quanto meno molto prolungata nel tempo, il singolo consumatore. Non si cerca più
la “fidelizzazione” attraverso il brand e la
“condivisione” di gusti, valori, ideali, mode,
ma attraverso l’uso di un sistema operativo
che funzioni su più device, o di un negozio digitale che venda contenuti consumabili solo
attraverso le proprie macchine.
Maestri dell’arte dell’ecosistema sono ovviamente gli ingegneri della Apple, anzi si
potrebbe dire che sono loro ad aver inventato il meccanismo che oggi è alla base della
43
crescita delle aziende digitali. Il concorrente più importante è Google, che ha creato il
sistema operativo Android che anima la
maggioranza degli smartphone del pianeta.
Il terzo “pretendente” è Microsoft, che con il
suo Windows ancora domina incontrastato
il mondo dei pc. Mondo che però è in declino
mentre il vero asso nella manica di Microsoft, base del proprio ecosistema, è la Xbox,
la console per videogiochi presente in più di
novanta milioni di case del mondo. Messa
sotto al televisore consente l’accesso a Internet e a molti servizi. Poi c’è Sony, che oltre alla Playstation, a differenza di tutti gli altri,
produce in proprio anche i contenuti, dischi,
film e programmi tv, mentre Samsung e LG
possono contare sulla penetrazione dei loro
televisori che offrono un ottimo rapporto
qualità-prezzo. L’ultimo, ma come abbiamo
visto, il più aggressivo tra i pretendenti è
proprio Amazon: l’azienda di Jeff Bezos domina il mercato delle vendite di prodotti fisici attraverso Internet ma è meno forte in
quello digitale e offre tutto quello che un
consumatore “elettronico” vuole avere sul
proprio device. Oggi, dopo il Kindle (tablet e
lettore di libri) Amazon ha creato anche
una sua tv, Fire, mentre in passato aveva
tentato di produrre dei propri smartphone,
ma con risultati risibili. Poco male, perché la
sua app è presente su tutti gli smartphone
prodotti da altri. La guerra degli ecosistemi,
insomma, è solo agli inizi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-10-04
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
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Sapori.Sconosciuti
DAL KENYA
(COME LO YOGURT
CON CENERE),
MA ANCHE
DAL GIAPPONE
(COME L’INSALATA
FERMENTATA
IN ACQUA SALATA)
O DAL CILE (COME
LE UOVA AZZURRE)
A PORTARLI
SULLE NOSTRE
TAVOLE SONO 2500
GIOVANI CONTADINI
ARRIVATI A MILANO
DA OGNI PARTE
DEL PIANETA
PER LA CHIUSURA
DELL’EXPO
10
prodotti
della
Terra
GUINEA BISSAU
Olio di palma
selvatica
Le rosse bacche di Elaeis
guineensis, in arrivo
dalle foreste della Guinea
Bissau, danno un olio
denso, profumato, ricco
di carotenoidi e vitamina E,
con cui condire carni
e pesci
ISLANDA
Skyr
Solo latte vaccino crudo
e fermenti autoctoni
per il formaggio fresco
dei pastori islandesi:
proteico, poco grasso
e gradevolmente acidulo,
si gusta mescolato
con panna e zucchero
L’appuntamento
Dal 15 al 17 ottobre al Circolo
dei Lettori di Torino “Pensare
il Cibo”, evento inserito
all’interno di “Nutrire le città”.
Il tema dell’alimentazione
verrà declinato da filosofi,
economisti e teologi,
da Giacomo Marramao
a Bruno Bignami
Il festival
Comincia martedì a Bari
“Puglia Food Film - Il Cinema
incontra l’Agroalimentare”,
dedicato a cortometraggi,
documentari e cinema
d’animazione, tra passione
e ossessione per il cibo.
