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L`esperienza e la dottrina della beata Elisabetta della Trinità

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L`esperienza e la dottrina della beata Elisabetta della Trinità
Cultura
N° 16/2012 - ANNO XXI - 13 dicembre
A
5
L’esperienza e la dottrina
della beata Elisabetta della Trinità
l secolo Élisabeth Catez, la beata carmelitana
francese Élisabeth de la
Trinité - Elisabetta della Trinità
(1880-1906) - fino all’età di sette anni «aveva frequenti eccessi di collera e scatti d’ira». Non
solo, ma «era intransigente senza lasciare possibilità di replica»
e «a volte sbatteva la porta, poi
la calciava e la percuoteva con i
pugni». Addirittura, «urlando e
facendo scenate, voleva ottenere
a tutti i costi la realizzazione dei
suoi desideri». Così Jan Krzysztof
Miczyński, teologo e sacerdote
polacco, ritrae la piccola esuberante Élisabeth in un suo studio
sulla futura beata (cfr. La cristologia esistenziale nell’esperienza
e nella dottrina di Elisabetta della Trinità, Ed. Gregoriana, Roma
2005). Miczyński, citando il frate
carmelitano Juan De Bono (in Elisabetta della Trinità, LEV, Città
del Vaticano 2002, p.87), racconta
anche di quando Élisabeth, privata della sua bambola, gridò all’indirizzo di un sacerdote, durante
una S. Messa: «Brutto parroco
cattivo, ridammi la mia Jeannette!
[la bambola, appunto]». L’epilogo
fu tempestoso: «continuava a urlare, si dibatteva e lanciava sguardi furibondi al celebrante; per farla tacere fu necessario trascinarla
a forza fuori dalla chiesa» (cit.
p.64). Insomma, «era testarda e
capricciosa, spesso giudicava» le
persone.
Un incontro provvidenziale
Al centro della predicazione di
padre Juan De Bono c’è il problema di come incarnare la Parola
di Dio e quanto aiuto può venire,
nel merito, dall’esperienza della
beata Elisabetta a chi voglia pra-
ticare la sequela Christi. In effetti, l’esempio della vita dei santi,
in generale, è sempre stato d’ausilio al penitente per trovare con
più sicurezza la via della riconciliazione con Dio e, quindi, della
salvezza eterna. Questo vale, in
particolare, per la beata Elisabetta, unita in tutto e per tutta la vita
alle consolazioni e ai patimenti di Gesù Cristo, fino a quando
morì a soli ventisei anni, vittima
del morbo di Addison. Il morbo
compromette gravemente le funzioni metaboliche e il malato, in
assenza di cure e di cibo, muore di
fame. Padre Juan si trovò a vedere incrociata la propria vocazione
con quella della carmelitana francese in occasione della stesura di
una tesi, a conclusione degli studi
teologici. Egli venne a conoscere,
mediante la lettura dei numerosi
scritti lasciati dalla beata, la vita
e la personalità di suor Elisabetta della Trinità (cfr. Scritti, OCD,
Roma 2006). Ne apprezzò la semplicità ordinaria con cui ella seppe
gestire le sofferenze quotidiane,
nascoste nel silenzio e nell’intima
accettazione del dolore. Restò affascinato dal modo eccellente con
cui Elisabetta realizzò la “piccola
Via” per giungere alla salvezza,
proposta e attualizzata dalla più
celebre coetanea santa Teresa di
Lisieux: subire il martirio, non
in modo repentino e cruento, ma
nella semplice accettazione dei
piccoli sacrifici quotidiani, che richiedono non meno virtù eroica di
quelli grandi. Forse con maggior
nascondimento di Teresa, Elisabetta seppe concludere in modo
sorprendentemente ordinario la
Via indicata dalla santa di Lisieux,
tanto che invano si cercherebbe
La beata Elisabetta della Trinità, mistica
qualcosa di sbalorditivo o miracoloso nella sua vicenda, se non il
miracolo di vivere una vita simile
a quella di Maria Santissima, Madre di Dio, la quale «custodiva»
tutte le proprie esperienze «meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19).
“I miei Tre”
Fu così che Padre Juan divenne
uno studioso della beata e divulgatore della sua spiritualità. Egli
ne ha parlato come di un «gigante
della mistica contemporanea», di
una donna abbandonata e immersa completamente e letteralmente
nella vita di Dio, tanto quasi da ridurre a nulla se stessa per fare posto alle opere soprannaturali della
Santissima Trinità. Ella, come
San Paolo, si è rassegnata ad essere crocifissa assieme a Cristo, fino
al punto da ammettere: «non sono
più io che vivo, ma Cristo vive in
me» (Gal 2, 20). Chiamava Dio «i
miei Tre», confidenzialmente, riferendosi a Dio, uno e trino. E la
confidenza assunse, nel corso della vita, livelli tali da condizionare
i rapporti di Elisabetta con parenti e amici, dei quali rapporti ella
aveva una «concezione trinitaria».