A corollario, incontri
con gli autori e degustazioni
L’iniziativa
Si intitola “From Father
to Son” il Calendario Lavazza
2016, firmato dal canadese
Joey L., che ha immortalato
la nuova generazione
di contadini latinoamericani,
in scia al lavoro sugli “earth
defenders” di Steve McCurry,
autore del calendario 2015
CILE
Galline dalle uova
azzurre
Sono di razza araucana
(nome dato dagli spagnoli
agli indios Mapuche, Cile)
i volatili rustici,
insofferenti
agli allevamenti intensivi,
le cui uova vantano
un guscio azzurrognolo
BOLIVIA
PERÙ
Kañihua
Bassa e resistente,
cresce sulle Ande
di Bolivia e Perù.
Calcio e proteine ne fanno
un alimento prezioso.
Dai grani microscopici
si ricava una farina
finissima
per torte e biscotti
ETIOPIA
Sale nero di Boke
Le acque melmose
del cratere del vulcano
inattivo El Sod – la casa
del sale, in lingua etiope –
proteggono un deposito
di cristalli grezzi di sale,
estratti e lavorati
manualmente
Cosenuovedalmondo.
Kañihua, skyr e pasta katta
cibi poveri ma buoni
scampati al global food
“A
LICIA GRANELLO
PPROVA NELLA NATURA quello che non capi-
sci/ perché ciò che l’uomo non ha compreso non ha distrutto/ Fai quelle domande
che non hanno risposta/ Investi nel millennio... pianta sequoie/ Sostieni che il
tuo raccolto principale è la foresta che
non hai seminato/ e che non vivrai per
raccogliere/ Poni la tua fiducia nei cinque centimetri di humus/ che crescono
sotto gli alberi ogni mille anni”. Nel Manifesto di un contadino impazzito, il poeta
americano Wendell Berry condensa i
Repubblica Nazionale 2015-10-04
la Repubblica
DOMENICA 4 OTTOBRE 2015
Prove generali
di come
mangeremo
domani
Esotico
Un tipico buffet
africano a base
di pesce e verdure
SENEGAL
Cuscus salato
Due giorni di lavoro
per le donne di Fadiouth,
Senegal: miglio pelato,
setacciato, lavato in mare,
macinato, incocciato,
fermentato nelle zucche,
addensato con polvere
di baobab
GIAPPONE
Insalata Takana
Si gusta cruda, cotta
o fermentata (tsukemono)
in acqua salata e curcuma,
l’insalata coltivata
nel distretto di Nagasaki,
sud del Giappone,
dal gusto dolce
e leggermente piccante
SIERRA LEONE
LIBERIA
Cola di Kenema
Parente del cacao,
è spontanea
tra Sierra Leone e Liberia.
Il frutto, croccante e ricco
di caffeina, si mastica
crudo o viene macinato
per una bevanda tonica
con zenzero e peperoncino
KENYA
Yogurt
con la cenere
punti cardine per un futuro rispettoso di terra e natura. A salvare il pianeta, non gli hamburger industriali ma canapa e galline ribelli ai capannoni-lager, non le monocolture serializzate
dalla chimica ma biodiversità agricola e mucche felici.
Sono questi i giorni di Terra Madre Giovani — We Feed the Planet, con duemilacinquecento
agricoltori under quaranta in arrivo da centoventi nazioni pronti a confrontarsi a Milano tra
Superstudio Più e Mercato Metropolitano sul tema dell’agricoltura famigliare: una realtà che
rappresenta il 98 per cento delle proprietà e contribuisce con quasi il 60 per cento della produzione agricola mondiale. Ognuno in rappresentanza della propria comunità di appartenenza,
incurante delle lusinghe dei potentati agroalimentari. Così, l’unico evento fieramente e massicciamente contadino in qualche modo collegato all’Expo — la chiusura dei lavori è prevista
martedì nel padiglione di Slow Food — diventa l’occasione per scoprire cibi ignoti o rivalutare
varietà misconosciute, che contribuiscono a sfamare il mondo e a proteggere le economie locali. Spesso, si tratta di alimenti figli di povertà e arretratezza, di fronte ai quali comprensione e
solidarietà prevalgono sulla curiosità gastronomica. Altre volte invece — come insegna la nostra stessa storia alimentare — la cucina di sussistenza produce ricette mirabili a partire da
materie prime povere, poverissime, dalla parmigiana di melanzane (originariamente senza
mozzarella) alla pappa col pomodoro, fatta col pane avanzato e pomodori troppo maturi per
mangiarli in insalata. Poveri ma belli (da mangiare). E spesso sconosciuti. Come lo yacón, radice di una pianta coltivata da millenni sulle pendici delle Ande argentine, che ha consistenza,
succosità e sapore del nostro melone e che i contadini di Quebrada rendono ancora più dolce
facendo appassire i tuberi al sole, prima di trasformarli in succhi e gelatine squisiti. Oppure lo
zeleno sirene bulgaro, uno dei rari erborinati naturali esistenti nel mondo, stagionato in contenitori di legno di tiglio per due anni nella salamoia prodotta dalla cagliata addizionata di sale
grosso, e poi lasciati aperti in cantina per favorire la fioritura di muffe nobili.
Una manciata di famiglie continua a produrlo, malgrado la fatica della tripla mungitura manuale quotidiana, per realizzare non più di sessanta litri di latte a stagione per animale, più o
meno quanto può arrivare a produrne ogni giorno una vacca Frisona in allevamente intensivo.
Storie intense, orgogliose, come le facce dei loro protagonisti. Vale la pena incontrarli, farsi
raccontare, assaggiare e, se vi piacciono, comprare i loro prodotti. Arrivare a cena dagli amici
con un sacchettino di golose noci di Barù, tipiche del Cerrado brasiliano, farà di voi dei meritori, richiestissimi antropologi del gusto.
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Da una comunità kenyota,
i Pokot, il latte crudo
di mucche e capre, raccolto
nei calabash (zucche
affumicate) separato
dal siero e addizionato
di cenere, che disinfetta
e aromatizza
MALI
Pasta katta
Le donne di Timbuktu
lavorano la pasta
finemente con le dita
per farne dei corti
filamenti, seccati e tostati
in padella, lessati
in un brodo di pesce,
carne e pomodoro
MARINO NIOLA
S
IAMO ALLA VIGILIA di una
nuova rivoluzione
alimentare. Paragonabile a
quella che dopo la scoperta
dei nuovi mondi portò una
ventata di novità sulle tavole europee. E
cambiò per sempre il modo di nutrire il
pianeta. Allora arrivarono pomodori e
fagioli, patate e mais, peperoni e tè,
caffè e cacao. Tutti cibi dei quali non
potremmo più fare a meno. E che danno
identità alle nostre cucine locali. Al
punto che sembrano nati qui da noi.
Come il San Marzano, che oggi si fregia
del Dop, mentre in realtà i suoi genitori
abitavano gli altipiani del Messico.
Dove, nella piazza del mercato di
Tenochtitlán seimila anni fa, già si
vendeva il triplo concentrato. Adesso il
pianeta, con i suoi sette miliardi di
bocche da sfamare sta vivendo qualcosa
di analogo. La differenza è che quattro
secoli fa fummo noi a scoprire l’America
e gli altri continenti. Mentre adesso è il
resto del mondo a scoprirci. A
conquistarci con le sue invenzioni
culinarie, singolarità botaniche,
biodiversità animali. Come le galline
dalle uova azzurre, che sembrano
partorite dalla fantasia di Chagall. E
invece vengono dalle rarefatte
solitudini delle alturas araucane. Dove
corrono libere con gli sciamani più
celebri del Latinoamerica. Con i quali
condividono lo spirito ribelle e la voglia
di volare. Tanto che nessuno riesce a
recluderle in quei lager per pennuti che
sono gli allevamenti intensivi. È la
libertà che diventa sapore. Se Ugo
Gregoretti avesse conosciuto questi
irriducibili volatili quando nel 1963 girò
“Il pollo ruspante” le avrebbe
certamente scritturate per lanciare i
suo strali contro la massificazione
alimentare incipiente. Ora che la
massificazione è dominante ci prova il
Quarto stato del food. Arrivato a Milano
da tutto il mondo per rispondere
all’appello sciamanico lanciato da Carlin
Petrini con Terra Madre Giovani. Dal
Mali, dove le sfogline di Timbuktu filano
pasta con dita da pianiste. Dal Kenya,
dove i casari Pokot sono celebri per il
loro yogurt. Dal Giappone dove i
contadini di Nagasaki coltivano
l’insalata takana, dolce e piccante,
fermentata in acqua salata e curcuma.