Era solita, ad esempio, relazionarsi con le consorelle in modo umile
e affettuoso, costruendo un sodalizio soprattutto tra ella stessa,
suor Anna Maria e la superiora del
convento carmelitano madre Germana. Oppure, quando ancora era
in famiglia, trovare un riferimento fisso nell’amata madre Marie e
nella sorella Margherita (Guite).
Ma come, una bambina testarda e collerica, si rese adatta al
Carmelo? A sette anni le morì
suo padre tra le braccia. Un infarto, improvviso. Difficilmente la
maggior parte delle persone trae
vantaggio o maturazione da vicende simili. Spesso sopravviene
tristezza e depressione. Ma non fu
così per Elisabetta: al posto della
prostrazione, la futura beata giunse repentinamente a grande maturità, perché seppe abbandonare
gli atteggiamenti capricciosi o infantili. Dopo quel fatto orribile, il
suo carattere divenne risoluto e al
posto di un agire esitante e incerto
riuscì ad ottenere una grande fermezza.
Musicista di Dio e seguace paolina
Il padre Juan De Bono, in un
suo libro su Elisabetta della Trinità (1880-1906), ha ricordato di
come la beata seppe rispondere
alle lusinghe del pianista Charles Hallo, che la corteggiava con
insistenza. «Carlo, tu mi annoi»,
gli disse schiettamente, forse reprimendo l’umano e onesto desiderio di un affetto. Ma Elisabetta
aveva già deciso, in cuor suo, di
abbandonare le cure mondane e
di abbracciare definitivamente la
vita religiosa. Da tempo era sua
intenzione entrare nel Convento
carmelitano a Digione, nonostante la contrarietà di sua madre. La
signora Catez alla fine cedette e
permise alla figlia, raggiunta l’età
di ventun’anni (1901), di entrare
nel Carmelo e di farsi suora.
Durante l’adolescenza, Elisabetta aveva frequentato il conservatorio cittadino, ottenendo
un’ottima preparazione musicale
Elisabetta prima dell’ingresso nel Carmelo
e una buona abilità come pianista. Padre Juan ha spiegato che
la vocazione non cancellò nella
giovane Catez la predisposizione
all’autodisciplina, che lo studio
della musica comporta necessariamente. E nemmeno l’esercizio
continuo d’interpretare la musica
risultò inutile. Ma anzi, secondo
il parere di mons. Mariano Magrassi (studioso della beata, citato
da De Bono), dalla lettura delle
sue poesie e lettere, che scrisse
in gran numero, si avverte una
certa similitudine con i brani musicali, al punto da poter dire che
«gli scritti di suor Elisabetta sono
sempre la stessa musica con note
diverse», così come si diceva di
Vivaldi. Un’altra peculiarità della
beata è l’abitudine - sapientissima
- di citare continuamente la Sacra
Scrittura. Nel corpus degli scritti
si possono contare più di un migliaio di citazioni, delle quali - relativamente al Nuovo Testamento
- la maggioranza sono attinenti ai
testi di San Giovanni evangelista
e, soprattutto, di San Paolo. Non
è esagerato ammettere che Elisabetta della Trinità sia stata una tra
i maggiori interpreti e seguaci paolini, tanto puramente seppe tradurre e scrutare le parole dell’Apostolo. Al pari di San Paolo
comprese e visse la trasformazione in Cristo (specialmente durante la malattia e l’agonia), la gioia
del vivere in grazia la beatitudine
trinitaria e l’onore di potersi immolare agli occhi compiaciuti del
Padre, come fece Cristo.
Laudem gloriæ
Ma l’ispirazione maggiore - riflette padre Juan - giunse a suor
Elisabetta dal passo paolino di Ef
1, 11-12: «In lui [in Cristo, ndr]
siamo stati fatti anche eredi […]
perché noi fossimo a lode della
sua gloria […]». A lode della sua
gloria, in laudem gloriæ ipsius.
Ebbene, questa vocazione - la
vocazione di essere la lode della
gloria di Gesù Cristo - «coincide
perfettamente con l’aspirazione
più profonda» dell’ideale della
beata, dice padre De Bono. Tanto
che Elisabetta, a partire dai due
anni prima della morte, firmerà
spesso lettere e poesie proprio con
lo pseudonimo “laudem gloriæ”.
La si vedrà, appunto, al seguito di
Gesù e nell’approssimarsi al doloroso e beato trapasso, «dirigersi
risolutamente, decisamente verso
Gerusalemme» (Lc 9, 51), verso
le dimore eterne della pace divina.
Come già aveva notato la sorella
Guite, anni prima, «Elisabetta è
stata molto ardente e sensibile».
Lo sarà fino alla fine. Nell’agonia volle offrirsi al Padre come
un’ostia - conclude don Juan - e
pervenne al mistero della «predestinazione»: non per la salvezza
o per la dannazione, ma per «essere conforme al Figlio» (Rm 8,
29). E su questo conformarsi ella
volle porre il sigillo della propria
volontà.
Silvio Brachetta
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