Oggi sembrano più che altro
curiosità, esotismi buoni per stuzzicare i
nostri palati un po’ annoiati dall’eccesso
e omologati dalla standardizzazione
industriale. In realtà sono le prove
generali dell’alimentazione di domani.
Destinata a diventare cibo quotidiano di
un pianeta sempre più meticcio,
incrociato e interconnesso. Perché da
questi esperimenti di gusto sostenibile,
da questi spostamenti progressivi del
sapore e delle sue soglie, da questi
rimescolamenti di ingredienti e di
nutrienti, nasceranno le idee e le
politiche per quella “feeding review” di
cui il pianeta ha maledettamente
bisogno.
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LA DOMENICA
la Repubblica
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L’incontro.Engagés
‘‘
DA BAMBINO
SUONAVO
IL PIANOFORTE
E ASCOLTAVO MOLTO
POI UN BEL GIORNO
HO COMINCIATO
A SCRIVERE
E HO SMESSO
DI ASCOLTARE
MUSICA
DA ALLORA LAVORO
SOLO SULLE PAROLE
Filosofo (“ma combattente”) e da qualche mese anche attore (“mi
viene più ansia a salire su un palcoscenico che non a fare un comizio a Kiev in piazza Maidan”). Spesso altezzoso (“Je suis comme je
suis”), umile mai (“le critiche non mi interessano”), elegante anche alle tre del pomeriggio (“il mio non è un look, il look è calcolato”), persino ora che ha sessantasei anni BHL non si rassegna ai salotti ma è sempre pronto ad andare in prima linea (“chi assiste al
terrore ha il dovere di testimo- vent’anni fa a Sarajevo e riflessione polemica sul fallimento delle politiche eu«Il palcoscenico è la situazione più pericolosa in cui mi sia mai trovato.
L’ansia comincia ad assalirmi il giorno prima. Non mi succede certo quando deniare”). Che cosa sognava di di- ropee.
vo tenere una conferenza o un meeting politico o parlare sulla Haydn Platz di
Vienna o sulla Maidan di Kiev davanti a centinaia di migliaia di persone». Sono
che lo va predicando: il Vecchio continente trovi un’unità politica. E insiventare quando era ancora un anni
ste: «Il dramma è che neanche ci prova. Questa pièce è un grido d’allarme: senza l’unità politica finiremo sconfitti da tre imperi, quello commerciale cinese,
politico euroasiatico con a capo Putin e quello folle dell’Is. Questo testo
ragazzo? “Non ne ho memoria. quello
non è solo un grido d’allarme ma una tattica, una strategia di lotta».
Il suo pensiero può anche essere opinabile, ma BHL non polemizza dai salotti, che pure non disdegna. Quando è tempo d’investigare è lì in prima linea, anProbabilmente qualcosa che as- che e soprattutto nei frangenti critici e pericolosi; in Bangladesh, in Pakistan,
in Libia e più recentemente a Kobane, in una situazione da panico. «Panico
è la parola giusta», protesta, «anche se ho certamente avuto paura. Sarei
somiglia a quel che faccio oggi” non
un incosciente se non fossi consapevole dei rischi, come nel 1992 a tiro degli
Bernard-Henry
Lévy
GIUSEPPE VIDETTI
N
‘‘
SPOLETO
APOLEONE POSTMODERNO. Torvo, pensoso, scarmigliato, abito ne-
ro con pantaloni da torero, la nuca incoronata dal collo altissimo
della camicia bianca abbondantemente sbottonata per rivelare
un’abbronzatura caraibica, una nuvola di Habit Rouge, Bernard-Henry Lévy, BHL per cultori e detrattori, ostenta eleganza
da sera anche alle tre del pomeriggio. Altezzoso per definizione. Aggressivo di
natura, poi per necessità. Umile mai, neanche nella sua onorevole carriera di
tombeur des femmes (l’ultima delle tre mogli, Arielle Dombasle, sfinita femme fatale del cinema francese, arriva con un set di valigie di Vuitton che neanche la Dietrich). Filosofo, giornalista, imprenditore, saggista, troppo colto e distaccato per star lì a chiedersi il perché di tanto odio e amore. O per concedersi
alla fiera delle vanità. Ma che gli piaccia o no a sessantasei anni suonati è ancora un’icona di stile. Sempre nella lista degli uomini meglio vestiti del mondo
(nonostante quel paio di bottoni assassini che non ne vogliono sapere di restare ancorati alle asole; un particolare più da Califano che da Bryan Ferry). «Me
ne fotto, onestamente me ne fotto. Il mio non è un look, il look è calcolato, io mi
vesto senza pensarci», sbuffa. Mente, ovvio. «È chic naturale», gli fa eco Gilles
Hertzog, fascinoso amico-ombra da trentacinque anni, compagnon d’avventure e spericolati reportage. «È da mio padre che ereditato l’amore
per l’essenziale, l’eleganza. E poi Je suis comme je suis», borbotta. BHL
è nervoso, concentrato, ma non tradisce fragilità neanche di fronte alla prova d’attore nella quale si cimenta da pochi mesi. «È un momento
IN ITALIA GLI INTELLETTUALI DURANTE I VENT’ANNI
DI BERLUSCONI SONO FINITI NELLE CATACOMBE.
E RENZI CHE CITA DANTE, GOETHE E VACLAV HAVEL
E POI FA INCIUCI, CHE COSA VUOLE FARE?
DOVE STA ANDANDO?
importante della mia vita perché ho partecipato a uno dei
più bei festival del mondo, Spoleto ha fatto conoscere alcuni dei testi più importanti del teatro contemporaneo. È
un grande onore per me aver presentato qui il mio Hotel
Europa», dice ora che è entrato, come Bob Wilson e Baryshnikov, nella cerchia degli amici di Spoleto, tessendo lodi a Giorgio Ferrara, che continua in questi anni della cultura in ristrettezze la gloriosa tradizione di Gian Carlo
Menotti (e si fa in quattro per scovare nella provincia umbra una dimora all’altezza del Carlyle, il lussuoso albergo
di Manhattan dove BHL è un habitué). Hotel Europa è il
monologo che recita con una verve che neanche un urlatore televisivo come Sgarbi riuscirebbe a interpretare con la
stessa spavalda abilità teatrale, memoir di una notte di
sniper serbi, o in Pakistan nel 2002 a stretto contatto coi talebani, o nel 2011
tra i ribelli di Bengasi. Ma la paura non m’impedisce di agire. Chi assiste al terrore ha il dovere di testimoniarlo». Il nuovo totalitarismo, come lo chiama, e il
crescente sentimento antisemita in Francia potrebbe trasformarlo in un facile bersaglio. «Ci sono ormai attentati dell’Is ogni giorno, il pericolo è ovunque,
per tutti», minimizza. «Tutti siamo minacciati, non io in particolare. È un asse
che lavora contro la democrazia, un tentativo di creare panico, seminare terrore, destabilizzare le istituzioni, spingere i governi a prendere misure antidemocratiche. Poi ognuno agisca secondo coscienza. Posso immaginare un filosofo che voglia fare della filosofia pura, uno scrittore che decida di vivere recluso
in biblioteca. Non voglio impartire lezioni a nessuno, ma io sono un filosofo impegnato».
Critiche, minacce, polemiche, come quando ha difeso a spada tratta
Strauss-Kahn arrestato a New York per violenza sessuale o quando si è ripetutamente scagliato contro la comunità internazionale per non aver agito contro i genocidi. «Le critiche? Per me la vera critica nasce dal dibattito intellettuale, produce anticorpi, rafforza le idee, fuori e dentro di me. Le critiche superficiali non hanno importanza, non mi indeboliscono né mi rafforzano, non
contano, le dimentico subito, continuo il mio lavoro». Difficile indagare sul privato, le passioni, le temps perdu. «Non ho memoria di quel che volevo fare da
ragazzo», taglia corto guardando altrove, «non saprei… probabilmente qualcosa che assomiglia a quel che faccio oggi. Di sicuro leggevo molto, moltissimo.
Ho imparato a vivere dai libri. Sono stati la mia prima e seconda scuola, come
la vita, la realtà e la lotta sono state la terza». Idoli ne aveva da ragazzo? «Tutto
questo è molto lontano e confuso. Quel che ero allora non sono più io, non ho ricordi vividi di quel periodo. Le persone che davvero ammiravo erano i grandi
avventurieri, Cristoforo Colombo, Lawrence d’Arabia, Albert Schweitzer, chi
ha fatto della sua vita qualcosa di totalmente diverso da quello per cui sembrava destinato». Ricorda invece con esattezza il momento in cui decise che sarebbe diventato un combattente di parole. In Bangladesh, nel 1971, uno dei po-
‘‘
CERTO CHE HO PAURA. TUTTI DOVREBBERO
AVERNE. CI SONO ORMAI ATTENTATI DELL’IS
OGNI GIORNO. È FACILE, È BELLO, GRIDARE
JE SUIS CHARLIE SULL’ONDA DELL’EMOZIONE.
BISOGNA POTER DIRE IO RESTO CHARLIE
chissimi stranieri al seguito di una colonia di guerriglieri contro il Pakistan.
«Assistetti a scene orribili, e decisi di consacrare un po’ del mio tempo e della
mia vita a raccontare quella inclinazione alla violenza e alla sopraffazione che
è insita nella natura umana», mormora. «Lì compresi che la forza di cui avevo
bisogno per affrontare quelle situazioni mi arriva dai personaggi
che m’ispirano, desaparecidos, grandi scrittori, grandi giornalisti, grandi resistenti, uomini che si sono battuti per la libertà.
Grazie a loro la scrittura è diventata un momento di esaltazione,
esco da me stesso e entro in uno stato d’assenza, di grande godimento spirituale, di profonda gioia interiore». Tutto il resto è futile. Musica? Cinema? Non lo interessano. «Suonavo il pianoforte e
ho ascoltato molta musica da bambino e da adolescente, ma poi un
bel giorno ho incominciato a scrivere e il lavoro sulle parole ha letteralmente rimpiazzato il lavoro sulle note e non ho più ascoltato musica. Così, naturalmente, da un giorno all’altro».
Ne ha per tutti. Per l’Italia dove «gli intellettuali sono finiti nelle catacombe durante i vent’anni di Berlusconi» e
per Renzi che cita Dante, Goethe, Vaclav Havel e poi fa inciuci: «Cosa vuol fare? Dove sta andando?». Per il dopo
Charlie Hebdo: «Bisogna restare Charlie. È facile dire Je
suis Charlie sull’onda dell’emozione, bellissima, magnifica solidarietà, ma ora al di là dello slogan chi è pronto
a dire “Io resto Charlie?”». Per gli strateghi del terrore:
«Questi signori sono deboli, l’Europa e le democrazie
sono molto più forti. L’Italia ricordi gli anni di piombo,
quando tremava sulle sue fondamenta, la loggia P2, i
fascisti, un partito comunista in ascesa, eppure avete
vinto, la società civile ha vinto, i giudici hanno vinto, la
polizia ha vinto, gli studenti hanno vinto, i politici hanno vinto. Io non ho paura, noi non dobbiamo avere paura».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-10-04
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